Dream Line, la madre di tutte le linee

Cinque settimane. Cinque settimane per salire su un aereo da San Francisco a Chengdu, in Cina, arrampicarsi sugli 8.516 metri della quarta montagna più alta della terra, sciare la madre di tutte le linee e ritornare a casa dai figli di 9 e 11 anni insieme al compagno di avventura e di vita. Con un chiodo fisso nella testa: la Dream Line del Lhotse. Ottocento metri di canale con tratti oltre i 50 gradi, un toboga che si tuffa dritto a valle tra le rocce, in alcuni punti largo poco più di un metro. Una linea da sogno, tanto bella e perfetta da sembrare parte di un videogioco. Una linea a lungo bramata, solo sfiorata nel 2007 da Jamie Laidlaw. «Quando siamo arrivati in vetta con tutta quella neve e ci siamo resi conto che avremmo potuto sciare la Dream Line dall’inizio, senza calarci tra le rocce, è stato bellissimo, un momento che ricorderò per sempre: eravamo nervosi, ma appena abbiamo messo gli sci l’eccitazione ha preso il sopravvento» dice Hilaree Nelson, 45 anni, che nel 2018 ha preso il posto, dopo 26 anni, di Conrad Anker come capitano del Global Athlete Team di The North Face. Quella sciata da HIlaree e Jim Morrison è un’impresa incredibile in un’annata pazzesca, che ha visto anche la discesa di Bargiel dal K2. Come incredibile è la vita di questa donna originaria dello stato di Washington e del suo compagno. Nel 2005 Hilaree (allora si chiamava O’Neill) ha sciato il ChoOyu, nel 2012 è stata la prima donna a salire in 24 ore Everest e Lhotse senza ossigeno e vanta più di 40 spedizioni in tutto il mondo e discese dalla Kamchatka alla Bolivia. In India con Jim Morrison nel 2013 ha sciato la parete Ovest del Papsura (6.440 m), anche soprannominato in maniera poco rassicurante Peak of Evil (picco del male), una linea difficile di un’estetica ineccepibile che ripercorreva in parte l’ascensione neozelandese del 1991. Fino al 2011 le vite di Hilaree e Jim erano separate e Jim felicemente spostato e padre di un bimbo e una bimba di cinque e sei anni. La sua famiglia sparisce in un istante in un incidente aereo e la vita va in frantumi. Poi si sono conosciuti al Makalu e dopo sei mesi hanno iniziato a frequentarsi. Ora per Jim «ci sono i suoi bambini ai quali preparare cereali e uova a colazione». E le foto di una giornata pazzesca, il 30 settembre 2018, da guardare e riguardare per tutta la vita.

Hilaree, è giusta la definizione adventurer per descriverti?

«È una bella domanda: negli ultimi due anni ho iniziato a dire che sono una adventurer perché era un ottimo ombrello sotto il quale racchiudere la mia passione per lo sci, soprattutto per il ripido, diciamo che anche expedition skiercalzerebbe a pennello».

Da dove arriva questa passione per la montagna e l’avventura?

«Sono originaria dello stato di Washington e ho messo gli sci a tre anni, ma è stato all’università che ho iniziato a uscire di pista, a mettere le pelli, ad arrampicare e salire sui primi quattromila del Colorado. Poi, appena finiti gli studi, sono andata a Chamonix ispirata da un film di sci ripido. Volevo restarci un anno e mi sono fermata per un lustro… avendo la fortuna di sciare un po’ con tutti i grandi, da Shane McConkey a Jeôme Ruby. Quando ripenso a quegli anni, soprattutto a quel primo anno, mi rendo conto che sono una sopravvissuta perché facevo cose per le quali non avevo esperienza».

© Nick Kalisz/Dutch Simpson

Come hai iniziato a sciare in giro per il mondo?

«È iniziato tutto a Chamonix, credo nel 1999, ho incontrato qualcuno di The North Face e dopo pochi mesi mi sono ritrovata in spedizione in India. Mi hanno cercato perché avevo fatto delle ripetizioni importanti, probabilmente in alcuni casi le prime discese al femminile. In quegli anni riuscivo a portare a casa qualche soldo partecipando a gare come i campionati del mondo di sci estremo e li investivo in spedizioni».

Che cosa ti spinge a imprese come quella del Lhotse?

«La voglia di andare sempre più in alto e in luoghi sempre più selvaggi e poco affollati, questa è la mia droga: il Lhotse in autunno univa tutte le caratteristiche. Quando guardi quel canale dalla vetta dell’Everest non puoi non rimanerne incantato».

L’idea di sciarlo è nata nel 2012?

«Gli sci li avevo portati e già nel 2007 quando Laidlaw aveva cercato di sciare il Lhotse dalla vetta ne avevo sentito parlare, però quell’anno non era proprio sciabile, non c’era neve. E anche quando siamo arrivati a settembre non eravamo sicuri che lo fosse. Abbiamo scelto l’autunno per trovare meno gente sulla montagna e più neve, ma eravamo anche in balia dei terribili venti che soffiano in quel periodo in quota».

E in effetti al Lhotse di gente non ne avete proprio trovata…

«No, eravamo gli unici sulla montagna, io, Jim, i fotografi Nick Kalisz e Dutch Simpson e cinque tra sherpa e icefall doctor. È stato incredibile perché i fotografi non erano mai andati oltre i 6.000 metri e sono arrivati in vetta, c’era un’atmosfera molto elettrica, anche tra gli sherpa».

Avete usato l’ossigeno?

«Non mi piace usarlo, ma a 8.200 metri abbiamo deciso di farlo perché per noi la priorità era la discesa, arrivare in vetta nei tempi giusti e nelle condizioni per scendere e a quella quota l’ossigeno aiuta a scaldare il corpo. Da lì alla cima ci abbiamo impiegato due ore, senza ce ne sarebbero voluto cinque».

Raccontaci della discesa, soprattutto del Couloir.

«C’era tanta neve e in salita abbiamo fatto fatica, ma non immaginavamo che ce ne fosse così tanta lì dentro. Tutta la discesa, compresa la Face, fino al campo 2, è di circa 2.100 metri di dislivello, e ha preso circa quattro ore, ma la maggior parte del tempo l’ha richiesto la sezione del Couloir. Siamo stati vicini perché era la parte più impegnativa, l’ampia parete sottostante l’avevamo già provata nella fase di acclimatamento e lì ci siamo allontanati un po’ e abbiamo gustato la discesa. Sciare con Jim, compagno anche nella vita, mi dà una grande fiducia».

Come era la neve? Che attrezzatura avete usato?

«Cambiava a ogni curva, in vetta era zuccherosa, in alcuni tratti si sprofondava, altre volte c’era la costa che si rompeva. Non si può dire bella neve, ma siamo riusciti a divertirci. Abbiamo lasciato i piumini e siamo scesi con la tuta da sci. Il feeling che cerco è quello dello sciatore, voglio essere leggera e non avere qualcosa che rende l’esperienza meno sciistica. Non avevamo copriscarponi e le scarpe erano Tecnica Pro Guide, gli sci Blizzard Zero Pro e gli attacchi Dynafit. Non è stato facile salire con quegli scarponi, ma in discesa con un quattro ganci è tutta un’altra cosa. Abbiamo usato la piccozza solo in salita e bastoni normali da sci».

Come vi siete preparati?

«Avevamo solo cinque settimane a disposizione, per la quota siamo stati in parte aiutati dal fatto di vivere a Telluride, a 2.600 metri di quota, e abbiamo usato le tende ipobariche, che simulano l’atmosfera che si trova a quelle quote, per guadagnare tempo. Il difficile era arrivare dall’estate e passare all’inverno. La salita dal campo 3 alla vetta ha richiesto 12 ore e per allenarci a stare fuori così tanto abbiamo programmato lunghe uscire nei dintorni di Telluride, sulle vette più alte e rocciose. E poi siamo scesi di corsa».

Cosa vuol dire essere adventurer, sciatrice estrema e allo stesso tempo madre?

«Essere madre è un mestiere difficile, duro, richiede tanta pazienza. Salire un ottomila e scenderlo è altrettanto duro, ma sono due cose diverse. Una volta le tenevo separate, ora cerco di farle andare d’accordo. Porto a scalare i miei figli, li porto ai meeting degli atleti The North Face, parlo loro dei rischi che si corrono. Ma si può morire anche andando in auto. Quando scio la concentrazione è massima su quello che faccio, ma poi penso a loro che sono così lontani e mi mancano, mi entrano prepotentemente nella testa. Con il mio ex marito abbiamo l’affidamento condiviso, una settimana a testa. Al Lhotse era il viaggio più lungo e sono stati con lui, poi è andato in vacanza. Per fortuna abbiamo, sia io che il mio ex marito, dei genitori comprensivi e molto disponibili».

Che cosa fa nella vita Hilaree, oltre a sciare?

«Vivo grazie al ruolo di capitano del Global Athlete Team di The North Facee girando per il Nord America a tenere conferenze per il National Geographic».

L’Himalaya, gli ottomila, sono il futuro dello sci ripido?

«Diciamo che questa affermazione è sulla strada corretta, ma non limiterei tutto agli ottomila, ci sono vette di seimila, settemila metri in India o in Pakistan con linee incredibili».

Il prossimo obiettivo?

«Vorrei tornare in Himalaya fra un anno, magari a rivisitare delle linee già fatte, ma il progetto non lo dico».

Toglici una curiosità, se mai fosse possibile confrontarle, qual è la più bella linea sciata, il Papsura o il Lhotse?

«Il Papsura è stata la più impegnativa, la più difficile, non hai un attimo di tregua, non puoi dividerla in sezioni e tirare il fiato come al Lhotse. Il Lhotse la più bella sorpresa, divertente. Sono state due discese molto diverse, che metto prime a pari merito, ma nella vita è bello anche divertirsi».

Hai mai sciato in Italia.

«Ho fatto una delle giornate più memorabili che ricordi, a fine anni novanta, sul Marinelli al Monte Rosa».

A volte la dream line può essere anche dietro casa…

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© Nick Kalisz/Dutch Simpson

Il Grande Circolo

Il Grande Circolo è «un’ode a questa regione». Che si chiama Sud Tirolo, o Alto Adige. Dove il Gruppo Oberalp affonda le proprie radici, dove nascono le idee e le ispirazioni che portano allo sviluppo dei prodotti Salewa. Un tour lungo i confini regionali con l’Austria, sui 150 chilometri da Sesto a Colle Isarco, muovendosi a piedi e in bici. Un’idea realizzata in senso inverso nell’autunno 2018, ma la voglia di attraversare questo magnifico territorio anche nella sua veste invernale ha fatto sì che, verso la fine di febbraio, l’avventura iniziasse esattamente da dove era finita pochi mesi prima, a Sesto. Ed è così che insieme a un agguerrito gruppo di colleghi di diversi magazine europei mi sono ritrovato in questo caratteristico paese: sfondo le Tre Cime di Lavaredo e le guglie disposte come le ore sul quadrante di un orologio delle Dolomiti di Sesto.

Fin da subito è stato chiaro che si sarebbe trattato di un vero e proprio viaggio con gli assi ai piedi. L’auto l’avremmo ripresa dopo sei giorni passati a spostarci sugli sci. L’idea di questo approccio mi è subito piaciuta: nessun mezzo, solo le nostre gambe per scoprire un territorio come il Sud Tirolo che fa della sostenibilità una propria caratteristica. O al massimo delle silenziose e pulite e-bike, bici a pedalata elettrica assistita. È ispirandosi proprio a questa idea che il marchio Salewa vuole testare i capi tecnici che impiegano prodotti del territorio come la lana degli allevatori affiliati alle associazioni di produttori Tiroler Lamm e Villnosser Brillenschaf.

Nel gruppo la sostenibilità è vissuta come parte della cultura di famiglia e impone un ragionamento sul lungo periodo, in termini di generazioni. Quello che in passato era semplicemente parte della cultura manageriale, con la crescente internazionalizzazione è diventato un vero e proprio manifesto fatto di impegno verso le persone che lavorano per il Gruppo Oberalp o i suoi fornitori e sviluppo di prodotti sostenibili a partire dal territorio.

Il programma che Egon e Steffi ci illustrano pare tutt’altro che soft. Skialp cento per cento sviluppo, dislivelli e pochi compromessi. La quantità della neve al suolo non è eccezionale, ma è senza dubbio decisamente più abbondante rispetto alle Alpi dell’Ovest anche se è qualche settimana che non nevica ed ha fatto parecchio vento. Il gruppo è eterogeneo e proprio come nelle barzellette: ci sono un francese, un polacco, un tedesco, due italiani, una cecosl… Ma già dai preparativi in hotel si capisce che sono tutti parecchio agguerriti e preparati.

Vado a preparare lo zaino dove infilo anche qualche foglio e una matita. A volte mi piace appuntare a fine giornata brevi frasi che mi aiutino nei ricordi una volta finito tutto. Come nella più pura tradizione di un viaggio che si rispetti, si deve tenere un diario!

©Luca Truchet

25 febbario: Sesto - Kalkestein (AUT)

TAC, TAC, TAC!

Questa settimana dividerò la camera per lo più con Mathias, un giovane francese di Grenoble. Lo vedo alla sera preparare tutto lo zaino, pella pure, proprio come abitualmente faccio io. Altro che i miei soci che si presentano ai parcheggi in tuta e da enormi borsoni devono ricavare ancora uno zaino. Mi sta simpatico, mi sembra a posto. Impressione che verrà confermata anche nei giorni seguenti. Al mattino raggiungiamo Sesto con un trasferimento in bus che patisco come uno scolaretto in gita. Succo al pompelmo combinato al caffè: devo ricordarmi di evitarlo a colazione, per lo meno in rapida successione. Complice l’inverno avaro di precipitazioni e una rinvigorita passione per le cascate di ghiaccio, non ho sciato molto in questa prima parte di stagione. Aggiungiamo un periodo lavorativo tiratissimo e la prima sensazione mentre calzo gli scarponi è riassumibile con una parola: disagio. Si deve pellare una settimana di fila e noto subito che l’asse più largo che sfoggiano i miei soci è un timido 90 millimetri. Tirando fuori dalla sacca il mio 109 rosa mi sento osservato, poi per fortuna vedo che anche Luca non ha rinunciato ai fat. Dopo la prima discesa su neve varia, mi convinco di avere fatto la scelta giusta. Il peso farà gamba. Pronti via e si inizia pellare in un caldo anomalo. Mentre il gruppo si sgrana un po’, penso che questo itinerario sarebbe proprio piaciuto a mia moglie. Lei odia girare in tondo per arrivare in cima alle montagne e oggi sono solo un paio d’ore che vaghiamo tra vallette e boschi senza aver ancora avvistato la cima. Sono assorto nei miei pensieri quando, dopo un tratto più ripido, si reperisce la dorsale finale e il panorama si apre: le Tre Cime sullo sfondo. Mi ritrovo casualmente in testa al gruppo con un austriaco ben piazzato. Iniziamo a parlare di materiali e mi fa subito notare i suoi nuovi 85 light. Dopo una cinquantina di metri, con l’avvicinarsi della cima, noto che Alex, questo è il suo nome, alza il ritmo. Per dirla tutta, è palese che vuole farmi saltare: non parla più, ogni tanto lancia qualche occhiata laterale per vedere se sono ancora dietro di lui. L’ultima cosa che volevo fare oggi era una volata, però non siamo qua per divertirci e in queste occasioni mi si chiude la vena quasi avessi un tribale sul bicipite o un drago sulla schiena: alzo il ritmo e gli sto sulle code. Mancano 100 metri quando prova ad allungare. Maledetto. Soffro e gli pesto le code con le mie spatole 130 millimetri per fargli sentire la presenza. Rimango a contatto e per fortuna arriva la cima: non ci riusciamo quasi a parlare. Senza fiato mi bisbiglia in un italiano che sa di Sturmtruppen: Tu, TAC, TAC, TAC sui miei sci, io primo però. Sorrido. Non è ancora il momento. Chiusi gli attacchi la gravità diventa a favore e la musica cambia. Si entra in sintonia con tutto. La vallata austriaca nella quale arriviamo è bellissima. Si sta bene. Il Grande Circolo è iniziato: via i primi 1.500 metri per quasi 18 chilometri di sviluppo.

 

26 febbraio: Kalkestein (AUT) -  Anterselva

E abbiamo pure ripellato

Il programma prevede due salite e due discese e relative ripellate, come impone la moda attuale. Il cielo velato al mattino garantisce una prima salita e discesa dal Gailspitze su cemento armato. Canederli e succo di ribes in Val Casies e si riparte per il Passo Stalle. Il paesaggio, gli alpeggi e le malghe con i tetti candidi di neve sono davvero da cartolina. Oggi nessuna gara internazionale ma mi accorgo che, privo di avversari, l’austriaco Alex si sente un po’ smarrito e cerca sfogo tracciando sempre un proprio percorso senza inversioni. Il risultato deturpa un intero vallone vergine dove Steffi stava disegnando dolcemente la salita. Odio l’inutile evidenza di una traccia dritta quando ce n’è già una decisamente più armoniosa. Sono 2.000 metri e 23 chilometri che lo penso. Ma non è ancora il momento.

 

27 febbraio: Anterselva - Riva di Tures

Nieve primavera

Piccola discesa su una delle chilometriche piste da fondo e biathlon di Anterselva e si inizia a pellare nell’enorme vallone che conduce ai 2.814 metri della Forcella d’Anterselva. Per ovvie ragioni logistiche il giro è stato pensato per avere di prima mattina le salite su versanti esposti al sole e le conseguenti discese su esposizioni più fredde. Così ci ritroviamo a salire estasiati su un fantastico firn che i simpatici spagnoli del gruppo non esitano a definire come Nieve primavera! Oggi la tappa è assai articolata e, una volta giunti al colle, svoltando sul versante Nord si impone un cambio di assetto dove calziamo i ramponi per affrontare una spalla ripida prima dei pianori che conducono alla vetta del Monte Magro, a 3.273 metri. In questi casi il gruppo si disgrega un po’ per poi ricompattarsi sulla spalla prima dell’ultimo ghiaccio pianeggiante. Mentre alcuni decidono di rimettere gli sci, opto per proseguire a piedi: i sastrugi sembrano duri e portanti e procedo svelto, quando un rumore insolito per queste quote cattura la mia attenzione. È strano, ricorda quello sbuffare che si avverte per le vie di Pamplona prima che il gruppo di tori giri l’angolo di qualche vicolo. Una specie di locomotiva a vapore. Forza e muscoli in pieno sforzo. Con la coda dell’occhio vedo Alex che pompa a tutta con gli sci nei piedi cercando di raggiungermi. Da dove siamo la direzione della cima non è evidente ma è indubbio che mi stia puntando. Cerca il mio sguardo a distanza, rimanendo più largo sul pendio. Eccolo il momento che aspettavo. Con i ramponi mi muovo verso la parete più ripida che precede la cima, il toro austriaco mi affianca ma presto si rende conto della trappola: è troppo ripido per proseguire con gli sci! Appena sgancia gli attacchi e se li carica sullo zaino gli do via una sfiammata per la quale ho ancora adesso le gambe dure. Non mollo e arrivo in cima semicosciente. Non lo vedo. Servono un paio di minuti per vederlo apparire, non è manco in forcing, testa un po’ bassa che scuote a destra e a sinistra. Sempre con accento Sturmtruppen mi si avvicina: Come Formula 1, pit stop e si perde. Arrivano gli altri, è inconsolabile e sento che sta spiegando a Christian che ha sbaglaito tattica con sci e ramponi. Mi avvicino e battendogli una mano sulla spalla gli ricordo che nelle tappe tecniche da più di 2.000 metri, è li che… sì insomma quando il gioco si fa duro, i duri… Sono un bastardo, lo so. Gongolo pure. Discesa boarder cross passando per il Rifugio Roma. Io e Alex siamo diventati amici!

 

28 febbraio: Riva di Tures - Riobianco

Quel giorno

In tutti i viaggi che si rispettano arriva quel giorno, quello della fatica. Caldo, corte salite in sequenza e un’infinità di ripelli a mezzacosta. Gambe legnose uniformemente distribuite nel gruppo. Nessuno che osi fare il galletto. Paradossalmente, pur avendo oggi le discese più corte e meno continue, sono state quelle con la neve più bella. La giornata passa su questo balcone sulla valle di Riva di Tures, osservando le centinai di possibilità di canali, pareti e vie di misto sul lato opposto. Arrivati al passo Acereto, sotto alla panchina del punto panoramico, scopriamo che è usanza lasciare una bottiglia ad alta gradazione alcolica per i viandanti. Rinvigoriti affrontiamo la seguente discesa e i 10 chilometri rimanenti fino a Riobianco. Attraversando la provinciale di fondovalle sci sulle spalle, in fondo capiamo che muoversi così è una figata. Bello! La sauna dopo forse fin di più.

© Luca Truchet

1 marzo: Riobianco - San Giacomo di Vizze

Cuanto falta Dani?

Oggi è il giorno. Il passo obbligato per arrivare alla fine. Il tempo è piuttosto brutto e ventoso. La prima salita al Rifugio Porro (2.419 m) ci immette in un bel vallone tutto da slaminare: la neve fino ai 1.850 metri del lago di Neves è acciaio. Assordanti rumori di sterzate coprono il vento che sta rinforzando. Ripelliamo, la valle è severa e forse è meglio che non ci sia troppa polvere sui pendii laterali visto quanto è incassata fino al Rifugio Ponte di Ghiaccio. Sotto una bella nevicata calziamo i ramponi per superare un tratto piuttosto ripido. Quindi nuovamente pelli. Il passo guida scandito da Egon è perfetto: il gruppo rimane compatto e giungiamo tutti ai 3.183 metri del Passo Punta Bianca proprio nei pressi del più famoso Gran Pilastro. Il grosso è alle spalle e salta fuori pure una bottiglia di birra per brindare, nonostante il vento impetuoso. Finalmente sul ghiacciaio godiamo di un po’ di polvere mentre il tempo si apre: cinque centimetri, ma sufficienti per divertirsi. Lungi dall’essere arrivati, ci attendono ancora una risalita in un ripido canale contornato da cascate di ghiaccio e diverse a scaletta in boschi ripidissimi, per non perdere quota. Per l’occasione con Dani, uno dei ragazzi spagnoli, si riesuma un vecchio tormentone di un viaggio in Bolivia, quando alla domanda di quanto mancasse a destinazione, Cuanto falta?, l’autista rispondeva sempre imperterrito urlando Una hora! E fu così che con il sopraggiungere del buio la valle iniziò a riecheggiare di improbabili esclamazioni in spagnolo pronunciate con accenti tedeschi, italiani e polacchi. 2.600 metri di dislivello per 33 chilometri: Cuanto falta Daniiiiiiii? Una hora!!!!

 

2 marzo: San Giacomo di Vizze - Colle Isarco

Easy Rider

Meno male che oggi iniziamo e finiamo pedalando con delle e-bike, vista la giornata di ieri e qualche birra che abbiamo dovuto assumere per reintegrare. Un branco di camosci ci sfreccia davanti poco prima di giungere in cima all’ultima salita con gli sci, presso Passo Chiave. Da qui in poi è tutta discesa fino alla statale del Brennero e quindi a Colle Isarco. Come bambini in sella con gli sci sulle spalle. È bello finire in discesa!

10.200 metri di dislivello e 140 chilometri di sviluppo, un’infinità di montagne da osservare e scrutare. Contento di aver vissuto questa esperienza, la parte invernale del Grande Circolo è stato un vero viaggio by fair meansalla scoperta di un territorio, lambendone cime, valli e confini. Un severo e realistico test per nuovi materiali e un’avventura dove il modo in cui ci si è mossi in montagna ha fatto passare in secondo piano la neve di alcune discese. Dopotutto il bello dei viaggi è prendere quello che si trova, adattarsi e proseguire verso la tappa successiva, scoprendo una volta di più quel fantastico mezzo di trasporto che sono sempre stati gli sci sulla neve!

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©Luca Truchet

Paul Bonhomme, lo sci ripido come esplorazione

Dieci maggio 2018. La luce in fondo al tunnel è quella che ci coglie al termine del traforo del Frejus. Piove a dirotto sul lato francese, il che ci fa buttare un occhio alla temperatura riportata nel cruscotto della macchina: «Bene! Questa in alto attacca…». In primavera inoltrata, durante i giorni di pioggia, spesso il pensiero dei malati di sciva infatti alla neve che, con zeri termici abbastanza elevati, riesce a incollarsi sulle pareti tipicamente glaciali e rocciose. Oggi dopotutto stiamo andando a intervistare un personaggio che, senza temere di sbagliarci di molto, starà pensando esattamente la stessa cosa guardando tutta questa acqua che cade dal cielo sopra Annecy.

Come tutte le volte che capita di andare a conoscere davvero qualcuno di cui hai sentito parlare in maniera indiretta o attraverso i canali social, spesso ti immagini il primo istante in cui te lo troverai di fronte. Nessuna ansia particolare, per carità, solo un gioco che cerca di anticipare il tempo. Arriviamo ad Annecy nel luogo in cui ci siamo dati appuntamento probabilmente imboccando una corsia riservata ai bus; piove a manetta e questo non aiuta a interpretare le indicazioni di una circolazione urbana non esattamente ben studiata. Per farci riconoscere molliamo l’auto sul marciapiede di fronte al negozio di articoli sportivi dell’appuntamento: siamo gli inviati di una testa di sci italiana dopotutto, ed è più pratico che scrivere su Facebook un messaggio a Paul.

Dall’altra parte della strada un uomo non troppo alto e minuto, piumino rosso e cappellino con la visiera, ci si fa incontro. È lui! È Paul, quello che vuole concatenare in giornata con partenza da Chamonix le quattro pareti dell’Aiguille Verte: sci de pente raidee alpinismo, per un viaggio di oltre 4.000 metri. Roba da atleti e mega allenamento, pensiamo. «Salut, je suis Paul!». Paul lascia uscire una boccata di fumo sotto la pioggia: sta fumando una sigaretta. Lo seguiamo in un caffè del centro non distante dalle rive del lago di Annecy, è mattina, non c’è quasi nessuno e possiamo stare tranquilli e chiacchierare. La skilometratada Torino per venire fino a incontrare questa Guida francese ha una ragione ben precisa.

Sconosciuto forse ai meno attenti, Paul Bonhomme, classe 1975, è un alpinista a tutto tondo e sta portando avanti una sua particolare idea di sci. Si è allenato tutto l’inverno sui pendii più difficili degli Aravis, seguendo le orme di Pierre Tardivel per un grande e personalissimo obiettivo: percorre a piedi in salita e in sci i quattro versanti di una delle montagne simbolo dell’alpinismo nel massiccio del Monte Bianco, l’Aiguille Verte. Proprio quella cima marcata indelebilmente da una delle più celebri imprese della storia dell’alpinismo ad opera di Gaston Rebuffat. «Avant la Verte on est alpiniste, à la Verte on devient montagnard» giusto per capirci. L’ambizioso progetto 4Faces* prevede la partenza da Argentière, la salita in cima alla Verte per il Couloir Couturier, la discesa sul versante sud-orientale della montagna per il canalone Whymper, la risalita per il Couloir à Y e la discesa della parete più austera e difficile: il Nant Blanc. Il tutto in giornata. Ecco perché i chilometri per venire a conoscere Paul li abbiamo fatti più che volentieri!

© Federico Ravassard

Chi è Paul Bonhomme? Cosa fa? Presentati ai nostri lettori.

«Allora, sono una Guida di alta Montagna, nato in Belgio ma con origini Olandesi, un bel mix! Con la mia famiglia ho vissuto fino a 18 anni a Parigi per poi trascorrere circa dieci anni con mio fratello Nicolas nel Briançonnais. Ho iniziato con l’arrampicata a tredici anni, gareggiando anche nel campionato nazionale. Gli sci li ho messi a due anni, ma non ho mai preso lezioni fin verso i 19, quando ho deciso di diventare maestro. Così mi sono avvicinato alla montagna, mi ritengo un appassionato prima di tutto. I primi compagni sono stati mio fratello Nicolas e il nostro migliore amico, Jean Noel Urban, due sciatori e alpinisti. Purtroppo Nicolas ha perso la vita sui pendii del Gasherbrum 6 nel 1998, mentre Jean Noel mentre era con gli sci sul Gasherbrum 1 nel 2008. Ecco perché il 2018 per me ha un significato particolare. Dopo la morte di mio fratello, nel 2000, ho deciso di diventare Guida alpina e ho di nuovo contattato Jean Noel, che era un po’ restio a venire in montagna e a sciare con me per quanto era successo a Nico. Insieme avevano sciato nel 1996 la Wickersham Wall sulla parete nord del McKinley: un versante pazzesco. Ho poi iniziato a sciare sul ripido. Non una passione totalizzante, mi piace fare diverse cose in montagna e variare».

Sciatore, alpinista, un appassionato a tutto tondo…

«Sì, assolutamente. Ad esempio ho fatto anche traversate come l’Annecy - Chamonix in meno di due giorni con alcuni compagni, però non mi piace pensare alla montagna solo come a uno sport. Anzi, non è uno sport, ma è esperienza, sperimentazione, è vita! C’è una grossa differenza rispetto alla performance pura».

Sei stato anche in Himalaya, vero?

«Ben nove volte. Quattro per dei trekking con i clienti. Nel 2005 con Jean Noel Urban e Nicolas Brun per provare a sciare il Cho-Oyu (8.201 m, sciato dal solo Jean Noel) e lo Shishapangma (8.027 m) per la parete Sud-Ovest. Nel 2007 sono stato sul Dhaulagiri. Come ti dicevo a Jean Noel non piaceva molto sciare con me per via dell’incidente di mio fratello. Su quel tipo di terreno ho iniziato a sciare con Nicolas Brun. E poi da quando non sono più vice-presidente del SNGM (Syndicat National des Guides de Montagne) per sciare ho più tempo!».

L’anno scorso il Couturier in giornata, poi grandi allenamenti di fondo, quindi gli itinerari più difficili degli Aravis… qui si fa sul serio.

«Devo dire che non mi alleno in modo specifico. Solo per questo progetto 4Faces, nelle giornate in cui tornavo in rifugio con i clienti, mi è capitato poi di rimettere le pelli e salire ancora e scendere per conto mio. Ma solo per il progetto! Ti basti pensare che fumo. L’anno scorso, durante il concatenamento con gli sci tra Annecy e Cham, mi sono sentito bene su terreno ripido e così ho iniziato a immaginare questo progetto. Ho partecipato all’UTLO (Ultra Trail Lago d’Orta) e mi sono allenato per quello, da novembre a gennaio ho avuto più tempo e ho curato forse un po’ di più questo aspetto. Poi ho iniziato la mia stagione normale con i clienti».

Hai altri progetti per il futuro?

«Non so, ho molti altri progetti, ma non ho niente da dimostrare agli altri. Ho una mia idea un po’ pazza, un viaggio con gli sci, ma su terreno ripido: è il mio concetto di evoluzione di questa disciplina. Il gioco consiste nell’essere sufficientemente preparato per salire, ma il vero obiettivo è essere ancora abbastanza concentrati per discese di quel tipo. Questo è il vero goal che mi sono preposto! È solo sci in fondo, ma dove la componente alpinistica diventa sempre più importante. Come scalare su terreno d’avventura. Poi per me lo sci estremo è in solitaria».

Cosa cerchi in una linea ripida, ti interessa più aprire o ripetere?

«Devo ammettere che non ho preferenze. Nel ripetere mi piace pensare a chi ha aperto e scovato quella determinata linea. Un modo per rendere omaggio al primo. Per esempio durante la mia recente ripetizione del Couloir Lagarde sulle Droites ho ripensato ad Arnaud Boudet nel 1995 e alla storia degli altri sciatori che ci sono passati. Vogliamo parlare di quando si è sulle discese di Pierre Tardivel?».

La mentalità è davvero cambiata oggi?

«Sì, a partire dai materiali, basti pensare all’avvento e alla diffusione della tecnologia low-tech degli attacchi e agli sci fat. Insomma, una serie di contributi derivanti sia dallo skialp classico che dal freeride. E poi circolano più informazioni sulle condizioni delle discese. È un insieme di fattori. Generalmente però per emergere nelle diverse discipline alpinistiche occorre essere più settoriali, mentre nello ski de pente è importante essere il più completi possibili, non solo buoni sciatori. Che per me vuol dire essere uno sciatore buono in tutte le condizioni che puoi incontrare. Quindi non solo tecnicamente. Alcuni dicono persino che Jean Marc Boivin non sciasse in modo eccelso, eppure… Sulla tecnica mi concentro molto quando sono su terreno ripido ed esposto, quando devo curvare».

Ti ispiri a qualcuno?

«È la storia stessa dell’alpinismo che mi affascina, per esempio personaggi come Berhault. In fondo questo mio progetto 4Faces è proprio un viaggio in montagna».

Credi di poter ispirare qualcuno?

«Innanzitutto penso che sia fondamentale dire la verità quando racconti le tue esperienze. Mi piace molto poter condividere ciò che faccio, ma trovo importante spiegare bene tutto, per esempio gli aspetti tecnici, in modo che chi legge capisca bene le difficoltà e la mia impresa non diventi un incentivo a cimentarsi su certe pareti sottovalutandole. Come dicevo all’inizio, non è uno sport questo tipo di sci. Se uno ti chiede quando andare su determinati pendii, vuol dire che non è pronto perché non ha l’esperienza necessaria per valutare lui stesso quando trovare il giusto momento».

Da una parte Kilian, da una Jérémie Heitz e poi gente semi-pro che scia tutto, tutti i giorni e in qualsiasi condizione, come si vede dopo ogni nevicata su discese come la Mallory: tu dove ti collochi in questo universo?

«In mezzo, almeno così penso!». (ride)

Domanda classica, che materiali usi?

«Sci White Doctor LT10, 98 mm al ponte, 175 cm per circa 3,4 kg al paio. Sono prodotti da Eric Bobrowicz a Serre Chevalier. Non propriamente leggeri, cercavo uno sci robusto, in modo da non doverlo cambiare ogni anno! Un attrezzo polivalente che uso durante tutta la stagione con i clienti. Poi attacchi low-tech e scarponi Scarpa F1».

In conclusione, il sogno nel cassetto?

«Mah, molti in realtà: tornare a sciare sul Pumori prima di tutto. Ci avevo già provato nel 2011 e 2016, ma ero troppo stanco, quarantacinque minuti per calzare gli sci sull’enorme pendio finale per poi rendermi conto che con quella neve durissima non avrei potuto fare una curva e tenerla. Sarei morto. Ho fatto un traverso di cento metri e poi altri quaranta minuti per togliere gli sci e rimettere i ramponi: ero esausto. Mi piacerebbe riprendere con le spedizioni in quota, ma ho superato i cinquanta, ho quattro figli e devo pensare a loro. Il sogno sarebbe sciare il Couloir Hornbein all’Everest dopo averlo risalito. Lo ritengo fondamentale per capirne tutte le insidie. E poi il Laila Peak magari, una montagna dalle forme bellissime. Qui sulle Alpi? L’evoluzione passerà secondo me per pareti con tratti di misto che potranno essere percorse magari in condizioni di neve difficile, o non propriamente bella, perché solo in quel momento ricopre certi passaggi. Qualche idea futura? Preferirei non…».

 

* Il 18 maggio 2018 (poco prima che questa rivista andasse in stampa) Paul ha fatto un primo tentativo per realizzare il progetto 4Faces: partito poco prima delle 23 da Argentière ha risalito il Couloir Couturier, quasi 2.800 metri di dislivello e, alle prime luci dell’alba, dopo un piccolo riposo in cima, ha sceso il Couloir Whimper sul versante Telafrè della montagna. Una volta alla base, accompagnato da Vivian Bruchez, giovane Guida e sciatore di gran classe di Chamonix, ha risalito il Couloir à Y sul versante Ovest della montagna: terreno tecnico e alpinistico per ritrovarsi una seconda volta sui 4.121 metri della Verte. A quel punto è iniziata la loro discesa del Nant Blanc, discesa mitica del 1989 a opera di Jean Marc Boivin, ripetuta solo dieci anni dopo da Marco Siffredi in tavola. Terreno d’elite che ha visto cimentarsi, specie negli ultimi anni, i più fini sciatori del panorama europeo, a partire da quel Tardivel che ne ha aperto una variante più sciistica. Purtroppo le condizioni non sono state giudicate sufficientemente sicure per poter completare la discesa in quanto la neve dei giorni precedenti non aveva incollato a sufficienza. Paul e Vivian, ritornati in cima, sono scesi a valle per il Couloir Couturier (5.4 E4) a fine giornata con quasi 5.000 metri di dislivello nelle gambe… non un gioco da ragazzi.

Questo articolo è stato pubblicato sul Skialper 118, info qui

Bonhomme durante il tentativo di 4Faces ©Julien Ferrandez/UBAC Media

Tof Henry, 100% chamoniard

Chamonix è la capitale. Non ci sono scuse, tanto più se si parla di sci. I più forti e ambiziosi sciatori di tutto il mondo vengono da sempre sul versante francese del Monte Bianco. Il paese è una fucina di talenti e meteore che ogni anno spingono lo sci libero verso qualcosa sempre oltre. Questo luogo ha generato il mito stesso dello sci estremo. Tutte le nuove tendenze, i materiali e i modi di interpretare lo sci sono partiti da qui. 

L’ambiente è dinamico a Cham: ogni anno arrivano nuovi skier affamati di affermazione. Alcuni si fermano addirittura in pianta stabile. A Cham ci sono gli skibum che vengono a fare la stagione e sciare tutti i giorni vivendo con lavoretti occasionali la sera, a Cham ci sono i local, e poi i super local, ci sono gli inglesi, gli ammerigani che vivono qui da vent’anni, ci sono i finnici dannati mangia pesce che sono dei duri e ogni anno spaccano qualcosa proprio in faccia a qualcuno. Ci sono i pro, i fotografi, i fotografi pro, ci sono un sacco di #hashtag che rompono la quiete di quelli che sciano solo il fine settimana, ma che prima o poi vengono qui per confrontarsi con qualche big line… e trovarla con le gobbe magari. 

Sponsor, ambassador, gente che fa pubblicità gratis ai brand per sentirsi un po’ pro. Cham è irresistibile per il mondo del freeskiing. E i marchi lo sanno e qui trovano il miglior laboratorio possibile per innovarsi e progredire nella ricerca di tecniche, materiali e tendenze. Descritta così ci si sente quasi mancare il fiato, sembrerebbe un posto infernale: caotico  e competitivo. Ma oggettivamente per lo sci su grandi linee è il posto più bello del mondo. Non c’è niente di paragonabile che offra una tale concentrazione di linee, terreno tecnico e possibilità come l’area del Monte Bianco. E con accessi spesso serviti da impianti che ti catapultano nel cuore del massiccio.

Tutto questo fa sì che la Chamonix che scia sia una vera e propria comunità. Con le proprie regole, con le proprie crew e le proprie rivalità. Ci si saluta sempre tutti certo, ma più per quieto vivere. A volte, venendo a conoscenza di alcuni retroscena, cresce in me la convinzione che l’abusato ritornello There are no friends in a powder day sia stato coniato proprio da queste parti. La febbre che si respira, quell’aria vibrante delle lunghe code della stazione di partenza della Mama Midi nei giorni post nevicata, non sono una leggenda. Il posto sulla prima cabina e la corsa all’uscita della grotta ghiacciata e al suo cancellino che immette sulla cresta sono la prassi da queste parti anche per chi ha la possibilità di sciare tutti i giorni e magari ci si aspetta viva più tranquillamente la pressione della prima traccia. 

Tof Henry, classe ’84, fa parte di questa comunità da anni. Anzi, ci è proprio nato a Cham e in un ambiente così competitivo ha saputo imporre il proprio modo radicale di sciare senza snaturarsi, ma evolvendo come sciatore e come persona. Prima di metterci in viaggio e attraversare il traforo del Monte Bianco, nutrivo il sospetto che mi sarei trovato davanti a uno skier senza compromessi, non solo per il modo di sciare, ma per il suo respirare neve durante tutto l’anno. Sono poche quelle persone che sono davvero un tutt’uno con un qualche elemento naturale. Per certi versi Tof mi ha ricordato i surfisti che si nutrono delle sensazioni che sanno dare le onde. Una volta arrivati davanti all’Elevation Bar, giusto dopo Moo, ci troviamo davanti a questo ragazzone mentre sta finendo la sua birra. Tof è alto. Almeno 190 cm per 85 kg, giusto per sfatare il mito che quelli alti non possono sciare bene. Un saluto, quattro chiacchiere lungo la strada e siamo nel suo appartamento in un ambiente cordiale e rilassato. Niente di sfarzoso tipo chalet, ma la casa di uno sciatore con assi dietro la porta del salotto e diversi modelli di Armada ancora da forare per la nuova stagione vicino alla finestra. Una mountain enduro nell’ingresso e qualche immagine storica del Monte Bianco con alcuni ritratti della famiglia. 

© Daniel Rönnbäck

Forse lo avrete capito: Tof Henry è uno Chamoniard. Vero. 

E noi siamo qui perché scia forte, molto forte. Come pochi in giro oltralpe, come nessuno o quasi qui a Sud delle Alpi. Il suo marchio di fabbrica è la velocità, la fluidità portata ai massimi livelli su linee classiche e le grandi pareti glaciali del Monte Bianco con le migliori condizioni possibili. La ricerca della polvere e di quella neve che ti permetta di osare a fondo linee ripide ed estreme per pendenza e ambiente. Anello di congiunzione tra freeride puro e sci estremo come pochi personaggi, Tof interpreta lo sci in maniera totalizzante seguendo quella sensibilità per l’elemento bianco sviluppata negli anni sui più bei pendii del massiccio italo-francese.

Tof Henry un vero Chamonix kid! Per iniziare la nostra chiacchierata è sempre giusto conoscersi un po’ meglio: raccontaci chi sei, da dove arriva la tua famiglia.

«Assolutamente! CHX 100%, da quattro generazioni almeno. Essendo dell’84 ormai non proprio un kid, ma un vero Chamoniard. Non arrivo però da una famiglia di montanari: mia madre lavorava in un ufficio turistico, i miei genitori non sono mai stati dei veri appassionati della montagna pur essendo nati e vissuti qui. Ovviamente a sciare, come ogni ragazzino di Cham, ho iniziato con gli sci club, poi verso i quindici o sedici anni mi sono avvicinato al freeride con l’arrivo degli sci fat. Tutto normale insomma. Mi sono fatto un po’ il giro con cui andare in montagna. Ma se devo ricordare una persona in particolare, ti dico il mio amico Pif, creatore dei monosci Snowgun. Ho iniziato a girare con lui e devo dire che ho imparato molto da quel modo di sciare e dalle sensazioni che si provano con un monosci. Poi ho conosciuto Nathan Wallace. Lui è un americano che si è trasferito in paese nel 1998 per sciare. Forse la persona con il migliore fiuto per le condizioni di neve di tutta Cham. Era molto più grande di me e io ero solo un ragazzo. C’era un po’ di diffidenza inizialmente. Poi abbiamo imparato a fidarci l’uno dell’altro. In fondo abbiamo avuto una storia simile come skier perché ci siamo un po’ fatti da soli. Nat è stato il mio padre spirituale, Daddy Nat lo chiamo: mi ha aiutato moltissimo a capire le condizioni della neve, a essere nel momento giusto nel posto giusto. Mi portava con lui, capivo come sceglieva i posti e le pareti. Ora abbiamo lo stesso punto di vista su molti aspetti. E adesso sono io che a volte porto lui (ride), ci fidiamo molto uno dell’altro in montagna».

È così che nasce la tua passione per il freeski?

«Esatto, in quegli anni! Ho sempre adorato essere nella neve. Trovarmici dentro nel vero senso della parola. Ho bisogno della neve. È il mio elemento. Lavoro presso una scuola sci, ma mi prendo il mio tempo per sciare in stagione, per essere pronto al cento per cento quando arriva il momento giusto. Se sto fermo o non mi prendo il tempo per sciare, avverto che poi ci vuole un po’ di tempo per ritornare al top della forma. Quando in inverno esco dalla stazione di Helbronner durante una nevicata, mi basta sentire la sensazione che mi restituisce il bastone quando lo infilo nel manto nevoso per capire che neve troverò e le condizioni che ci sono. Mi capita spesso, non sempre, qualche spavento lo si prende e c’è comunque qualcosa da imparare: per esempio adesso, anche nei giorni di polvere, ho sempre dietro una corda».

Un dare e avere con la montagna che vivi, senza tirarti indietro

«Eh sì! Al Pavillon durante e dopo le nevicate si deve sempre sciare sulle creste, sulle spine. Mantenendosi sul filo il più possibile, nei catini è molto pericoloso. Il terreno sottostante è brutto. Un giorno c’erano condizioni pessime. È superfluo dire che siamo stati troppo confident conoscendo molto bene il posto. Tutti dopo dieci curve, anche gli inglesi, sono risaliti giudicando l’uscita troppo pericolosa. Per noi è stato un mettersi in gioco in modo totale, quasi un combattimento cercando di dare fondo a tutta la nostra esperienza per arrivare in basso. Ci siamo assicurati agli alberi con la corda in alcuni punti per bonificare i pendii. Siamo stati sempre sulle creste. Un gioco, senza dubbio pericoloso, lo so».

Questo gioco vale la candela? In caso di errore il prezzo è alto. 

«Concordo nel parlare di errore dello sciatore in caso di valanga. Se succede, vuol dire che si è sbagliata qualche valutazione in merito alla neve, al percorso o al timing. È un gioco per cui il prezzo potrebbe essere altissimo, lo so. Ad esempio non azzardo più sulle discese della Midi, tipo il Glacier Rond, in inverno. Però i giorni di neve fonda sanno regalare sensazioni uniche per le quali vivo. È una domanda difficile».

© Daniel Rönnbäck

Infatti, specie all’inizio della stagione, la ricerca della polvere, per esempio all’Helbronner, porta a muoversi alla ricerca della prima traccia su certe linee… Come ti poni di fronte al rischio, andando a sciare linee come i Cavi, Cesso, Passerella già durante la nevicata.

«È vero, a volte capita che scendiamo quelle linee nelle prime schiarite durante una perturbazione, nella yellow light: quella luce che filtra tra i fiocchi che formano le nuvole, una luminosità che sa regalare una visibilità e un’atmosfera uniche. C’è da dire però che conosciamo molto bene il terreno. Sciamo quelle linee quasi tutti i giorni precedenti la perturbazione e anche durante. In questo modo sappiamo come era la neve e ne percepiamo i minimi cambiamenti, quanta ne ha fatta e come. Spesso sul finire della perturbazione il vento non ha ancora agito. Visti da fuori sembriamo imprudenti, ma calcoliamo molto e spesso torniamo indietro. Ripercorriamo per lo più le tracce nostre del giorno prima e aspettiamo di avere la visibilità. Questo è fondamentale, e l’ho imparato sulla mia pelle»

Qualche brutta esperienza?

«Risale all’anno scorso. Ci siamo buttati sotto ai cavi di Helbronner con poca visibilità e abbiamo imboccato il pendio in un posto non corretto. Confesso che non mi sentivo a mio agio ed ho sbagliato a insistere. Stavo sciando quando ho sentito urlare il mio compagno, mi sono girato, ho visto un’onda di neve arrivare ma non potevo che continuare a sciare il pendio verso destra. Mi ha preso le code, trascinandomi verso il basso. Mi sono trovato trenta metri sopra la barra alta cento che sorregge il pendio. Abbiamo commesso un errore che ci poteva costare caro, molto caro e non ne vale la pena. Sono stato fortunato. È giusto cercare di prendere tutte le possibili precauzioni per ridurre il rischio. Tanto più che le condizioni ormai sono assai più mutevoli dei decenni scorsi: bisogna stare più attenti a trovare il momento ideale per fare determinate cose» .

Il clima sta cambiando davvero?

«Purtroppo sì: le condizioni super che si possono trovare in momenti anomali dell’anno sono solo una manifestazione davvero tangibile di ciò che sta accadendo. Quindici anni fa non si percepiva che qualcosa stava cambiando, ma nelle ultimi cinque o sei stagioni è davvero davanti agli occhi di tutti. Durante l’inverno si passa nello stesso giorno da -5° a +15°. Ci sono escursioni molto grandi e inverni sempre meno freddi, perturbazioni più calde e precoci. Le pareti glaciali erano verdi fino ad aprile solitamente, ora non è raro trovarle ben innevate anche in pieno inverno, come mi è successo sul Couturier alla Verte nel 2018. Diventa sempre più importante il tempismo. Un altro esempio sono le discese dell’Helbronner: qualche anno fa la regola era che fino a febbraio si poteva sciare durante tutto il giorno, dopo solo fino a prima di mezzogiorno, essendo tutto a Sud ed Est. Ora capita di doverselo ricordare anche in pieno gennaio. Lo dico con un certo rammarico. È tempo che ognuno ne prenda coscienza e cerchi di fare il possibile, anche se mi accorgo che è solo un piccolo gesto. Vivendo a Cham per esempio cerco di non prendere la macchina per tutta la stagione invernale. Uso la bici. Ma è difficile cambiare. Basti pensare al problema dell’inquinamento dovuto al riscaldamento che c’è ogni inverno qui in valle».

Tornando alle sensazioni che sa regalare la neve vissuta senza compromessi: si capisce da come interpreti le tue discese, traspare la tua passione estrema per questo elemento e la ricerca della polvere migliore.

«È incredibile la sensazione che regala la neve se sciata veloci. La velocità che cerco ti porta a planare sopra grazie alla superficie larga degli sci, le curve le fai driftando sul manto nevoso, ottenendo sensazioni uniche. Ti senti leggero. E puoi sciare a fondo sul pendio». 

Sciare veloci diminuisce alcuni rischi?

«Secondo me in parte sì. I tratti più pericolosi delle linee generalmente sono in alto, sotto i colli o le creste. Spesso con tanta neve mi sforzo di percorrere dritto questi passaggi, il più leggero possibile, avendo cura di individuare preventivamente una via di fuga sicura. Oltre certe velocità plani sulla neve, il drift che ti dicevo prima. Però non è facile e ci si deve esercitare prima su terreni che si conoscono bene , ci vuole tempo per acquisire sensibilità, con tante giornate sulla neve. Inoltre spesso su linee che conosciamo e che prendiamo con gli impianti ormai ragioniamo su come tagliare il pendio preventivamente in determinati punti, per farlo scaricare. Ma… don’t try this at home!».

Cham, i pendii del Monte Bianco, la neve, la velocità, la fluidità, qual è lo stile che preferisci e il terreno ideale?

«Innanzitutto è più corretto fare una distinzione all’interno del mio modo di sciare: specie d’inverno preferisco definire il mio stile full speed, e poi c’è lo steep skiing sulle grandi pareti. Per quanto riguarda il primo, sono tutti quei giorni tra Midi, Helbronner e Grands Montets di sci in polvere. Dove si attendono le nevicate e ci si tuffa a sciare a fondo e al massimo ogni singolo fazzoletto di neve polverosa. Con amici, in modo totale, approfittando delle condizioni.  Per quanto riguarda lo steep, sono quelle giornate in cui cerco di sciare una parete ripida con la miglior neve possibile per il mio stile. Il pendio che ritengo perfetto per questo tipo di discesa si trova nel bacino d’Argentière. È il Col de la Verte. È assolutamente fantastica: continua per linea e pendenze, ripidissimo per lunghi tratti. Spesso su altre discese i tratti oltre i 50° si riducono a qualche metro, al massimo qualche decina. Al Col de la Verte queste pendenze si trovano per qualche centinaio di metri. E poi è tecnico. Sempre nella Mecca dell’Argentière, anche il Col de Droite mi piace molto. Mentre sul versante italiano per me la linea più bella è il Couloir du Diable al Mont Blanc du Tacul. Una linea pura, evidente eppure spesso trascurata e poco frequentata contrariamente alle discese del bacino d’Argentière».

Un grosso exploit dell’anno scorso è stato la Nord del Triolet, quella resa mitica dalla foto del compianto Philippe Fragnol durante la prima discesa in snowboard del giugno 1995 a opera di Jerôme Ruby e Dedé Rhem. Discesa ripresa in sci solo nel 1998 dalla Guida alpina svizzera Marcel Steurer.

«Che giornata sul Triolet! Se devo essere sincero, io e Jonathan Charlet eravamo saliti in Argentière con l’idea di provare il Nant Blanc, pendio mitico che ancora ci mancava. Osservando la parete, ci siamo accorti che alcuni sciatori avevano iniziato la discesa, o meglio a buttar giù doppie collegando tratti in cui curvavano molto controllati. In sostanza, non c’erano le condizioni che cercavamo e comunque, se fossimo andati anche noi, avremmo già trovato delle tracce. Detesto le tracce. Se non sono il primo a scendere un pendio, allora cambio piano. Non mi interessa più. È come se perdesse la purezza. Odio seguire le tracce. Allora siamo andati verso il Refuge d’Argentière con alcune idee in testa, tra le quali guardare il Couloir Lagarde. Però, una volta al rifugio, la vista della parete Nord del Triolet ci ha catturato totalmente con il suo bianco perfetto. Siamo saliti eccitati sul tetto per binocolarla: ci è sembrata in condizioni perfette. Allora abbiamo chiamato Daniel Rönnbäck per organizzare le riprese dall’elicottero. Al mattino presto abbiamo risalito il Col des Courtes e, una volta in cima, ci siamo trovati davanti al tratto più tecnico e spaventoso della giornata: la cresta che porta in cima al Triolet. Sono poche centinaia di metri, ma espostissimi. Un filo dove è impossibile proteggersi e dove si deve procedere con cautela legati a tutta corda, facendola passare dietro a spuntoni di roccia e neve per avere un minimo di sicurezza. Alle 11 eravamo in cima, ma dovevamo aspettare l’elicottero perché fossero possibili le riprese. Dopo mezz’ora però ci stavamo raffreddando e la tensione della discesa saliva: abbiamo chiamato Daniel dicendo che avremmo iniziato subito la discesa, in fondo eravamo lì per sciare. Il mio socio in tavola davanti, in modo che fosse facilitato, potendosi fermare frontalmente al pendio con le due picche durante l’installazione delle doppie nel ghiaccio sopra ai seracchi. Bisognava scavare nella neve per arrivare al ghiaccio. Quindi le doppie, poi il ripido pendio esposto sotto ai seracchi. L’elicottero nel frattempo era arrivato mentre sciavamo: non amo il suo rumore, è difficile concentrarsi. Poi le curve sempre più veloci insieme sul pendio basale. Una volta sul ghiacciaio, ci siamo girati indietro insieme a guardare la parete ed è stato bellissimo. La neve che abbiamo trovato è stata meravigliosa e ho provato la stessa sensazione della discesa del Col de la Verte. Sono linee che guardavo da anni, dove ho potuto capire i progressi fatti».

Immagino che però ci siano ancora alcune big line che vorresti sciare qui nel Bianco?

«Mi piacerebbe prima o poi trovare le condizioni ideali sul Nant Blanc. Poi, passando all’altro versante del massiccio, la Diagonale al Tacul e una linea sulla parete della Brenva, la Sentinella Rossa magari. Fuori da Chamonix ho grosse aspettative per sciare in Kashmir o in Pakistan. Vedremo. Intanto in questi Paesi cerco di scovare delle linee, magari su Fatmap… ma non come quelli che lo usano per scovarle a Chamonix, ahah!».

© Federico Ravassard

Allora non ti piace solo il Monte Bianco!

«No, no, assolutamente. Forse quando ero giovane ero più radicale. Poi ho capito che il mondo è grande ed è troppo bello per non visitarlo sciando. Specie con l’esperienza fatta qui a Chamonix. Non ho bisogno di Guide, sono diventato abbastanza autonomo anche nelle manovre alpinistiche. Discorso a parte per il mio socio preferito Jonathan Charlet, che è una Guida. Ma è soprattutto uno che in montagna ha due palle enormi! E poi abbiamo lo stesso modo di pensare: per sciare le big line non devi pianificare troppo, farti delle liste. Non ti lascia tranquillo e perdi lucidità».

Qui a Chamonix quando arriva la primavera deduco che ci sia molto fermento per sciare le pareti più belle e prestigiose: storie da ghetto, rivalità e competizione?

«Sì, è vero. In inverno è un po’ differente: durante i powder day si è per lo più tutti cordiali, si scia con in amicizia. In primavera il discorso cambia. Ci sono tanti team, tante crew o piccoli gruppi di sciatori. Gira un sacco di testosterone e più mistero. Come dicevo, odio trovare i pendii tracciati. Voglio essere il primo. Anche su linee che conosco a memoria come il Glacier Rond alla Midi, se uno degli amici che è con me chiede di poter andare per primo, lo lascio andare, ma dentro di me soffro un po’. Per questo spesso arrivo tra primi a mettermi in coda alle funivie, anche solo per essere davanti a tutti sulla cresta della Midi, oltre il cancelletto. È liberatorio! Purtroppo qui a Cham non tutti sono corretti. Chi ha soldi e sponsor ha diritto a priorità sulle cabine. Per non parlare poi degli elicotteri. In tanti hanno la coscienza sporca e a me piace troppo dire le cose come stanno. Per esempio quanto accaduto durante una discesa dell’Aiguille du Plan l’anno scorso, quando dei pro skier con una Guida sono stati portati su in elicottero: ho discusso, come è possibile che delle Guide propongano questo modo di andare in montagna a cercare le linee? C’è da vergognarsi».

Veniamo ai tuoi modelli: uno sciatore che ti ha ispirato?

«Se devo fare il nome di un pro skier, posso dirti Seth Morrison. Lo seguivo da ragazzino, poi l’ho visto a Cham e lo guardavo con rispetto e diffidenza. Ma poi siamo tutti skier, ci si capisce e adesso capita addirittura di sciare insieme!».

Veniamo alle domande tecniche: per lo sci che pratichi quali sono i tuoi materiali preferiti? 

«Mi piace utilizzare materiali che mi permettano di sciare bene e forte. Sono supportato da Armada e per i giorni di polvere full speed da quest’anno uso il Tracer da 118 mm sotto al piede e 195 cm di lunghezza, essendo alto e volendo cercare la velocità. Sogno una mia versione lunga 205 cm. Attacchi Look Pivot e scarponi Dalbello Krypton o Lupo: preferisco materiale solido e senza sorprese. Adoravo i JJ del 2015, adoro i Tracer e mi hanno sorpreso i Magic J. Per i pendii ripidi utilizzo un prototipo che sto sviluppando con Armada: 192c m di lunghezza, 115 mm al ponte, camber normale, rocker e bello rigido. La prima versione era meno intuitiva di quello che uso adesso, che è più confortevole. Non mi piacciono gli sci leggeri, perché leggerezza è sinonimo di sciare soft e a me piace sciare duro a tutta. Come attacchi uso i Marker Kingpin. Negli ultimi anni c’è stata una grossa evoluzione delle calzature: per la massima trasmissione devono avere la punta piatta e non stondata anche se facilita la rullata e poi non devono essere troppo basse come quelle da skialp puro. Ma per sciare la cosa più importante è l’asse e poi lo scarpone: prendi degli sci veri, solidi anche se più pesanti. Restituiscono migliori sensazioni e sicurezza. La leggerezza a tutti i costi va a discapito della sicurezza, specie se ami sciare veloce».

Cosa ti piace degli sci che usi e come ti trovi nel team Armada?

«Mi trovo molto bene, ormai da quasi sette anni. Seguono il rider nella costruzione e nello sviluppo di nuovi modelli. E poi hanno un team che tocca tutte le discipline, dal pipe al backcountry, dal big mountain skiing fino allo street. E c’era JP Auclair: un punto di riferimento che dava un bel supporto ai nuovi, aiutandoli e seguendoli. Infine, se devo essere sincero, quando vedo gli sci con quelle grafiche aggressive… sogno subito di essere in powder! È stato uno dei primi brand a capire l’importanza di creare grafiche emozionali oltre che ottimi attrezzi sviluppati da chi in montagna ci va per sciare davvero».

Ok, ora è il tempo di fare qualche foto, magari un po’ urban style, dove andiamo Tof?

«Beh, alla Midi, che adesso non c’è coda!»

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 121 DI DICEMBRE 2018, INFO QUI

© Federico Ravassard

Yak sul Monte Rosa

Gennaio 2019, ore 7.30, termometro ben sotto allo zero. Anche questa volta ho peccato di troppa fiducia verso la capacità della riserva, così mi ritrovo ad avvicinare sconosciuti a Piedimulera per chiedere dove posso trovare un benzinaio aperto. I pochi con cui sono riuscito a comunicare abbassando il finestrino si sono dimostrati tutti molto disponibili e concordi nell’indicarmi la stessa direzione: «dopo il ponte, a destra, sempre dritto!». Nessun giro di parole inutile, gente di montagna. Al benzinaio, dove arrivo evitando gli ultimi singhiozzi del motore, il cassiere si stupisce un po’ nel vedermi vestito da sci vista la siccità di questo inizio inverno e l’assoluta mancanza di materia prima sul landascape  circostante. Macugnaga?mi domanda diretto. Alla mia risposta affermativa, scuote il capo in senso di approvazione e in modo molto consapevole: la cosa mi rincuora. Un po’ di neve ci sarà se il benzinaio che sembra saperne non si è troppo stupito.

Rimonto sul mezzo. In realtà sono solo io a riferirmi al mio furgoncino con il termine mezzo. Dopotutto non è una macchina normale, ma una in cui riesci a dormirci dentro agile, che supera sterrati e fa a sportellate con i guard rail per risvegliarti quando magari decidi di assopirti un secondo alla guida. È un mezzo, innegabile! Da Piedimulera la strada inizia salire decisa, tortuosa. Ed è dopo un non ben precisato numero di svolte che appare Lei, la parete Est del Monte Rosa! Enorme, occupa tutto l’orizzonte e la visuale concessa dagli scoscesi pendii ai lati della strada. L’ultima volta che sono stato da queste parti, la strada l’ho percorsa in senso contrario, a bordo di un bus di linea dove occupavamo le ultime sedute ed avevamo un certo agio di posti liberi intorno, probabilmente garantito da quell’odore di libertà che le lunghe giornate in montagna ti appiccicano addosso. Su quella parete ci eravamo appena stati con gli sci, canalone Marinelli in boucle da Gressoney. Era la primavera di qualche anno fa. Vederla così, risalendo la valle, è stato diverso. Una sensazione grandi paesaggi che ti aspetteresti di trovare magari alla vista di vallate d’oltreoceano e invece ecco che appena sopra Piedimulera… sbam! La Est, nel sole!

Cercando un po’ in giro, credo di essermi ritrovato nella descrizione che il grande scrittore e regista italiano Mario Soldati aveva dato di questa parete: «Immane, alto fino a metà del cielo, ecco il massiccio del Rosa, con i suoi bianchissimi ghiacciai e le sue pareti di roccia nera. Non diverso è lo spettacolo dell’Himalaya. Lo guardiamo tra le lacrime. Che cosa c’è di più bello su questa terra? Il monte Rosa visto da Macugnaga è eroico».

Eroico è il termine perfetto per descriverla: tre chilometri di larghezza, duemilacinquecento metri di altezza. Ghiacciai, seracchi che ne movimentano la continuità, a sinistra il profilo sinuoso della cresta Signal, a destra, meno vistosa, la Santa Caterina. Pochi scorci alle nostre latitudini sono paragonabili a quello che il Monte Rosa offre sul suo versante Est. Il Bianco da Courmayeur forse. Però la Est del Rosa ha qualcosa di diverso. Una bastionata che sa di classico, più in disparte rispetto alla cima principale delle Alpi. Meno ostentata nella sua grandiosità, eppure imponente. Più old school: una muraglia mitica dove occorre avere un gran fiato, una gran gamba, essere veloci per muoversi su terreni per lo più classici per migliaia di metri. Ai piedi di cotanta bellezza, in cima alla Valle Anzasca, Macugnaga: seicento anime che hanno deciso di vivere a 1.300 metri sotto la Est. Seicento anime di origini Walser che si tramandano miti e leggende spesso connessi alla grande montagna. Tra gli aneddoti più curiosi ricordo quello dei cosiddetti Gotwiarghini, in lingua walser buoni lavoratori. Sono baldanzosi gnomi alti circa due spanne. Quello che li rende speciali (oltre a essere gnomi, ben inteso) sono i piedi curiosamente palmati: non calzano scarpe, sono grandi camminatori, rapidissimi sui terreni scoscesi e i boschi della valle. Chi li ha incontrati giura che sul capo portino un inconfondibile cappello azzurro appuntito cosparso di campanelline, una per ogni anno d’età, e sono pure vecchissimi. A volte nei boschi capita di sentire uno strano tintinnio.

Agili, veloci, operosi, ingegnosi, trafficoni e molto ricchi, hanno da sempre aiutato le popolazioni degli alti pascoli, insegnando mestieri e ricompensando chi stava ai loro scherzi. Mentre alla guida mi perdo nel ricordare queste leggende, quasi non mi accorgo che arrivo in questo posto magico e un po’ fuori dal tempo di Macugnaga, rallento e lo supero. Poca gente in giro. Proseguo fin dove la strada termina, a Pecetto. alla partenza del piccolo impianto del Belvedere.

Ho appuntamento con Fabio. Sono qui per conoscere un vero local di questi posti. Uno che un po’ di questa leggenda e del carattere della sua terra se li porta a spasso per le montagne e con gli sci! Il Marinelli a 18 anni nel 1985, il Canalone della Solitudine 21 anni dopo, nel 2006. Fabio Iacchini arriva a tutto gas sul piazzale semideserto mentre sto fotografando le cime intorno illuminate da un sole ora più pallido. Non troppo alto di statura, capelli rasta, sguardo vispo, movenze agili, una stretta di mano e la voce che avevo sentito al telefono prende volto. Decidiamo che, visto che dobbiamo chiacchierare, tanto vale farlo nei suoi posti, una piccola salita con le pelli oltre il Belvedere verso la morena del Piccolo Fillar. Mi sono appena infilato uno scarpone che Yak è già pronto, eppure avrei giurato che un secondo prima era ancora in borghese. Primo tratto in funivia dove il sole lascia il posto a uno spesso velo che uniforma la luce e i profili del terreno. Si alza una bella arietta: caffè al bar e poi iniziamo a risalire una neve inox 18/10.

Chiacchieriamo, al grip delle pelli preferisco dopo poco quello dei coltelli mentre Fabio schizza su pattinando come un gatto. Presto lo recupero, ma il fiato per fargli delle domande è venuto decisamente meno. È rapidissimo: nella mia mente offuscata questa parola stamattina era già transitata, ma non riesco a connettere ora. Eppure… Il terreno spiana di nuovo, l’ipossia si allontana e torniamo a ciarlare: se gli spezzo il fiato con le parole magari mi salvo.

Yak, iniziamo come si facevano le interviste una volta, parlami un di te, della tua storia, sei un superlocal?

«Assolutamente di Macugnaga dal 1967! Arrivo da una famiglia di Guide alpine, da generazioni. Lo erano mio padre e i miei due nonni, uno dei quali aveva partecipato pure ai Giochi Olimpici negli anni ’20. Anche le donne della mia famiglia sono sempre state molto legate alla montagna: mia mamma e mia zia erano maestre di sci, così come innumerevoli cugini. Ho un fratello che fa altro nella vita, però anche lui ha partecipato per anni a gare di sci alpino. Insomma, in famiglia la montagna è sempre stata di casa: per il mestiere di mio papà ho sempre visto in giro moschettoni, corde, chiodi, scalette. Ho iniziato a fare sport sugli sci, poi sono arrivate le scarpette e la roccia e devo dire che quasi mi piaceva più scalare. In quegli anni uno vedeva Berhault ed Edlinger e provava a fare le stesse cose qui in valle, in Val Sesia o, appena avevamo una macchina, giù a Finale. Che stangate!».

Mi hai spiazzato. Pensavo che mi parlassi di sci, invece eccoci sulla roccia…

«Infatti sono diventato prima Guida (nel 1987) che Maestro di sci! Qui a Macugnaga con alcuni amici tra cui Bardes, Morandi e Meynet avevamo formato un bel gruppetto, abbiamo anche iniziato a chiodare le prime falesie. Nel 1987 c’è stata una gara di arrampicata qui a Macugnaga: vennero personaggi da rivista come Gallo, Ballerini, Mariacher, la Iovane e Raboutou. A noi si è aperto un mondo!».

 Allora è vero ciò che ho sentito dire, che in montagna ti piace fare tutto: alpinista a 360°?

«Sì, eccome! Non ho una preferenza: mi piace sciare, arrampicare, a volte anche in solitaria. Mi piace allenarmi, fare gare di sci, lo skyrunning (è stato quattordicesimo ai mondiali del 1998)e compiere concatenamenti in montagna. Ho iniziato cercando di imitare i grandi come Boivin e Profit: ero andato perfino a una sua serata ed era stato come vedere Cristiano Ronaldo per un adolescente di oggi! Quelli erano dei veri matti se si pensa a certi concatenamenti magari con decolli con il deltaplano dalle cime: altro che l’estremo di cui si parla adesso! Era pazzesco. E così ho iniziato a fare salite anche da solo: per quelle devi essere in bolla mentalmente. Come per lo sci estremo: devi farlo solo quando te lo senti, non sempre. Se non sei al cento per cento mentalmente, puoi fare un sacco di altre cose. Anche imparare a suonare uno strumento, perché no?».

Però non tenermi sulle spine, parlami di alcune di queste salite in velocità qui sopra Macugnaga, sono curioso!

«Partendo da Pecetto di corsa e leggero sono salito al Triangolo della Jazzi per la via delle Guide (600 m, VI max), ho proseguito per cresta fino in punta (2.400 m di dislivello dalla partenza) e sceso a Pecetto dopo aver recuperato gli scarponi, che avevo preventivamente lasciato in cima: 4 ore e 15 minuti. Oppure un’altra volta ho salito la via Buscaini al Piccolo Fillar con qualche tiro di 6a, proseguendo per la cresta di Santa Caterina, una delle vie classiche più belle del Rosa per isolamento e posizione. Giunto in cima alla Nordend, ho proseguito per cresta calcando la cima della Dufour, della Zumstein e poi fino alla Capanna Margherita. Da lì sono rientrato a Macugnaga con un volo in parapendio biposto con il mio amico Ale Bardes. Forse è stato il primo decollo dal Rosa. Il tutto in poco più di otto ore».

 E poi c’è sempre stato lo sci…

«Come ti dicevo è sempre stato di famiglia anche lo sci. Prima c’era lo spigolino, le gare. Poi lo skialp. Ho fatto anche la raspa, tutto ti aiuta ad aumentare il tuo bagaglio. Se ci pensi, le prime volte che vedevi gli svedesiqui sul Rosa scendere pendii in polvere con curvoni ad ampio raggio con quegli sci larghi, spesso pensavi ma butti via la discesa! Poi invece, se provi, capisci quanto è bello mollare gli sci nell’ovatta. Cresci ed evolvi solo se ti guardi in giro! Come per l’arrampicata, anche nello sci. Gente come Saudan o De Benedetti hanno spinto la disciplina proprio perché qualcuno li vedeva e allora decideva di imitarli. Di provarci. Sono fondamentali queste persone che ti stimolano e ci tengo a dire che per me è stato così anche nella famiglia delle Guide alpine».

È vero, l’innovazione di una disciplina passa attraverso quei personaggi che sanno ispirare le nuove generazioni. Ultimamente ritengo che lo sci in montagna aperta stia facendo dei bei passi in avanti. Ad esempio quest’anno è stato l’anno dello sci a 8.000 metri (k2, Lhotse, Cho Oyu). So che hai fatto molte spedizioni: secondo te cosa ci riserverà il futuro. L’estremo passa dalla quota?

«Secondo me sì, almeno per una parte dell’elite. Si cercherà di spostare il terreno di gioco. Cavolo, un 8.000 con gli sci a chi non piacerebbe? Sullo Shisha Pangma siamo arrivati in vetta, ma abbiamo sciato da 7.300 metri. Sul Laila nel 1995 invece abbiamo fatto la prima salita di una via che culminava con il filo della pinna e quest’anno ho visto che è stata scesa per la prima volta. Altri invece cercheranno di portare in montagna aperta uno stile di sci a grande velocità come il FWT. Vedi Jérémie Heitz!».

 A proposito di Himalaya, qui c’è il Monte Rosa…

«Per la gente di qui è fondamentale questa montagna, anzi spesso è quasi ingombrante, ci limita un po’. È una montagna di fatica, non è il Bianco, è meno tecnica ma ha dislivello, gran misto, la Santa Caterina, la Brioschi, vie dove al giorno d’oggi devi essere veloce, uscirne in sei o sette ore. Con la mentalità di adesso questo versante del Rosa sa offrire molto anche per lo sci».

Le discese estreme sul Rosa, tu hai iniziato presto: a 18 anni il Marinelli. Raccontami di quel giorno. Che cosa rappresenta il Marinelli per gli sciatori liberi?

«1985. Altri anni, altre stagioni. Non so spiegarmelo: se uno guarda i grafici delle precipitazioni globali di un anno, sembra che cada sempre la stessa acqua ma lo fa in modo diverso ora, e in maniera meno regolare. A giugno avevo appena chiuso la discesa integrale del Canalone Tuckett riprendendo quella di Claudio Schranz del 1980. Mi sentivo pronto e avevo potuto risalire il Canalone a luglio. Ero con mio fratello e il nostro amico Vittoni. Saudan aveva tracciato la via nel ’69. Era difronte a me e volevo farlo. Ci pensavo sempre. Così sono andato. Ho iniziato la discesa da quel colletto a destra del Colle del Papa guardando la parete. Il Marinelli è il massimo per lo sci: si scia davvero lì dentro».

Un sacco di possibilità, dal freeride allo sci estremo. Sei una Guida esperta, consigliaci un itinerario di freeride, una gita classica con le pelli, un itinerario più impegnativo su questo lato del Monte Rosa.

«Il Monte Moro i giorni post nevicata offre bei pendii, ma bisogna sapere cogliere l’attimo e le giuste condizioni vista la sua esposizione. Con le pelli non posso che consigliare la Grober o il Pizzo Bianco per la primavera: due itinerari di respiro, di vero scialpinismo. Ambiente e dislivello. Alzando l’asticella delle difficoltà, assolutamente il Marinelli. Consiglio però di approcciarlo preparati, magari iniziando a farsi la gamba con salita e discesa del Canalone Tyndall: 2.000 e più metri mettono in bolla».

Un po’ di storia dello sci nel Monterosa, quali sono state secondo te le tappe più importanti sul versante di Macugnaga?

In sintesi: Saudan e il Marinelli, la linea di Schranz, proprio sulla Est dello Jägerhorn, la via dei Francesi di De Benedetti e la mia discesa della Solitudine».

A proposito della Francesi: che mi dici di quelle voci che narrano di un leggendario concatenamento dello svizzero Dominique Neuenschwander, la Francesi e poi il lenzuolo sospeso della Brioschi?

«Guarda non so dirti. In quegli anni la tenevo d’occhio anche io ma non mi è mai sembrato che ci fossero le giuste condizioni. È pazzesco, ma se lo si dice, deve averlo fatto. E forse la Francesi l’ha anche ripetuta il fortissimo Battistino Bonali della Val Camonica. Comunque la via dei Francesi rimane ancora un muro psicologico».

Sempre parlando di storia dello sci, ci sono i mostri sacri come Stefano De Benedetti, ma la storia passa anche attraverso un sacco di sciatori che hanno spinto questa disciplina in avanti. Sei certamente uno di questi a nostro modo di vedere: raccontaci la discesa in cui hai sentito che hai fatto un passo in avanti.

«Certamente è come hai detto. L’evoluzione passa da lì. Sul Rosa ci sono gli Enzio, Michele e Giuseppe, poi Gobbi, Gabbio, Schranz e altri. Ognuno nel suo periodo e alla sua maniera. Per quanto mi riguarda credo che la discesa più significativa sia stata il Canalone della Solitudine. Si chiama così perché l’aveva salito da solo Ettore Zapparoli, l’alpinista poeta, poi scomparso, sempre sulla Est del Rosa. Li a fianco infatti c’è la Cresta del Poeta, altro itinerario ormai poco ripreso. Nel gennaio del 1993 avevo fatto la prima salita invernale e capito che come terreno si sarebbe prestato allo sci. In quell’anno avevo sciato due o tre volte il Marinelli e mi sentivo pronto. Mi sono fatto portare dall’elicottero a 3.900 metri di quota e poi ho proseguito a piedi fin quasi a 4.300, sotto al seracco, per capire come erano le condizioni del pendio. Alle 9 sono sceso su neve perfetta, fredda sulle parti più ripide. In basso ho messo un mancorrente in una strettoia con neve più marcia, ma a posteriori lo avrei potuto evitare. È stato il momento giustoper me: non avevo neanche paura».

Mi sembra di capire che ritieni che la velocità sia sempre più importante, qual è lo stile che preferisci? E il terreno?

«È vero. Però non ho un terreno preferito. Mi piace tutto in montagna. Salire, scendere, preferisco i versanti aperti (così come le falesie non dietro alle piante), i canali e anche le gobbe. Mi piace perfino sciare con gli stretti da tutina».

Il tuo pendio perfetto, anche se forse conosco già la risposta?

«Il Marinelli, specie dalla Silbersattel, fai tante di quelle curve!».

Una linea che vorresti ancora sciare sul Rosa?

«Preferirei non… Però mi piacerebbe ripetere il Gervasutti al Tacul: è perfetto».

Per lo sci che cerchi, quali sono i tuoi materiali preferiti.

«Ho sempre sciato con tutto. Inizialmente su terreno ripido preferivo attacchi più strutturati rispetto ai pin, ma era solo questione di mentalità. Per gli sci da qualche stagione uso dei Black Crows Orb Freebird, le ultime versioni le trovo nettamente migliorate e più equilibrate. Istintive e con un buon controllo anche su nevi dure. Lo uso come sci unico».

Un viaggio che vorresti fare?

«Sono innamorato dell’Himalaya e del Pakistan. Sono stato anche sull’Ama Dablam, abbiamo tentato una via nuova sull’inviolata Ovest del Makalu, poi sono stato sullo Shisha Pangma e sul Broad Peak. Mi piace la quota. Cavolo, un 8.000 sugli sci se mi piacerebbe!».

Negli occhi di Yak si accende una fiamma. Proprio in questo istante siamo tornati dalla nostra pellata e ci fermiamo davanti al Rifugio Ghiacciai del Rosa da Mirko e Stefania. Non mi sono slacciato il casco che Yak è sgattaiolato dentro per un toast piccante. Giuro di aver sentito uno strano tintinnio quando si è tolto il suo cappello azzurro…

QUESTO ARTICOLO È USCITO SU SKIALPER 122, INFO QUI

© Paolo Sartori

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Gilles Sierro, lo sci come arte

Parlare a quattr’occhi con chi hai sempre incrociato solo virtualmente è un piacere che ritengo fondamentale per poter conoscere qualcuno, specie al giorno d’oggi che mettersi in contatto con altre persone è questione di un click. Quando poi incontri un grande sciatore, diventa un privilegio. Vedere dove abita, come vive, gli occhi con cui guarda le sue montagne, ti fa capire un mondo di sfumature che si perderebbero tra i filtri di un più asettico scambio di mail. Gilles Sierro è un grande sciatore. Vive di sci e per lo sci. Non usa frasi fatte e ti basta uno sguardo per capire che la sua vita è veramente votata a questa disciplina. È cresciuto e vive nei pressi di Hérémence, Vallese, vicino ad Arolla. In linea d’aria pochi chilometri dal confine italiano. Con condizioni di neve migliori per raggiungerlo avremmo fatto prima con una pellata forse. Ce lo hanno detto anche gli operai al tunnel del Gran San Bernardo, chiuso.

Al Bianco sono sempre gentilissimi e accettano i quaranta e più euro anche se sono stropicciati. Poi il Col des Montets con la prima neve e i larici rossi, vuoi mettere? La schilometrata passa che quasi ti chiedi perché lo hanno fatto il Gran San Bernardo. Alla domanda invece di perché forse eravamo gli unici a non sapere della chiusura una risposta ce la siamo data dopo un secondo e faceva rima con… leoni. Poi le luci di un pomeriggio di novembre in un villaggio di chalet in legno svizzeri annullano o quasi i sensi di colpa. Per trovare quello di Gilles l’indicazione è poi ineccepibile: lo riconoscerete dalla buca delle lettere fatta con gli sci. Dopo circa mezz’ora passata a visitare ogni cortile della borgata, Gilles ha capito che era meglio se ci veniva incontro anche se il nostro navigatore si stava ostinando a indicarci una strada (in effetti corretta) che poi abbiamo scoperto essere la più innevata di tutto il vallese. È arrivato in retromarcia. Dopo un caffè abbiamo iniziato a conoscerci.

Una casella della posta decisamente da... skipper ©Federico Ravassard

 Gilles, la prima domanda che ci si fa tra sciatori in questo periodo: Sei carico per la stagione? Hai voglia di sciare oppure hai ancora voglia di altro?

«È vero! È la domanda classica del periodo tra chi scia! In realtà ho già iniziato questa settimana qui sopra. Con un amico ho testato un po’ il drone per fare delle riprese. La Magic Valley (come chiama la Val d’Hérens) è la mia casa, in stagione il comprensorio qui vicino è collegato con Verbier. Non posso lamentarmi. Anche se quando mi chiedono quale sia il mio spot preferito sono sempre in difficoltà perché in realtà il posto preferito è dove scio in quel momento, perché sto facendo proprio ciò che mi piace!».

Montagnard o sciatore? Ti piace vivere la montagna anche nelle altre stagioni?

«Posso ritenere di essere entrambe le cose, specie per il genere di sci che pratico. Sono diventato Guida proprio per poter sciare il più possibile, per vivere la mia passione quasi dieci mesi l’anno, tra clienti, spedizioni, viaggi e attività personale. Generalmente in luglio e agosto pratico attività più alpinistiche. I miei periodi preferiti per lo sci sono l’inizio dell’estate per la pente raidee il pieno inverno, quando riesco a godermi senza stress lo sci: freeski nel pieno della sua definizione, vivere la sensazione di gioco, di scivolare».

In una parola, facci capire che cosa è lo sci per te?

«Sembra banale ma posso dire che è vita: nel senso che la mia vita è orientata allo sci in modo totale. Perché è la cosa che mi è sempre piacito di più fare. Sono uno ski addicted nel senso più puro del termine. Ad esempio, quando a maggio finisco la stagione invernale con i clienti, stacco una settimana, vado al mare, faccio bici, libero la mente e mi preparo per iniziare la mia stagione dello sci. Lo faccio per lo sci».

Veniamo al tuo sci preferito, allo ski de pente, sinceramente non mi piace molto la definizione di sci ripido, o estremo, sei d’accordo?

«Non mi piace la parola estremo, ormai non ha più senso. Su qualsiasi rivista e ancor peggio sui diversi canali social dove ormai gira l’informazione tutto viene passato per estremo: usano termini come leggenda, enorme, ogni fatto viene galvanizzato. È talmente tutto leggendario che ormai lo sci estremo ha perso di significato perché il termine stesso è stato abusato e banalizzato. Se ci riflettiamo, il livello di estremo dipende dal limite soggettivo di ognuno. Paradossalmente anche una pista rossa può risultare estrema per un principiante. Un altro problema che vedo in questo mondo è che sono pochissimi quelli che sciano solo per se stessi. Grazie anche alla facilità di accesso alle informazioni sta diventando un circo in certi posti. Mi è capitato di parlarne con Davide Capozzi. Vedi il bacino di Argentière: è un posto dove le linee classiche sono indiscutibilmente bellissime, ma si riempie all’inverosimile perché sono conosciute, hanno nomi spendibili. Un piacere anche maggiore, senza anima viva intorno, lo si può trovare su una linea sconosciuta, ma appunto: non la conoscerebbe poi nessuno (ride)».

La tua idea di skieur de pente quindi quale è?

«Per fare veramente pente raidese condo me sono necessarie tre cose: bisogna essere buoni sciatori, e ce ne sono sempre di più in giro. Devi essere un alpinista e, cosa veramente importante, paziente. La pazienza! Sulle linee davvero impegnative le buone condizioni sono fondamentali. È veramente difficile trovare quelle perfette. Per sciarle in un bel modo, con una sciata estetica, è necessario aspettare il giusto momento. Ad esempio, prendiamo l’anno scorso: avete presente la parete nord della Pigne d’Arolla, qui sopra casa mia? È stata scesa, ma con doppie e derapate tra le rocce per cento e passa metri. Ed è una parete che diventa buona quasi tutti gli anni. Basta aspettare. Per me una discesa di quel tipo è inconcepibile. Anche su progetti più impegnativi sto aspettando da anni il momento giusto, ho visto bianche certe pareti in autunno mentre la parte bassa era impercorribile. Oppure, sempre qui in zona, il Mont Blanc de Cheilon è stato sceso per adesso non dalla punta. Ma secondo me potrebbe arrivare il momento. Mi piace aspettare, per cercare di scendere le pareti nel momento perfetto. Ci vuole pazienza».

 Quello che ritieni il tuo più bell’exploit?

«La Dente Blanche sud-sud/ovest, dalla punta con due miei amici di qui, con cui ho condiviso l’attesa e la speranza di poterla sciare proprio come abbiamo fatto. Con le condizioni del 2013 e solo una doppia di meno di quaranta metri. Questo è proprio l’esempio di cosa intendo per ski de pente».

Ho letto che di cercatori di linee in realtà pensi che ce ne siano pochi, una decina tra Chamonix, Vallese e Valle d’Aosta? Chi sono?

«Senza dubbio tra questi posso citarti Davide Capozzi, Pica Herry. Anche Fransson, che purtroppo se ne è andato. Penso che abbiamo lo stesso modo di intendere questo tipo di sci. Personalmente mi piace cercare linee il più possibile pulite, possibilmente senza doppie o dry ski su cui alcuni si sono specializzati. Non è quello il mio modo di sciare».

©David Carlier

Abbiamo parlato anche con Pierre Tardivel nell’intervista dello scorso mese dell’attuale tendenza della ricerca della massima fluidità e velocità possibili nello scendere certe pareti. Negli ultimi anni sono usciti parecchi video e immagini di questo tipo. Cosa ne pensi? Credi che sia, come ritengono alcuni, qualcosa di rivoluzionario, oppure no?

«Vedere sciare certe pareti in quel modo è senza dubbio impressionante, per la velocità stessa intendo. Non per la linea. Se si vuole parlare di rivoluzione bisogna specificare che è relativo alle linee classiche e più aperte. Non sono nuovi problemi, linee inedite o molto tecniche».

Però forse è stato messo nero su bianco come sciatori professionisti possono sciare pareti - sono d’accordo - classiche. Per un’attività libera come lo ski de pente dove anche lo sciatore della domenica, se preparato, può confrontarsi, se vuole, sullo stesso terreno di gioco del professionista, si è visto quale sia il livello e il margine dei professionisti! Si sono messi un po’ in ordine i valori tra tutti quelli che fanno discese e si spacciano per pro o ambiscono a esserlo.

«Su questo posso concordare. Però secondo me non si può parlare di rivoluzione nello sci ripido. L’evoluzione, per come la vedo, passa nella ricerca della linea. Sia chiaro, nutro molto rispetto per sciatori come Jérémie Heitz: ha spinto in avanti il limite del freeride. Però la mia visione di sci ripido, forse anche per questioni di età, ritengo sia differente».

Pensi che lo sci estremo nel futuro continuerà a progredire sulle Alpi oppure si sposterà in alta quota? Vedi dei limiti in questo?

«A mio avviso continuerà sempre sulle Alpi e le discese classiche vedranno sempre più sciatori, complici l’evoluzione dei materiali e le migliori capacità e preparazione. Questo discorso vale per le classiche. Su linee nuove non penso che ci sarà mai molta gente: per uno sciatore la preparazione e la ricerca delle condizioni è più complicata e ci si deve investire molto più tempo. Nella quota invece non vedo seriamente un limite. Prima o poi ci sarà qualcuno che ci mostrerà come fare e allora proprio quel limite non ci sarà più. Proprio come per certe salite se pensiamo a Ueli Steck o alle ascese in velocità di Kilian».

Un lato affascinante degli sciatori come te è il loro rapporto con i rischi e la paura durante l’azione.

«Io dico sempre che bisogna distinguere tra rischi e pericoli. I primi capita di prenderli, di accettarli e devi sempre cercare di minimizzarli. Tra i secondi invece non si deve dimenticare di considerare anche la pressione, le aspettative che uno ha intorno, la social pressure: sono come i seracchi. Personalmente anche con i miei sponsor cerco sempre di minimizzare e gestire al meglio questi aspetti. Poi l’aspetto mentale è importantissimo: ad esempio due anni fa in primavera avevo per la testa troppi pensieri. C’erano buone condizioni in montagna, ma non nella mia testa. E ho preferito tagliarmi fuori da questa situazione proprio perché non ero al 100 per cento mentalmente».

Che ruolo gioca la paura in quello che fai. Pierre Tardivel ci diceva che in realtà si mantiene sempre un margine.

«È importante prima e dopo, non durante l’azione. Bisogna essere focalizzati. Si deve sempre scendere mantenendo un margine di sicurezza: se sali e magari capisci che non ci sono le condizioni, devi saper rinunciare, anche se poi non posti nessuna foto su Facebook (ride)».

Gilles, quali sono stati i tuoi miti?

«Senza dubbio Dédé Anzévui, Guida e sciatore fortissimo di questa zona. Poi Stefano De Benedetti. Una linea che ho sognato a lungo e che mi piacerebbe sciare è proprio la sua parete est della Aiguille Blanche de Peuterey

Veniamo alle domande tecniche che ci si fa tra sciatori: che materiale usi, quali sono i tuoi setting?

«Generalmente scio con assi da 100-110 millimetri sotto il piede: così lo scarpone non tocca mai e poi sono gli sci che anche per lavoro uso di più, con i quali ho più confidenza: non ci sono sorprese. Scarponi tipo TLT6 o affini: non mi pongo particolari limiti per il peso dell’attrezzatura. Però gli sci devono essere facili, non esageratamente rigidi o duri. Generalmente 177 centimetri di misura circa. Attacchi tipo pin montati un centimetro indietro rispetto al centro scarpone: ho meno coda quando giro nello stretto e davanti ho la sensazione che galleggino meglio. Comunque ribadisco, non sono un fanatico del peso, anche se cerco di portare il meno possibile compatibilmente con ciò che faccio. Ad esempio preferisco i ramponi con le punte frontali in acciaio e la talloniera in alluminio».

I tuoi posti preferiti per sciare nel nostro paese?

«Senza dubbio Helbronner, è assolutamente fantastico! E poi Dolomiti, dove è tutto così vicino, di facile accesso e ci sono linee bellissime».

Come ti vedi tra 20 anni, quale potrà essere il tuo modo di sciare?

«Tra vent’anni? Spero di far conoscere alcune linee classiche, magari ai miei figli. Ah, dimenticavo, certamente non su uno snowboard!»

Chissà come mai lo avevamo capito già dalla cassetta della posta…

Chi è Gilles Sierro

Svizzero, classe ’79, Guida alpina, alpinista, Istruttore di sci certificato. Se chiediamo a lui: sciatore, punto. Cresciuto nel villaggio di Hérémence, non distante da Arolla, nel cuore delle Alpi Svizzere, tra Chamonix e Zermatt. Ha fatto le prime scivolate ad appena due anni, per poi praticare prima sci agonistico e quindi freestyle con l’arrivo dell’adolescenza fino a competere in Coppa del Mondo di halfpipe. La scelta di diventare alpinista e quindi Guida è stata presa per poter sposare il più possibile la sua passione per lo sci. Balzato alle cronache nel 2013 per la fantastica nuova discesa diretta dalla parete sud-sud/ovest della Dent Blanche (4.364 m), non smette di fare progetti e di riempire di neve le sue giornate in attesa delle condizioni perfette per poterli portare a termine.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 115, INFO QUI

Gilles Sierro con i suoi sci ©Federico Ravassard

Quelli del Laila Peak

«Dare un senso alla vita può condurre alla follia, ma una vita senza senso è la tortura dell’inquietudine e del vano desiderio. È una barca che anela al mare eppure lo teme».

Quanti di noi sono quella barca dipinta dai versi del poeta e avvocato americano Edgar Lee Masters. Quante volte vorremmo seguire una nostra passione fino in fondo e invece siamo trattenuti dal farlo da quel senso di sicurezza che in realtà ci imprigiona e lega alla routine che ci siamo costruiti. A volte invece capita d’incontrare persone che amano talmente quello che fanno da mollare gli ormeggi dal porto delle loro abitudini per seguire semplicemente questa passione. Qualcuno le giudicherà egoiste, fuori dagli schemi, certamente fortunate: io so solo che quando le incontro il mio livello di energia interiore cresce in maniera naturale. Persone così sono una sorta di power bank del buon umore. Ecco Carole Chambert, Tiphaine Duperier e Boris Langenstein! In loro brucia una passione fortissima per lo sci, per lo stare in montagna il più tempo possibile. Forse lo davo per scontato, anzi non ci avevo neanche pensato: sarebbe stato ovvio iniziare questa intervista parlando del Laila. Sono questi tre ragazzi francesi quelli che hanno spaccato il Laila per primi!

Le montagne con i nomi di donna sono affascinanti. Le sciatrici poi! Quando a queste cose aggiungi una neve perfetta, il fatto di essere in Himalaya su uno dei pendii più iconici e in voga degli ultimi anni, il gioco parrebbe fatto. Eppure… Eppure dopo cinque minuti che eravamo con loro in un tavolo all’aperto della Val Ferret davanti a una bella birra, era chiaro quello che già nel nostro inconscio sospettavamo. Va bene il Laila, ma la cosa bella era che ci trovavamo di fronte a tre veri appassionati di montagna. Due donne e un uomo col coraggio di vivere al 100 per cento la loro passione per lo sci, per i viaggi in quota e per la neve. Energia genuina, pura e semplice! L’anno trascorso a girare il mondo con gli sci, seguendo l’eterna primavera per avere la neve più bella dalle Alpi all’Himalaya, passando per il Perù e l’Alaska, è solo una piccola parte della loro attività. Il Laila è la ciliegina sulla torta e sinceramente pienamente meritata. Sinceramente questo incontro è stato una scoperta, nel pieno della filosofia che guida la scelta dei personaggi delle nostre interviste. Non ci importa che abbiano un sito, che postino 5.000 foto da quando si lavano i denti a quando sono in cima. Ci piace parlare di sci con persone che si sentono vere senza doverlo dimostrare. Carole, Tiph e Boris sono stati davvero il prototipo dello skier che ci piace. Energia, pochi fronzoli. Come dice Fabri Fibra (mi sto violentando a fare questa citazione, ndr) nelle canzoni per i giovani «…se non usi i social nessuno si fida». Quando invece capisci che ci sono ancora quelli che preferiscono investire ogni minuto libero per stare all’aria aperta su qualche pendio invece di trascorrere tempo a postare, un senso inconscio di speranza ti pervade. Forse non è ancora tutto perduto. Non vivono fuori dal mondo e dai suoi canali di comunicazione, sia chiaro. Ma abbiamo dovuto indagare un po’ per capire chi sono questi tre ragazzi francesi. La pagina Facebook correlata al loro progetto 12 mois d’hiverrecita Ski de pente raide autour du monde. Il sito omonimo non funziona e allora partiamo da qui per conoscerli.

© Federico Ravassard

La prima domanda è sempre importante, ed è un po’ che ci frulla in testa: due ragazze e un uomo in giro per il mondo a sciare, chi è che dormiva in mezzo?

Ridono tutti un po’ imbarazzati. Carole alza la mano e prende la parola: Ero io!

Carole Chambaret, 32 anni, bionda savoiarda di Albertville, si avvicina allo sci col padre, quindi agonismo e un po’ di gobbe, maestra di sci in Val d’Isère; conosce il suo coetaneo e poi compagno di vita Boris Langenstein a 18 anni, anche lui trasferitosi lì per fare l’istruttore di sci e preparare gli esami per diventare Guida alpina. Boris e Tiphaine invece andavano nella stessa scuola per discipline alpine di Annecy e da allora vanno in montagna insieme. Dei veri compagni di cordata. Boris non esita a definire Tiph la sua best partner per sci e salite. Tiphaine è originaria della zona montuosa dei Bauges, poi migrata in Tarentaise. Essendo un moniteur de ski lo sci occupa molto suo tempo. D’estate ha anche lavorato come operaio forestale. Dopo essere stata membro del gruppo Excellence National Mountaineering, ha inseguito i sogni d'infanzia diventando Guida Alpina. Viaggiare in montagna è definitivamente una delle loro attività preferite. Prima d’intraprendere il progetto 12 mois d’hiver avevano già alle spalle numerosi viaggi per sciare in Turchia, Perù e Nuova Zelanda, solo per citare alcuni dei posti visitati. Poi arriva il 2016, inverno particolarmente capriccioso qui sulle Alpi, almeno all’inizio: Carole e Boris tagliano il cordone ombelicale che li lega alle loro abitudini e decidono di seguire il sogno. Un anno, 365 giorni di sci intorno al mondo, senza pressioni, solo seguire la propria voglia di sci. Il sogno di generazioni di sciatori. Come tutti anche per loro nella vita c’erano un sacco di progetti, ma era sempre difficile realizzarli tutti. Magari organizzavi un viaggio, andavi in un posto per sciare una determinata montagna. Poi uno si doveva scontrare con le condizioni, con il meteo, con il conto alla rovescia del tempo che era sempre poco.

Basta! Dopo averci pensato quasi tre anni, Carole e Boris hanno deciso di vivere a fondo quello che volevano fare: prendersi una finestra temporale sufficientemente lunga per potersi muovere in libertà, seguendo letteralmente la neve e le stagioni, fermandosi nei posti quanto bastava per fare quello che volevano. Un vero e proprio flow sciatorio intrapreso a gennaio 2016, inizialmente in due in furgone sulle Alpi francesi, partendo senza un vero e proprio piano per le prime settimane, se non per seguire il proprio istinto e adattarsi alle condizioni per scoprire le montagne. E poi gli amici che via via li raggiungevano e si univano a loro per piccoli periodi.Quindi Italia, in Valle d’Aosta, intorno a Rhêmes-Notre-Dame a respirare la prima polvere. Poi via accompagnati dal sottofondo del diesel del loro van verso Est, l’Austria, di nuovo l’Italia, i periodi di maltempo. Quindi Slovenia, Bosnia, Montenegro nel massiccio del Durmitor, nelle Alpi Dinariche dove a detta loro ci sono spettacolari montagne dai caratteri alpini. A seguire Albania, poi su verso la Polonia e i Tatra, quindi nel Sud-Ovest della Bulgaria, nei gruppi del Pirin e del Rila. E siamo solo nei primi due mesi. Arriva marzo: ovvio che ci si sposta in Turchia, nella zona dell’Ala Daglar, dove ad attenderli c’era una moltitudine di canali perfetti per sciare, come sul Demirkazik. Spesso capitava che i due sciavano al mattino e magari arrampicavano al pomeriggio. Senza un piano preciso, in fondo in montagna se la cavano abbastanza bene e la cosa compensava abbastanza la mancanza di un’organizzazione minuziosa. E poi in Turchia il kebab era troppo buono!Aprile in Georgia, il Mount Kazbek fino ad arrivare nella regione Svaneti a Mestia: questo periodo Carole e Boris lo hanno condiviso con i rispettivi padri che li hanno raggiunti e sono rientrati Francia con il furgone dei figli, visto che la coppia si stava per spostare in Alaska: rock’n roll insomma!E in Nord America i fortunelli, raggiunti da altri amici, trovano condizioni epiche nel Denali Range: 17 giorni su 18 nei quali hanno sciato in continuità una linea dietro l’altra, molte delle quali aspettavano qualcuno che le sciasse per la prima volta. Chiedere i nomi di tutte? Non se le ricordano. Insomma, occhi illuminati a palla e sciare. Punto. Poi arriva il turno del Perù, dove trovano condizioni meno buone e più secche. Ciò comunque non impedisce loro di sciare il mitico Artesonraju (6.025 m) con una doppia di 40 metri, il Tocllaraju e di provare per due volte ma senza successo l’Huascaran. Una chicca: il secondo tentativo su questo gigante, visto il buon acclimatamento (dopo quello che avevano già sciato ci mancherebbe…) e la partenza per un’altra destinazione imminente, lo hanno effettuato one push, direttamente da Huaraz, fallendo per il cattivo tempo nella parte alta che ha aiutato a sbagliare percorso. Dopo l’avventura peruviana arriva il tempo del Tagikistan, un po’ in anticipo rispetto all’apertura dei campi del Peak Communism, quindi perché non spostarsi in Kirghizistan dove sono stati solo due giorni ma hanno provato lo stesso il Peak Lenin arrestandosi a 6.400 metri? Tornati in Tagikistan, hanno poi sceso una linea splendida sul Korzhenevskaya Peak (7.105 m).Con l’arrivo di settembre e ottobre vengono raggiunti da Tiphaine Duperier in Tibet per tentare lo Shisha Pangma, la quattordicesima montagna più alta della Terra con i suoi 8.027 metri. Tiph è alla sua prima grande spedizione. Purtroppo però le condizioni sulla montagna sono pericolose, nevica continuamente e una valanga uccide uno degli sherpa. Carole non si è ben acclimatata, Boris e Tiphaine stanno bene, ma c’è troppa neve fresca, o semplicemente troppo per noi, come ci dicono. L’incidente, poi, ha contribuito a creare una strana atmosfera.A novembre si torna a casa, in Francia: due mesi ancora nel 2016 per sciare!

Nell'avventura 3 mois d'hiver i tre francesi hanno toccato anche il Perù

Poche chiacchiere e tanto sci. Di solito chi realizza progetti come questo cerca più supporto mediatico e da aziende di settore. Che scelta è stata la vostra?
«Guarda, siamo un po’ pigri. Pigri nel cercare sponsor e quel genere di supporto. Ci sono state delle ditte come Outdoor Research o Völk che ci hanno aiutato con materiale e piccoli contributi, ma tutti e tre abbiamo un lavoro e i nostri soldi li spendiamo per fare le cose in montagna!» O per Carole - aggiunge Boris - anche se lei non pare convintissima e arrossisce.

Il vostro progetto 12 mois d’hiver lo avete portato a termine nel 2016. Poi subito Laila?
«No, no anzi! Ci piace troppo viaggiare con gli sci! Nel maggio 2017, io (Boris, ndr) e Tiph siamo stati in Kashmir e Ladak. Una spedizione bellissima, forse la più bella che abbiamo fatto. Non c’era nessuno, solo la gente dei villaggi di alta montagna. Abbiamo sciato montagne tra 5.000 e 7.000 metri tra cui il Nun. Sempre nel 2017, abbiamo tentato il Pumori (7.161 m) sul confine tra Nepal e Tibet, la stessa linea che aveva tentato Paul Bonhomme. È stata una bella spedizione, ma anche per noi niente cima: troppo ghiaccio, abbiamo tentato anche senza sci, come salita alpinistica, ma ci siamo dovuti fermare a 100 metri dal punto più alto. Pazienza, magari torneremo».

 Poi basta e via per il Laila? Siamo qui per farcelo raccontare. Una montagna che è diventata un’icona per lo ski de pente.
«Sì, la spedizione dopo è stata quella del maggio 2018 del Laila. Tutti e tre insieme. Forse la spedizione più facile che abbiamo portato a termine, per condizioni e logistica. Quando siamo arrivati, il nostro contatto dell’agenzia locale ci ha detto che a breve sarebbe arrivato anche un team italo-svizzero per provare il Laila (quello di Cala Cimenti, Matthias Koenig e compagni). Quasi non ci credevamo e nemmeno eravamo sicuri di aver ben capito. Di Laila in Pakistan ce ne sono ben tre dopotutto».

Sentivate un po’ di pressione?
«No, però confessiamo che alla prima finestra di bel tempo, anche se non eravamo perfettamente acclimatati essendo appena arrivati, abbiamo provato! Bam! (ridono, ndr).
Siamo stati molto fortunati, eravamo saliti un paio di volte oltre i 5.000 metri, ma poi abbiamo deciso di provare direttamente dal campo base. Partenza poco dopo mezzanotte, 2.000 metri di dislivello, un percorso vario e con diverse esposizioni sulla montagna, con sezioni più o meno tecniche. Il traverso per entrare in parete ci sembrava carico, forse abbiamo osato, c’era una neve stupenda, ma era tanta. Dopo quasi dodici ore eravamo in cima. In salita per la neve e per la quota è stato faticoso, ma una volta fatti scattare gli attacchi è stato incredibile, neanche difficile se vogliamo. Ovvio, la prima parte era davvero dritta, ma con quella neve sciare è stata la cosa più facile! Volevamo venire a sciare questa montagna già durante il nostro anno passato a sciare, ma non siamo riusciti a organizzare bene il periodo per avere buone condizioni. Quest’anno è stato davvero perfetto. Forse la migliore neve che abbiamo mai sciato in quota!».

Siete stati molto fortunati, Cala ci ha riferito di condizioni diverse durante la sua discesa.
«Sì, sì, è vero, ce lo ha detto, le condizioni sono cambiate, la neve si è compattata. Non sappiamo se sarebbe stata così facile».

Una discesa che ha avuto un bel ritorno mediatico.
«Guarda, la cosa incredibile è che quando abbiamo chiamato i nostri amici in Francia, già la cosa si sapeva, e noi non avevamo ancora detto niente, quasi dubitavamo che i nostri genitori avessero cantato. Potere del web».

Visto che siete veramente degli esperti del connubio sci-viaggio, che posti sentite di consigliare per un’esperienza di questo tipo?
«La Turchia, la zona dell’Ala Daglar, senza dubbio. È un buon compromesso tra uno sci selvaggio e accessibile senza troppa fatica. È un viaggio per divertirsi e godere dello sci su un terreno adatto e ricco di possibilità anche ripide. Il periodo migliore di solito è marzo, ma non è troppo difficile raccogliere informazioni. Più in primavera anche l’Alaska, se si vuole qualcosa di più lontano. Come dicevamo prima, noi siamo stati nella zona del Ruth Glacier, nel Denali Range. Siamo stati fortunati ma è un posto fantastico per linee e neve».

Qui attorno a questo tavolo siamo stati tutti in Perù ultimamente, per vacanze, per sci e soprattutto voi per un periodo più lungo, ci tornereste per sciare?
«Non so (Carole, ndr). Magari mi piacerebbe DI più vedere il Cile e la Patagonia. M’ispira molto un viaggio con gli sci nello Hielo. In Sud America comunque ci sono anche montagne più alte e discese ambiziose che ancora aspettano di essere percorse (Boris, ndr)».

Lo sci nella vostra vita di tutti i giorni che posto occupa? È quasi scontato che sia rilevante ci pare.
«Se dobbiamo essere sinceri, più che lo sci in sé, ci piace da matti stare in montagna. Meglio se a scoprire posti nuovi. (Tiphaine, ndr) Mi piace il senso di avventura che sa regalare stare in un posto che non conosco. Addirittura certe volte, quando devo affrontare una salita o una montagna che è stata già percorsa, preferisco informarmi dopo. Non raccolgo particolari informazioni o impressioni, magari in rete. Così non sono influenzata e vivo meglio quel sentimento di scoperta. Non mi importa molto essere i primis u una montagna».

Sci e viaggio: un po’ come i pionieri dell’alpinismo qualche decennio fa. Quali sono secondo voi le prossime frontiere della disciplina?
«Non so, in questa disciplina è scontato dirlo, dipende sempre tutto o quasi dalle condizioni. Sul Laila eravamo a 6.000 metri e abbiamo avuto le condizioni per il migliore sci della nostra vita, ad esempio. Spesso Boris ripete che, in realtà, se uno vuole fare qualcosa di più difficile di un altro, allora deve fare certe discese con cattive condizioni, con neve dura o crostosa. La difficoltà non sta esclusivamente nella pendenza».

Boris, quindi, non cerchi solo la bella neve?
«Beh, diciamo che a volte, non troppe ovviamente, mi piace anche fare qualcosa quando non ci sono le condizioni. M’impegna ed è più coinvolgente. Ma non esagero. Per me lo ski de pente è un’opportunità per scoprire nuovi terreni di gioco!».

Domanda classica sui materiali che utilizzate.
«Materiale Völk, della serie BMT tra i 90 e i 95 mm. Per quanto ci riguarda spesso per il grip su nevi dure è importante anche il tipo di scarpone che si utilizza, ma comunque niente di estremo o particolarmente pesante, tipo Maestrale o Tlt, ognuno usa quello che preferisce».

Ora, come da tradizione delle interviste con più persone, la stessa domanda con diverse risposte: chi è il più fanatico di sci tra voi?

Carole: «Boris!».

Tiphaine. «Boris».

Boris. «Io, senza dubbio!».

Chi è quello che osa di più in momenti difficili?

Carole: «Sempre Boris!».

Tiphaine: «Difficile dirlo, è raro che siamo in conflitto su una decisione».

Boris: «Mi conosco e capisco con Tiphaine, e Carole si fida di noi».

Il più attento?

Carole: «Strano a dirlo, di nuovo Boris».

Tiphaine: «Carole».

Boris: «Carole!».

Domanda che vi metterà in difficoltà: il migliore a sciare?

Carole: «Boris».

Tiphaine: «Carole è perfetta».

Boris: «Carole».

Il più buffo e divertente del gruppo?

«Impossibile dirlo…presi tutti insieme siamo davvero divertenti!».

Il sogno nel cassetto?

Carole: «Mmmm… troppi».

Tiphaine: «Come Carole, ho troppe cose che ritengo importanti e vorrei fare».

Boris: «Non ho ancora mai visto la mia linea perfetta».

Un aggettivo per i tuoi compagni e poi la chiudiamo.

Carole: «Boris è perfezionista all’estremo, Tiphaine umana!».

Tiphaine: «Boris è creativo! Ha un feeling con la montagna incredibile, Carole è solida!».

Boris: «Tiph è letteralmente la più forte alpinista che io conosca, Carole generosa, motivata, perseverante!».

Questo articolo è stato pubblicato su Skialper 120, info qui.

© Federico Ravassard

 

 

 

 

 

 


Ripido, dalle nuove linee sul Brenta ai progetti extra-europei

Questa primavera che sembra più un inverno pieno, lascia qualche traccia sulle pareti ripide delle Alpi e le prime spedizioni stanno partendo anche per Himalaya e Canada. Che cosa è successo recentemente nel mondo del ripido e che cosa bolle in pentola? In Valle d’Aosta diverse discese di rito ma senza alcuna particolare novità, la più significativa sembra essere la prima ripetizione della parete Nord della Becca di Nona, proprio a picco su Aosta: itinerario aperto da Davide Capozzi e Pica Herry nel 2013 e ripetuto da Sandro Letey, Edo Camardella, Pierre Lucianaz e Yari Pellissier. Passando al Piemonte da segnalare che In Valle Orco Giorgio Bavastrello con la tavola ai piedi è sceso da una nuova linea sulla bastionata Sud-Est della Punta Galisia. Stagione senza dubbio migliore verso le Dolomiti in particolare in zona Brenta e Adamello-Presanella dove i fratelli Luca e Roberto Dallavalle stanno realizzando una prima dietro l'altra. Tra quelle più significative Cima Scarpacò parete Nord-Ovest, Cima di Bon parete Nord-Est, Cima del Vallon parete Nord-Ovest, Cima Tosa parete Est e Crozzon di Val d'Agola parete Nord-Est.Sempre in Adamello Claudio Lanzafame, Alessandro Beber e Marco Maganzini hanno sciato il Canale della Punta dell'Orco. Oltre confine, Tom Gaisbacher ha sciato alcune belle linee in Austria nella zona di Lienz (Hoher Tenn parete Est e la parete Sud-Est del Grosses Wiesbachhorn) e una classica alpinistica, la parete Nord del Gran Pilastro o Hochfeiler in Val di Vizze, Alto Adige. In Svizzera infine Seb de Sainte Marie ha continuato a inanellare alcune belle discese, come alcuni couloir al Gross Schiben, la Nord dell Vorab Glarner e del Piz Dolf e la Nord-Ovest del Piz Sordona. Mathéo Jacquemoud ha annunciato sul suo account Instagram di avere sciato una linea dalla Capanna Solvay, sul versante Est del Cervino, insieme a Vivian Bruchez, primo passo di un progetto tra Zermatt e Chamonix sul filo delle frontiere. Tutto questo mentre Enrico Mosetti, Tom Grant, Ben Briggs e Jesper Petersson sono in Alaska, sembra diretti al Mount Hunter. Poi a giugno il Nanga Parbat potrebbe vedere sia il tentativo di Cala Cimenti che del team francese che l’anno scorso ha sciato il Laila Peak: Chambaret, Duperier e Langenstein.


Pierre Tardivel, l'evoluzione di un mito

L'appuntamento è fissato per il primo pomeriggio, il viaggio scorre rapido attraverso la Valle d'Aosta, il tunnel del Monte Bianco e poi tra gli autovelox e i limiti delle autostrade francesi verso Annecy.  Abbiamo anche il tempo di constatare che negli autogrill francesi panini e gelati vengono conservati alla stessa temperatura.

Con Federico in auto, dopo aver parlato delle ultime arrampicate, il discorso vira - per ovvie questioni di politica aziendale - rapidamente sullo sci. Anzi sugli sci del mito che stiamo per incontrare. «Ha usato per anni quel modello lì, poi ha cambiato, è passato a modelli rockerati. Sì, però per le robe serie tornava sempre a quelli, poi adesso snow, comunque gli chiediamo tutto».

E fu così...

L'indirizzo è quello giusto, il navigatore non mente, le colline morbide di Annecy circondano una zona residenziale con casette unifamiliari basse, ciascuna con il suo giardino. Ci avviciniamo al cancello che riporta il numero civico indicato: un uomo sta sistemando dei rami in fondo al giardino. Ci vede, ci fa un cenno. Entriamo.

Stringiamo la mano a Pierre Tardivel.

Non nascondiamo un po' di emozione che svanisce quando, oltrepassando la soglia casa, ci si trova di fronte a un arredamento decisamente informale: libri e scaffali occupano le pareti, due divani dai cuscini multicolore abbracciano un tavolino con diversi oggetti sopra. Qualche armadio che porta con sé qualcosa di orientale, una sala luminosa che dà direttamente sul giardino. Sul tavolo da pranzo circolare una gabbia con uno dei membri della famiglia: un coniglio. Anche un cane e un gatto decisamente in carne ci fanno capire che la passione per gli animali è di casa dai Tardivel, per lo meno al pari dello sci!

Quella che avevamo immaginato come un'intervista con una traccia ben definita, si trasforma fin dalle prime battute in un'allegra chiacchierata con il Piero! Spero che Pierre non si offenda se mi prendo questa licenza. Chiamarlo Piero trovo che renda la cosa molto confidenziale.

«Hai visto cosa ha di nuovo sceso il Piero?».

«Grande il Piero, sempre avanti!».

E se ci pensate, quante volte tra gli appassionati di sci ripido, guardando una foto o una parete orlata di seracchi, magari appartenente al massiccio del Bianco, alla domanda da chi fosse stata scesaavete sentito rispondere Il Piero!. Proprio lui. Sempre lui. Come un amico più grande di cui hai sempre sentito parlare! Dunque che il Piero non sia un tipo convenzionale lo capiamo nei primi trenta secondi: quando scopre che uno di noi due è il fotografo, gli si illuminano gli occhi di quella curiosità genuina tipica delle persone eclettiche e inizia a tempestarci di domande tecniche sugli obiettivi, sui corpi macchina. E non certo per capire quali siano gli strumenti migliori da utilizzare durante le discese o per immortalare momenti di sci appesi a qualche pendio a 50°. Il Piero infatti ha una grande passione che coltiva parallelamente allo sci: l'avifauna alpina e la fotografia faunistica! Un po' stupiti, lo incalziamo.

©Federico Ravassard

Ci incuriosisce molto scoprire che sei un grande appassionato di animali nel loro ambiente naturale! Da dove arriva questa passione?

«Sono 30 anni che faccio foto, soprattutto alle varie specie della fauna alpina nel loro ambiente. Adoro prendere immagini degli animali di grossa taglia e di uccelli. Basta appena uscire da Annecy, diverse volte mi è persino capitato di fare foto a cerbiatti direttamente dalla finestra del salotto. Sono bellissimi. E poi gli uccelli, solo nel mio giardino ne ho potuti individuare una cinquantina di varietà. Sono un appassionato della natura e fotografare gli animali è stimolante. Incontrarli per caso e cogliere l'attimo giusto… (mima un gesto quasi da vera e propria caccia fotografica, ndr). Il problema sono le dimensioni dell'attrezzatura, di solito metto la mia macchina con un buon obiettivo in una sacca che tengo davanti sul petto e mi permette di muovermi sia in salita sia in discesa anche quando scio. Sì, perché lo scialpinismo è un'attività ideale per fare fotografie. In salita uno tiene il giusto ritmo e si ha tempo per guardarsi intorno e scattare. Poi invece in discesa si scia». (ride)

E foto di sci?

«Anche sciando faccio un sacco di foto ai miei compagni, ne ho pochissime invece dove ci sono io perché gli altri ne scattano meno. Mi piace tanto fotografare, ma nelle discese ripide spesso utilizzo una compatta che è più comoda: la tengo sullo spallaccio fissata con un laccetto al collo e... zan, quando passa il compagno, scatto veloce! Mi sono accorto che utilizzando un obiettivo grandangolare da 24 mm e fotografando in un canale a 50° si riesce a inquadrare l'orizzonte. È più bello!».

Mi sembra che ti piaccia molto vivere ad Annecy , perché non Chamonix, più vicino al Bianco?

«No, non mi piacerebbe vivere a Chamonix, è più caotica e molto più cara rispetto a qui. E poi Annecy ha molti più servizi ed è meglio collegata. Ci sono più scuole e università per le mie figlie».

Riesci a lavorare come Guida alpina anche qui?

«In realtà come Guida lavoro poco. Lavoro piuttosto come intermediario nell'editoria di montagna. Per esercitare come Guida dovresti fare eliski, spedizioni, oppure due o tre Vallée Blanche alla settimana. Sinceramente non mi piace. È bello anche arrampicare, ma non come sciare».

Quindi preferisci sciare, ma sei nato alpinista o sciatore?

«Essendo Guida ho scalato e scalo e non mi dispiace. Ma scalare è fatica, dolore a volte, devi sempre forzare per ottenere risultati e andare forte. Lo sci è diverso, è più fluido, meno forzato, un'attività più dolce. Sciare mi è sempre piaciuto. La mia famiglia in montagna faceva al massimo delle escursioni. A sciare mi ci portava la scuola. Ma già a 10-11 anni mi piaceva più andare in fuoripista che su percorsi battuti. E poi non serve forza, si fa tutto plus en douceur, l'ho sempre preferito. Con i materiali di oggi è facile diventare un buono sciatore, è molto più difficile essere un buono scalatore».

Lo scarpone usato sull'Everest ©Federico Ravassard

Negli ultimi anni il livello si è molto alzato, complici materiali sempre migliori e più facili da utilizzare. Però forse troppo spesso ottimi sciatori si cimentano in discese anche molto impegnative, trascurando forse un po' troppo la componente alpinistica che lo sci di pente raide richiede. Quanto è importante?

«È indubbiamente importante, specie per gestire situazioni come creare delle soste, fare delle calate e altre manovre di corda in sicurezza. E poi se sei solo uno sciatore e non provi piacere anche durante le risalite delle pareti... insomma magari sali una parete per quattro ore, se non ti piace questa parte la giornata diventa lunga (ride!). Discorso diverso per le valanghe, anche con 40 anni di esperienza il rischio non è mai completamente eliminabile purtroppo. Bisogna fare attenzione a scegliere le giuste condizioni, sapere aspettare. Con la neve dura il rischio valanghe è minore ma, appunto, la neve è dura».

Lo sci ripido è diventato una moda negli ultimi anni. Come in arrampicata e alpinismo esistono vie di salita e percorsi più o meno difficili: è giusto pensare che sia così anche nello skialp?

«Sì, esistono pendii e montagne più o meno difficili, certo. Per esempio la scala Volopress mette tutto insieme sotto un'unica valutazione di difficoltà che mi vede d'accordo. In effetti il ripido è un'attività che è diventata di moda, ma a volte chi la pratica non è pronto come si è potuto vedere dal gran numero di incidenti di questo tipo della scorsa stagione. Anche la PGHM (il Soccorso Alpino francese, ndr) non è contenta di ciò. Non vorrei che poi alla fine come soluzione si arrivasse a vietare delle discese come la nord-est delle Courtes».

Lo sci estremo, per quanto ti riguarda, è qualcosa di diverso?

«Se ci riflettiamo, l'estremo lo si ha quando si cerca e si raggiunge il limite. E il limite lo cerchi per esempio nelle gare di freeride, ti confronti con un cronometro e cerchi il limite. Infatti a volte cadono: arrivare al limite cercando la velocità. Nello sci di pente raide che ho fatto e faccio, non si cerca il limite. La caduta è da evitare assolutamente. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato di muovermi con un margine di sicurezza, magari facendo una curva in meno se non me la sentivo. Non ho mai voluto raggiungere il limite ma il maggior piacere che mi poteva offrire una discesa ripida. È un'attività molto psicologica, è tutto nella testa, come diceva Stefano De Benedetti».

È la possibilità che dà lo sci di pente raide di ampliare esponenzialmente il proprio terreno di gioco che ti affascina di questa disciplina?

«No, è proprio la ricerca della pendenza che mi piace. È cercare di prendere confidenza con le proprie paure e gestire l'incertezza che restituisce il ripido».

Allora come vedi la tendenza degli ultimi anni di scendere certe pareti in modo superfluido e a grande velocità? (Gli si illuminano letteralmente gli occhi, ndr)

«Ah, poter sciare come Jérémie Heitz e al tempo stesso mantenere un margine di sicurezza, sarebbe un sogno! Anche con curve meno filanti, andando leggermente più piano, ma con quella fluidità. Per me lo sci è diventato cercare la perfezione del gesto su pendii adatti allo sci. Non mi interessano più quelle discese molto tecniche dove fai una curva, derapi metri perché non c'è spazio, fai un'altra curva e poi una doppia. Lo sci è saper attendere il bon jour per avere le condizioni per poter scendere nel modo più fluido possibile un bel pendio. Se le condizioni non ci sono, aspetterò, magari degli anni. Certe discese fatte trovando tratti ghiacciati che obbligano magari a doppie o a non sciare integralmente diventano un esercizio d'alpinismo. Cosa che non rappresenta la mia idea di sciare. Per me è più importante la natura, cercare di capirla e prendere del piacere giocando con essa, come per la fotografia degli animali selvatici».

Lo sci per te è ricerca di fluidità, abbiamo capito bene?

«Sì, è la ricerca di quella sensazione di fluidità che ha sempre influenzato il mio modo di andare sulla neve, specie con i materiali di adesso. Il freeride ha portato molto allo sci in questo senso».

 Questa tua ricerca della fluidità passa senza dubbio anche per l'evoluzione dei materiali. A fine anni ottanta e novanta si usavano sci molto stretti, poi verso i primi anni duemila utilizzavi i mitici Dynastar 8800 e le successive evoluzioni che erano 89 mm al centro. Parliamo del tuo sci preferito?

«In quegli anni gli sci erano molto stretti, fare le curve era più forzato, più brusco. Con i nuovi materiali è diventato tutto più armonioso, più morbido. Ho usato molto gli 8800, è vero, ma quelli con cui mi sono trovato meglio sono stati i Dynastar Cham 97. Non troppo lunghi, avevano una maneggevolezza incredibile e poi col rocker erano facilissimi da sciare, non restituivano sorprese e avevano una buona rigidezza torsionale che per tenere sul duro è la cosa più importante. Intorno ai 95-97 mm secondo me c’è il compromesso ideale».

Ti confesso che ci hai spiazzato… come sei arrivato allo snowboard?

«È stato naturale cercando un modo per ottenere maggiore fluidità. Lo snowboard per uno sciatore come me non è stato immediato. Ho iniziato nel 2014, in principio lo trovavo contraddittorio, devi sempre accompagnare il movimento, molto più che con gli sci. Ma una volta che uno impara è assai meno faticoso. E poi adesso ci sono le splitboard. Ho deciso di fare il salto verso lo snowboard quando si è perfezionato questo tipo di materiale».

Un punto di vista molto surf questa ricerca del gesto fluido e più armonioso possibile. Che materiale usi adesso?

«Sì, mi piace e pratico quando posso anche il surf da onda infatti. Sulla neve utilizzo una splitboard Plume. Ma il vero problema è cercare la combinazione perfetta attacchi-scarponi. Uso uno scarpone SB di Pierre Gignoux e trovo che sia il compromesso perfetto che mi garantisce un'ottima risposta nelle sezioni in backside, anche su nevi difficili. Ovvio, lo snowboard patisce un po' le nevi dure, infatti ci sono pochi video di ripido su nevi dure. Però hai anche due picche e in front su tratti ghiacciati è meglio. Le cose cambiano se ci sono tratti di dry…».

Come sono stati gli inizi? Erano davvero così mitici quegli anni da un punto di vista delle precipitazioni nevose?

«Una volta gli inverni erano davvero diversi, nevicava sul serio. Si poteva sciare nove mesi l'anno, da novembre a luglio. Tra il 1978 e il 1980 ho iniziato a fare ski de randonnée. Fino al 1988 sono stato a tutti gli effetti un amatore. Poi fino al 1995 sono stato sostenuto dagli sponsor. Era mia moglie Kathy a organizzare tutto e a gestire i rapporti con le aziende. All'inizio essere pagato per compiere delle prime discese sempre più difficili è stata una motivazione, ho smesso di lavorare in banca e mi ci sono dedicato a tempo pieno. La ricerca della prima era sia un discorso di ego che di soldi. Poi mi sono accorto che questa impostazione stava influenzando anche le mie scelte e ho continuato la mia attività solo per piacere».

Scorrendo la lista delle tue discese, mi piacerebbe saperne di più su alcune, per esempio spesso mi capita di sciare nel Massif des Écrins dove nel 1997 hai ripetuto il Couloir Gravelotte sulla parete nord-est della Meije.

«Sì la Meije, purtroppo l'unico che è riuscito a sciarlo tutto quel canale, a proposito di cambiamenti delle condizioni nevose negli anni, è stato Patrick Vallençant alla fine degli anni '70, in occasione della prima discesa. Quando sono andato io in basso c'era già un tratto di 50 metri insuperabile con gli sci, così per evitare di fare doppie sono risalito e ho sceso il Corridor».

Un'altra discesa che mi ha molto colpito è quella del '95 sul versante Italiano del Triolet. Che caratteristiche aveva?

«Il problema di questa discesa è che ci vuole un grande innevamento per poter collegare tutte le parti, poi certo, è ripida!».

Una data mitica: 10 luglio 1988? Ne parliamo? Il Grand Pilier d'Angle: un posto surreale e pericoloso.

«Nello stesso giorno, con l'elicottero però, ho concatenato la parete sud-est del Col de la Brenva e la parete nord del Grand Pilier d'Angle. Era dopo una perturbazione di una settimana, forse il secondo giorno di bello. Sul versante italiano del Monte Bianco c'era un innevamento incredibile, tutto bianco. Tutto. La Brenva l'ho scesa presto e la neve, essendo luglio, si era già trasformata: l’ho trovata quasi dura, specie in alto. Poi sono stato depositato nuovamente sulla cima del Bianco, ho sceso la cresta di Peuterey per fare infine una parte di cresta del Grand Pilier d'Angle a piedi e scendere la parete nord. Qui ho trovato soprattutto ‘poudre tassée’, tranne nell'attraversamento sopra al seracco. La neve, decisamente dura, era un po' verglassata, poi una parte in doppia sul salto centrale e i pendii del tratto basso. Dall'elicottero avevamo monitorato i seracchi della Poire, non erano particolarmente brutti o fratturati, però lì sotto ho allungato le curve... È un versante bellissimo, sul quale mi piacerebbe sciare ancora, fortunati quelli che possono averlo sotto gli occhi tutti i giorni».

Hai mai avuto paura di una discesa, magari una parete che hai deciso di non scendere perché ti incuteva timore?

«Certo! Il Nant Blanc sulla Verte».

Però lo hai sceso e ci sei andato ben due volte!

«Sì, ma mi ci sono voluti ben venti anni per andare a provare! Non mi sentivo pronto, lo reputavo troppo difficile per me. Poi l’ho sciato: il Nant Blanc racchiude una serie di problemi tecnici e di pendenza notevoli. Non abbiamo fatto le doppie della parte centrale, ma abbiamo cercato, con una traversata, di collegare i due nevai. Nell'arco delle due volte ho sciato tutte le varie sezioni dalla cima, ma non concatenandole in un'unica discesa. E poi oggi il problema potrebbe diventare il risalto alla base. Invece ci sono delle discese che, paradossalmente, miglioreranno con lo scioglimento dei ghiacciai, speriamo!».

Ultima domanda, soli o in compagnia?

«In compagnia c'è condivisione. È più bello!»

Grazie Piero, un mito.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 114 DI SKIALPER, PER ORDINARLO CLICCA QUI

©Federico Ravassard

Quello che volevamo chiedere a Jérémie Heitz

Nello skibus del comprensorio austriaco di Lech-Zurs l’atmosfera è rilassata. Sono i giorni in cui si tiene l’evento organizzato da Scott per la stampa specializzata. Vengono anticipate le novità che saranno presentate a Ispo 2018, secondo la tendenza dei maggiori brand di settore. Fuori sta nevicando, forte, molto forte… a tal punto che, con un certo rammarico, scopriremo poi che alcuni impianti rimarranno chiusi per ragioni di sicurezza. È inverno dopotutto e forse non ci siamo più davvero abituati, anche se ognuno di noi cerca di trascorrere sulla neve il maggiore tempo possibile. Seduto, in un posto centrale ma un po’ in disparte rispetto al gruppo, che non fa che cercare di capire quali siano i confini ormai indistinguibili della strada che stiamo percorrendo, un giovane. Casco e una maschera con lenti fog, che ottimizzano la visibilità in giorni come questo, ma che lasciano vedere gli occhi. Lo riconosco subito: è Jérémie Heitz. Avevamo parlato con gli organizzatori per capire se si poteva organizzare una chiacchierata con lui: sapevamo che c’era. Dopotutto ci piace parlare con sciatori veri, con gente che ha fatto dello sci la propria vita, così come abbiamo fatto con Pierre Tardivel e Gilles Sierro. 

Ho preferito osservare, non dire niente, non presentarmi nemmeno. Un cenno di saluto come si fa normalmente tra gente che sta andando a sciare neve… quando fuori nevica. E questo fa una bella differenza. Jérémie ha riabbassato subito lo sguardo sullo smartphone che teneva tra le mani. Lo confesso, non ho potuto fare a meno di sbirciare il social che stava sfogliando, così come fanno le morose per sgamarvi mentre seguite qualche donzella random. Anche lui stava guardando delle curve: sì! Ma quelle che qualche suo compare aveva appena disegnato su un pendio intonso delle Alpi! È in quel preciso momento che quel ragazzo mi è entrato in simpatia: uno che scia tutti i giorni di tutta la stagione, cosa fa quando ha cinque minuti liberi? Guarda video e foto di sci. Un altro. Uno sciatore. Geremia, uno di noi!

Per lo meno a sud delle Alpi, il suo nome ha iniziato a circolare in concomitanza con i primi piazzamenti nel Freeride World Tour di un promettente sciatore svizzero, intorno al 2013. Passarono tre anni e nel 2016 ci fu un fulmine a ciel sereno! Esce La Liste, uno skimovie fuori dai canoni, dove tutto quello che era rimasto impresso nella nostra mente dopo la prima visione era una saetta che squarciava un muro bianco. Lo faceva a pezzi, letteralmente. Veloce, potente, precisa, fisica e nel contempo armonica. È sempre difficile descrivere una prima impressione, a volte non si riesce, ma ciò che si è provato in quella singola occasione orienta spesso indelebilmente tutto il modo che abbiamo di vedere poi le cose. In meno di cinquanta minuti tutte le certezze su come si sciavano le classiche big face alpine erano state prese a calci. Nessun modo sbruffone o arrogante, ma fatti. Quelle sciate erano su pareti, aperte, con tratti sostenuti a 50°, con esposizione, nessuna ripresa alaskan style ad aumentare pendenze. Tutti le riconoscevano quelle pareti, per alcune io stesso e numerosi conoscenti avevamo perso più di una notte, sognando le lamine su quelle nevi. Geremia ha sciato, come meglio non poteva, creando un riferimento di tecnica e stile, come ha detto qualcuno. 

Sono passati più di tre anni, in cui si sono sentite polemiche, elogi numerosissimi, si sono messe in ordine le cose, si è sedimentato quel sentimento di sbigottimento e allucinazione che ha provocato nel 2016 La Liste… e credevamo che fosse giunto il tempo di sentire il diretto interessato!

Perdonaci la confidenza, Geremia è più rassicurante, ti rende più… umano! Anche perché oggi, quando ti abbiamo visto sciare finalmente dal vivo, c’era davvero poco di ordinario! La Liste ha fatto molto discutere, se ne sono sentite di tutti i colori, siamo qui per parlarne, per sapere un po’ di retroscena, per conoscere Geremia, quello che La Liste l’ha sciata!

(ride ndr) «Sì, è vero, son sempre stato uno sciatore… gare, poi freeride. Vivo in montagna, a Les Marecottes, posto che adoro e a cui sono molto affezionato. È stato facile per la montagna entrare a far parte di me, e poi mio padre è Guida alpina. Non scalo molto, anzi. Però lo sci è sempre stato di casa, anche e soprattutto quello di randonnée, i viaggi con lo sci, lo scialpinismo che mio padre praticava».

La Liste è stato presentato come un progetto in cui dovevi sciare nell’arco di due anni 15 cime delle Alpi di 4.000 metri, poi ha subito alcune modifiche. Innanzitutto, quali erano quelle del progetto originale?

«Più o meno quelle elencate nel film, non con un ordine preciso: Cervino, Les Droites, Aiguille Verte per il Couturier, il Couloir Gervasutti al Tacul, la nord-est della Lenzspitze, l’Obergabelhorn, il Marinelli, lo Zinalrothorn, Combin di Valsorey, il Lyskamm orientale, il colle tra Dom e Täschhorn nel Mischabel, Weisshorn, Hohberghorn, Stecknadelhorn e l’Aiguille de la Blaitière. Questo, a grandi linee, era il progetto iniziale che poi ha subito delle variazioni, soprattutto per le condizioni. Certe pareti, come il Cervino o il Dom, erano in condizioni due giorni prima e poi completamente vuotate dal vento. E così altre. Ho inserito nuove pareti come il Brunegghorn, che era proprio vicino al Weisshorn. È molto complicato trovare le giuste condizioni in parete e ciò ha influito sul progetto originario».

Nel film, in realtà, poi compaiono anche altre pareti, per esempio la nord-est dell’Aiguille dell’Amône e la Blaitière, dove hai sciato il Couloir Spencer, che non sono cime di 4.000 metri…

«È vero: abbiamo voluto inserire l’Amône per mostrare in modo evidente quale era il pendio-tipo con le condizioni-tipo, su cui volevo esprimere la mia idea di sci in parete. Anche se più in piccolo rispetto a un 4.000, quello è IL pendio su cui sciare in quel modo, con quella fluidità. In realtà l’ho sciata più di una volta in occasioni diverse, ci sono piccoli frammenti delle due volte nel video se ci fate attenzione. Ci sono anche le esigenze delle riprese ovviamente, ma soprattutto lo sci che volevo far vedere. 

La Blaitière, invece, ho voluto inserirla perché era stata sciata 50 anni fa da uno dei personaggi che più mi ha ispirato, Sylvain Saudan. Fine anni ‘60, con quei materiali, senza le notizie di adesso sulle condizioni… Un pioniere, che aveva voluto mostrare che anche vie alpinistiche potevano essere sciate. Incredibile!».

Con chi hai deciso la tua lista?

«Molte persone mi hanno accompagnato in questa scelta, consigliandomi i pendii che vedevano più adatti allo sci che volevo esprimere. Da mio padre, che essendo Guida ha potuto darmi delle dritte, a Sam Anthamatten, fino a Luca Rolli. E poi ci ho messo del mio. Volevo trovare belle montagne, dove poter sciare nel modo più fluido possibile, in velocità. Pareti che potessero offrire bella neve. Che si prestassero a questo. 

Come avrai capito uno dei miei riferimenti è proprio Sylvain Saudan… siamo perfino nati nello stesso ospedale e mio nonno sciava con lui!»

Quando parli della tua idea di sci che cosa intendi? Qual era il vostro obiettivo?

«Volevamo trovare le linee e le condizioni che ci permettessero di affrontare linee da tutti ritenute di steep skiing, secondo una ricerca di massima fluidità. I materiali evolvono ormai ogni anno e quindi anche gli sci che ti permettono di sciare a grande velocità terreni così ripidi. In questo progetto, in fondo, ho trovato anche un modo di migliorare il mio sci. Di evolvermi, spingendo forse più avanti il modo di sciare questi terreni».

Per affrontare queste pareti con questo tipo di sciata veloce e super fluida, in che modo le studiavi, come controllavi le condizioni? 

«Fortunatamente avevamo a disposizione un piccolo aereo ultraleggero. Era fantastico: dopo le nevicate primaverili, nel giro di un paio d’ore riuscivo ad avere una panoramica completa delle condizioni».

E poi il giorno della discesa utilizzavi l’elicottero per raggiungere la cima o salivi by fair means?

«Solitamente io, con il compagno di turno, salivo dal basso. Le pareti le ho risalite quasi tutte per controllare le condizioni, per rendermi conto se c’era ghiaccio o altro. Vedi poi cosa è successo la prima volta al Combin proprio con il ghiaccio… Alcune volte, prima della ripresa, ero già sceso su quelle pareti, come per esempio all’Obergabelhorn, dove avevo provato altre due volte. Una mi sono dovuto fermare a metà parete per il ghiaccio, un’altra avevo sceso il lenzuolo a sinistra (Wellenkuppe), che è forse anche più ripido. Raramente siamo stati depositati in cima dall’elicottero: come per esempio sulla Lenzspitze. Sammy mi ha chiamato e mi ha detto con quelle condizioni dobbiamo andare domani, o forse mai più. Siamo scesi a un compromesso, lo so…».

Che condizioni cercavi?

«Il meglio è la poudre tassè, non troppo fonda ma morbida, regolare, ben attaccata alle pareti di ghiaccio».

Che materiali utilizzavi?

«Gli Scrapper 115 della Scott, un pro model che, rispetto a quello oggi di serie, aveva due fogli di fibra di vetro in più, per poter garantire ancora maggiore rigidezza ad alta velocità. Oggi scio con il nuovo modello di serie. Poi ho usato il sistema Cast, che mi permetteva di fissare attacchi da freeride fissi per la discesa, mentre in salita utilizzavo un puntale da skialp con sistema pin».

Geremia, dopo quasi due anni sei soddisfatto di questo tuo progetto? Ne hai pronti altri?

«Certamente! È stato il mio primo film project. Da quest’anno non parteciperò più alle competizioni di freeride e potrò dedicarmi a un progetto su tre anni con Sam Anthamatten: vogliamo sciare alcune pareti in Perù e su dei seimila himalayani, anche alcune linee nuove se si riuscirà. Sono terreni, quelli, dove ancora oggi possiamo essere pionieri, proprio come aveva fatto Saudan cinquanta anni fa, qui sulle Alpi. Dove c’è incertezza sulle condizioni e piacere della scoperta».

Alcuni, dopo La Liste, sostengono che in realtà non si sia trattato di evoluzione nell’ambito dello sci estremo, perché in fondo sono state sciate, seppur a grande velocità e con uno stile unico, linee classiche, non nuove o particolarmente tecniche. Come rispondi?

«È vero. Sono state sciate linee che, per quanto difficili, sono classiche. Niente di super tecnico, o di nuovo. Non era il nostro intento. Abbiamo scelto di proposito quel tipo di terreno, per fare un film di sci. E quando dico di sci, intendo un film comprensibile a tutti, indistintamente, anche ai non esperti delle linee super tecniche. La Liste vuole essere pure ski, puro sci nello stile più fluido possibile. Punto. Rispecchia la mia idea di questi sport e le pareti sono state scelte proprio per poterla esprimere. Non avrei potuto farlo su terreni ipertecnici o esplorativi».

Mi sembra di capire che non ti piaccia il termine sci estremo?

«Sinceramente non tanto. Che cos’è lo sci estremo, in fondo? Sammy fa sci estremo a modo suo, Vivian Bruchez anche, quelli che scendono a Kitzbühel fanno qualcosa di estremo, se ci pensiamo. Chi esplora nuove linee lo fa o semplicemente chi affronta qualcosa al suo limite sta facendo qualcosa di estremo per lui. Ci sono molti modi di farlo e forse non ha tanto senso definirlo così». 

Ritieni però che questo modo di sciare si possa applicare solo su pareti aperte? Tardivel sostiene che secondo lui il vero estremo sta nelle competizioni, perché lì ci si avvicina davvero al limite. Ti senti di condividere questo pensiero?

«Forse ha ragione. Nelle competizioni spingi davvero al limite, cosa che non fai ragionevolmente in montagna su certe discese. Però, se ci pensiamo, una parete come quella del Bec de Rosses del Verbier Extreme non è forse un terreno tecnico dove si scia in velocità? Quindi chissà in futuro: un’evoluzione passerà certamente nello scendere con sempre maggior velocità e fluidità le pareti, comunque con dei limiti dettati da condizioni e terreno».

Geremia, dimmi solo un’ultima cosa: la cima che vorresti ancora aggiungere alla tua lista?

«In realtà c’era già. È il Cervino, il sogno sarebbe di farlo dalla punta. Si passa…forse!

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 116 DI SKIALPER, DISPONIBILE QUI.

©Dom Daher/Scott

Bar Valeruz

Per quelli come me nati all’inizio degli anni Ottanta, il suo nome è sempre stato associato in maniera quasi naturale allo sci estremo. A dire il vero non riesco nemmeno a ricordare quando l’ho sentito per la prima volta, forse mai, quasi fosse stato inserito direttamente in quel particolare software che ci viene installato alla nascita. Tone Valeruz, naturale. Lo sciatore estremo. Valeruz, per tutti Tone. Il suo modo di sciare ha da sempre trasceso la ristretta cerchia dei praticanti di scialpinismo e del mondo dello sci libero. Tone è diventato, grazie alle sue imprese, alla spettacolarizzazione di alcune di esse, un personaggio trasversale. Conosciuto sia dalla massaia di Torino, che apostrofava le sue imprese urlate da qualche notiziario con un secco Oh basta là!!! È propi fol col li, sia dal mazinga pistaiolo tutto Moncler che,quando vedeva dalla seggiovia un versante particolarmente scosceso,lo mostrava al figliolo infagottato infarcendolo con un Da lì ero sceso una volta con Tone Valeruz, però oggi prendiamo la pista che ho vogliadi sciare più veloce…Per la massa, in Italia, lo sci estremo è sempre stato molto più associato a Tone rispetto ad altri nomi che come lui potevano vantare un curriculum confrontabile.

Contattare Tone sapevo che non sarebbe stato facile, nonostante i canali social oggi facciano sembrare questo aspetto immediato. Siamo dovuti passare attraverso telefonate, conoscenze comuni, ambasciatori, proprio come si faceva per le interviste fino a qualche anno fa. E sinceramente nonci è dispiaciuto, anzi, la cosa mi ha parecchio intrigato perché iniziava atrasparire il personaggio.Ma nessuna mancanza di disponibilità, ci mancherebbe! Tone è uno veroche preferisce le parole faccia a faccia. Genuino nel suo modo di sciare cosìcome nel modo di vivere. Padrone al cento per cento della sua vita.Dopo una telefonata, ci si è dati appuntamento davanti alla scuola sci diCanazei. Arriva anche Alice per le foto. È pomeriggio e il cielo sta diventandoscuro, fa freddo, ma Tone oggi teneva lezioni di sci. Il periodo dellevacanze è assai frenetico per chi lavora con i turisti in Dolomiti. Stiamofantasticando su come sarebbe averlo come maestro, poi vediamo un’ombrache ci si avvicina.Ci tende la mano, ci fissa con due occhi azzurrissimi: «Ciao! Sono Tone,leviamoci da qui, vi porto in un posto… nella mia tana! È anche l’ora dell’aperitivo,no?».

Ci siamo, si parte! Lo seguiamo in macchina scendendo la valle per alcuni chilometri, passiamo Campitello e poi parcheggiamo su uno spiazzo in curva vicino a un bar tutto rivestito in legno all’esterno. La finitura delle pareti all’interno non cambia. Il vociare che si leva dagli avventori (a una prima occhiata tutti professionisti del gioco delle carte) all’ingresso di Tone ci fa capire che siamo arrivati. La sua crew, la sua tana. Alcune foto sulle pareti, con gli amici di una vita e con il corpulento proprietario che prima si esserci seduti ci porta un paio di spritz e dello speck locale. Due parole per fiutarsi, un sorso, un clima sincero, cento per cento Tone!

Più che un’intervista ci piacerebbe fare una chiacchierata, libera, magari partendo da chi è Tone oggi, cosa fai?

«Tone oggi è pensionato, pertanto ci terrei a specificare che Tone non fa assolutamente niente!».

Ah! Decisamente categorico, però sei Maestro di sci e Guida alpina?

«Sì è vero, per lo sci ho sempre avuto una predisposizione. Oggi lavoro ogni tanto come Maestro. È sempre stata la mia unica occupazione. In realtà non ho mai aspirato a fare la Guida alpina. Se fai la Guida non è solo accompagnare qualcuno, un estraneo, ma porti il tuo cliente a vivere un’esperienza. È qualcosa di molto profondo, specie per lui. Poi ti devi far pagare e il denaro, a mio avviso, cambia totalmente il rapporto che si potrebbe instaurare. Il far parte di un’esperienza così particolare come l’andare in montagna può portare a un’amicizia, con i soldi di mezzo… non lo so».

So che hai anche altre passioni in montagna, una che mi incuriosisce molto è quella per i cristalli.

«È vero, è la mia passione più grande! Forse perché mi permette di avere un rapporto tutto particolare con la montagna. Mi offre l’occasione di viverla a 360 gradi. Ho iniziato ad avvicinarmi e appassionarmi alla geologia completamente da autodidatta. Ho incominciato a conoscere le rocce che possono contenere i cristalli. È una passione e come tale non ci vedo nulla di venale. Non mi è mai riuscito di guadagnarci qualcosa. Anche se dietro al mondo dei cercatori di cristalli e dei minerali si nasconde un giro d’affari difficile da immaginare. Pazzesco».

Tornando alla tua specialità più nota a tutti, ci piacerebbe capire se ti ritrovi ancora nel mondo dello sci di oggi dove - ormai è evidente - si tendono a far passare come eroiche anche prestazioni che non hanno certo titolo di esserlo.

«Guarda, per quanto mi riguarda tutti possono fare ciò che vogliono e possono vendere come estreme prestazioni che certo non lo sono. Sono fermamente convinto che poi la cosa importante per dare il giusto valore al tutto sia il livello culturale di chi giudica. Cioè da chi viene il giudizio. Il problema, se di problema vogliamo parlare, è che spesso oggi chi giudica una prestazione, il pubblico, spesso non è in grado di comprendere il vero valore di una discesa. Il problema non sta in chi vende una discesa che di epico non ha niente, ma sta nel livello di preparazione di chi osserva. Un occhio esperto sa sempre dare il vero valore alle cose».

 A questo proposito, un po’ di tempo fa mi ricordo di una tua reazione ironica al video di una discesa ripida classica nelle Alpi Centrali sul Monte Pasquale che girava in rete come se fosse una discesa pazzesca. Entrambi sappiamo che si trattava di una prestazione sì ripida, ma assolutamente classica e percorsa con regolarità ogni anno, specie in primavera.

«Sì, esatto. Lì era proprio successo quello di cui parlavamo sopra. C’è stato un problema di giudizio. Uno che pratica quel tipo di sci ben sa che non era niente di particolare. L’errore stava in chi la giudicava una cosa estrema. È per questo che, se devo essere sincero, a me non me ne frega niente dei giudizi». Ride.

Domanda quasi classica che ci piace rivolgere a chi pratica o ha praticato: esiste ancora per te lo sci estremo?

«Secondo me oggi no, o per lo meno, in pochissimi sono in grado ancora di fare qualcosa che valga la pena considerare estremo. Scendere dalla cima del Cervino sarà ancora estremo. Come è stato estremo scendere il Lyskamm in meno di tre minuti negli anni in cui lo avevo fatto».

Oggi si può continuare a praticarlo, magari qui in Dolomiti?

«Penso che siano in pochi a poterlo veramente fare. E qui in Dolomiti rimangono un sacco di cose da fare».

Chi sono quelli che l’hanno praticato davvero? Vivevi una sorta di competizione nei loro confronti?

«Certamente Tardivel, Boivin, Vallençant, De Benedetti, Saudan, Holzer. Su nomi più recenti non mi sento di esprimermi. Competizione per quanto mi riguarda non ce n’era, nonostante si ragionasse come in ambito alpinistico».

L’aumento dei praticanti su terreni ripidi è certamente dovuto ai materiali. Adesso è più facile?

«Certo che è più facile! Però bisogna vedere dove ci sono sempre più praticanti. Se parliamo per esempio del canale Holzer qui sul Pordoi, sono d’accordo. Però sono tutti lì. Conta sempre l’atteggiamento di chi si avvicina a questo tipo di sci».

Occorre comunque allenarsi?

«Quando praticavo sci estremo mi allenavo facendo di tutto. Niente di specifico, ma ero in continuo movimento. Mi allenavo muovendomi! Passavo dalle salite solitarie di arrampicata come lo Spigolo Giallo, alle salite sull’Ortles e poi in Marmolada fatte di fila! Ero anche alpinista, anche se mi ritengo più uno sciatore». Caspita! A proposito di aneddoti, ci piacerebbe che ce ne raccontassi uno sullo sci. Alcune tue imprese hanno spesso suscitato scalpore. A volte anche polemiche per l’uso dell’elicottero. «È vero, a volte ho usato l’elicottero. L’ho sempre detto e mai nascosto. Non vedo il perché dovrei. Come quella volta sulla parete nord della Presanella. L’ho fatta quattro volte in un giorno la discesa: sono stato portato in cima e l’ho scesa per capire le condizioni e se c’era ghiaccio. Poi di nuovo in cima e me la sono scesa con un fascio di pali sulle spalle, piantando le porte per tutto il tracciato. Poi ho fatto il gigante. Quindi di nuovo in cima con l’eli per smontarmi da solo tutte le porte. Sì, ok l’eli, ma mi sono fatto un mazzo tanto!».

Le discese a cui tieni di più?

«Mah, ci devo pensare un attimo. Forse la parete Nord-Est del Civetta. Sciata tutta con sole due doppie in basso. E forse anche la Nord-Est del Sassolungo».

Invece qualche linea che ti senti di consigliare?

«Qui in valle, nei dintorni di Canazei, senza dubbio la Nord della Marmolada è sempre una bella sciata. Così come i canali del Pordoi. Altrimenti più lontano i versanti Nord-Ovest o Sud dell’Ortles».

Il tuo è spesso stato un approccio di rottura per certi versi. Pensiamo alla discesa del Cervino in frack o alla parete Nord-Est del Lyskamm in meno di tre minuti. Voleva esserci un messaggio dietro a tutto questo?

«Posso essere sincero? Perché volevo solo dimostrare che ho due palle così quando ho gli sci nei piedi! Dico la verità, scrivilo! (ride e cifissa con quegli occhi azzurri che non lasciano spazio a dubbi). Tutto quello che ho fatto l’ho fatto perché mi andava di farlo».

Dunque qual è la cosa più bella per te nella vita?

«Guarda, da tutto ciò che ho fatto ho guadagnato solo un’assoluta libertà personale. Non ho mai preso in seria considerazione il discorso sponsor proprio per questo. Avere degli sponsor significa prendersi degli impegni e personalmente lo ritengo folle in un’attività come questa. Ognuno deve solo saper valutare un paio di cose: come è stata fatta una discesa, lo stile. E poi la ragione per cui si è ingaggiato per farla: se per il puro gusto o per riceverne una notorietà. Dalla mia vita ho solo ricevuto la libertà di fare ciò che voglio, sempre. Per farvi capire: sono un tipo che già solo quando vado a cena spera di mangiare subito, così poi posso decidere io quando andare via. Ad esempio, ora è meglio andare, non ho più voglia di parlare!».

Tone, senza compromessi. Sempre!

 

Tone Valeruz, è nato ad Alba, frazione di Canazei, nel gennaio del 1951. Maestro di sci, Guida alpina, ha sempre mantenuto un posto speciale nell’olimpo dello sci ripido grazie alle sue discese e a un carattere vulcanico. Vivendo in Val di Fassa ha presto iniziato a sognare di scendere con gli sci tutte le pareti che gli stavano intorno, frantumando il vecchio preconcetto che le Dolomiti fossero poco adatte allo sci. A 19 anni inizia con la parete Nord della Marmolada. Diversi i suoi itinerari sulla Nord del Gran Vernel, sulla parete Nord-Est del Sassolungo, sulla Nord-Est del Civetta, per rimanere in Dolomiti. Tra gli anni Settanta e Ottanta porta a termine discese di assoluto pregio in tutto l’arco alpino, dalla Est del Cervino (spalla a 4.200 m sulla cresta Hörnli), al Gran Couloir della Brenva nel centro alla parete Est del Monte Bianco (tra le vie Mayor e Sentinella Rossa), dalla via Lauper sulla Nord-Est dell’Eiger, alla Nord-Ovest dell’Ortles, solo per citarne alcune. La sua attività negli anni Ottanta conta anche diverse discese in Sud America tra le quali la prima dell’Alpamayo (5.947 m) e la parete Sud del Cerro Don Bosco in Patagonia. Nell’ambito di una spedizione himalayana è riuscito anche a posare gli assi sul Makalu da quota 8.100 metri. Vive ancora in Val di Fassa, continua a fare il Maestro e a coltivare le suepassioni: ricerca di cristalli e, ovviamente… lo sci!

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 117 DI SKIALPER, SE SEI INTERESSATO AD ACQUISTARLO LO TROVI QUI

@Alice Russolo

Pierre Tardivel, l'evoluzione di un mito

L'appuntamento è fissato per il primo pomeriggio, il viaggio scorre rapido attraverso la Valle d'Aosta, il tunnel del Monte Bianco e poi tra gli autovelox e i limiti delle autostrade francesi verso Annecy. Abbiamo anche il tempo di constatare che negli autogrill francesi panini e gelati vengono conservati alla stessa temperatura. Con Federico in auto, dopo aver parlato delle ultime arrampicate, il discorso vira - per ovvie questioni di politica aziendale - rapidamente sullo sci. Anzi sugli sci del mito che stiamo per incontrare. «Ha usato per anni quel modello lì, poi ha cambiato, è passato a modelli rockerati. Sì, però per le robe serie tornava sempre a quelli, poi adesso snow, comunque gli chiediamo tutto».

E fu così... L'indirizzo è quello giusto, il navigatore non mente, le colline morbide di Annecy circondano una zona residenziale con casette unifamiliari basse, ciascuna con il suo giardino. Ci avviciniamo al cancello che riporta il numero civico indicato: un uomo sta sistemando dei rami in fondo al giardino. Ci vede, ci fa un cenno. Entriamo. Stringiamo la mano a Pierre Tardivel. Non nascondiamo un po' di emozione che svanisce quando, oltrepassando la soglia casa, ci si trova di fronte a un arredamento decisamente informale: libri e scaffali occupano le pareti, due divani dai cuscini multicolore abbracciano un tavolino con diversi oggetti sopra. Qualche armadio che porta con sé qualcosa di orientale, una sala luminosa che dà direttamente sul giardino. Sul tavolo da pranzo circolare una gabbia con uno dei membri della famiglia: un coniglio. Anche un cane e un gatto decisamente in carne ci fanno capire che la passione per gli animali è di casa dai Tardivel, per lo meno al pari dello sci!

Quella che avevamo immaginato come un'intervista con una traccia ben definita, si trasforma fin dalle prime battute in un'allegra chiacchierata con il Piero! Spero che Pierre non si offenda se mi prendo questa licenza. Chiamarlo Piero trovo che renda la cosa molto confidenziale. 

«Hai visto cosa ha di nuovo sceso il Piero?». 

«Grande il Piero, sempre avanti!». 

E se ci pensate, quante volte tra gli appassionati di sci ripido, guardando una foto o una parete orlata di seracchi, magari appartenente al massiccio del Bianco, alla domanda da chi fosse stata scesa avete sentito rispondere Il Piero!. Proprio lui. Sempre lui. Come un amico più grande di cui hai sempre sentito parlare! Dunque che il Piero non sia un tipo convenzionale lo capiamo nei primi trenta secondi: quando scopre che uno di noi due è il fotografo, gli si illuminano gli occhi di quella curiosità genuina tipica delle persone eclettiche e inizia a tempestarci di domande tecniche sugli obiettivi, sui corpi macchina. E non certo per capire quali siano gli strumenti migliori da utilizzare durante le discese o per immortalare momenti di sci appesi a qualche pendio a 50°. Il Piero infatti ha una grande passione che coltiva parallelamente allo sci: l'avifauna alpina e la fotografia faunistica! Un po' stupiti, lo incalziamo.

Ci incuriosisce molto scoprire che sei un grande appassionato di animali nel loro ambiente naturale! Da dove arriva questa passione?

«Sono 30 anni che faccio foto, soprattutto alle varie specie della fauna alpina nel loro ambiente. Adoro prendere immagini degli animali di grossa taglia e di uccelli. Basta appena uscire da Annecy, diverse volte mi è persino capitato di fare foto a cerbiatti direttamente dalla finestra del salotto. Sono bellissimi. E poi gli uccelli, solo nel mio giardino ne ho potuti individuare una cinquantina di varietà. Sono un appassionato della natura e fotografare gli animali è stimolante. Incontrarli per caso e cogliere l'attimo giusto… (mima un gesto quasi da vera e propria caccia fotografica, ndr). Il problema sono le dimensioni dell'attrezzatura, di solito metto la mia macchina con un buon obiettivo in una sacca che tengo davanti sul petto e mi permette di muovermi sia in salita sia in discesa anche quando scio. Sì, perché lo scialpinismo è un'attività ideale per fare fotografie. In salita uno tiene il giusto ritmo e si ha tempo per guardarsi intorno e scattare. Poi invece in discesa si scia». (ride) 

©Federico Ravassard

E foto di sci? 

«Anche sciando faccio un sacco di foto ai miei compagni, ne ho pochissime invece dove ci sono io perché gli altri ne scattano meno. Mi piace tanto fotografare, ma nelle discese ripide spesso utilizzo una compatta che è più comoda: la tengo sullo spallaccio fissata con un laccetto al collo e... zan, quando passa il compagno, scatto veloce! Mi sono accorto che utilizzando un obiettivo grandangolare da 24 mm e fotografando in un canale a 50° si riesce a inquadrare l'orizzonte. È più bello!».

Mi sembra che ti piaccia molto vivere ad Annecy , perché non Chamonix, più vicino al Bianco?

«No, non mi piacerebbe vivere a Chamonix, è più caotica e molto più cara rispetto a qui. E poi Annecy ha molti più servizi ed è meglio collegata. Ci sono più scuole e università per le mie figlie». 

Riesci a lavorare come Guida alpina anche qui?

«In realtà come Guida lavoro poco. Lavoro piuttosto come intermediario nell'editoria di montagna. Per esercitare come Guida dovresti fare eliski, spedizioni, oppure due o tre Vallée Blanche alla settimana. Sinceramente non mi piace. È bello anche arrampicare, ma non come sciare». 

Quindi preferisci sciare, ma sei nato alpinista o sciatore?

«Essendo Guida ho scalato e scalo e non mi dispiace. Ma scalare è fatica, dolore a volte, devi sempre forzare per ottenere risultati e andare forte. Lo sci è diverso, è più fluido, meno forzato, un'attività più dolce. Sciare mi è sempre piaciuto. La mia famiglia in montagna faceva al massimo delle escursioni. A sciare mi ci portava la scuola. Ma già a 10-11 anni mi piaceva più andare in fuoripista che su percorsi battuti. E poi non serve forza, si fa tutto ‘plus en douceur’, l'ho sempre preferito. Con i materiali di oggi è facile diventare un buono sciatore, è molto più difficile essere un buono scalatore».

Negli ultimi anni il livello si è molto alzato, complici materiali sempre migliori e più facili da utilizzare. Però forse troppo spesso ottimi sciatori si cimentano in discese anche molto impegnative, trascurando forse un po' troppo la componente alpinistica che lo sci di pente raide richiede. Quanto è importante?

«È indubbiamente importante, specie per gestire situazioni come creare delle soste, fare delle calate e altre manovre di corda in sicurezza. E poi se sei solo uno sciatore e non provi piacere anche durante le risalite delle pareti... insomma magari sali una parete per quattro ore, se non ti piace questa parte la giornata diventa lunga (ride!). Discorso diverso per le valanghe, anche con 40 anni di esperienza il rischio non è mai completamente eliminabile purtroppo. Bisogna fare attenzione a scegliere le giuste condizioni, sapere aspettare. Con la neve dura il rischio valanghe è minore ma, appunto, la neve è dura».

Lo sci ripido è diventato una moda negli ultimi anni. Come in arrampicata e alpinismo esistono vie di salita e percorsi più o meno difficili: è giusto pensare che sia così anche nello skialp?

«Sì, esistono pendii e montagne più o meno difficili, certo. Per esempio la scala Volopress mette tutto insieme sotto un'unica valutazione di difficoltà che mi vede d'accordo. In effetti il ripido è un'attività che è diventata di moda, ma a volte chi la pratica non è pronto come si è potuto vedere dal gran numero di incidenti di questo tipo della scorsa stagione. Anche la PGHM (il Soccorso Alpino francese, ndr) non è contenta di ciò. Non vorrei che poi alla fine come soluzione si arrivasse a vietare delle discese come la nord-est delle Courtes».

©Federico Ravassard

Lo sci estremo, per quanto ti riguarda, è qualcosa di diverso? 

«Se ci riflettiamo, l'estremo lo si ha quando si cerca e si raggiunge il limite. E il limite lo cerchi per esempio nelle gare di freeride, ti confronti con un cronometro e cerchi il limite. Infatti a volte cadono: arrivare al limite cercando la velocità. Nello sci di pente raide che ho fatto e faccio, non si cerca il limite. La caduta è da evitare assolutamente. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato di muovermi con un margine di sicurezza, magari facendo una curva in meno se non me la sentivo. Non ho mai voluto raggiungere il limite ma il maggior piacere che mi poteva offrire una discesa ripida. È un'attività molto psicologica, è tutto nella testa, come diceva Stefano De Benedetti».

È la possibilità che dà lo sci dI pente raide di ampliare esponenzialmente il proprio terreno di gioco che ti affascina di questa disciplina?

«No, è proprio la ricerca della pendenza che mi piace. È cercare di prendere confidenza con le proprie paure e gestire l'incertezza che restituisce il ripido».

Allora come vedi la tendenza degli ultimi anni di scendere certe pareti in modo superfluido e a grande velocità? (Gli si illuminano letteralmente gli occhi, ndr)

«Ah, poter sciare come Jérémie Heitz e al tempo stesso mantenere un margine di sicurezza, sarebbe un sogno! Anche con curve meno filanti, andando leggermente più piano, ma con quella fluidità. Per me lo sci è diventato cercare la perfezione del gesto su pendii adatti allo sci. Non mi interessano più quelle discese molto tecniche dove fai una curva, derapi metri perché non c'è spazio, fai un'altra curva e poi una doppia. Lo sci è saper attendere il bon jour per avere le condizioni per poter scendere nel modo più fluido possibile un bel pendio. Se le condizioni non ci sono, aspetterò, magari degli anni. Certe discese fatte trovando tratti ghiacciati che obbligano magari a doppie o a non sciare integralmente diventano un esercizio d'alpinismo. Cosa che non rappresenta la mia idea di sciare. Per me è più importante la natura, cercare di capirla e prendere del piacere giocando con essa, come per la fotografia degli animali selvatici».

Lo sci per te è ricerca di fluidità, abbiamo capito bene?

«Sì, è la ricerca di quella sensazione di fluidità che ha sempre influenzato il mio modo di andare sulla neve, specie con i materiali di adesso. Il freeride ha portato molto allo sci in questo senso».

Questa tua ricerca della fluidità passa senza dubbio anche per l'evoluzione dei materiali. A fine anni ottanta e novanta si usavano sci molto stretti, poi verso i primi anni duemila utilizzavi i mitici Dynastar 8800 e le successive evoluzioni che erano 89 mm al centro. Parliamo del tuo sci preferito?

«In quegli anni gli sci erano molto stretti, fare le curve era più forzato, più brusco. Con i nuovi materiali è diventato tutto più armonioso, più morbido. Ho usato molto gli 8800, è vero, ma quelli con cui mi sono trovato meglio sono stati i Dynastar Cham 97. Non troppo lunghi, avevano una maneggevolezza incredibile e poi col rocker erano facilissimi da sciare, non restituivano sorprese e avevano una buona rigidezza torsionale che per tenere sul duro è la cosa più importante. Intorno ai 95-97 mm secondo me c’è il compromesso ideale».

Ti confesso che ci hai spiazzato… come sei arrivato allo snowboard?

«È stato naturale cercando un modo per ottenere maggiore fluidità. Lo snowboard per uno sciatore come me non è stato immediato. Ho iniziato nel 2014, in principio lo trovavo contraddittorio, devi sempre accompagnare il movimento, molto più che con gli sci. Ma una volta che uno impara è assai meno faticoso. E poi adesso ci sono le splitboard. Ho deciso di fare il salto verso lo snowboard quando si è perfezionato questo tipo di materiale». 

Un punto di vista molto surf questa ricerca del gesto fluido e più armonioso possibile. Che materiale usi adesso? 

«Sì, mi piace e pratico quando posso anche il surf da onda infatti. Sulla neve utilizzo una splitboard Plume. Ma il vero problema è cercare la combinazione perfetta attacchi-scarponi. Uso uno scarpone SB di Pierre Gignoux e trovo che sia il compromesso perfetto che mi garantisce un'ottima risposta nelle sezioni in backside, anche su nevi difficili. Ovvio, lo snowboard patisce un po' le nevi dure, infatti ci sono pochi video di ripido su nevi dure. Però hai anche due picche e in front su tratti ghiacciati è meglio. Le cose cambiano se ci sono tratti di dry…».

Come sono stati gli inizi? Erano davvero così mitici quegli anni da un punto di vista delle precipitazioni nevose? 

«Una volta gli inverni erano davvero diversi, nevicava sul serio. Si poteva sciare nove mesi l'anno, da novembre a luglio. Tra il 1978 e il 1980 ho iniziato a fare ski de randonnée. Fino al 1988 sono stato a tutti gli effetti un amatore. Poi fino al 1995 sono stato sostenuto dagli sponsor. Era mia moglie Kathy a organizzare tutto e a gestire i rapporti con le aziende. All'inizio essere pagato per compiere delle prime discese sempre più difficili è stata una motivazione, ho smesso di lavorare in banca e mi ci sono dedicato a tempo pieno. La ricerca della prima era sia un discorso di ego che di soldi. Poi mi sono accorto che questa impostazione stava influenzando anche le mie scelte e ho continuato la mia attività solo per piacere».

Scorrendo la lista delle tue discese, mi piacerebbe saperne di più su alcune, per esempio spesso mi capita di sciare nel Massif des Écrins dove nel 1997 hai ripetuto il Couloir Gravelotte sulla parete nord-est della Meije.

«Sì la Meije, purtroppo l'unico che è riuscito a sciarlo tutto quel canale, a proposito di cambiamenti delle condizioni nevose negli anni, è stato Patrick Vallençant alla fine degli anni '70, in occasione della prima discesa. Quando sono andato io in basso c'era già un tratto di 50 metri insuperabile con gli sci, così per evitare di fare doppie sono risalito e ho sceso il Corridor».

Un'altra discesa che mi ha molto colpito è quella del '95 sul versante Italiano del Triolet. Che caratteristiche aveva?

«Il problema di questa discesa è che ci vuole un grande innevamento per poter collegare tutte le parti, poi certo, è ripida!».

Una data mitica: 10 luglio 1988? Ne parliamo? Il Grand Pilier d'Angle: un posto surreale e pericoloso.

«Nello stesso giorno, con l'elicottero però, ho concatenato la parete sud-est del Col de la Brenva e la parete nord del Grand Pilier d'Angle. Era dopo una perturbazione di una settimana, forse il secondo giorno di bello. Sul versante italiano del Monte Bianco c'era un innevamento incredibile, tutto bianco. Tutto. La Brenva l'ho scesa presto e la neve, essendo luglio, si era già trasformata: l’ho trovata quasi dura, specie in alto. Poi sono stato depositato nuovamente sulla cima del Bianco, ho sceso la cresta di Peuterey per fare infine una parte di cresta del Grand Pilier d'Angle a piedi e scendere la parete nord. Qui ho trovato soprattutto ‘poudre tassée’, tranne nell'attraversamento sopra al seracco. La neve, decisamente dura, era un po' verglassata, poi una parte in doppia sul salto centrale e i pendii del tratto basso. Dall'elicottero avevamo monitorato i seracchi della Poire, non erano particolarmente brutti o fratturati, però lì sotto ho allungato le curve... È un versante bellissimo, sul quale mi piacerebbe sciare ancora, fortunati quelli che possono averlo sotto gli occhi tutti i giorni».

Hai mai avuto paura di una discesa, magari una parete che hai deciso di non scendere perché ti incuteva timore?

«Certo! Il Nant Blanc sulla Verte».

Però lo hai sceso e ci sei andato ben due volte!

«Sì, ma mi ci sono voluti ben venti anni per andare a provare! Non mi sentivo pronto, lo reputavo troppo difficile per me. Poi l’ho sciato: il Nant Blanc racchiude una serie di problemi tecnici e di pendenza notevoli. Non abbiamo fatto le doppie della parte centrale, ma abbiamo cercato, con una traversata, di collegare i due nevai. Nell'arco delle due volte ho sciato tutte la varie sezioni dalla cima, ma non concatenandole in un'unica discesa. E poi oggi il problema potrebbe diventare il risalto alla base. Invece ci sono delle discese che, paradossalmente, miglioreranno con lo scioglimento dei ghiacciai, speriamo!».

Ultima domanda, soli o in compagnia?

«In compagnia c'è condivisione. È più bello!»

Grazie Piero, un mito.

Classe 1963, Pierre Tardivel vive con la moglie Kathy e le loro due figlie nei pressi di Annecy che preferisce nettamente alla più blasonata Chamonix: troppo caotica, cara e con meno servizi per condurre una vita normale in armonia con la natura. Guida alpina, sciatore estremo dal curriculum impressionante, intermediario nell'editoria di montagna, motociclista e surfista, rappresenta un punto di riferimento per tutto il movimento degli sciatori di pente raide che sognano di ripercorrere alcune sue discese mitiche ancora oggi irripetute, come la parete nord del Gran Pilier d'Angle. 

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 114 di Skialper. Se non vuoi perderti nessuna delle storie di Skialper e riceverlo direttamente a casa tua puoi abbonarti qui.

©Federico Ravassard