Skialper Archive / Jules Berger, local hero

Quando Marco Siffredi è sceso dal Couloir Cordier, Jules Berger aveva appena cinque anni. Era, a tutti gli effetti, un bambino e quel nomignolo gli è rimasto, the Chamonix kid. Nato e cresciuto ai piedi del Monte Bianco, per la precisione proprio sotto l’Aiguille Verte, fin da giovanissimo ha portato avanti uno scialpinismo d’esplorazione o per ripercorrere itinerari di pregio. Nelle ultime stagioni ha messo la firma su veri e propri exploit ben lontano dalle masse, magari scegliendo con cura le condizioni, anche in periodi dell’anno non propriamente sciistici. E così l’anno scorso, a vent’anni dall’impresa di Marco Siffredi, Jules Berger è andato a ripetere una linea mitica, così vicina eppure quasi inaccessibile, nel bacino dell’Argentière: un giorno speciale tra seracchi imponenti e i pendii vertiginosi del Couloir Cordier, sulla parete nord dell’Aiguille Verte. Giusto sopra a casa.
A Chamonix va così… Anche se a volte arriva il giorno in cui passiamo le nostre personalissime Colonne d'Ercole.

Spesso passiamo da Chamonix per lavoro, non penso che sia un caso, Cham è la Mecca dell’alpinismo e dello ski de montagne. Sei d’accordo? «Come posso non esserlo? Però Cham è ancora e soprattutto il punto di riferimento per l’alpinismo, più che per lo sci. Forse per lo sci estremo, ma non direi per lo sci alpino classico e forse neanche per lo scialpinismo inteso in modo tradizionale. Anche se il Monte Bianco offre un 86 terreno fantastico».

Ti chiamavano Chamonix kid, penso che sia quasi superfluo chiederti perché...
«Sono nato a Chamonix, 26 anni fa. Mia mamma fa parte di una famiglia di Guide locali, i Symond; papà è svizzero, ma comunque di una Svizzera non distante (ride, ndr). La montagna è ovvio che faccia parte di me in maniera naturale, non ho comunque iniziato molto presto, diversa- mente da altri. Da quando avevo sette anni fin verso i quindici ho gareggiato nello sci di fondo, in montagna e a sciare ci andavo, ma solo prendendo gli impianti. Verso i diciassette anni ho iniziato con l’alpinismo classico e lo scialpinismo, un percorso che mi ha portato via via ad aumentare la pendenza del terreno d’azione. Ora sono Maestro di sci alle Grands Montets, d’estate invece faccio il giardiniere e mi occupo di tree climbing. Non nascondo che mi piacerebbe provare il percorso per diventare Guida alpina, magari il prossimo anno».

Ci piace parlare con sciatori veri, non necessariamente professionisti nel senso stretto del termine. A dire il vero, se uno guarda bene oltre la cortina di fumo dei social, forse di veri professionisti ce ne sono ben pochi. Tu come ti definisci?
«Concordo in pieno. Sei un professionista quando sei pagato per sciare e spingi per portare un’evoluzione nella disciplina. Io non lo sono. È più corretto dire che sono un grande appassionato, uno sciatore appassionato. Mi piace cercare nuove linee, esplorare, conoscere posti diversi. Porto avanti a modo mio una ricerca. Poi in montagna mi piace fare tutto, in ogni stagione, dall’arrampicata, agli itinerari classici in puro stile chamoniard, al parapendio. Se mi chiedi cosa preferisco, ci penso un attimo, ma ti dico sciare».

Chamonix è il riferimento, ma immagino che non sia sempre così facile la vita alpinistica: competizione, anche tra gruppi differenti di sciatori – o gang, se vogliamo esagerare – pareti affollate, specie con la polvere, una corsa all’oro bianco e ai pochi grandi obiettivi stagionali. Esagero?
«No, assolutamente, è vero. Basta pensare all’Aiguille du Midi: è l’esempio perfetto. Venti, anche trenta persone giù dalla nord, da itinerari come la Mallory nei giorni di polvere in primavera, quasi fosse una gara alla prima traccia, che difficil-mente sarà la prima. È due anni che non ci vado per questo motivo. Non riesco ad avvertire l’atmosfera giusta per quello che faccio: hai gente sulla testa, sotto. Una corsa che ha dei rischi e non mi fa stare tranquillo. Nei giorni della riapertura della Midi, l’inverno scorso, con i miei compagni siamo andati volutamente a provare l’Aiguille de Bionnassay. Abbiamo sciato una nuova linea in neve fredda ed eravamo soli. Mi piace di più questo tipo di situazione».

In questa ottica, qual è il tuo spot preferito nel massiccio del Monte Bianco?
«Assolutamente il versante della Brenva, il lato più selvaggio del Bianco. Mi era capitato di salire lo Sperone della Brenva per poi scendere in parapendio. Poi ci sono tornato con gli sci, entrando dal Colle della Brenva e andando a prendere lo Sperone».

E fuori dal Bianco?
«Dopo la discesa della parete nord del Lyskamm orientale ho capito che
il Monte Rosa ha un grande potenziale. Ci voglio tornare. Così come il Vallese, in Svizzera: che montagne e che pareti! In inverno mi piace esplorare la zona di Arolla, un sacco di potenziale, terreno tecnico e poca gente».

Agli sciatori spesso chiediamo cosa cercano nelle linee, cosa
li spinge verso una determinata discesa. Sembra banale,
ma cerchiamo di entrare nella vostra testa.
«Come per molti, quello che mi attrae di una determinata parete è l’estetica della linea, la sua logica, che a mio avviso non viene preclusa dalla presenza di salti e dal dover attrezzare tratti alpinistici, magari facendo delle doppie: a me non dà fastidio. E poi c’è il fascino per la storia delle montagne e di alcune imprese: è quello che è successo per la discesa del Cordier alla Verte. Lo conoscevo da molto tempo, ma più come un luogo tetro e minaccioso: basta pensare al numero di incidenti dovuti alla caduta di seracchi nel canale. Per anni ho provato diffidenza verso questo itinerario, poi la sua storia ha iniziato ad affascinarmi. Marco Siffredi è stato un modello per i giovani chamoniard come noi e siamo rimasti subito colpiti dagli scatti della sua discesa del Cordier nel giugno del 2000. La mia visione è cambiata. Ho iniziato a pensarci e poi ci sono andato. Una discesa bellissima e impegnativa».

L’Aiguille Verte, raccontaci
del tuo rapporto particolare con questa montagna.
«È vero, dire che è la mia preferita è quasi riduttivo. Trovo più corretto dire che è la montagna di casa, ci abito sotto, la vedo dalla finestra, è lì, sempre. Ci son stato ben otto volte, non sempre con gli sci. Per esempio, il Nant Blanc l’ho risalito per ricognizione e per iniziare a conoscerne i passaggi. È estetica, è bella, la più bella perché offre una miriade di linee e di possibilità».

Allora ti faccio una domanda interessata: il Couloir Couturier, versione originale, passando dove negli ultimi anni rimane il ginocchio di ghiaccio, secondo te un giorno sarà ancora sciato? «Mmmmm... non so, più no che si. C’è sempre ghiaccio ultimamente, non si è coperto neanche nelle ultime annate più nevose, quando era quasi tutto in condizione lì intorno. Non male la variante della Z aperta da Vivian Bruchez, si passa bene ed è un’alternativa perfetta».

Parliamo di Marco Siffredi: chi è per te? A Chamonix si avverte ancora il peso della sua personalità? Che cosa ha lasciato?
«Marco per me è un idolo, come Jean-Marc Boivin, mi ha ispirato fin da ragazzino. Vivendo qui, ho davanti il loro terreno di gioco: è uno stimolo. È stato un esempio e una motivazione. Poi ha fatto tutti i suoi exploit giovanissimo, come ero io con i miei amici quando mi sono avvicinato a questo mondo: è stato pazzesco: il Perù, l’Everest nel 2001, nel 1999 il Nant Blanc, a vent’anni appena compiuti. Il Nant Blanc! E quella foto! Un monumento! Quell’immmagine di Marco in mezzo alle strisce di neve tra
il ghiaccio verde... Ah la Verte!».

Veniamo alle domande tecniche: il tuo set-up?
«Uso sci Black Crows: gli Orb Freebird per i terreni più tecnici e dove c’è maggiore probabilità di trovare nevi dure. Il mio sci preferito però è il Navis Freebird: mi trovo bene ovunque, dalle curve di tutti i giorni alle pareti ripide. Gli attacchi sono Plum e gli scarponi Salomon».

Ora una curiosità: sappiamo che siete molto amici, parlaci di Michael Bird Shaffer: un personaggio eccentrico.
«Ci siamo conosciuti durante una discesa della nord della Midi. C’è stata subito empatia, nonostante fossi molto più giovane. Ne sono seguite altre come il Pain de Sucre, una parete molto ripida e tecnica. Siamo andati insieme e Bird era gasatissimo. Sì, entusiasta è la parola giusta per descriverlo: lo è in tutto, dalle sciate alle feste (ride, ndr)».

Arriviamo al nostro classico:
le definizioni. Descrivi cosa provi in una discesa: una parola.
«È una buona domanda, non così semplice come sembra. Concentrazione: solo dopo arrivano le emozioni. Solo dopo senti il sapore. Quando scendo sono concentrato».

Lo sci in una parola?
«Passione».

Jules in una parola?
«Curioso».

Il futuro dello sci?
«Per quanto mi riguarda spero di continuare a fare belle sciate, su belle montagne e pareti nuove per me. In generale, penso che, nonostante tutto, lo sci possa ancora essere esplorazione».

E a noi sentire questa prospettiva fa crescere solo l’entusiasmo.

A bientôt Jules!

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SI SKIALPER 139 DI DICEMBRE 2021

© Jules Berger

Chantel Astorga, la donna forte

A Chantel non piace far rumore, forse è proprio per questo che a volte ricerca la solitudine nel suo modo di andare in verticale. Confesso che il suo nome per me era legato alla recente prima solitaria femminile della Cassin Ridge al Denali con uno stile a dir poco fantastico: minimale e sci per avvicinamento e discesa. Un numero come questo del Denali del giugno 2021 però non è alla portata di tutti: avevo capito che Chantel non era soltanto una forte alpinista, ma prima di tutto una donna, una donna forte. Una donna preparata e appassionata per la quale la molla dell’avventura prima di tutto nasce dal piacere di stare  – in modo totalizzante – in montagna. 

Chantel Astorga, atleta del Team The North Face USA, è americana, classe 1985: un’antenata di origine italiana e una vita da vera montanara. Oltre che una delle migliori alpiniste al mondo. Nel curriculum un elenco di salite dall’Alaska all’Himalaya e allo Yosemite che si distinguono non solo per la difficoltà, ma anche per lo stile e il livello di impegno. Non solo sciatrice, ma soprattutto una delle alpiniste top sulla scena mondiale: arrampicata su ogni terreno, dal ghiaccio e misto tecnico in quota alle grandi big wall dello Yosemite. Esattamente dieci anni fa, nel settembre del 2011, insieme a Libby Sauter, a soli 26 anni, ha stabilito un nuovo record di velocità femminile sul Nose a El Capitan, nello Yosemite, salendo la via in 10 ore e 40 minuti. 

Solitamente quando si parla di velocità su The Nose, si pensa ai fantasmagorici record maschili in simul climbing, ma anche queste ragazze avevano voluto dire la loro, polverizzando il record precedente del 2004. Quelli che la conoscono e i suoi partner tecnici dicono che Chantel è sempre rilassata e naturale, quasi non sembra che si stia impegnando molto: la puoi vedere salire su tiri di ghiaccio strapiombanti, attraversare difficili creste incorniciate al buio e arrampicare per oltre 30 ore con un sorriso sul viso. Ed è così che ci ha accolto, con un bel sorriso. Genuino.

Ciao Chantel, prima di parlare dei tuoi più recenti exploit, ci piacerebbe far scoprire ai nostri lettori chi è la Chantel di tutti i giorni; insomma, cosa fai, come vivi la montagna nella tua quotidianità, come è nata la Chantel alpinista di punta che stiamo imparando a conoscere. 

«Beh ecco, la montagna è una presenza di tutti i giorni. Vivo in Idaho, nel nord-ovest degli Stati Uniti, dove lavoro come previsore valanghe per la rete autostradale (e questo la dice lunga sulla quantità di neve che cade in quelle zone, ndr) e per il dipartimento dei trasporti locale. L’autostrada è importante per le comunità rurali, è un passaggio che consente di raggiungere la città, per esigenze anche primarie. Questo lavoro mi permette di trascorrere molte giornate in montagna e sugli sci. Però sono molto attratta dalla scalata in ambiente e mi sono dedicata molto all’arrampicata in velocità, specie nello Yosemite. È pericoloso, ma fa parte della cultura del posto. Nel 2014 ho portato a termine la salita solitaria del Nose in poco più di 24 ore, per la precisione 24 e 39 minuti. Sempre in valle, ho anche chiuso il primo concatenamento femminile in giornata del Nose a El Capitan e della North West Regular Route dell’Half Dome». 

La tua passione è un affare di famiglia o personale? 

«Penso che l’approccio qui sia diverso che in Europa, proprio da un punto di vista culturale. Personalmente non sono nata come climber, ma con i miei genitori praticavo solo escursioni e vita all’aria aperta, fino a quando, da adolescente, mio padre mi portò in Alaska, non lontano dal Denali. Lì l’emozione fu grande, qualcosa cambiò. Iniziai a interessarmi, andavo a comprare libri per documentarmi. Dai 18 anni ho iniziato a trascorrere la maggior parte del mio tempo in montagna, prima lo scialpinismo, poi le salite su ghiaccio in autosicura. C’è un incontro che è stato fondamentale per la mia evoluzione alpinistica, quello con i fratelli gemelli Damian e Willie Benegas. Sono due alpinisti con una grande esperienza in Patagonia e Himalaya e hanno salito un numero incredibile di vette in tutto il mondo. La loro curiosità per l’arrampicata è stata innescata dal padre, Rafael Benegas, che, durante i lunghi e freddi inverni argentini, li intratteneva con le foto e i racconti delle sue avventure in Patagonia. Loro sono stati i miei mentori, mi hanno aiutato a essere meno approssimativa, specie con il materiale. Mi ricordo che quando avevo 19 anni giravo con scarpette da arrampicata non esattamente del mio numero: pensa che a quell’età mi ero messa in testa di sciare il Denali e lo volevo fare con scarponi che erano due numeri più grandi del mio!». 

Dunque quella per la montagna è una passione allround... 

«Esattamente, prima lo sci e poi l’alpinismo e via via terreni sempre più tecnici. Ma l’importante è sempre stato l’essere in montagna». 

Come scegli i tuoi obiettivi, soprattutto quelli più importanti? 

«Principalmente per la loro estetica, per qualcosa che mi colpisce della linea, della montagna, meglio se hanno il fascino del non ancora percorso. Per esempio, per quanto riguarda il Denali, ci avevo trascorso e speso già un sacco di tempo negli anni passati. Gli obiettivi magari se ne stanno nella testa per tanto tempo». 

Come ti prepari per questi obiettivi? 

«Ritengo che gran parte della preparazione risieda in realtà nella visualizzazione dell’obiettivo stesso. Trovo ispirazione dalla sfida mentale di una scalata alpina, dall’arrampicata veloce su big wall, dall’ignoto, dalla ricerca di target che non sono sicura che siano alla mia portata. Da un punto di vista tecnico, la preparazione consiste nel muoversi in montagna, trascorrere il più tempo possibile fuori». 

Quali sono gli spot preferiti per il tuo alpinismo? Visto che ci sei stata molte volte, mi sbaglio se dico Alaska? 

«No, assolutamente! L’Alaska è una delle mie destinazioni preferite. Ci sono spazi enormi, grandi ghiacciai, l’Alaska è spettacolarmente selvaggia. Sono molto affezionata anche alle montagne in cui vivo, in Idaho, il Sawtooth Range. È casa mia e ci passo un sacco di tempo ad allenarmi». 

Abbiamo parlato di Alaska e non posso non chiederti della tua ultima avventura solitaria sulla Cassin Ridge al Denali dello scorso giugno. Da dove è nata questa idea? Un sogno di lunga data? 

«In questi ultimi anni ho passato tanto tempo sola in montagna e non mi dispiace stare con me stessa. Lo faccio arrampicando e soprattutto sugli sci durante l’inverno. Ho iniziato a cercare un obiettivo che mi permettesse questo stile e che mi ingaggiasse allo stesso tempo, con un terreno tecnico e su una grande montagna. Volevo provare, capire come mi sarei sentita. La Cassin è una linea ultra classica, estremamente bella ed estetica.Ho pensato di usare gli sci per l’avvicinamento perché mi avrebbero permesso di essere più veloce e pertanto più sicura. Ci avevo già provato qualche anno fa, ma le condizioni meteo erano orribili. Poi altri obiettivi mi hanno allontanato dall’idea per qualche tempo». 

Come hai scalato, con gli scarponi da sci? Come hai gestito il materiale? 

«Ho scalato con gli scarponi da scialpinismo, degli Atomic leggermente modificati per renderli più rigidi e più caldi. Non ho usato la corda per autosicura, ho scalato tutta la via in free solo. Naturalmente avevo uno spezzone da 30-35 metri per eventuali emergenze e due viti da ghiaccio just in case, ma fortunata- mente non ho usato nulla. A quel punto è stato logico portare il materiale lungo la cresta e continuare fino in cima per poi usare gli sci in discesa. La parte alta della montagna era in pessime condizioni e il mio piano originale di scendere su una main line l’ho subito scartato e ho sciato sulla West Rib, che conoscevo e avevo anche già salito da sola». 

Il momento che porterai con te di questa salita? 

«I momenti clou sono stati l’avvicina- mento, la sciata dalla West Rib e dalla Seattle Ramp, una discesa in una seraccata decisamente complessa di circa 900 metri. Ho aspettato le 11 del mattino per avere neve morbida e infatti era perfetta, ma faceva caldo; ero un po’ impaurita, e in quel momento ho visto un’aquila enorme. È stato magico». 

Cosa ti spinge a salire in solitaria? 

«Mi piace la sensazione di poter essere leggera e voglio capire fin dove mi posso spingere come individuo, quanto posso salire di grado. Così arrivo a conoscermi meglio». 

Pensi che utilizzare gli sci per questo genere di salite o in alta quota porti dei vantaggi? 

«Ritengo che sia un bello stile. Figo! Non certo per terreni tecnici, ma rappresentano un buon compromesso quando ci si deve muovere su pendii o negli avvicinamenti. Mi piace l’alta quota, ci sono stata già due volte, su terreno tecnico, come nel 2017 sulla parete sud-ovest del Nilkantha, nel Garhwal centrale, in India. Vorrei tornare in Himalaya». 

Domanda secca: tre cose che cerchi in un’avventura in montagna. 

«Estetica. Stile. Partnership, che è un po’ strano per una che fa salite solitarie». 

Ultima. Prossimi obiettivi? 

«Preferisco non... ho origini italiane!». 


Yannick Boissenot, dentro l’azione

Fotografia. Catene montuose. Montagna. Fotografia in montagna. Un legame spesso forte, ampiamente sviscerato, analizzato e sempre in continua evoluzione. A volte ci si trova in montagna per un’ascensione o una discesa e si documenta la giornata con scatti più o meno numerosi, cellulare di ultima generazione o reflex digitale. Obiettivi, inquadrature, filtri. Trofeo effimero di un ricordo o ricerca dell’attimo perfetto.

Fin dalle prime immagini della fine del XIX secolo, popolate di personaggi che affrontavano salite e ghiacciai con abbigliamento e attrezzature che ora paiono rudimentali, fu chiaro che si apriva un mondo grazie alla possibilità di riprodurre fedelmente quegli ambienti di sublime bellezza e le persone che vi si muovevano. In ambiente alpino, tanto più durante le attività che si possono praticare in quota, non sono pochi gli alpinisti e i fotografi professionisti che sembrano essere più attratti dagli scatti che possono immortalare con le luci che solo l’aria sottile sa regalare, rispetto alla vetta stessa. Da quando poi la fotografia è diventata strumento alla portata di tutti, non c’è chi, dal semplice escursionista fino all’alpinista estremo, non abbia provato il desiderio di riportare a casa con sé le immagini delle cime e delle azioni che su di esse si compiono. La potenza degli scatti catturati dagli alpinisti sulle montagne più alte e remote, ma anche da semplici escursionisti sulle vette che vediamo dalla finestra di casa.

Una delle citazioni più note in cui anche l’alpinista del week-end può ritrovarsi in merito al suo legame tra monti e fotografia è quella che Guido Rey fece in tempi non sospetti nel suo Alpinismo Acrobatico: «…l’antipatico gingillo meccanico che rechiamo sui monti, legato alle spalle, è divenuto per noi un compagno utile e fedele che, ad un nostro cenno, guarda e ritiene con memoria più sicura della nostra; un compagno che malediciamo cento volte nella salita, che pesa, ci preme il fianco o sbatacchia sulla schiena, […] la piccola scatola racchiude nel suo segreto alcune rapide visioni che sono tesori, […] un attimo fuggente della vita».

Smettendo di essere così aulici, non ricordo chi, ma probabilmente un saggio, diceva a proposito della fotografia in montagna contemporanea: «professionisti e amatori, esattamente come nel porno…» tutti con il proprio gingillo al collo o in tasca. Non penso quindi che si possa rendere giustizia alla fotografia, anche a quella alpina, con una definizione stringente. È ibrida, mutevole, nasconde molteplici motivazioni che spingono sia l’amatore sia il professionista a scattare. È arte dopotutto la fotografia. Anche in montagna. Il quindicenne Yannick le montagne le aveva davanti. Ci viveva, in montagna. Nato a Bourg-Saint-Maurice, Yannick ha imparato a sciare, fare snowboard, skateboard e arrampicare nella vicina Les Arcs, in Savoia. Quasi per caso i suoi genitori in quel periodo adolescenziale gli regalarono la prima fotocamera digitale. Arrivarono subito gli esperimenti a immortalare i suoi amici e successivamente la specializzazione in una scuola di arti audiovisive a Montpellier. Fotografia e montagna: ed eccoci qui a chiacchierare con Yannick Boissenot. Molti infatti scattano fotografie in montagna, ma pochi sono a proprio agio come Yannick a immortalare action sport praticandoli davvero insieme ai protagonisti, in equilibrio sulle lamine degli sci su una linea estrema del massiccio del Monte Bianco o su una parete extraeuropea.

© Damiano Levati/Storyteller Labs

Cameraman e fotografo di montagna, Yannick è diventato un testimone chiave della verticalità. Un nome nuovo che ha saputo conquistare un proprio spazio gradualmente sul campo, sciando, arrampicando e regalando storie attraverso le immagini che cattura in prima persona, direttamente dal centro dell’azione. Cosa non troppo scontata. Amante dello sci, specie quello estremo, come mezzo di esplorazione e condivisione, nell’ultimo periodo ha deciso di ampliare le inquadrature iniziando a cimentarsi con il parapendio. Le sue immagini e i suoi film sono miscellanee delle passioni verticali che porta avanti a Chamonix e nei suoi viaggi. Del suo lavoro dice: «quando faccio un film, il mio obiettivo è condividere le emozioni!». Sembra facile, ma far sognare chi guarda, come chi legge, è tutt’altro che banale. Abbiamo fatto due chiacchiere per conoscere chi sta dietro l’obiettivo di redpointmovie.com e il suo modo di andare per pareti.

Yannick nel 2020: chi sei? Dove sei? Cosa stai facendo? Insomma, iniziamo come al solito dalle presentazioni.

«Sono nato a Les Arcs, una località sciistica abbastanza famosa. Ho iniziato a sciare a tre anni come tutti i bambini di quelle valli. Dopo dieci anni di sci e gare ho capito che la competizione non faceva per me, avevo bisogno di essere più libero, ho provato lo snowboard, il telemark per molti anni e a 19 anni sono tornato sugli sci per quello che amo di più in questo momento: lo ski de pente! Ora ho 36 anni, sono uno sciatore supportato da Salewa e Black Crows, un cameraman specializzato in alpinismo, spedizioni, e arrampicata e sono anche allenatore del club di arrampicata di Ginevra. Yannick nel 2020? È a casa, come molti purtroppo. Ma mi godo in tranquillità le montagne e la famiglia. Avrei dovuto essere in Perù per una spedizione alpinistica con i miei amici Thomas Huber e Stephan Siegrist quest’estate, ma a causa del Covid abbiamo cancellato tutto a giugno. Avendo più tempo, ho deciso di imparare a usare il parapendio, quindi negli ultimi tre mesi… sono stato in volo. Se ci penso, negli ultimi quattro anni non sono mai stato a casa (2019, 2018 in Pakistan; 2017 in Perù) quindi sono stato abbastanza felice di rimanere a Chamonix. Sono sposato da sabato scorso (questa intervista è di settembre, ndr) e ho un bambino di 18 mesi».

Lo sci è sempre stato molto importante?

«Negli ultimi anni è diventato la ricerca della linea che non era mai stata disegnata. Esplorazione. Ovviamente amo le giornate in neve fresca, lo sci o lo snowboard tra gli alberi, in foresta. Giornate selvagge di puro divertimento, ma di sicuro, da quando mi sono trasferito a Chamonix dieci anni fa, il mio modo di vedere lo sci è cambiato. Quando sono arrivato qui ero motivato a provare a sciare su tutte le linee, tutto era così enorme, specie arrivando da una stazione sciistica classica come Les Arcs. Presto mi sono trovato a studiare per tutto il tempo nuovi progetti o le king lines che vorrei sciare. Il gioco è studiarle ed essere pronti quando ci saranno le buone condizioni.

A volte la neve si attacca alla roccia o al ghiaccio per uno o due giorni, poi magari basta anche per dieci anni».

Hai saputo coniugare la tua passione per alpinismo e sci con la fotografia, cosa ti ha portato ad avvicinarti alle arti visive?

«Ho iniziato seriamente 12 anni fa. Mi sono specializzato nelle foto e nei video di sport estremi. Praticando steep skiing, alpinismo e arrampicata, posso essere veramente vicino all’azione, soprattutto quando seguo atleti professionisti come Thomas Huber, Victor Delerue, Simon Gietl. È fantastico riuscire a combinare queste due passioni. Quando esco per un servizio non mi accorgo che in realtà sto lavorando».

Il 2020 non è stato un periodo facile con i problemi e le restrizioni connesse al Covid-19. Come hai trascorso il tuo tempo?

«I due mesi a casa sono stati davvero frustranti e credo che sia stato lo stesso per tutti. Ho passato dei bei momenti con il nostro bambino e l’altro figlio di mia moglie di otto anni. Il tempo è stato sempre bello, abbiamo un giardino, quindi non mi posso lamentare più di tanto. Soprattutto pensando ad alcune persone che vivono in un piccolo appartamento in una grande città, non stavamo giocando allo stesso gioco. Inoltre il piccolo ha deciso di iniziare a camminare proprio durante il lockdown, un bel da fare!».

Alpinista e papà, cosa è più impegnativo?

«Di sicuro essere papà! Mi piace pensare che la cosa più incredibile sarà il momento in cui potrò trasmettergli la mia passione e condividere del tempo insieme in montagna! Abbiamo fatto il nostro primo bivacco di famiglia durante l’estate: è stato fantastico».

La montagna è davvero una buona opzione in ottica social distancing?

«Certo, ma non a Chamonix. A questo proposito, con i miei sponsor sono felice di aver trovato un buon equilibrio. Non sono ossessionati da ciò che è social e preferiscono i contenuti e i progetti di qualità lontani dal meccanismo quickly done, well done, purtroppo in voga».

La maggior parte degli accessi all’alta quota nell’area di Cham si effettua con impianti e funivie, non il massimo per il distanziamento sociale. Alla fine del lockdown però gli impianti sono rimasti chiusi ma, dopo l’isolamento forzato, in paese eravamo tutti super affamati di aria aperta e di poter tornare in montagna, così abbiamo iniziato apartire da valle a piedi, magari anche prima della mezzanotte per essere alla base delle pareti prima del sorgere del sole, come si fa in primavera. Alla fine si facevano uscite con 2.500-3.000 metri di dislivello. Faticoso, insolito per Chamonix, ma non andava affatto male! Questa è anche una delle ragioni per cui mi sono avvicinato al parapendio: meglio volare che scendere camminando dopo aver sciato o scalato una parete».

Un posto isolato a Chamonix?

«Sembra un paradosso, ma in certi giorni, magari un po’ fuori stagione, andate nella zona del Refuge d’Argentière. Ci sono talmente tante possibilità, seppur così evidenti, pendii facili esposti a Sud o le grandi pareti del circo Nord che, conoscendo bene i luoghi, rischierete di non trovare nessuno. Per me è un posto unico nel massiccio del Monte Bianco».

Ultimamente grandi dislivelli quindi. Un trend di un certo alpinismo, insieme alla velocità. Qual è il tuo stile?

«Non sono un ragazzo che vive quel genere di competizione. Non voglio sapere sempre quanto dislivello ho fatto in un anno o quanto ore ho impiegato per una cima. Però mi piacciono i progetti sfidanti, in cui mettersi in gioco: percorrere più pareti in sequenza, salire one-push direttamente da valle, ma per favore: nessun cronometro con me in montagna. E poca ostentazione. Anche il mondo dei media e dei social media a mio avviso non ha spinto gli sport di montagna nella giusta direzione. Mi sarebbe piaciuto diventare un atleta del mondo dello sci durante gli anni ’90.

A questo proposito, con i miei sponsor sono felice di aver trovato un buon equilibrio. Non sono ossessionati da ciò che è social e preferiscono i contenuti e i progetti di qualità lontani dal meccanismo quickly done, well done, purtroppo in voga».

So che ti piace molto viaggiare per sciare e scalare in posti remoti. Raccontaci il tuo viaggio ideale.

«Se potessi tornerei in Pakistan durante la primavera per sciare. Sono già stato diverse volte, ma sempre con progetti alpinistici. È un paese meraviglioso. Il mio sogno sarebbe quello di poter sciare su una vetta vergine di 6.000 o 7.000 metri: ci sono così tante opzioni.

La gente è sempre stata più attratta dagli Ottomila, mentre tanti posti non sono mai stati visitati e nascondono un potenziale enorme. Amo la cultura e le persone del Karakorum».

Hai sciato e fotografato anche in Perù: un altro terreno di gioco storicamente speciale per lo sci estremo.

«Penso che il Perù sia stato un buon passo da fare prima di sciare in Himalaya. Avvicinamenti brevi da Huaraz che ti concedono di scoprire cos’è lo sci ripido a 6.000 metri... e non è facile.

Abbiamo sciato Artesonraju (6.025 m) e Tocllaraju (6.032 m) impiegando due giorni ogni volta e ce ne sono voluti tre per lo Scudo sullo Huascaran Sur (6.768 m). Poi quando hai finito ti ritrovi in hotel a bere birra e mangiare del buon cibo a mille metri sul livello del mare. Non è la stessa partita quando stai al campo base a 5.000 metri come in Himalaya».

I tuoi progetti quindi guardano al Pakistan?

«Una linea che non posso far a meno di sognare è il Laila Peak. Mi piacerebbe sciarlo dalla cima, senza doppie, in buone condizioni, il modo come va fatta una discesa del genere. Anche nell’area del Bianco ho ancora molti sogni. Linee che non vorrei svelare e che vorrei aprire o anche discese majeur da ripetere. Se dovessi dirtene una, sono sempre stato attratto dal Macho al Mont Blanc du Tacul».

Quindi ecco la meta del prossimo viaggio?

«Non lo so. In realtà in Pakistan stiamo portando avanti anche un altro progetto, raccogliendo attrezzatura, sci, snowboard, abbigliamento tecnico qui a Chamonix da inviare laggiù per fare conoscere le gioie di questi sport ai bambini del posto. Julien Pica Herry, che è il mio migliore partner con il suo snowboard, è il principale promotore di questo progetto. Pica conosce alla perfezione l’Hunza Valley in Pakistan. Se non ci saranno problemi con le restrizioni e i blocchi legati alla pandemia, dovremmo andare sul posto il prossimo febbraio con altri cinque o sei amici. L’idea è quella di insegnare ai local come usare sci e tavole, passando del buon tempo insieme».

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 133


Valanghe, quanto è pericolosa la nostra mente?

Senza quasi accorgersene, capita di gestire alcune situazioni tipiche dello skialp e dello sci lontano dalle piste battute secondo procedimenti euristici, cioè attraverso metodi di approccio alla soluzione dei problemi che non seguono un percorso rigoroso ma, piuttosto, affidandoci all’intuito e allo stato temporaneo delle circostanze. Così facendo, siamo portati a prevedere un risultato che tuttavia resta da convalidare. Ovvero la certezza di essere al riparo da una situazione di distacco di valanga non ce l’abbiamo, anzi, con questi comportamenti quasi la escludiamo. Incappiamo appunto nelle cosiddette trappole euristiche. Entrando nello specifico, Igor Chiambretti e Anselmo Cagnati, nell’ambito dei corsi per osservatore nivologico dell’AINEVA (Associazione Interregionale Neve e Valanghe), hanno cercato di classificare i profili psicologici di scialpinisti e freerider e quei meccanismi che inducono anche i più esperti a esporsi a un eccessivo rischio di essere travolti da una valanga. Per semplicità, ecco le più comuni trappole euristiche: 

familiarità: 

siamo sempre passati di qui, è già tracciato. Invece di cercare le scelte e i comportamenti più adatti alla situazione del momento, si tende a ripercorrere scelte precedenti; 

eccesso di determinazione: 

ormai siamo arrivati fin qui, dai che ci siamo, la cima è li sopra. Una volta presa una decisione, le altre devono essere conseguenti a essa perché ormai sembrano più ovvie; 

euforia: 

mamma che polvere che c’è oggi! Giù a cannone!; consenso sociale: 

chi sono io per dire qualcosa, poi passo da sfigato. Si è generalmente più disponibili al rischio in presenza di persone, specie se le stimiamo e ammiriamo, ritenendole più esperte di noi; 

competitività sociale: 

dal francese celodurismo; 

aura dell’esperto: 

sa sciare bene, va sempre in montagna, quindi saprà valutare dov’è il pericolo, fidatevi di me, l’ho già fatta 100 volte; 

istinto gregario – potere del gruppo: 

non so bene chi prende le decisioni, ma siamo in gruppo, se è effettivamente pericoloso qualcuno lo dirà. Più è grande il gruppo, tanto maggiore è il rischio. Oltre al fatto oggettivo dell’au- mento della probabilità di incidente derivante dal numero, aumentano le possibilità di comportamenti indisciplinati e al contempo si riduce molto la percezione del pericolo; 

effetto dell’apprendimento negativo: 

non diamo per scontata la riuscita di una gita anche quando tutto è andato bene poiché non si sa con certezza quanto in realtà si è andati vicini al pericolo; 

sindrome del cavallo: 

ho poco tempo, oggi ho fretta di tornare indietro; 

sindrome dell’orso: 

per chi va da solo. 

Ingannati dal fatto che a volte nella vita quotidiana l’euristica è conveniente, dobbiamo considerare che non va bene in un contesto di alta montagna, con rischio reale e presente. E i numeri dicono che questo vale anche per chi ha una certa esperienza. In quasi tutti gli incidenti da valanga che hanno coinvolto anche vittime educate alle valanghe i malcapitati sono generalmente incorsi in una di queste tre situazioni: 

  1. non sono riusciti a notare indizi evidenti di instabilità;
  2. hanno sovrastimato la loro capacità di affrontare il rischio;
  3. si sono resi conto del pericolo, ma hanno continuato comunque.

Trovare la chiave per risolvere l’enigma decisionale non è certo così immediato. Per questo abbiamo deciso di fare due chiacchiere con qualcuno che di montagna ne macina, e parecchia, che sia d’estate o d’inverno. Un professionista del settore che in quota ci lavora, sia nel campo dell’accompagnamento, che della formazione e del soccorso. Insomma, uno che ha una visione a 360°, completa, perché nei suoi lavori spesso vede i due lati della stessa medaglia. 

Daniele Fiorelli vive in Valmasino, nel regno del granito, dove è nato e cresciuto come alpinista e come professionista proseguendo la tradizione di famiglia. È Guida alpina e Istruttore nazionale delle Guide alpine Italiane, membro del CNSAS con le qualifiche di Istruttore nazionale e tecnico di elisoccorso. Svolge la sua attività su tutto l’arco alpino e all’estero: arrampicata su roccia, ghiaccio, scialpinismo e freeride. Daniele ha recentemente ritenuto che questi argomenti dovessero essere trattati anche nell’ambito della formazione del corso per Aspiranti Guida alpina della Regione Lombardia, di cui è responsabile. Ed eccoci a fare due chiacchiere, con la schiettezza che lo contraddistingue. 

Avvicinandosi l’inizio della stagione abbiamo pensato che fornire agli appassionati di sport sulla neve un piccolo focus sul meccanismo delle trappole euristiche potesse essere utile per tentare di accendere qualche lampadina e far riflettere un po’ su questi meccanismi comportamentali. L’intento, non esaustivo, di aprire un piccolo spunto di riflessione in merito a situazioni in cui tutti ci troviamo. Sei d’accordo col dire nessuno escluso? 

«Certo. Nei meccanismi delle trappole euristiche ci saltan dentro tutti. I neofiti, gli esperti e a volte i professionisti stessi. Nessuno escluso. Permettimi la franchezza, per quanto riguarda le valanghe, specie nello scialpinismo, è meno difficile di quanto si pensi mettere il culo nelle pedate». 

Puoi raccontarci qualche episodio significativo dove l’errore commesso и stato uno dei meccanismi che abbiamo elencato? 

«Sinceramente ne avrei diversi, specie di interventi su cui mi è capitato di lavorare in ambito di Soccorso. Purtroppo non sono episodi belli da raccontare per via di esiti spesso fatali. Preferisco quindi non entrare nei dettagli, ma un esempio che ti posso fare risale a un incidente che ha visto coinvolti due local sulla classica montagna che si fa dopo una nevicata sul lato valtellinese delle Orobie. I due conoscevano bene il percorso. Era un itinerario che percorrevano più volte in stagione, praticamente con qualsiasi condizione di neve. Quando c’è stata la valanga, avevano scelto di percorrere il pendio classico di discesa leggermente più a destra rispetto al solito, la variazione di pendenza non era quasi significativa, eppure... Nel corso del mio lavoro ho visto una marea di casi simili purtroppo. E non solo con persone inesperte, anzi». 

La percezione del rischio passa attraverso diversi aspetti: la conoscenza del rischio stesso, la propensione soggettiva allo stesso di ciascun individuo, le influenze esterne, le valutazioni di probabilità. È un meccanismo estremamente complesso, specie per chi si avvicina allo scialpinismo ed è alle prime armi. Quali sono le trappole euristiche che ritieni piщ frequenti? 

«A mio avviso sono quelle legate alla familiarità perché è assolutamente trasversale, quasi democratica. Tocca tutti, dai meno esperti, ai garisti, ai professionisti. Capita che in montagna, specie su itinerari conosciuti, ci si muova con i paraocchi. Sono stato qui due giorni fa, la conosco come le mie tasche, faccio sempre questo fuoripista dopo le nevicate. Sono tutti ragionamenti che ciascuno di noi fa quasi inconsciamente, ma sono pericolosi. L’abitudine ci porta a pensare meno, ad abbassare il livello di attenzione tralasciando tutto un processo decisionale di scelte che invece va sempre affrontato. In montagna devo sempre ricordarmi di pensare. Altrimenti ci si ritrova sull’altra trappola, l’effetto gregge: riguarda spesso persone meno esperte, vedono tanta gente alla partenza di un itinerario, bella giornata, bella neve, e vanno dietro, seguono la traccia. Questo non ci mette assolutamente al riparo dai pericoli e dai rischi che potrebbero innescare le scelte sbagliate di chi è davanti. Magari il primo gruppo sta proseguendo perché è confortato dalla vostra presenza sull’itinerario! E non mi riferisco solo alle carovane di scialpinisti viste dopo la prima nevicata in Marmolada quest’anno. Anche se poi le condizioni di stabilità permettessero di muoversi su certi terreni in piccoli gruppi, trovarsi in molti su un pendio (inducendo quindi forti sovraccarichi) potrebbe generare spiacevoli sorprese». 

Lo scialpinista deve sempre pensare con la sua testa quindi? 

«Certamente. E se un membro del gruppo ha dei dubbi, anche se non è il più esperto, è utile che li esterni agli altri. Nella trappola che viene definita del consenso sociale il meccanismo che si innesca è quello che a uno o più componenti inizia magari a sorgere un dubbio sulla neve o sull’itinerario. Però sta zitto, non voglio mica passare da sfigato, da primo che si tira indietro. Posto che non bisogna arrivare a questo punto, occorre ragionare con la propria testa e confrontarsi nel gruppo, perché è quando si è con altri che si innesca questa trappola. 

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© Andrea Bormida

La velocità dietro casa

Alcune delle domande che avevo in mente per François trovano praticamente risposta nelle telefonate intercorse per organizzare questa chiacchierata. «Domani è perfetto, ma se per te va bene sentiamoci nel primo pomeriggio, al mattino sono impegnato». Poi scopri che al mattino sono impegnato stava per domani mattina vado a farmi un giretto sulla cresta Triftjigrat sul versante Nord del Breithorn Occidentale: approccio in sci partendo ovviamente da Cervinia, discesa sul lato svizzero, salita della cresta e sciata su Cervinia. Roba easy, quattro ore. Una mattinata appunto. François d’altronde non ha bisogno di grosse presentazioni, lo avevamo già incontrato qualche numero addietro per parlare sempre del suo modo leggero e veloce di andare in montagna. Un modo che lo ha portato a compiere diversi exploit sulle montagne del mondo, dall’Alaska all’Himalaya. Figlio d’arte per eccellenza: i cognomi Cazzanelli, da parte di papà, e Maquignaz, da parte di mamma, sono legati da più di un secolo al mestiere di Guida alpina e all’alpinismo. Nessuna forzatura quindi ha fatto sì che la sua strada seguisse le orme tracciate dai propri avi già da ben cinque generazioni, diventando membro delle Guide del Cervino nel 2012, a soli 22 anni.

Se l’alpinismo apparteneva già al suo DNA, il motore lo ha invece costruito a partire dalle gare di scialpinismo giovanile e poi nella Sezione Militare di Alta Montagna del Centro Sportivo Esercito di Courmayeur. François lo avevo incontrato solo una volta in falesia a Finale, a Bric Scimarco; penso che nemmeno si ricordi, avevamo scambiato qualche parola con amici comuni. Già sapevo chi era e in quel periodo si stava rimettendo da un incidente al braccio occorsogli durante la spedizione al Kimshung, in Himalaya. Rimasi colpito dalla naturalezza con cui si muoveva anche in un periodo di non particolare forma. Era a suo agio nel mondo verticale e lo lasciava percepire. Penso che per lui l’andare in montagna sia così: una cosa naturale, veloce e leggera, fast & light (F&L) appunto.

François ha saputo portare questo suo modo di muoversi nel proprio alpinismo, a partire dalle montagne di casa, dalla sua valle, la Valtournenche. Ha spesso cercato l’avventura uscendo dalla porta di casa, sulle sue montagne, dal Cervino a quelle meno altisonanti, ma non meno affascinanti, disegnando storie che sanno di grande alpinismo classico ma rivisitato in un nuovo modo, veloce ed efficace. Delle imprese a tutti gli effetti, in estate e in inverno, con i suoi compagni. Muoversi veloci, su terreno sempre più tecnico, è certamente una delle direzioni che l’alpinismo moderno sta prendendo, dagli alpinisti d’élite come François e via via allargando la base tra gli adepti non professionisti. Il F&L fa sentire più liberi, apre nuove possibilità, a patto di essere umili e preparati. Andare veloci, ma senza la fretta di farlo subito. E penso che la persona che abbiamo davanti sia quella giusta per parlarne: François è il nostro uomo.

© Damiano Levati/Storyteller-Labs

Ormai una parte dell’alpinismo di punta sta seguendo la direzione della velocità. Cosa rappresenta questa filosofia per te? Ti ci ritrovi?

«Con Kilian ci sentiamo e me lo ha chiesto anche lui, ogni tanto ne abbiamo parlato. Mi ritrovo in un alpinismo fast & light, perché mi sento a mio agio. Se devo scegliere una parola, penso possa essere libertà. Che è la sensazione che mi regala l’andare per monti in questo modo».

Da dove arriva secondo te questo modo di muoversi in montagna? Chi sono stati i precursori?

«Forse ti stupirò, ma personalmente ritengo che sia una storia con origini antiche. Pensa che Luigi Carrel negli anni ’30 teneva un libretto dove si annotava tutti i tempi delle salite al Cervino da Valtournenche. Però secondo me le origini vanno cercate in grandi personaggi degli anni Ottanta: uno dei più grandi è stato senza dubbio Erhard Loretan, tra i primi a capire che a volte la chiave del successo per salire sugli Ottomila era scalare in velocità. Poi Profit, il suo tempo sull’Integrale di Peuterey è ancora un riferimento. Anche Patrick Berhault con le idee dei concatenamenti».

Arrivi dallo scialpinismo agonistico e da una famiglia di Guide. È stata una crasi naturale la tua?

«Sì, le due cose si sono poi fuse. Ho iniziato con gli itinerari alpinistici, più tecnici in senso stretto e poi mi è venuto il tarlo che arriva dallo skialp di percorrere le vie in velocità, di muovermi veloce in montagna».

Che limiti ha il F&L su terreno tecnico?

«Più il terreno diventa tecnico, più essere veloci e leggeri diventa una specialità riservata a un’élite alpinistica. Ti basti pensare alle salite in velocità sul Nose. Fantascienza! Ovvio che su terreno via via più tecnico parte del tempo deve essere impiegato per proteggersi, per assicurarsi, per fare sosta. Anche nell’alpinismo però c’è voglia di confrontarsi con il tempo, ma personalmente non penso che vada cercata la velocità per confrontarsi con un tempo, ma perché invece è in grado di offrirti la possibilità di godere di un maggior numero di prospettive stando in montagna. Spesso si vuole correre senza saper camminare: per muoverti veloce in montagna ritengo che sia fondamentale avere un curriculum alpinistico classico. Ci devi passare, devi essere un alpinista. Succede lo stesso nelle grandi gare di scialpinismo: per vincerle, per andare forte, non bastano i metri di dislivello che puoi macinare a bordo pista. Devi essere uno scialpinista».

E i limiti imposti dal materiale?

«Il materiale va spiegato. Va chiarito quando è il momento di utilizzarlo, in funzione delle condizioni del momento. Tanta gente si porta dietro quello sbagliato. Me ne accorgo anche come Guida».

La velocità è sicurezza o comporta dei rischi?

«Bisogna imparare a muoversi con del margine, lasciarsi sempre un 20 per cento. Questo l’ho imparato da Kilian. È quello che ti fa portare a casa la pelle. E poi non è trascurabile il fatto che muoversi veloci significa stare meno in giro e conseguentemente meno esposti ai pericoli oggettivi: l’ho imparato negli anni, specie con il mio mestiere di Guida alpina».

È appena trascorso un periodo di lockdown e tutti ci siamo trovati a dover limitare gli spostamenti, rimanendo più nelle vicinanze. Tu hai sempre valorizzato la tua valle, vero?

«Sono attaccato alla mia valle, è la mia terra, casa mia. Ho la fortuna di osservare le montagne tutto l’anno. Così facendo, con le diverse luci che sa regalare ogni stagione, si riesce sempre a scoprire qualcosa di nuovo, un risvolto, un dettaglio, un diedro, una fessura. E questo mi motiva per immaginare altre avventure».

A cosa si presta meglio la Valtournenche? Anche al di là del Cervino, c’è ancora qualcosa da scoprire?

«Dipende dalla fantasia dell’alpinista. È conosciuta per lo sci, ma abbiamo chiodato falesia, aperto vie di ghiaccio e misto. Per l’arrampicata e l’outdoor in generale credo che abbia un potenziale molto alto».

Lo hai dimostrato con l’ultima traversata, il primo concatenamento invernale delle Catene Furggen, Cervino, Grandes Murailles e Petites Murailles. Raccontaci tutto, come è nata l’idea?

«L’idea ha iniziato a prendere forma parlando con mio papà che aveva fatto la prima invernale della traversata delle Grandes e Petites Murailles. È una cresta che vedo dal letto, nel vero senso della parola, ce l’ho davanti agli occhi. Tutti i tentativi li avevo già fatti con Francesco Ratti. Nel 2017, la prima volta, forse non avevamo ben idea di che cosa ci aspettava, nel 2018 c’era troppa neve. Nel 2019 abbiamo commesso un errore di valutazione cercando giorni non freddi. Il caldo ci ha fermato tra la Punta Ester e la Punta Lioy: neve marcia a 3.800 metri e cornici poco rassicuranti».

Il percorso come lo hai studiato? L’hai definita una cresta di proporzioni himalayane, giusto?

«È una cresta enorme, comprende in totale 20 vette: la più alta è quella del Cervino con i suoi 4.478 metri. Per le sue dimensioni, per le altezze e per i passaggi vertiginosi la cresta è sicuramente una delle più spettacolari delle Alpi: misura circa 51 chilometri ininterrotti con 4.800 metri di dislivello positivo. Nel 2019 avevamo incluso anche la Dent d’Hérens, poi abbiamo capito che ci avrebbe fatto perdere troppo tempo. Non ho vergogna a dire che abbiamo capito che dovevamo tenere un profilo più basso e accontentarci di passare per il Colle delle Grandes Murailles, evitando la vetta di questo quattromila e rimanendo proprio sul confine naturale della Valtournenche».

Ti confesso che apprezziamo molto quando un alpinista come te ci confida che ha tenuto un approccio più conservativo, valutando condizioni e limiti. Ti fa onore. Ora passiamo ai dettagli tecnici, raccontaci nei particolari questa vostra avventura.

«Memori dei nostri errori, quest’anno abbiamo scelto i giorni più freddi dell’inverno. Siamo partiti il 20 gennaio dal rifugio Theodulo con una temperatura di -23 gradi e, raggiunto il bivacco Bossi, abbiamo proseguito sulla cresta del Furggen fino alla spalla di Furggen per poi deviare sulla via Piacenza. Sulla Piacenza ci siamo trovati ad affrontare alcune lunghezze non banali che ci hanno impegnato parecchio. Finalmente, alle quattro del pomeriggio in punto, siamo arrivati in vetta al Cervino. Da qui siamo scesi e abbiamo pernottato alla Capanna Carrel, a 3.830 metri, raggiunta alle cinque e mezza e perfetta per trovare riparo dal vento forte che ha soffiato per tutta la notte. Una prima giornata in cui tutto è filato per il verso giusto. L’indomani la sveglia è suonata alle quattro e alle sei siamo partiti per per quello che sarebbe stato il giorno più impegnativo».

Il secondo giorno?

«Sì, un sacco di vento e temperature basse. Siamo scesi al Colle del Leone e poi abbiamo affrontato il traverso del Leone fino al Colle del Breuil. Da qui in sequenza: Punta Maria Cristina (3.708 m), Punta Maquignaz (3.841 m), Punta Carrel (3.841 m), Punta Bianca (3.918 m) dove abbiamo dovuto affrontare condizioni difficili, con neve alla vita e poi ghiaccio nero. Finalmente alle cinque e mezza abbiamo raggiunto il bivacco Perelli, a 3.831 metri».

Diciamo non proprio un’esperienza plaisir…

«Il terzo giorno alle sei abbiamo deciso di partire: sempre vento e freddo sui -20 gradi. Obiettivo il bivacco Paoluccio. Si comincia con la Punta Margherita (3.905 m), poi la Punta dei Cors (3.849 m) e finalmente il bivacco Ratti dove ci è scappata una piccola pausa per mangiare qualcosa. Poi Punta Ester, di nuovo con molta neve e infine ecco il posto dove ci siamo ritirati l’anno scorso, la Punta Lioy (3.816 m), la porta di quella che abbiamo soprannominato la fossa dei leoni, ovvero la forcella che separa la Lioy dai Jumeaux. Un angolo un po’ tetro della cresta, dove dico sempre che le prospettive vengono totalmente capovolte. Non proprio un bel posto. Arrivati al colletto la neve però era perfetta e abbiamo raggiunto agevolmente la Punta Giordano (3.872 m). La cresta in questo punto è davvero ariosa, un coltello che ci ha costretto ad attrezzare delle calate in doppia e poi, con due tiri, siamo arrivati sulla Punta Sella, a 3.872 metri. Erano le cinque del pomeriggio e finalmente abbiamo visto che la cresta davanti a noi iniziava a scendere, ma il bivacco Paoluccio era ancora lontano. Lo abbiamo raggiunto con le frontali alle otto, stanchi ma ormai con la consapevolezza che c’erano buone possibilità di arrivare a valle il giorno seguente. Entrati nel bivacco sembrava di essere in un altro mondo: le temperature si sono alzate e il Paoluccio, a differenza del Perelli, era asciutto e senza neve. Da valle Damiano, il fotografo, ci ha avvertito che le condizioni meteo stavano per cambiare: sveglia puntata alle cinque con l’obiettivo di terminare l’opera».

Ultimo giorno: 23 gennaio, come è andata?

«Alle sette fuori dal bivacco: sulle Petites Murailles la neve era perfetta e la temperatura non più estrema: in tre ore abbiamo raggiunto il Mont Blanc du Créton (3.406 m). Dopo non molto abbiamo visto il bivacco Florio, lì abbiamo capito che era fatta! Ci siamo slegati, abbiamo tolto il casco e raggiunto il Col des Dames e giù nel Vallone di Vofrède, tutto su buona neve. A valle abbiamo stappato una bottiglia di Prosecco. E poi pizza!».

Domanda più tecnica: il materiale usato?

«Una corda da 50 metri, una serie di friend, quattro viti da ghiaccio, tre piccozze in due per consentire al primo di cordata di procedere in sicurezza nei tratti di ghiaccio più difficili, ramponi Grivel G12, una scelta di chiodi a lama utilissimi sulla roccia delle Grandes Murailles, un sacco a pelo a testa. Tranne che per la prima notte alla Carrel, dove abbiamo sfruttato il comfort del locale riservato alle Guide, avevamo dietro tutto il cibo e il gas per il fornello per i quattro giorni: poco meno di 15 chili di zaino».

Qualche piccolo segreto?

«Mi mettevo gli scaldini nel sacco a pelo tutte le notti (ride, ndr), una conseguenza del fatto che avevamo volutamente scelto i giorni più freddi di tutto l’inverno».

Come ti sei allenato?

«Niente di specifico, ti direi andando tanto in montagna. Ho comunque fatto dry-tooling e tanti metri con le pelli per allenare il fiato».

Qualche aneddoto?

«La notte al bivacco Perelli: dopo il secondo giorno, con quel vento che ci aveva schiaffeggiati durante tutto il percorso, siamo arrivati e abbiamo trovato la porta semi-aperta, con tutto il bivacco invaso dalla neve. Abbiamo dovuto spiccozzare e liberare un posto per dormire: una notte bella fredda. Avrei fatto qualsiasi cosa per scaldarmi… non pensare male, non proprio qualsiasi!».

Oltre che alla storia dell’alpinismo, sei attento anche alla storia delle montagne?

«È molto importante, specie per una montagna che sento mia. È qualcosa che si tramanda. Nel web si trovano molte informazioni ormai, ma a volte sono poco attendibili e si perdono dei dettagli che invece i racconti dei local ti sanno dare. A questo proposito vi invito a leggervi la storia di questa cresta che ho riportato sul mio sito. Si parte dal 1940 fino ad arrivare all’invernale di mio padre Valter nel 1985 e al mio giro in velocità con Kilian Jornet nell’agosto del 2018».

Possiamo dire che il tuo è un alpinismo classico?

«Penso di sì, perché sento che è il terreno dove riesco a esprimermi come voglio, un terreno tecnico dove non si muove uno skyrunner puro, ma che mi consente di essere veloce ed efficace. Sento che qui la velocità può aprirmi davvero molti orizzonti. È questo ciò che mi piace».

QUESTO ARTICOLO È USCITO SU SKIALPER 130

© Damiano Levati/Storyteller-Labs

A close call con Jesper Petersson

In tutti gli sport, ciclicamente, si incontrano quei giocatori che per il modo con cui impattano sul gioco possono essere definiti a tutti gli effetti un crack. Sono atleti di gran classe, che portano qualcosa di mai visto, di nuovo per estro o disciplina. Ronaldo, Inter, campionato italiano 1998, per intenderci. So che con questa citazione mi sto attirando le ire della dirigenza di Skialper, ma se devo portare l’esempio di cosa sia un crack in uno sport non penso che ci sia niente di più evidente e non troppo remoto per spiegarlo. Perdonatemi. Anzi no, vi sto parlando di Ronaldo, quello vero, non ho niente da farmi perdonare. Una cosa simile è capitata anche nello sci sulle pendici del Monte Bianco. Qualche anno fa si è costituito un team formidabile di due sciatori che hanno iniziato a macinare discese. In maniera impressionante, con una dedizione e una costanza che li ha resi un vero e proprio crack nell’ambiente.

In primavera non di rado nei bar sui due lati del Monte Bianco è capitato di sentire dire Sono arrivati! Hanno iniziato. Addirittura - lo giuro - una volta mi sono trovato nel bel mezzo di una colorita conversazione: Sono arrivati i mangiapesce! Adesso non si scherza più; naturalmente con riferimento poco lusinghiero al forte team finnico-svedese che aveva appena iniziato a tritare anche quell’anno in maniera seriale tutti i più bei pendii estremi del Bianco. Negli ultimi sei o sette anni Mikko Heimonen e Jesper Petersson hanno collezionato un’attività fantastica in termini di discese. Sono diventati uno dei riferimenti dello steep skiing a Chamonix e ciò non è semplice data la concorrenza. Abbiamo parlato con Jesper: trent’anni, svedese, determinato a lasciare parlare i fatti ma al tempo stesso molto equilibrato. E forse equilibrato è il termine che meglio lo descrive, almeno a un primo impatto. Pochi fronzoli, disponibile. Fa piacere incontrare persone così.

© Mikko Heimonen

Jesper, sei uno degli sciatori più prolifici di Chamonix negli ultimi anni. Siamo curiosi di sapere qualcosa di più su di te, a partire, come si fa nelle più tradizionali interviste, da dove arrivi e come hai scelto Chamonix. parlaci insomma di chi è davvero Jesper Petersson.

«Beh, sono un ragazzo di trent’anni che arriva da Karlstad, nel centro della Svezia. Attualmente vivo a Lund, nella parte meridionale del Paese. Lavoro come elettricista in una grande compagnia elettrica. Ho trascorso gli ultimi sette inverni a Cham, ai piedi del Monte Bianco, dove ho cercato di sciare il più possibile. Devo dire che scio da quando ho quattro anni, ma che praticavo questo sport al massimo un paio di settimane l’anno, fino a quando sono arrivato a Chamonix. Non sono mai stato un garista e non ho mai partecipato a competizioni, ma ho sempre sciato per divertimento. Però esercitarmi e allenarmi mi piace molto, fa parte del mio DNA».

Lavori in estate e sci per gli altri sei mesi l’anno: ti consideri dunque uno skibum?

«I primi anni sì, mi vedevo come uno skibum. Oggi piuttosto come un mountain athlete anche se, non avendo sponsor particolari che mi pagano, non sono un vero professionista, ma forse potrei dire un professional skibum».

Solitamente quando ritorni sulle Alpi? E cosa fai negli altri periodi dell’anno? Come ti prepari per la stagione sciistica?

«Negli ultimi sei anni ho sempre trascorso circa sei mesi a Cham solo per sciare e salire montagne. Normalmente arrivo in dicembre e me ne vado a giugno. La maggior parte delle linee che vogliamo sciare vanno in condizioni tra aprile e giugno. Mi piace utilizzare gli altri mesi per sciare ed entrare in forma. La stagione 2019 è stata un po’ più corta perché ho dovuto lavorare a lungo e sono poi andato in spedizione in Alaska. Fuori stagione, come detto, lavoro in Norvegia e in Svezia, cercando di mettere da parte più soldi possibili in modo da poter sciare tutto l’inverno senza lavorare. Normalmente mi alleno dalle cinque alle venti ore a settimana, soprattutto correndo, andando in mountain bike o in palestra».

Nel massiccio del Monte Bianco hai sciato tutte o quasi le linee principali, spesso con il tuo socio Mikko Heimonen. puoi raccontarci di più della vostra amicizia? Si dice che sia uno sciatore veramente di alto livello…

«Mikko è uno sciatore molto talentuoso e motivato, forse il migliore al mondo quando si parla di curvare su neve dura e ripida. Io e lui portiamo avanti una profonda amicizia: è 23 anni più vecchio di me, ma è uno dei miei migliori amici. Non dobbiamo parlare molto tra di noi, ci conosciamo così bene e abbiamo spesso gli stessi obiettivi che tutto diventa facile. L’ho incontrato per la prima volta nel 2013 sulla parete Nord dell’Aiguille du Midi: ci siamo parlati e abbiamo deciso di sciare insieme il giorno dopo. Da quel momento in poi abbiamo disegnato molte linee ed esplorato il massiccio del Monte Bianco senza Guide, sponsor o elicotteri. Siamo semplicemente due amici che amano praticare lo sci e stare fuori in montagna con gli sci».

Quindi confermi che i compagni giusti sono molto importanti sul terreno ripido?

«Hai bisogno di un buon partner per sciare così tante cime come abbiamo fatto io e Mikko. Nessuno dei due avrebbe sciato tutte quelle linee se non avesse avuto l’altro. Quando sei un buon team, ogni operazione è più facile, dal controllare il meteo, fino a prendere la giusta decisione in posti difficili».

Cosa ti ha portato a diventare uno steep skier? O un alpinista?

«Lo sci ripido è un palcoscenico amatoriale: noi non siamo degli sciatori o climber professionisti. Siamo un mix tra le due attività: devi essere anche alpinista se vuoi diventare un buon steep skier! Mi vedo come uno sciatore, ma ho abbastanza esperienza di scalate e di alpinismo. La ragione per cui mi sento più uno sciatore è che su un pendio sono più a mio agio con gli assi nei piedi piuttosto che con i ramponi».

L’avventura nel gruppo del Monte Bianco che ricordi più volentieri?

«Certamente quando abbiamo sciato la parete Nord dell’Aiguille Blanche de Peuterey. È una meravigliosa parete glaciale che trattiene la neve per pochi giorni durante la stagione e nemmeno tutti gli anni. Non è stata la più grande o ripida linea tra quelle percorse, però il fatto che sembri così vicina e contemporaneamente così lontana, lì nel selvaggio versante della Brenva, la rende speciale».

Invece la tua linea perfetta nelle Alpi, ammesso che non l’abbia già sciata?

«La mia dream line è stata quella nel Couloir Nord-Est del Col Armand Charlet. Lo abbiamo sciato nell’aprile 2016, con timing perfetto e condizioni pazzesche dalla cima in fondo. Non penso di aver mai chiuso una big line così con quelle condizioni».

Pensi che ci sia ancora spazio per vero sci d’avventura qui sulle alpi? O bisognerà guardare altrove, più in quota, come in Alaska, Ande o Himalaya?

«Questo tipo di sci sulle Alpi è diventato quasi la normalità. La gente vuole spingere i propri limiti fuori dalla zona di comfort. Nei prossimi dieci o vent’anni vedremo persone sciare in Himalaya così come ora stanno facendo sulle Alpi. Gli sciatori e gli alpinisti sono sempre più in forma, vivono in maniera più salutare e utilizzano materiali sempre più leggeri. Inoltre l’aumento delle temperature dalle nostre parti significa inverni più corti e meno nevosi. Tutti questi fattori faranno sì che diventerà sempre più naturale guardare verso le montagne più alte del mondo. Sulle Alpi se vuoi l’avventura devi innalzare il livello, ma s’innalza anche quello di rischio».

Noi di Skialper amiamo particolarmente quando gli sci diventano uno strumento per esplorare i luoghi: qual è la tua idea di viaggio e come lo progetti?

«Quest’anno sono stato in Alaska, che a dire il vero è stata la mia prima esperienza con gli sci al di fuori di Chamonix. Ero stato in Kirghizistan per scalare, ma niente di difficile. Abbiamo scelto l’Alaska per sciare semplicemente perché nessuno del nostro team c’era stato prima».

Ci puoi raccontare qualcosa di più dell’Alaska? Quali erano gli obiettivi e cosa avete sciato?

«Il nostro team era composto da me, Enrico Mosetti, Tom Grant e Ben Briggs. L’obiettivo numero uno erano la parete Sud del Denali e la Nord del Mount Hunter. Quest’ultima non l’abbiamo trovata così invitante guardandola dal campo base del Denali, in foto sembrava davvero molto diversa. Abbiamo avuto l’ingenua idea di provare la Sud del Denali direttamente dal campo a 4.200 metri anziché da quello a 5.200. Il tempo instabile, con finestre non più lunghe di un giorno, ha reso la parete difficile da sciare: hai bisogno di almeno due giorni di bel tempo. Quando siamo arrivati in cima, io e Tom, abbiamo aperto il Couloir Messner per la prima volta in questa stagione. Nei giorni precedenti avevamo sciato l’Orient Express partendo un po’ sotto l’inizio della linea, come tour di acclimatamento».

Abbiamo saputo che hai avuto quella che in gergo si definisce una close call durante la discesa della Kahiltna Queen.

«Il nostro ultimo giorno di sci è stato sulla sbalorditiva Kahiltna Queen, una delle più belle e grandi linee su cui abbia mai posato gli sci. Tom Grant e io stavamo cercando di percorrere tutta la discesa senza usare la corda per calate in doppia. Lo sci era davvero ingaggioso e tecnico. Avevamo appena raggiunto il couloir principale, dove le difficoltà erano minori, quando io ho provocato il distacco di una piccola placca a vento isolata. E lì è iniziata una caduta di 800 metri dentro al canale. La neve era sembrata in generale sicura ed è stata una fatalità staccare quella placca. Essere in buona forma e forte fisicamente ma anche avere un casco sulla testa sono i fattori che probabilmente mi hanno salvato la vita. Mi sono rotto il collo con fratture alle vertebre C6 e C7 e sette costole. Forse non riuscirò più ad avere una piena mobilità, ma cercherò di tornare in forma come lo sono stato prima dell’incidente. In futuro scierò di nuovo fuoripista e scalerò».

Dopo alcuni episodi come questo non è sempre facile reagire. Lo sci estremo ha dei rischi, come li gestisci?

«Se trascorri un sacco di tempo in montagna su pendii ripidi, la domanda non è se accadrà qualcosa, ma piuttosto quando accadrà qualcosa. Però se sei preparato e utilizzi tutta la tua esperienza e conoscenza, ritengo che non sia davvero più pericoloso che guidare una macchina ad alta velocità incrociando auto in senso opposto distanti solo qualche metro. Quando sei in montagna occorre sempre considerare e calcolare il rischio intorno a te. Non sempre è garantito che si prenda la decisione giusta, ma ogni decisione cerchiamo di ragionarla. Se salgo una linea dove so di dover trascorrere un sacco di tempo esposto e per esempio vedo che la neve cambia per l’aumento della temperatura, inizio ad avvertire una brutta sensazione e sento di dovermene andare. Poche volte ho avvertito una sensazione di questo tipo al mattino, ma a volte mi capita quasi di mettermi alla prova per cercare di capire se ho questo tipo di sensazioni. Uno può sempre girare i tacchi e tornare indietro, decisione che prendiamo più spesso di quanto la gente pensi. Dietro alle big line ci sono settimane di attesa e un sacco di preparazione».

Cosa cerchi nello sci che pratichi? I grandi pendii, l’estetica di una linea, insomma come decidi i tuoi obiettivi?

«Ho sempre cercato l’avventura, l’estremo, però prestando attenzione a tenermi fuori dai pericoli oggettivi come valanghe e scariche di sassi. Il mio obiettivo è cercare di portare a termine le linee che nessuno pensava possibili ed è quello che intendo continuare a fare quando sarò guarito».

Quale pensi che sia la tua reason why?

«Lo steep skiing è come la meditazione: la sola cosa che pensi quando sei là fuori è la curva successiva. Diventa come una sorta di rilassamento, devi focalizzare la tua attenzione su quel momento e dimenticare tutto il resto. Al giorno d’oggi sciare linee ripide non è più importante come lo era qualche anno fa, è l’avventura stessa quello che conta davvero: scoprire posti nuovi, esplorarli e sciarli con bella neve».

Negli ultimi dieci anni un numero di persone crescente ha iniziato a cimentarsi su pendii sempre più ripidi. Steep is cool, ma con i grandi numeri i rischi aumentano. tu come hai iniziato?

«Dopo un viaggio alpinistico in Kirghizistan nell’estate del 2012, ho deciso di diventare un alpinista migliore e mi sono trasferito a Cham. Naturalmente ho portato con me gli sci, però avevo scelto il Monte Bianco per migliorare le mie capacità alpinistiche. Poi è arrivato l’inverno del 2013: grandi quantità di neve e tutti che scendevano linee ripide! Così ho iniziato dalle discese classiche nel bacino dell’Argentière. È stato subito amore, avevo trovato qualcosa in cui ero bravo fin dall’inizio. Da quel momento ho iniziato ad allenarmi e a dedicarmi anima e corpo allo sci estremo».

Domanda tecnica di rito: il tuo set di attrezzatura preferito?

«Sono un ambassador per Salomon in Svezia e uso scarponi MTN Lab e sci MTN Explore 95. Mi piace muovermi leggero e veloce in montagna, il fast & light mi fa sentire più sicuro».

Un’ultima domanda: per lo sci su pendii ripidi preferisci nevi dure (come per le discese dei pionieri) o morbide e fredde come la powder? Cosa cerchi?

«Generalmente preferisco sempre fare nuove discese per me, non mi piace ripetere le linee. Amo il terreno tecnico e ripido. È importante, quando ti trovi in quel tipo di ambiente, sentirti sicuro per poter spingere a fondo e dunque cogliere il giorno giusto per una determinata linea. Da un punto di vista della sicurezza è meglio la neve assestata e dura come quella che si cercava negli old days, ma sinceramente preferisco la powder. La migliore da sciare è quella che cade umida durante la precipitazione e col freddo del mattino diventa un po’ più fredda e asciutta in superficie. È la neve perfetta e riconosci subito quella sensazione se l’hai già sciata!».

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© Mikko Heimonen

Kilian a nudo/seconda puntata

Hai mai usato sci più larghi, pesanti e con più struttura?

«In Norvegia, dove c’è molta neve fresca e poca gente a fare le tracce, uso anche i miei 95; in salita è molto più facile aprire la traccia nella neve profonda e poi scendere galleggiando, ma in condizioni normali preferisco gli 88 o i 79, perché si possono ancora fare buone uscite con 4.000 metri di dislivello senza dover rallentare e nella neve dura non è importante il fatto che siano sci stretti. Posso scendere a qualche compromesso sul peso dello sci (l’88 è 1.000 grammi, contro i 700 dell’attrezzo da gara) ma uso gli stessi attacchi e scarponi perché non vedo una grande differenza. Ho provato scarponi e attacchi pesanti senza alcun vantaggio rispetto a quello che invece perdevo».

In alcuni video ti abbiamo visto sciare con due piccozze, è così vantaggioso o è solo sicurezza in apparenza?

«È vantaggioso in certe condizioni, su un pendio ghiacciato dove è necessario scendere lentamente o in tratti dove si passa costantemente dallo sci alla discesa su ghiaccio con gli sci e per non prendere e lasciare le picche si scia qualche metro tenendole tra le mani. Quando il tratto da sciare diventa lungo, non è più sicuro che con i bastoncini».

Ho letto un tuo post in cui parlavi di esposizione, rischio e difficoltà. Personalmente non trovo tutto questo minimizzabile, forse anche la percezione del rischio è influenzata dalla tua stessa confidenza o dalla preparazione, però il rischio rimane.

«Sì, i pericoli sono oggettivi, naturalmente, è con le tue capacità e in funzione delle condizioni che decidi se la probabilità di sbagliare è grande o no».

Che cos’è la velocità? È relativa?

«È la conseguenza dell’andare leggeri. E mi permette di fare di più, quindi quando non hai molto tempo è fantastica».

Da sciatore ricordo le gesta di Stéphane Brosse in alcune discese, una sorta di precursore che ha portato la preparazione atletica della gara sull’impegnativo terreno dello sci ripido. Chi era per te e quale rapporto avevi con lui?

«Quando ho iniziato a fare scialpinismo, Stéphane vinceva tutto, avevo una sua foto sulla mia bacheca e tutti lo guardavamo come un modello da seguire. Quando ha smesso di gareggiare ha iniziato a fare discese davvero interessanti. Il Nant Blanc con Tardivel senza calata in doppia è stato un capolavoro e un’altra fonte d’ispirazione. Abbiamo abitato nella stessa zona e nel 2011 abbiamo iniziato a sciare insieme. È stato lui che mi ha iniziato allo sci ripido negli Aravis, poi sul Monte Bianco con la Face NNE des Courtes e il couloir Barbey. Per me è stato un vero e proprio mentore su come muoversi in montagna, su come portare il know-how delle gare nelle lunghe traversate e nei progetti in montagna. È stato prima un idolo, poi è diventato un mentore e un amico».

Recentemente abbiamo intervistato anche François Cazzanelli. Visto che avete percorso insieme la cresta delle Grandes Murailles in estate, come valuti il suo exploit invernale su quelle creste?

«François è un grande alpinista, è bravo in tutto, è completo. La traversata Cervino-Murailles in estate non è difficile, ma è lunga, con roccia non così solida, per questo in inverno le difficoltà sono molte di più, quello che ha fatto è un’impresa eccezionale!».

Veniamo allo sci: anche in questo campo sei un fautore dell’attrezzatura leggera. Con quali vantaggi e limiti?

«Beh, nelle lunghe traversate è bene andare con gli sci leggeri perché comunque nelle discese l’obiettivo non è andare a tutta, ma risparmiare energia. Nello sci ripido uso sci un po’ più larghi (Salomon S/Lab X-Alp 79 o MTN 88) così ho una maggiore altezza tra scarpone e neve e posso concedermi qualche errore in più, ma sempre scarponi e attacchi leggeri. È quello che sono abituato a usare e mi dà un enorme vantaggio in salita, perché nello sci ripido (se si esclude l’Aiguille du Midi) bisogna prima salire e le giornate diventano lunghe. Per curvare sul ripido, mi sento più sicuro con una combinazione leggera che con un’attrezzatura pesante. Gli scarponi Gignoux sono molto rigidi, il che significa anche precisi e solidi per sciare forte».

© Matti Bernitz

Parliamo ancora di fast & light e attrezzatura, quali sono le tue priorità?

«Tre tipi di attrezzatura. Prima di tutto per la progressione, cioè quella necessaria per completare l’itinerario. Poi in caso di, quella che si usa per proteggersi, per calarsi, quando si va in riserva o si rompe qualcosa. Infine c’è il lusso che può essere un buon sacco a pelo, cibo non gelatinoso o un libro da leggere durante una spedizione. La prima è irrinunciabile e lavoro con i miei sponsor per cercare di sviluppare l’attrezzatura che ci permetta di seguire questo stile. Deve essere leggera, ma allo stesso tempo soddisfare le esigenze di base. Gli scarponi per l’Himalaya hanno un obiettivo specifico: evitare il congelamento delle dita dei piedi. Sono composti da tre strati che possono adattarsi ai diversi terreni. Sulla seconda si può giocare un po’, ma non sono scelte senza conseguenze. Ti faccio un paio di esempi: posso non prendere un bivy-bag e non fermarmi, ma… oppure non portare una corda e disarrampicare, però sarebbe utile se devo salire in vetta e calarmi dall’altro versante. Il lusso rimane a casa (ride)».

Sei uno skyrunner e uno scialpinista che ha portato la velocità sui quattromila o in Himalaya, poi ci sono Ueli Steck e Andreas Steindl, per fare solo due nomi, che sono partiti dall’alpinismo e lo hanno velocizzato. Qual è la differenza tra i due stili?

«Probabilmente la differenza sta nelle capacità tecniche e fisiche all’inizio più che nella visione, io devo concentrarmi sulla tecnica e loro lavorano sul fisico. Penso che gli stili siano molto simili, è solo il nostro background a essere diverso».

Qualche volta sei andato in montagna con Ueli, che cosa avete fatto?

«Abbiamo scalato insieme in Nepal, intorno a Chukkung. Abbiamo parlato molto di allenamento, approccio alpinistico alle grandi vette, acclimatamento, alimentazione. Un giorno ero a casa e, parlando, mi ha chiesto se avessi mai scalato l’Eiger. Io ho risposto di no, così mi ha detto di andare a trovarlo il giorno dopo a Interlaken, ho preso l’auto e la mattina siamo andati a Grindelwald. Abbiamo parcheggiato, una corsa fino alla parete, poi siamo saliti in simul-climbing, ma non così velocemente, solo godendocela e scattando foto. Dalla macchina alla macchina ci abbiamo messo dieci ore. Il suo è stato un approccio molto interessante, si è allenato tanto, ha curato ogni dettaglio ed è sempre stato aperto a provare il nuovo e a evolvere. Ogni uscita con lui è stata ricca di insegnamenti!».

Sei co-autore di Allenarsi per gli sport di montagna: hai cambiato il mondo di allenarti per l’alpinismo e l’alta quota?

«Per l’allenamento in alta quota non tanto, più che altro mi sono concentrato sull’acclimatamento, per trovare il giusto equilibrio tra l’allenamento in altitudine e il riposo, rimanere in forma e ben acclimatato mantenendo alta la motivazione nelle lunghe spedizioni».

Mente o corpo? Steve House ha scritto che l’alpinismo è per l’80% mentale e per il 20% fisico. Sei d’accordo?

«È davvero una combinazione di entrambi. Il corpo pone a tutti dei limiti. Puoi pensare di correre una maratona in poco più di due ore, ma se non hai le doti fisiche di Kipchoge, la testa da sola non ti farà correre così veloce. Oppure puoi pretendere di fare freesolo a El Cap, ma se sei in grado di superare massimo il 6a legato, non è la forza mentale che ti permetterà di farlo da solo e slegato. Però la mente gioca un ruolo chiave per superare le barriere e avvicinarsi ai limiti fisici del proprio corpo. Per esempio, quanti possono salire l’8a senza cadere? Molti. Ma quanti possono metterci la forza mentale per farlo da soli su El Cap? Pochi. Quanti possono salire in solitaria un WI5 o M5? Tanti. Quanti lo farebbero in alta quota in Pakistan? Nell’alpinismo spesso scaliamo al di sotto dei nostri limiti fisici e tecnici, ma in condizioni di estremo disagio e accettando un rischio e un ingaggio elevati. L’energia mentale è necessaria per continuare a salire quando tutte le ragioni ti dicono di scendere».

Hai usato le tende ipossiche per acclimatarti prima di andare in Himalaya, credi che siano una soluzione valida?

«Servono per ridurre un po’ il tempo di acclimatamento in Himalaya, diciamo una settimana, come se si restasse in un rifugio sulle Alpi per un po’ di tempo, ma non si tratta di dove si passano le ore in quota, ma di quante se ne fanno. Il corpo ha bisogno di 400 ore per essere pronto, quindi le puoi fare in una tenda o in un rifugio o nei villaggi in Nepal, ma bisogna comunque farle quelle ore. Questo per arrivare a 6.000 metri, volendo anche fino a 7.000 o 7.500, poi probabilmente una volta a 8.000 metri per i grandi esperti di Ottomila. Il problema non è acclimatarsi. Fino a 6.000-7.500 metri non è un problema, puoi stare in quota e sentirti in forma, è oltre, è la fatica che l’acclimatamento richiede. Dormire a 7.500 o 8.000 metri ti prende molte energie e dopo ti senti stanco a lungo. Credo che la cosa migliore, se sei preparato a superare 2.000 metri di dislivello in un giorno e muoverti velocemente, sia di non dormire mai oltre i 6.300 metri, salire fino a 8.000-8.300 e tornate in basso a dormire. Così stressi il fisico a sufficienza per attivare i meccanismi di acclimatamento, ma non abbastanza per stancarti troppo. Il vantaggio è che puoi fare più attività perché sei meno provato, il problema che hai bisogno di muoverti sempre, dato che non sei così acclimatato come se passassi una notte a 8.000 metri, ma più fresco».

Come è cambiato il tuo approccio al rischio ora che sei diventato padre?

«Non avevo idea di come avrebbe potuto cambiare e, sorprendentemente, il mio modo di affrontare i rischi in montagna non è cambiato. Forse perché ho sempre pensato molto prima di prendere le decisioni e analizzato le situazioni. Invece è cambiato tanto per altri aspetti della vita, come guidare l’auto con più attenzione, mangiare meglio, pensare all’inquinamento e ai rischi ambientali».

2/fine

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© Matti Bernitz

Kilian a nudo

La storia del fast & light non può che coinvolgere Ueli Steck e Kilian Jornet. Perché rappresentano due strade diverse per arrivare alla velocità con ingaggio, quella dell’alpinista e dello skyrunner. Due strade che partono lontane, ma che a un certo punto corrono parallele fino a incrociarsi. Ma pur sempre due strade diverse. Non c’è dubbio che curiosità e sperimentazione abbiano accomunato questi giganti delle montagne e siano i fattori che li hanno fatti incontrare e dialogare. Ueli ha scritto la storia del fast & light, Kilian anche e ha ancora margini per scriverne altre di pagine. Lo abbiamo intervistato tante volte, ma mai eravamo andati tanto in profondità su argomenti come rischio, leggerezza, ingaggio, acclimatamento, attrezzatura, tecnica o allenamento. E anche sul suo rapporto con Ueli, of course.

Recentemente su Instagram e sul tuo blog hai dialogato con altri interpreti del fast & light in montagna, ma tu come definiresti con un aggettivo il fast & light?

«Nudo».

Quali sono i vantaggi e gli svantaggi?

«Il vantaggio principale di questo stile è che permette di andare veloci in montagna per raggiungere più posti in meno tempo. Non si può portare molto peso, per questo è necessario partire leggeri. Percorrere grandi spazi e dislivelli in breve tempo permette di evitare alcuni pericoli come l’esposizione all’altitudine, il rischio di valanghe, la caduta di massi. Ed è anche molto meno costoso perché si viaggia spesso da soli o in piccole squadre e con poco equipaggiamento. Lo svantaggio principale è che andando leggeri ci si assumono più rischi, in quanto non si è attrezzati per alcuni problemi che potrebbero presentarsi lungo il percorso».

Come ti ritrovi in questo approccio piuttosto che in uno più tradizionale, se per te esiste, ora, un approccio tradizionale?

«Rispetto qualsiasi modo di andare in montagna. Per quanto mi riguarda, dopo aver provato diversi approcci, questo è quello che mi piace di più e dove mi sento a mio agio. So che il rischio può essere maggiore rispetto ad altri stili, ma lo accetto per poter essere veloce».

© Kilian Jornet

Lo hai chiesto tu stesso ai tuoi colleghi di velocità e non puoi esimerti dal rispondere: qual è stata la prima volta che sei andato in montagna leggero e veloce?

«Probabilmente su terreno non tecnico è stata la salita del Dôme de Neige des Écrins nel 2006, salendo di grado, l’Innominata e la nostra spedizione invernale del 2013 in Himalaya».

 Come ti prepari per essere veloce?

«Preparazione fisica per essere in grado di mantenere il ritmo e preparazione tecnica per superare le difficoltà in solo o velocemente, più preparazione mentale per accettare l’ingaggio e trovare soluzioni quando le cose vanno male. E l’esperienza, penso che con il passare degli anni si impari un po’ di più a leggere la montagna. Ma non la si conosce mai del tutto».

Il fast & light rappresenta forse davvero l’evoluzione del muoversi in montagna, la direzione a cui mirare. Per ora può appartenere consapevolmente solo a un gruppo elitario di alpinisti, ma attira sempre più persone meno preparate. Quali potrebbero essere i rischi e come affrontarli se si decide di spostarsi con questo stile?

«Come dicevo, i rischi sono più alti perché a volte non si è attrezzati per ogni evenienza. Non posso dire alle persone di uscire e di seguire questo stile perché è qualcosa di molto personale e per il quale mi sono allenato per buona parte della mia vita. Si tratta piuttosto di accettare un certo ingaggio e questo potrebbe non essere raccomandabile...».

Utilizzare materiale ultraleggero richiede condizioni favorevoli, penso per esempio all’utilizzo dei ramponi con scarpe non tradizionali: quali sono i limiti in questo senso?

«Dipende davvero dal percorso, dalle condizioni, dalle tue capacità. I limiti o i punti PTI (per tornare indietro) devono essere sempre individuali e alla fine un compromesso con te stesso. L’attrezzatura continua a evolversi ed è incredibile quello che puoi fare oggi con pesi minimi, ma solo tu sai come usarla e fino a dove spingerti».

Pensi che questo approccio possa essere utilizzato anche su terreni più tecnici e alpinistici? Per vie difficili su roccia e ghiaccio? O c’è ancora qualcosa riservato solo all’élite?

«Guarda cosa ha fatto Ueli Steck sull’Eiger o sull’Annapurna o Dani Arnold con la Walker in due ore, Beta Block Super WI7, la Via Carlesso o ancora Colin Haley in Alaska e Patagonia e Alex Honnold…».

Sei mai stato attratto dall’alpinismo tecnico nel più stretto significato del termine?

«Non oggi, amo muovermi su un terreno dove posso sempre essere veloce, dove mi sento a mio agio da solo o in simul-climbing, ovviamente la difficoltà di questa zona di comfort si evolve, ma l’arrampicata tecnica pura, dove la ripetizione e l’assicurazione sono un must, non mi motiva».

Detieni molti fastest known time, per esempio al Cervino. Credi che l’alpinismo possa essere catalogato come sport o per te è qualcosa di più?

«L’alpinismo è uno sport? Sì, senza dubbio. Prima che i romantici comincino a lanciarmi pietre, pensiamo a cosa sia uno sport. L’origine del termine viene da disport, che significa attività che facciamo per divertirci, anche se il significato che ha assunto è limitato all’attività fisica. La Carta Europea lo definisce come Tutte le forme di attività fisica che, attraverso la partecipazione organizzata o meno, hanno come obiettivo l’espressione o il miglioramento della condizione fisica e psichica, lo sviluppo di relazioni sociali o l’ottenimento di risultati nella competizione a tutti i livelli. Ci sono sport come la danza o il nuoto sincronizzato dove il valore qualitativo è la creatività e l’esecuzione dei movimenti, in altri come l’atletica leggera è un tempo, un peso o una distanza, negli scacchi è l’anticipazione e la strategia. L’alpinismo è un’attività fisica, suppongo che tutti noi comprendiamo che scalare una montagna con la funivia non può essere considerato alpinismo, anche se non ci sono competizioni. Beh, ditelo ai russi che fin dagli anni Trenta organizzavano gare dove si valutavano non solo la qualità fisica e tecnica ma anche la difficoltà di apertura delle vie, la sicurezza utilizzata e altri parametri. Comunque è classificato da un sistema di difficoltà, da regole non scritte, chiamate etica o stili, e dal grado di incertezza. Ma è anche scalare una montagna per cercare i cristalli o una collina per divertirsi con gli amici o per dipingere un quadro, senza dubbio. Così come lo è la corsa anche quando un ladro scappa dalla polizia o perché si sta per perdere un aereo. Si balla in discoteca cercando di cuccare o per divertirsi con gli amici. Lo sport non è esclusivamente di alto livello, ma comprende tutti gli scopi di un’attività, anche se purtroppo lo valutiamo solo in termini di performance in prima battuta».

1 / continua

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© Kilian Jornet

Gilles Sierro, lo sci come arte

Parlare a quattr’occhi con chi hai sempre incrociato solo virtualmente è un piacere che ritengo fondamentale per poter conoscere qualcuno, specie al giorno d’oggi che mettersi in contatto con altre persone è questione di un click. Quando poi incontri un grande sciatore, diventa un privilegio. Vedere dove abita, come vive, gli occhi con cui guarda le sue montagne, ti fa capire un mondo di sfumature che si perderebbero tra i filtri di un più asettico scambio di mail. Gilles Sierro è un grande sciatore. Vive di sci e per lo sci. Non usa frasi fatte e ti basta uno sguardo per capire che la sua vita è veramente votata a questa disciplina. È cresciuto e vive nei pressi di Hérémence, Vallese, vicino ad Arolla. In linea d’aria pochi chilometri dal confine italiano. Con condizioni di neve migliori per raggiungerlo avremmo fatto prima con una pellata forse. Ce lo hanno detto anche gli operai al tunnel del Gran San Bernardo, chiuso.

Al Bianco sono sempre gentilissimi e accettano i quaranta e più euro anche se sono stropicciati. Poi il Col des Montets con la prima neve e i larici rossi, vuoi mettere? La schilometrata passa che quasi ti chiedi perché lo hanno fatto il Gran San Bernardo. Alla domanda invece di perché forse eravamo gli unici a non sapere della chiusura una risposta ce la siamo data dopo un secondo e faceva rima con… leoni. Poi le luci di un pomeriggio di novembre in un villaggio di chalet in legno svizzeri annullano o quasi i sensi di colpa. Per trovare quello di Gilles l’indicazione è poi ineccepibile: lo riconoscerete dalla buca delle lettere fatta con gli sci. Dopo circa mezz’ora passata a visitare ogni cortile della borgata, Gilles ha capito che era meglio se ci veniva incontro anche se il nostro navigatore si stava ostinando a indicarci una strada (in effetti corretta) che poi abbiamo scoperto essere la più innevata di tutto il vallese. È arrivato in retromarcia. Dopo un caffè abbiamo iniziato a conoscerci.

Una casella della posta decisamente da... skipper ©Federico Ravassard

 Gilles, la prima domanda che ci si fa tra sciatori in questo periodo: Sei carico per la stagione? Hai voglia di sciare oppure hai ancora voglia di altro?

«È vero! È la domanda classica del periodo tra chi scia! In realtà ho già iniziato questa settimana qui sopra. Con un amico ho testato un po’ il drone per fare delle riprese. La Magic Valley (come chiama la Val d’Hérens) è la mia casa, in stagione il comprensorio qui vicino è collegato con Verbier. Non posso lamentarmi. Anche se quando mi chiedono quale sia il mio spot preferito sono sempre in difficoltà perché in realtà il posto preferito è dove scio in quel momento, perché sto facendo proprio ciò che mi piace!».

Montagnard o sciatore? Ti piace vivere la montagna anche nelle altre stagioni?

«Posso ritenere di essere entrambe le cose, specie per il genere di sci che pratico. Sono diventato Guida proprio per poter sciare il più possibile, per vivere la mia passione quasi dieci mesi l’anno, tra clienti, spedizioni, viaggi e attività personale. Generalmente in luglio e agosto pratico attività più alpinistiche. I miei periodi preferiti per lo sci sono l’inizio dell’estate per la pente raidee il pieno inverno, quando riesco a godermi senza stress lo sci: freeski nel pieno della sua definizione, vivere la sensazione di gioco, di scivolare».

In una parola, facci capire che cosa è lo sci per te?

«Sembra banale ma posso dire che è vita: nel senso che la mia vita è orientata allo sci in modo totale. Perché è la cosa che mi è sempre piacito di più fare. Sono uno ski addicted nel senso più puro del termine. Ad esempio, quando a maggio finisco la stagione invernale con i clienti, stacco una settimana, vado al mare, faccio bici, libero la mente e mi preparo per iniziare la mia stagione dello sci. Lo faccio per lo sci».

Veniamo al tuo sci preferito, allo ski de pente, sinceramente non mi piace molto la definizione di sci ripido, o estremo, sei d’accordo?

«Non mi piace la parola estremo, ormai non ha più senso. Su qualsiasi rivista e ancor peggio sui diversi canali social dove ormai gira l’informazione tutto viene passato per estremo: usano termini come leggenda, enorme, ogni fatto viene galvanizzato. È talmente tutto leggendario che ormai lo sci estremo ha perso di significato perché il termine stesso è stato abusato e banalizzato. Se ci riflettiamo, il livello di estremo dipende dal limite soggettivo di ognuno. Paradossalmente anche una pista rossa può risultare estrema per un principiante. Un altro problema che vedo in questo mondo è che sono pochissimi quelli che sciano solo per se stessi. Grazie anche alla facilità di accesso alle informazioni sta diventando un circo in certi posti. Mi è capitato di parlarne con Davide Capozzi. Vedi il bacino di Argentière: è un posto dove le linee classiche sono indiscutibilmente bellissime, ma si riempie all’inverosimile perché sono conosciute, hanno nomi spendibili. Un piacere anche maggiore, senza anima viva intorno, lo si può trovare su una linea sconosciuta, ma appunto: non la conoscerebbe poi nessuno (ride)».

La tua idea di skieur de pente quindi quale è?

«Per fare veramente pente raide secondo me sono necessarie tre cose: bisogna essere buoni sciatori, e ce ne sono sempre di più in giro. Devi essere un alpinista e, cosa veramente importante, paziente. La pazienza! Sulle linee davvero impegnative le buone condizioni sono fondamentali. È veramente difficile trovare quelle perfette. Per sciarle in un bel modo, con una sciata estetica, è necessario aspettare il giusto momento. Ad esempio, prendiamo l’anno scorso: avete presente la parete nord della Pigne d’Arolla, qui sopra casa mia? È stata scesa, ma con doppie e derapate tra le rocce per cento e passa metri. Ed è una parete che diventa buona quasi tutti gli anni. Basta aspettare. Per me una discesa di quel tipo è inconcepibile. Anche su progetti più impegnativi sto aspettando da anni il momento giusto, ho visto bianche certe pareti in autunno mentre la parte bassa era impercorribile. Oppure, sempre qui in zona, il Mont Blanc de Cheilon è stato sceso per adesso non dalla punta. Ma secondo me potrebbe arrivare il momento. Mi piace aspettare, per cercare di scendere le pareti nel momento perfetto. Ci vuole pazienza».

 Quello che ritieni il tuo più bell’exploit?

«La Dente Blanche sud-sud/ovest, dalla punta con due miei amici di qui, con cui ho condiviso l’attesa e la speranza di poterla sciare proprio come abbiamo fatto. Con le condizioni del 2013 e solo una doppia di meno di quaranta metri. Questo è proprio l’esempio di cosa intendo per ski de pente».

Ho letto che di cercatori di linee in realtà pensi che ce ne siano pochi, una decina tra Chamonix, Vallese e Valle d’Aosta? Chi sono?

«Senza dubbio tra questi posso citarti Davide Capozzi, Pica Herry. Anche Fransson, che purtroppo se ne è andato. Penso che abbiamo lo stesso modo di intendere questo tipo di sci. Personalmente mi piace cercare linee il più possibile pulite, possibilmente senza doppie o dry ski su cui alcuni si sono specializzati. Non è quello il mio modo di sciare».

©David Carlier

Abbiamo parlato anche con Pierre Tardivel nell’intervista dello scorso mese dell’attuale tendenza della ricerca della massima fluidità e velocità possibili nello scendere certe pareti. Negli ultimi anni sono usciti parecchi video e immagini di questo tipo. Cosa ne pensi? Credi che sia, come ritengono alcuni, qualcosa di rivoluzionario, oppure no?

«Vedere sciare certe pareti in quel modo è senza dubbio impressionante, per la velocità stessa intendo. Non per la linea. Se si vuole parlare di rivoluzione bisogna specificare che è relativo alle linee classiche e più aperte. Non sono nuovi problemi, linee inedite o molto tecniche».

Però forse è stato messo nero su bianco come sciatori professionisti possono sciare pareti - sono d’accordo - classiche. Per un’attività libera come lo ski de pente dove anche lo sciatore della domenica, se preparato, può confrontarsi, se vuole, sullo stesso terreno di gioco del professionista, si è visto quale sia il livello e il margine dei professionisti! Si sono messi un po’ in ordine i valori tra tutti quelli che fanno discese e si spacciano per pro o ambiscono a esserlo.

«Su questo posso concordare. Però secondo me non si può parlare di rivoluzione nello sci ripido. L’evoluzione, per come la vedo, passa nella ricerca della linea. Sia chiaro, nutro molto rispetto per sciatori come Jérémie Heitz: ha spinto in avanti il limite del freeride. Però la mia visione di sci ripido, forse anche per questioni di età, ritengo sia differente».

Pensi che lo sci estremo nel futuro continuerà a progredire sulle Alpi oppure si sposterà in alta quota? Vedi dei limiti in questo?

«A mio avviso continuerà sempre sulle Alpi e le discese classiche vedranno sempre più sciatori, complici l’evoluzione dei materiali e le migliori capacità e preparazione. Questo discorso vale per le classiche. Su linee nuove non penso che ci sarà mai molta gente: per uno sciatore la preparazione e la ricerca delle condizioni è più complicata e ci si deve investire molto più tempo. Nella quota invece non vedo seriamente un limite. Prima o poi ci sarà qualcuno che ci mostrerà come fare e allora proprio quel limite non ci sarà più. Proprio come per certe salite se pensiamo a Ueli Steck o alle ascese in velocità di Kilian».

Un lato affascinante degli sciatori come te è il loro rapporto con i rischi e la paura durante l’azione.

«Io dico sempre che bisogna distinguere tra rischi e pericoli. I primi capita di prenderli, di accettarli e devi sempre cercare di minimizzarli. Tra i secondi invece non si deve dimenticare di considerare anche la pressione, le aspettative che uno ha intorno, la social pressure: sono come i seracchi. Personalmente anche con i miei sponsor cerco sempre di minimizzare e gestire al meglio questi aspetti. Poi l’aspetto mentale è importantissimo: ad esempio due anni fa in primavera avevo per la testa troppi pensieri. C’erano buone condizioni in montagna, ma non nella mia testa. E ho preferito tagliarmi fuori da questa situazione proprio perché non ero al 100 per cento mentalmente».

Che ruolo gioca la paura in quello che fai. Pierre Tardivel ci diceva che in realtà si mantiene sempre un margine.

«È importante prima e dopo, non durante l’azione. Bisogna essere focalizzati. Si deve sempre scendere mantenendo un margine di sicurezza: se sali e magari capisci che non ci sono le condizioni, devi saper rinunciare, anche se poi non posti nessuna foto su Facebook (ride)».

Gilles, quali sono stati i tuoi miti?

«Senza dubbio Dédé Anzévui, Guida e sciatore fortissimo di questa zona. Poi Stefano De Benedetti. Una linea che ho sognato a lungo e che mi piacerebbe sciare è proprio la sua parete est della Aiguille Blanche de Peuterey

Veniamo alle domande tecniche che ci si fa tra sciatori: che materiale usi, quali sono i tuoi setting?

«Generalmente scio con assi da 100-110 millimetri sotto il piede: così lo scarpone non tocca mai e poi sono gli sci che anche per lavoro uso di più, con i quali ho più confidenza: non ci sono sorprese. Scarponi tipo TLT6 o affini: non mi pongo particolari limiti per il peso dell’attrezzatura. Però gli sci devono essere facili, non esageratamente rigidi o duri. Generalmente 177 centimetri di misura circa. Attacchi tipo pin montati un centimetro indietro rispetto al centro scarpone: ho meno coda quando giro nello stretto e davanti ho la sensazione che galleggino meglio. Comunque ribadisco, non sono un fanatico del peso, anche se cerco di portare il meno possibile compatibilmente con ciò che faccio. Ad esempio preferisco i ramponi con le punte frontali in acciaio e la talloniera in alluminio».

I tuoi posti preferiti per sciare nel nostro paese?

«Senza dubbio Helbronner, è assolutamente fantastico! E poi Dolomiti, dove è tutto così vicino, di facile accesso e ci sono linee bellissime».

Come ti vedi tra 20 anni, quale potrà essere il tuo modo di sciare?

«Tra vent’anni? Spero di far conoscere alcune linee classiche, magari ai miei figli. Ah, dimenticavo, certamente non su uno snowboard!»

Chissà come mai lo avevamo capito già dalla cassetta della posta…

Chi è Gilles Sierro

Svizzero, classe ’79, Guida alpina, alpinista, Istruttore di sci certificato. Se chiediamo a lui: sciatore, punto. Cresciuto nel villaggio di Hérémence, non distante da Arolla, nel cuore delle Alpi Svizzere, tra Chamonix e Zermatt. Ha fatto le prime scivolate ad appena due anni, per poi praticare prima sci agonistico e quindi freestyle con l’arrivo dell’adolescenza fino a competere in Coppa del Mondo di halfpipe. La scelta di diventare alpinista e quindi Guida è stata presa per poter sposare il più possibile la sua passione per lo sci. Balzato alle cronache nel 2013 per la fantastica nuova discesa diretta dalla parete sud-sud/ovest della Dent Blanche (4.364 m), non smette di fare progetti e di riempire di neve le sue giornate in attesa delle condizioni perfette per poterli portare a termine.

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Gilles Sierro con i suoi sci ©Federico Ravassard

Michael Sinn: freeride, skialp e video. Da fare vedere ai figli

Sentirsi dire in tipico accento sud-tirolese da un ragazzo con un gran piede che partecipa regolarmente al circuito FWQ scio per divertimento, per il resto faccio l’agricoltore spiazza un po’. Dopotutto cercavamo gente che si muovesse senza clamore, sotto traccia. Agricoltore? Conoscendo un po’ l’Alto Adige le scimmie che battono i coperchi nel mio cervello iniziano a dipingere il classico paesaggio alpestre: baite, dolci pascoli e Michael con un filo d’erba all’angolo della bocca che scruta il gregge. Naaaaaaa… maledette scimmie, sono fuori strada. «Scio da sempre, ho fatto gare dai quattro ai 19 anni, anche qualcuna in Coppa Europa con la Nazionale. Ho studiato Agraria e quando ho finito ho iniziato a lavorare nell’azienda di famiglia».

Il maso di cui parla in realtà è una moderna azienda agricola con annessa cantina di Caldaro che produce ottimi e conosciuti vini locali, dal Lagrein al Sauvignon Blanc. «Ho fatto anche il maestro a Obereggen. La stagione invernale era quella con meno lavoro in azienda e riuscivo a conciliare le due cose. Ormai però da due anni il lavoro è aumentato, siamo un’azienda in espansione e quindi lavoro fisso a casa. Però non è un male perché ho più tempo per sciare libero come mi piace! Mi porto dietro il DNA della competizione e le gare di freeride e il FWQ è un modo divertente per conciliare diversi aspetti. Sto migliorando, anche se lo faccio solo per piacere, soprattutto per stare con il bel gruppo dei ragazzi italiani, andare in giro a sciare e divertirsi. In genere vado dove c’è neve. Nevica e c’è polvere? Allora faccio freeride. Non ne mette da un pezzo? Ecco che mi dedico allo skialp, percorrendo itinerari non necessariamente alla moda. Anzi, mi piace andare con gli sci in posti selvaggi. Non sono molti anni che faccio scialpinismo, ma mi piace sempre di più. Ho iniziato a pensarci dopo avere visto il film sul viaggio in Georgia del mio amico Wolfang Hell. Mi piace viaggiare e nel 2018 mi sono aggregato al loro viaggio in Siberia, sui Monti Altai: bei canali, belle cime e la discesa della parete Nord della cima più alta della zona. Nel 2019 poi è stata la volta del Marocco e dei suoi contrasti. I filmati che giriamo sono prima di tutto un bel ricordo che un giorno vorrei far vedere ai miei figli. E tutto questo mi piace sempre di più».

Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.


Diego Filosi, lo sci con leggerezza

Il numero di Diego l’ho avuto da suo nipote Alberto. Quando risponde gli spiego il motivo della mia telefonata. Dopo un attimo di silenzio mi risponde: «Non amo mettermi in mostra. L’ho già detto anche ad altri, preferisco starmene nel mio, sciare, fare le mie traversate, come un sacco di gente di cui raramente si viene a sapere quello che ha fatto».

Arriviamo a un compromesso quando gli prometto che potrà leggere quello che scriverò prima della pubblicazione. Si parte. Lo stile di Diego è leggero, da vero bergamasco: tutina, Merelli sempre nei piedi. È uno scialpinista non di primo pelo: di Lovere, classe ’63, ha sempre preferito i set-up ultralight. Diego è un appassionato di traversate con gli sci e anche per quelle usa attrezzi da vertical per ottimizzare al massimo il peso e poi – come dice lui – in salita su neve dura vanno meglio, batti meno e sei più efficace. Una di quelle a cui è più affezionato è la traversata dal Colle San Zeno fino all’Adamello e rientro al Passo del Tonale. Aprile 2013: 67 ore totali, 107 km, 7.100 metri di dislivello positivo. Un viaggio vero e proprio. Si muove per lo più da solo e, visti i progetti, non fatichiamo a crederlo.

«Da anni aspettavo il momento propizio per potare a termine questa lunga traversata, seguendo idealmente la traccia battuta trent’anni prima (fine marzo 1982) dagli sci dei miei amici e compagni di cordata Battista Pezzini e Federico Gualini e completando il loro percorso con la salita in vetta al Monte Adamello. Il progetto prevedeva il collegamento tra due cime molto care agli alpinisti locali, partire dal Colle San Zeno, sotto il monte Guglielmo, per arrivare in Adamello seguendo la via più logica. Negli anni, accompagnato da diversi amici, ho tentato di portarlo a termine, ma ho sempre incontrato qualche ostacolo: tempo avverso o neve impraticabile, condizioni fisico-mentali non ottimali o scarsa motivazione. Per questo avevo maturato la decisione di andare da solo: fare i conti con se stessi aumenta la probabilità di successo, anche se mi è spiaciuto un po’ non aver potuto condividere questa esperienza, unica nel suo genere». Non posso elencare tutte le traversate di Diego, ma ho letto alcuni racconti che mi ha inviato: li scrive in maniera minuziosa, annotando orari, emozioni, passaggi dei suoi percorsi. Come diari di viaggio d’altri tempi. Viaggi leggeri.

Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.


Maurizio Agazzi, lo scrigno delle Orobie

Sfatiamo un pregiudizio sui bergamaschi: non sono orsi e silenziosi. Sono gente appassionata e quando ti raccontano qualcosa non si fanno certo mancare le parole. Maurizio non fa eccezione. Di Bergamo, classe 1970, tecnico informatico dalle mille sfaccettature, al momento impegnato con i ragazzi del collegio dove ha trascorso la sua infanzia. Alla montagna non ci arriva prestissimo, intorno ai vent’anni, ma passa attraverso la Scuola dei Ragni di Lecco e presto ne diventa dipendente. Non pensate a un classico malato del grado e della prestazione. La montagna come terreno, non per uno sterile egocentrismo, anzi!

Da buon bergamasco si innamora delle sue Orobie, un territorio più vasto di quanto si pensi, che nasconde infinite possibilità e una storia alpinistica e scialpinistica spesso poco conosciuta. Maurizio lo capisce e decide di portare avanti un discorso del tutto personale di rivalutazione storica e culturale della sua terra. Senza clamore, ma muovendosi sul campo. Nasce così un’idea ambiziosa, il progetto Lo Scrigno delle Alpi Orobie nel quale, accompagnato da molti amici, tra cui Yuri Parimbelli, si pone l’obiettivo di salire e riscoprire tutte le 524 cime delle Orobie che superano i duemila metri. Attraverso escursioni, arrampicata, alpinismo e uscite con gli assi nei piedi porta avanti questa impresa titanica di riscoperta e condivide con le sempre più numerose persone che lo seguono sul suo blog la storia che ogni cima si porta dietro. «Dare la giusta visibilità. Non voglio portare le vie e gli anfratti di queste montagne nei classici tam-tam social. Raramente parlo di difficoltà. Preferisco raccontare cosa provo, cosa mi ha portato a scegliere quel determinato percorso. Magari parlo di chi ha aperto una via. Ti faccio un esempio con un alpinista a cui mi sento molto legato: pochi sanno chi era Agostino Parravicini. Magari lo ricollegano solo al trofeo omonimo. Eppure è stato un fortissimo dei suoi anni: pur essendo scomparso giovanissimo ha portato a termine una serie impressionante di ascensioni. Ripercorrerle per arrivare su una determinata cima diventa un modo per tramandare una storia che andrebbe persa. Questo modo di andare in montagna probabilmente è stato la chiave del successo del progetto». Terminato il censimento delle cime, l’entusiasmo non accenna a diminuire e inizia questa seconda fase del suo progetto di riscoperta eroico-romantica attraverso il mettersi in gioco con avventure dal sapore antico. Poco rumore, Maurizio è un uomo in missione.

Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.