Cristian Botta e il cambio degli spigoli

Provincia cuneese, Busca downtown, trentacinque anni ma non si è mai abituato all’inevitabile invecchiamento e questo discorso lo precipita sempre in un grigio sconforto. Ricercatore all’università, tecnologie agroalimentari: roba di cibo, batteri e affini. Diverse pubblicazioni in merito, ampie discussioni con gli amici circa quelli più gustosi e dove trovarli. È diventato un punto di riferimento a suon di discese fuori e dentro i confini della Provincia Granda. Tradisce un aspetto rassicurante se lo si incontra nei post gita, ma in realtà è uno dei più feroci sciatori che ci sono in circolazione dal lato bello delle Alpi. Per tecnica e disinvoltura con gli assi nei piedi certamente un cabrì da montagna con a curriculum alcune classiche prestigiose, dalla parete Ovest del Monviso alla nuova discesa del2018 della Nord-Ovest del Täschhorn con Davide Terraneo.

Se si deve inquadrare un momento della sua sciata, penso a quella frazione di secondo in cui cambia spigolo agli assi: stai certo che se c’è lo spazio peruna curva, Cristian la farà. Non uno spettacolo per deboli di cuore se il terreno è esposto e particolarmente ripido. Mi ricordo un episodio in particolare durante una nuova discesa sul versante nord-orientale del Monte Matto, Valle Gesso, Alpi Marittime. Quel giorno eravamo riusciti asbucare sulla cresta sommitale. Come quest’inverno, a un monsone autunnale era seguita una bolla di alta pressione stabile lunga un paio di mesi. L’umida neve autunnale si era incollata e consolida sul roccioso pendio sommitale: un pongo perfetto, morbido in superficie. Tuttavia le prime curve da affrontare subito dopo aver calzato gli sci non rappresentavano certo un inizio soft: expo massima e quella tensione che si percepisce quando si deve abbandonare un luogo piatto come la cima per entrare nell’esposizione della parete. In quei primi dieci metri era tutto massimale: pendenza, esposizione, concentrazione. Io e Max stavamo indugiando su chi sarebbe stato il primo a entrare. Poi abbiamo visto Cristian scivolare in parete con disinvoltura. Bastone a tastare la neve, curva, curva sopra il primo salto in due metri quadri. Sorriso: «Le code dan quasi fastidio, toccano il pendio. È ripido».

Sono profondamente convinto che in parecchi a Chamonix dovrebbero ringraziare che la sua vocazione non sia stata lavorare in un bar o su unpeschereccio durante l’estate per poi fare lo skibum in inverno e primavera ai piedi del Bianco. Rappresenterebbe sicuramente un upset da quelle parti, come un vero underdog.

Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.


Andrea Schenone, il Samurai

Andrea è ligure, di Genova, classe 1970. Il belin che usa a volte come intercalare non lascia dubbi. L’ho conosciuto intorno al 2005-2006, in una diquelle discese/scambio interculturale che organizzava Federico Negri cavalcando la rinata onda emotiva dello sci ripido di quegli anni. E sia chiaro: detesto chiamarlo sci-ripido, ma serve a capire. Mi disse che quel sabato avremmo incontrato Andrea Schenone, personaggio di cui avevo appreso sulla bibbia di Igor Napoli e che ricordavo distintamente per una foto che lo ritraeva tumulato sotto una pila di coperte in un bivacco la sera antecedente la prima discesa della parete Sud del Monviso, diventata poi una classica di questo tipo di sci. Ma allora erano altri tempi e forse si stava meglio. Federico mi parlò di Andrea come di uno sciatore eccezionale, un esploratore, un solitario. Ero curioso e la conoscenza non deluse l’attesa: poche volte avevo visto sciare qualcuno così su terreno ripido. La postura, la compostezza: quell’angolo perfetto che manteneva con le ginocchia piegate e unite durante le curve senza mai scomporsi, ai tempi l’avevo solo visto su Youtube al minuto 1:31 del video della discesa del Col de La Verte di Tim Dobbins; sì, forse sono un seriale!

«Scio da sempre, a sedici anni ho scoperto lo skialp e dopo poco ho iniziato ad avventurarmi su discese sempre più impegnative. Terreno di gioco prediletto: dalle Alpi Liguri al Monviso. Un crescendo di discese a cavallo del secolo, in un periodo di pausa dai grandi exploit, specie in Italia, cosa che spesso mi consentiva di essere da solo; non come adesso che se una discesa viene recensita sui social il giorno dopo ci sono venti persone. Io e Mario (Monaco, ndr) siamo stati fortunati a vivere quegli anni. Non ho mai cercato la ribalta, mi è sempre piaciuto sciare nei massicci minori: il Monte Bianco per uno che si muoveva da solo non era l’ideale. Sono sempre stato attirato dalla bellezza delle linee. Mi ritengo molto tradizionalista, ho cercato di essere coerente con ciò in cui credevo: non mi piace il tutto e subito, la competizione e la globalizzazione che i social inevitabilmente creano. Non ho nessun account, non mandarmi messaggi Whatsapp, non ho neppure una mail. Userò quella di mia moglie per mandarti le foto. Son sincero, ho patito questo cambiamento: avvertivo forse una mancanza di rispetto verso la montagna e l’approccio in cui credevo, perciò ho rallentato la mia attività. Non smetterò mai di sciare, ma, come avevo immaginato anni fa, sto regredendo, sono tornato a fare le cose degli inizi. Penso che sianaturale per me. E poi sono un bastian contrario, per esempio ora nei canali sto usando sci da park, da rampa da un chilo e otto, ma sono solo io, mitrovo bene, non riesco a capire quelli che usano gli scietti leggeri».

Andrea in Piemonte e non solo ha sciato una miriade di linee senza mai dire praticamente nulla. Con stile radicale e silenzioso. Qualche anno fa, parlando di altro, ho scoperto che la ormai classica discesa del Bonsai al Monte Labiez, sul Gran San Bernardo, l’aveva percorsa lui sul finire degli anni ’90. Nel corso della nostra ultima telefonata, parlando di Valle dell’Orco, posto caro a entrambi, mi ha confessato di avere già sciato anche la Nord-Est della Levanna Orientale. E io che credevo di essere stato il primo… Volate basso lì fuori, facciamo poco gli splendidi, Skeno non lasciava tracce e nel dubbio scendeva su neve dura. Samurai!

Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.


Pierre Tardivel, l'evoluzione di un mito

L'appuntamento è fissato per il primo pomeriggio, il viaggio scorre rapido attraverso la Valle d'Aosta, il tunnel del Monte Bianco e poi tra gli autovelox e i limiti delle autostrade francesi verso Annecy.  Abbiamo anche il tempo di constatare che negli autogrill francesi panini e gelati vengono conservati alla stessa temperatura.

Con Federico in auto, dopo aver parlato delle ultime arrampicate, il discorso vira - per ovvie questioni di politica aziendale - rapidamente sullo sci. Anzi sugli sci del mito che stiamo per incontrare. «Ha usato per anni quel modello lì, poi ha cambiato, è passato a modelli rockerati. Sì, però per le robe serie tornava sempre a quelli, poi adesso snow, comunque gli chiediamo tutto».

E fu così...

L'indirizzo è quello giusto, il navigatore non mente, le colline morbide di Annecy circondano una zona residenziale con casette unifamiliari basse, ciascuna con il suo giardino. Ci avviciniamo al cancello che riporta il numero civico indicato: un uomo sta sistemando dei rami in fondo al giardino. Ci vede, ci fa un cenno. Entriamo.

Stringiamo la mano a Pierre Tardivel.

Non nascondiamo un po' di emozione che svanisce quando, oltrepassando la soglia casa, ci si trova di fronte a un arredamento decisamente informale: libri e scaffali occupano le pareti, due divani dai cuscini multicolore abbracciano un tavolino con diversi oggetti sopra. Qualche armadio che porta con sé qualcosa di orientale, una sala luminosa che dà direttamente sul giardino. Sul tavolo da pranzo circolare una gabbia con uno dei membri della famiglia: un coniglio. Anche un cane e un gatto decisamente in carne ci fanno capire che la passione per gli animali è di casa dai Tardivel, per lo meno al pari dello sci!

Quella che avevamo immaginato come un'intervista con una traccia ben definita, si trasforma fin dalle prime battute in un'allegra chiacchierata con il Piero! Spero che Pierre non si offenda se mi prendo questa licenza. Chiamarlo Piero trovo che renda la cosa molto confidenziale.

«Hai visto cosa ha di nuovo sceso il Piero?».

«Grande il Piero, sempre avanti!».

E se ci pensate, quante volte tra gli appassionati di sci ripido, guardando una foto o una parete orlata di seracchi, magari appartenente al massiccio del Bianco, alla domanda da chi fosse stata scesaavete sentito rispondere Il Piero!. Proprio lui. Sempre lui. Come un amico più grande di cui hai sempre sentito parlare! Dunque che il Piero non sia un tipo convenzionale lo capiamo nei primi trenta secondi: quando scopre che uno di noi due è il fotografo, gli si illuminano gli occhi di quella curiosità genuina tipica delle persone eclettiche e inizia a tempestarci di domande tecniche sugli obiettivi, sui corpi macchina. E non certo per capire quali siano gli strumenti migliori da utilizzare durante le discese o per immortalare momenti di sci appesi a qualche pendio a 50°. Il Piero infatti ha una grande passione che coltiva parallelamente allo sci: l'avifauna alpina e la fotografia faunistica! Un po' stupiti, lo incalziamo.

©Federico Ravassard

Ci incuriosisce molto scoprire che sei un grande appassionato di animali nel loro ambiente naturale! Da dove arriva questa passione?

«Sono 30 anni che faccio foto, soprattutto alle varie specie della fauna alpina nel loro ambiente. Adoro prendere immagini degli animali di grossa taglia e di uccelli. Basta appena uscire da Annecy, diverse volte mi è persino capitato di fare foto a cerbiatti direttamente dalla finestra del salotto. Sono bellissimi. E poi gli uccelli, solo nel mio giardino ne ho potuti individuare una cinquantina di varietà. Sono un appassionato della natura e fotografare gli animali è stimolante. Incontrarli per caso e cogliere l'attimo giusto… (mima un gesto quasi da vera e propria caccia fotografica, ndr). Il problema sono le dimensioni dell'attrezzatura, di solito metto la mia macchina con un buon obiettivo in una sacca che tengo davanti sul petto e mi permette di muovermi sia in salita sia in discesa anche quando scio. Sì, perché lo scialpinismo è un'attività ideale per fare fotografie. In salita uno tiene il giusto ritmo e si ha tempo per guardarsi intorno e scattare. Poi invece in discesa si scia». (ride)

E foto di sci?

«Anche sciando faccio un sacco di foto ai miei compagni, ne ho pochissime invece dove ci sono io perché gli altri ne scattano meno. Mi piace tanto fotografare, ma nelle discese ripide spesso utilizzo una compatta che è più comoda: la tengo sullo spallaccio fissata con un laccetto al collo e... zan, quando passa il compagno, scatto veloce! Mi sono accorto che utilizzando un obiettivo grandangolare da 24 mm e fotografando in un canale a 50° si riesce a inquadrare l'orizzonte. È più bello!».

Mi sembra che ti piaccia molto vivere ad Annecy , perché non Chamonix, più vicino al Bianco?

«No, non mi piacerebbe vivere a Chamonix, è più caotica e molto più cara rispetto a qui. E poi Annecy ha molti più servizi ed è meglio collegata. Ci sono più scuole e università per le mie figlie».

Riesci a lavorare come Guida alpina anche qui?

«In realtà come Guida lavoro poco. Lavoro piuttosto come intermediario nell'editoria di montagna. Per esercitare come Guida dovresti fare eliski, spedizioni, oppure due o tre Vallée Blanche alla settimana. Sinceramente non mi piace. È bello anche arrampicare, ma non come sciare».

Quindi preferisci sciare, ma sei nato alpinista o sciatore?

«Essendo Guida ho scalato e scalo e non mi dispiace. Ma scalare è fatica, dolore a volte, devi sempre forzare per ottenere risultati e andare forte. Lo sci è diverso, è più fluido, meno forzato, un'attività più dolce. Sciare mi è sempre piaciuto. La mia famiglia in montagna faceva al massimo delle escursioni. A sciare mi ci portava la scuola. Ma già a 10-11 anni mi piaceva più andare in fuoripista che su percorsi battuti. E poi non serve forza, si fa tutto plus en douceur, l'ho sempre preferito. Con i materiali di oggi è facile diventare un buono sciatore, è molto più difficile essere un buono scalatore».

Lo scarpone usato sull'Everest ©Federico Ravassard

Negli ultimi anni il livello si è molto alzato, complici materiali sempre migliori e più facili da utilizzare. Però forse troppo spesso ottimi sciatori si cimentano in discese anche molto impegnative, trascurando forse un po' troppo la componente alpinistica che lo sci di pente raide richiede. Quanto è importante?

«È indubbiamente importante, specie per gestire situazioni come creare delle soste, fare delle calate e altre manovre di corda in sicurezza. E poi se sei solo uno sciatore e non provi piacere anche durante le risalite delle pareti... insomma magari sali una parete per quattro ore, se non ti piace questa parte la giornata diventa lunga (ride!). Discorso diverso per le valanghe, anche con 40 anni di esperienza il rischio non è mai completamente eliminabile purtroppo. Bisogna fare attenzione a scegliere le giuste condizioni, sapere aspettare. Con la neve dura il rischio valanghe è minore ma, appunto, la neve è dura».

Lo sci ripido è diventato una moda negli ultimi anni. Come in arrampicata e alpinismo esistono vie di salita e percorsi più o meno difficili: è giusto pensare che sia così anche nello skialp?

«Sì, esistono pendii e montagne più o meno difficili, certo. Per esempio la scala Volopress mette tutto insieme sotto un'unica valutazione di difficoltà che mi vede d'accordo. In effetti il ripido è un'attività che è diventata di moda, ma a volte chi la pratica non è pronto come si è potuto vedere dal gran numero di incidenti di questo tipo della scorsa stagione. Anche la PGHM (il Soccorso Alpino francese, ndr) non è contenta di ciò. Non vorrei che poi alla fine come soluzione si arrivasse a vietare delle discese come la nord-est delle Courtes».

Lo sci estremo, per quanto ti riguarda, è qualcosa di diverso?

«Se ci riflettiamo, l'estremo lo si ha quando si cerca e si raggiunge il limite. E il limite lo cerchi per esempio nelle gare di freeride, ti confronti con un cronometro e cerchi il limite. Infatti a volte cadono: arrivare al limite cercando la velocità. Nello sci di pente raide che ho fatto e faccio, non si cerca il limite. La caduta è da evitare assolutamente. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato di muovermi con un margine di sicurezza, magari facendo una curva in meno se non me la sentivo. Non ho mai voluto raggiungere il limite ma il maggior piacere che mi poteva offrire una discesa ripida. È un'attività molto psicologica, è tutto nella testa, come diceva Stefano De Benedetti».

È la possibilità che dà lo sci di pente raide di ampliare esponenzialmente il proprio terreno di gioco che ti affascina di questa disciplina?

«No, è proprio la ricerca della pendenza che mi piace. È cercare di prendere confidenza con le proprie paure e gestire l'incertezza che restituisce il ripido».

Allora come vedi la tendenza degli ultimi anni di scendere certe pareti in modo superfluido e a grande velocità? (Gli si illuminano letteralmente gli occhi, ndr)

«Ah, poter sciare come Jérémie Heitz e al tempo stesso mantenere un margine di sicurezza, sarebbe un sogno! Anche con curve meno filanti, andando leggermente più piano, ma con quella fluidità. Per me lo sci è diventato cercare la perfezione del gesto su pendii adatti allo sci. Non mi interessano più quelle discese molto tecniche dove fai una curva, derapi metri perché non c'è spazio, fai un'altra curva e poi una doppia. Lo sci è saper attendere il bon jour per avere le condizioni per poter scendere nel modo più fluido possibile un bel pendio. Se le condizioni non ci sono, aspetterò, magari degli anni. Certe discese fatte trovando tratti ghiacciati che obbligano magari a doppie o a non sciare integralmente diventano un esercizio d'alpinismo. Cosa che non rappresenta la mia idea di sciare. Per me è più importante la natura, cercare di capirla e prendere del piacere giocando con essa, come per la fotografia degli animali selvatici».

Lo sci per te è ricerca di fluidità, abbiamo capito bene?

«Sì, è la ricerca di quella sensazione di fluidità che ha sempre influenzato il mio modo di andare sulla neve, specie con i materiali di adesso. Il freeride ha portato molto allo sci in questo senso».

 Questa tua ricerca della fluidità passa senza dubbio anche per l'evoluzione dei materiali. A fine anni ottanta e novanta si usavano sci molto stretti, poi verso i primi anni duemila utilizzavi i mitici Dynastar 8800 e le successive evoluzioni che erano 89 mm al centro. Parliamo del tuo sci preferito?

«In quegli anni gli sci erano molto stretti, fare le curve era più forzato, più brusco. Con i nuovi materiali è diventato tutto più armonioso, più morbido. Ho usato molto gli 8800, è vero, ma quelli con cui mi sono trovato meglio sono stati i Dynastar Cham 97. Non troppo lunghi, avevano una maneggevolezza incredibile e poi col rocker erano facilissimi da sciare, non restituivano sorprese e avevano una buona rigidezza torsionale che per tenere sul duro è la cosa più importante. Intorno ai 95-97 mm secondo me c’è il compromesso ideale».

Ti confesso che ci hai spiazzato… come sei arrivato allo snowboard?

«È stato naturale cercando un modo per ottenere maggiore fluidità. Lo snowboard per uno sciatore come me non è stato immediato. Ho iniziato nel 2014, in principio lo trovavo contraddittorio, devi sempre accompagnare il movimento, molto più che con gli sci. Ma una volta che uno impara è assai meno faticoso. E poi adesso ci sono le splitboard. Ho deciso di fare il salto verso lo snowboard quando si è perfezionato questo tipo di materiale».

Un punto di vista molto surf questa ricerca del gesto fluido e più armonioso possibile. Che materiale usi adesso?

«Sì, mi piace e pratico quando posso anche il surf da onda infatti. Sulla neve utilizzo una splitboard Plume. Ma il vero problema è cercare la combinazione perfetta attacchi-scarponi. Uso uno scarpone SB di Pierre Gignoux e trovo che sia il compromesso perfetto che mi garantisce un'ottima risposta nelle sezioni in backside, anche su nevi difficili. Ovvio, lo snowboard patisce un po' le nevi dure, infatti ci sono pochi video di ripido su nevi dure. Però hai anche due picche e in front su tratti ghiacciati è meglio. Le cose cambiano se ci sono tratti di dry…».

Come sono stati gli inizi? Erano davvero così mitici quegli anni da un punto di vista delle precipitazioni nevose?

«Una volta gli inverni erano davvero diversi, nevicava sul serio. Si poteva sciare nove mesi l'anno, da novembre a luglio. Tra il 1978 e il 1980 ho iniziato a fare ski de randonnée. Fino al 1988 sono stato a tutti gli effetti un amatore. Poi fino al 1995 sono stato sostenuto dagli sponsor. Era mia moglie Kathy a organizzare tutto e a gestire i rapporti con le aziende. All'inizio essere pagato per compiere delle prime discese sempre più difficili è stata una motivazione, ho smesso di lavorare in banca e mi ci sono dedicato a tempo pieno. La ricerca della prima era sia un discorso di ego che di soldi. Poi mi sono accorto che questa impostazione stava influenzando anche le mie scelte e ho continuato la mia attività solo per piacere».

Scorrendo la lista delle tue discese, mi piacerebbe saperne di più su alcune, per esempio spesso mi capita di sciare nel Massif des Écrins dove nel 1997 hai ripetuto il Couloir Gravelotte sulla parete nord-est della Meije.

«Sì la Meije, purtroppo l'unico che è riuscito a sciarlo tutto quel canale, a proposito di cambiamenti delle condizioni nevose negli anni, è stato Patrick Vallençant alla fine degli anni '70, in occasione della prima discesa. Quando sono andato io in basso c'era già un tratto di 50 metri insuperabile con gli sci, così per evitare di fare doppie sono risalito e ho sceso il Corridor».

Un'altra discesa che mi ha molto colpito è quella del '95 sul versante Italiano del Triolet. Che caratteristiche aveva?

«Il problema di questa discesa è che ci vuole un grande innevamento per poter collegare tutte le parti, poi certo, è ripida!».

Una data mitica: 10 luglio 1988? Ne parliamo? Il Grand Pilier d'Angle: un posto surreale e pericoloso.

«Nello stesso giorno, con l'elicottero però, ho concatenato la parete sud-est del Col de la Brenva e la parete nord del Grand Pilier d'Angle. Era dopo una perturbazione di una settimana, forse il secondo giorno di bello. Sul versante italiano del Monte Bianco c'era un innevamento incredibile, tutto bianco. Tutto. La Brenva l'ho scesa presto e la neve, essendo luglio, si era già trasformata: l’ho trovata quasi dura, specie in alto. Poi sono stato depositato nuovamente sulla cima del Bianco, ho sceso la cresta di Peuterey per fare infine una parte di cresta del Grand Pilier d'Angle a piedi e scendere la parete nord. Qui ho trovato soprattutto ‘poudre tassée’, tranne nell'attraversamento sopra al seracco. La neve, decisamente dura, era un po' verglassata, poi una parte in doppia sul salto centrale e i pendii del tratto basso. Dall'elicottero avevamo monitorato i seracchi della Poire, non erano particolarmente brutti o fratturati, però lì sotto ho allungato le curve... È un versante bellissimo, sul quale mi piacerebbe sciare ancora, fortunati quelli che possono averlo sotto gli occhi tutti i giorni».

Hai mai avuto paura di una discesa, magari una parete che hai deciso di non scendere perché ti incuteva timore?

«Certo! Il Nant Blanc sulla Verte».

Però lo hai sceso e ci sei andato ben due volte!

«Sì, ma mi ci sono voluti ben venti anni per andare a provare! Non mi sentivo pronto, lo reputavo troppo difficile per me. Poi l’ho sciato: il Nant Blanc racchiude una serie di problemi tecnici e di pendenza notevoli. Non abbiamo fatto le doppie della parte centrale, ma abbiamo cercato, con una traversata, di collegare i due nevai. Nell'arco delle due volte ho sciato tutte le varie sezioni dalla cima, ma non concatenandole in un'unica discesa. E poi oggi il problema potrebbe diventare il risalto alla base. Invece ci sono delle discese che, paradossalmente, miglioreranno con lo scioglimento dei ghiacciai, speriamo!».

Ultima domanda, soli o in compagnia?

«In compagnia c'è condivisione. È più bello!»

Grazie Piero, un mito.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 114 DI SKIALPER, PER ORDINARLO CLICCA QUI

©Federico Ravassard

Tof Henry, 100% chamoniard

Chamonix è la capitale. Non ci sono scuse, tanto più se si parla di sci. I più forti e ambiziosi sciatori di tutto il mondo vengono da sempre sul versante francese del Monte Bianco. Il paese è una fucina di talenti e meteore che ogni anno spingono lo sci libero verso qualcosa sempre oltre. Questo luogo ha generato il mito stesso dello sci estremo. Tutte le nuove tendenze, i materiali e i modi di interpretare lo sci sono partiti da qui. 

L’ambiente è dinamico a Cham: ogni anno arrivano nuovi skier affamati di affermazione. Alcuni si fermano addirittura in pianta stabile. A Cham ci sono gli skibum che vengono a fare la stagione e sciare tutti i giorni vivendo con lavoretti occasionali la sera, a Cham ci sono i local, e poi i super local, ci sono gli inglesi, gli ammerigani che vivono qui da vent’anni, ci sono i finnici dannati mangia pesce che sono dei duri e ogni anno spaccano qualcosa proprio in faccia a qualcuno. Ci sono i pro, i fotografi, i fotografi pro, ci sono un sacco di #hashtag che rompono la quiete di quelli che sciano solo il fine settimana, ma che prima o poi vengono qui per confrontarsi con qualche big line… e trovarla con le gobbe magari. 

Sponsor, ambassador, gente che fa pubblicità gratis ai brand per sentirsi un po’ pro. Cham è irresistibile per il mondo del freeskiing. E i marchi lo sanno e qui trovano il miglior laboratorio possibile per innovarsi e progredire nella ricerca di tecniche, materiali e tendenze. Descritta così ci si sente quasi mancare il fiato, sembrerebbe un posto infernale: caotico  e competitivo. Ma oggettivamente per lo sci su grandi linee è il posto più bello del mondo. Non c’è niente di paragonabile che offra una tale concentrazione di linee, terreno tecnico e possibilità come l’area del Monte Bianco. E con accessi spesso serviti da impianti che ti catapultano nel cuore del massiccio.

Tutto questo fa sì che la Chamonix che scia sia una vera e propria comunità. Con le proprie regole, con le proprie crew e le proprie rivalità. Ci si saluta sempre tutti certo, ma più per quieto vivere. A volte, venendo a conoscenza di alcuni retroscena, cresce in me la convinzione che l’abusato ritornello There are no friends in a powder day sia stato coniato proprio da queste parti. La febbre che si respira, quell’aria vibrante delle lunghe code della stazione di partenza della Mama Midi nei giorni post nevicata, non sono una leggenda. Il posto sulla prima cabina e la corsa all’uscita della grotta ghiacciata e al suo cancellino che immette sulla cresta sono la prassi da queste parti anche per chi ha la possibilità di sciare tutti i giorni e magari ci si aspetta viva più tranquillamente la pressione della prima traccia. 

Tof Henry, classe ’84, fa parte di questa comunità da anni. Anzi, ci è proprio nato a Cham e in un ambiente così competitivo ha saputo imporre il proprio modo radicale di sciare senza snaturarsi, ma evolvendo come sciatore e come persona. Prima di metterci in viaggio e attraversare il traforo del Monte Bianco, nutrivo il sospetto che mi sarei trovato davanti a uno skier senza compromessi, non solo per il modo di sciare, ma per il suo respirare neve durante tutto l’anno. Sono poche quelle persone che sono davvero un tutt’uno con un qualche elemento naturale. Per certi versi Tof mi ha ricordato i surfisti che si nutrono delle sensazioni che sanno dare le onde. Una volta arrivati davanti all’Elevation Bar, giusto dopo Moo, ci troviamo davanti a questo ragazzone mentre sta finendo la sua birra. Tof è alto. Almeno 190 cm per 85 kg, giusto per sfatare il mito che quelli alti non possono sciare bene. Un saluto, quattro chiacchiere lungo la strada e siamo nel suo appartamento in un ambiente cordiale e rilassato. Niente di sfarzoso tipo chalet, ma la casa di uno sciatore con assi dietro la porta del salotto e diversi modelli di Armada ancora da forare per la nuova stagione vicino alla finestra. Una mountain enduro nell’ingresso e qualche immagine storica del Monte Bianco con alcuni ritratti della famiglia. 

© Daniel Rönnbäck

Forse lo avrete capito: Tof Henry è uno Chamoniard. Vero. 

E noi siamo qui perché scia forte, molto forte. Come pochi in giro oltralpe, come nessuno o quasi qui a Sud delle Alpi. Il suo marchio di fabbrica è la velocità, la fluidità portata ai massimi livelli su linee classiche e le grandi pareti glaciali del Monte Bianco con le migliori condizioni possibili. La ricerca della polvere e di quella neve che ti permetta di osare a fondo linee ripide ed estreme per pendenza e ambiente. Anello di congiunzione tra freeride puro e sci estremo come pochi personaggi, Tof interpreta lo sci in maniera totalizzante seguendo quella sensibilità per l’elemento bianco sviluppata negli anni sui più bei pendii del massiccio italo-francese.

Tof Henry un vero Chamonix kid! Per iniziare la nostra chiacchierata è sempre giusto conoscersi un po’ meglio: raccontaci chi sei, da dove arriva la tua famiglia.

«Assolutamente! CHX 100%, da quattro generazioni almeno. Essendo dell’84 ormai non proprio un kid, ma un vero Chamoniard. Non arrivo però da una famiglia di montanari: mia madre lavorava in un ufficio turistico, i miei genitori non sono mai stati dei veri appassionati della montagna pur essendo nati e vissuti qui. Ovviamente a sciare, come ogni ragazzino di Cham, ho iniziato con gli sci club, poi verso i quindici o sedici anni mi sono avvicinato al freeride con l’arrivo degli sci fat. Tutto normale insomma. Mi sono fatto un po’ il giro con cui andare in montagna. Ma se devo ricordare una persona in particolare, ti dico il mio amico Pif, creatore dei monosci Snowgun. Ho iniziato a girare con lui e devo dire che ho imparato molto da quel modo di sciare e dalle sensazioni che si provano con un monosci. Poi ho conosciuto Nathan Wallace. Lui è un americano che si è trasferito in paese nel 1998 per sciare. Forse la persona con il migliore fiuto per le condizioni di neve di tutta Cham. Era molto più grande di me e io ero solo un ragazzo. C’era un po’ di diffidenza inizialmente. Poi abbiamo imparato a fidarci l’uno dell’altro. In fondo abbiamo avuto una storia simile come skier perché ci siamo un po’ fatti da soli. Nat è stato il mio padre spirituale, Daddy Nat lo chiamo: mi ha aiutato moltissimo a capire le condizioni della neve, a essere nel momento giusto nel posto giusto. Mi portava con lui, capivo come sceglieva i posti e le pareti. Ora abbiamo lo stesso punto di vista su molti aspetti. E adesso sono io che a volte porto lui (ride), ci fidiamo molto uno dell’altro in montagna».

È così che nasce la tua passione per il freeski?

«Esatto, in quegli anni! Ho sempre adorato essere nella neve. Trovarmici dentro nel vero senso della parola. Ho bisogno della neve. È il mio elemento. Lavoro presso una scuola sci, ma mi prendo il mio tempo per sciare in stagione, per essere pronto al cento per cento quando arriva il momento giusto. Se sto fermo o non mi prendo il tempo per sciare, avverto che poi ci vuole un po’ di tempo per ritornare al top della forma. Quando in inverno esco dalla stazione di Helbronner durante una nevicata, mi basta sentire la sensazione che mi restituisce il bastone quando lo infilo nel manto nevoso per capire che neve troverò e le condizioni che ci sono. Mi capita spesso, non sempre, qualche spavento lo si prende e c’è comunque qualcosa da imparare: per esempio adesso, anche nei giorni di polvere, ho sempre dietro una corda».

Un dare e avere con la montagna che vivi, senza tirarti indietro

«Eh sì! Al Pavillon durante e dopo le nevicate si deve sempre sciare sulle creste, sulle spine. Mantenendosi sul filo il più possibile, nei catini è molto pericoloso. Il terreno sottostante è brutto. Un giorno c’erano condizioni pessime. È superfluo dire che siamo stati troppo confident conoscendo molto bene il posto. Tutti dopo dieci curve, anche gli inglesi, sono risaliti giudicando l’uscita troppo pericolosa. Per noi è stato un mettersi in gioco in modo totale, quasi un combattimento cercando di dare fondo a tutta la nostra esperienza per arrivare in basso. Ci siamo assicurati agli alberi con la corda in alcuni punti per bonificare i pendii. Siamo stati sempre sulle creste. Un gioco, senza dubbio pericoloso, lo so».

Questo gioco vale la candela? In caso di errore il prezzo è alto. 

«Concordo nel parlare di errore dello sciatore in caso di valanga. Se succede, vuol dire che si è sbagliata qualche valutazione in merito alla neve, al percorso o al timing. È un gioco per cui il prezzo potrebbe essere altissimo, lo so. Ad esempio non azzardo più sulle discese della Midi, tipo il Glacier Rond, in inverno. Però i giorni di neve fonda sanno regalare sensazioni uniche per le quali vivo. È una domanda difficile».

© Daniel Rönnbäck

Infatti, specie all’inizio della stagione, la ricerca della polvere, per esempio all’Helbronner, porta a muoversi alla ricerca della prima traccia su certe linee… Come ti poni di fronte al rischio, andando a sciare linee come i Cavi, Cesso, Passerella già durante la nevicata.

«È vero, a volte capita che scendiamo quelle linee nelle prime schiarite durante una perturbazione, nella yellow light: quella luce che filtra tra i fiocchi che formano le nuvole, una luminosità che sa regalare una visibilità e un’atmosfera uniche. C’è da dire però che conosciamo molto bene il terreno. Sciamo quelle linee quasi tutti i giorni precedenti la perturbazione e anche durante. In questo modo sappiamo come era la neve e ne percepiamo i minimi cambiamenti, quanta ne ha fatta e come. Spesso sul finire della perturbazione il vento non ha ancora agito. Visti da fuori sembriamo imprudenti, ma calcoliamo molto e spesso torniamo indietro. Ripercorriamo per lo più le tracce nostre del giorno prima e aspettiamo di avere la visibilità. Questo è fondamentale, e l’ho imparato sulla mia pelle»

Qualche brutta esperienza?

«Risale all’anno scorso. Ci siamo buttati sotto ai cavi di Helbronner con poca visibilità e abbiamo imboccato il pendio in un posto non corretto. Confesso che non mi sentivo a mio agio ed ho sbagliato a insistere. Stavo sciando quando ho sentito urlare il mio compagno, mi sono girato, ho visto un’onda di neve arrivare ma non potevo che continuare a sciare il pendio verso destra. Mi ha preso le code, trascinandomi verso il basso. Mi sono trovato trenta metri sopra la barra alta cento che sorregge il pendio. Abbiamo commesso un errore che ci poteva costare caro, molto caro e non ne vale la pena. Sono stato fortunato. È giusto cercare di prendere tutte le possibili precauzioni per ridurre il rischio. Tanto più che le condizioni ormai sono assai più mutevoli dei decenni scorsi: bisogna stare più attenti a trovare il momento ideale per fare determinate cose» .

Il clima sta cambiando davvero?

«Purtroppo sì: le condizioni super che si possono trovare in momenti anomali dell’anno sono solo una manifestazione davvero tangibile di ciò che sta accadendo. Quindici anni fa non si percepiva che qualcosa stava cambiando, ma nelle ultimi cinque o sei stagioni è davvero davanti agli occhi di tutti. Durante l’inverno si passa nello stesso giorno da -5° a +15°. Ci sono escursioni molto grandi e inverni sempre meno freddi, perturbazioni più calde e precoci. Le pareti glaciali erano verdi fino ad aprile solitamente, ora non è raro trovarle ben innevate anche in pieno inverno, come mi è successo sul Couturier alla Verte nel 2018. Diventa sempre più importante il tempismo. Un altro esempio sono le discese dell’Helbronner: qualche anno fa la regola era che fino a febbraio si poteva sciare durante tutto il giorno, dopo solo fino a prima di mezzogiorno, essendo tutto a Sud ed Est. Ora capita di doverselo ricordare anche in pieno gennaio. Lo dico con un certo rammarico. È tempo che ognuno ne prenda coscienza e cerchi di fare il possibile, anche se mi accorgo che è solo un piccolo gesto. Vivendo a Cham per esempio cerco di non prendere la macchina per tutta la stagione invernale. Uso la bici. Ma è difficile cambiare. Basti pensare al problema dell’inquinamento dovuto al riscaldamento che c’è ogni inverno qui in valle».

Tornando alle sensazioni che sa regalare la neve vissuta senza compromessi: si capisce da come interpreti le tue discese, traspare la tua passione estrema per questo elemento e la ricerca della polvere migliore.

«È incredibile la sensazione che regala la neve se sciata veloci. La velocità che cerco ti porta a planare sopra grazie alla superficie larga degli sci, le curve le fai driftando sul manto nevoso, ottenendo sensazioni uniche. Ti senti leggero. E puoi sciare a fondo sul pendio». 

Sciare veloci diminuisce alcuni rischi?

«Secondo me in parte sì. I tratti più pericolosi delle linee generalmente sono in alto, sotto i colli o le creste. Spesso con tanta neve mi sforzo di percorrere dritto questi passaggi, il più leggero possibile, avendo cura di individuare preventivamente una via di fuga sicura. Oltre certe velocità plani sulla neve, il drift che ti dicevo prima. Però non è facile e ci si deve esercitare prima su terreni che si conoscono bene , ci vuole tempo per acquisire sensibilità, con tante giornate sulla neve. Inoltre spesso su linee che conosciamo e che prendiamo con gli impianti ormai ragioniamo su come tagliare il pendio preventivamente in determinati punti, per farlo scaricare. Ma… don’t try this at home!».

Cham, i pendii del Monte Bianco, la neve, la velocità, la fluidità, qual è lo stile che preferisci e il terreno ideale?

«Innanzitutto è più corretto fare una distinzione all’interno del mio modo di sciare: specie d’inverno preferisco definire il mio stile full speed, e poi c’è lo steep skiing sulle grandi pareti. Per quanto riguarda il primo, sono tutti quei giorni tra Midi, Helbronner e Grands Montets di sci in polvere. Dove si attendono le nevicate e ci si tuffa a sciare a fondo e al massimo ogni singolo fazzoletto di neve polverosa. Con amici, in modo totale, approfittando delle condizioni.  Per quanto riguarda lo steep, sono quelle giornate in cui cerco di sciare una parete ripida con la miglior neve possibile per il mio stile. Il pendio che ritengo perfetto per questo tipo di discesa si trova nel bacino d’Argentière. È il Col de la Verte. È assolutamente fantastica: continua per linea e pendenze, ripidissimo per lunghi tratti. Spesso su altre discese i tratti oltre i 50° si riducono a qualche metro, al massimo qualche decina. Al Col de la Verte queste pendenze si trovano per qualche centinaio di metri. E poi è tecnico. Sempre nella Mecca dell’Argentière, anche il Col de Droite mi piace molto. Mentre sul versante italiano per me la linea più bella è il Couloir du Diable al Mont Blanc du Tacul. Una linea pura, evidente eppure spesso trascurata e poco frequentata contrariamente alle discese del bacino d’Argentière».

Un grosso exploit dell’anno scorso è stato la Nord del Triolet, quella resa mitica dalla foto del compianto Philippe Fragnol durante la prima discesa in snowboard del giugno 1995 a opera di Jerôme Ruby e Dedé Rhem. Discesa ripresa in sci solo nel 1998 dalla Guida alpina svizzera Marcel Steurer.

«Che giornata sul Triolet! Se devo essere sincero, io e Jonathan Charlet eravamo saliti in Argentière con l’idea di provare il Nant Blanc, pendio mitico che ancora ci mancava. Osservando la parete, ci siamo accorti che alcuni sciatori avevano iniziato la discesa, o meglio a buttar giù doppie collegando tratti in cui curvavano molto controllati. In sostanza, non c’erano le condizioni che cercavamo e comunque, se fossimo andati anche noi, avremmo già trovato delle tracce. Detesto le tracce. Se non sono il primo a scendere un pendio, allora cambio piano. Non mi interessa più. È come se perdesse la purezza. Odio seguire le tracce. Allora siamo andati verso il Refuge d’Argentière con alcune idee in testa, tra le quali guardare il Couloir Lagarde. Però, una volta al rifugio, la vista della parete Nord del Triolet ci ha catturato totalmente con il suo bianco perfetto. Siamo saliti eccitati sul tetto per binocolarla: ci è sembrata in condizioni perfette. Allora abbiamo chiamato Daniel Rönnbäck per organizzare le riprese dall’elicottero. Al mattino presto abbiamo risalito il Col des Courtes e, una volta in cima, ci siamo trovati davanti al tratto più tecnico e spaventoso della giornata: la cresta che porta in cima al Triolet. Sono poche centinaia di metri, ma espostissimi. Un filo dove è impossibile proteggersi e dove si deve procedere con cautela legati a tutta corda, facendola passare dietro a spuntoni di roccia e neve per avere un minimo di sicurezza. Alle 11 eravamo in cima, ma dovevamo aspettare l’elicottero perché fossero possibili le riprese. Dopo mezz’ora però ci stavamo raffreddando e la tensione della discesa saliva: abbiamo chiamato Daniel dicendo che avremmo iniziato subito la discesa, in fondo eravamo lì per sciare. Il mio socio in tavola davanti, in modo che fosse facilitato, potendosi fermare frontalmente al pendio con le due picche durante l’installazione delle doppie nel ghiaccio sopra ai seracchi. Bisognava scavare nella neve per arrivare al ghiaccio. Quindi le doppie, poi il ripido pendio esposto sotto ai seracchi. L’elicottero nel frattempo era arrivato mentre sciavamo: non amo il suo rumore, è difficile concentrarsi. Poi le curve sempre più veloci insieme sul pendio basale. Una volta sul ghiacciaio, ci siamo girati indietro insieme a guardare la parete ed è stato bellissimo. La neve che abbiamo trovato è stata meravigliosa e ho provato la stessa sensazione della discesa del Col de la Verte. Sono linee che guardavo da anni, dove ho potuto capire i progressi fatti».

Immagino che però ci siano ancora alcune big line che vorresti sciare qui nel Bianco?

«Mi piacerebbe prima o poi trovare le condizioni ideali sul Nant Blanc. Poi, passando all’altro versante del massiccio, la Diagonale al Tacul e una linea sulla parete della Brenva, la Sentinella Rossa magari. Fuori da Chamonix ho grosse aspettative per sciare in Kashmir o in Pakistan. Vedremo. Intanto in questi Paesi cerco di scovare delle linee, magari su Fatmap… ma non come quelli che lo usano per scovarle a Chamonix, ahah!».

© Federico Ravassard

Allora non ti piace solo il Monte Bianco!

«No, no, assolutamente. Forse quando ero giovane ero più radicale. Poi ho capito che il mondo è grande ed è troppo bello per non visitarlo sciando. Specie con l’esperienza fatta qui a Chamonix. Non ho bisogno di Guide, sono diventato abbastanza autonomo anche nelle manovre alpinistiche. Discorso a parte per il mio socio preferito Jonathan Charlet, che è una Guida. Ma è soprattutto uno che in montagna ha due palle enormi! E poi abbiamo lo stesso modo di pensare: per sciare le big line non devi pianificare troppo, farti delle liste. Non ti lascia tranquillo e perdi lucidità».

Qui a Chamonix quando arriva la primavera deduco che ci sia molto fermento per sciare le pareti più belle e prestigiose: storie da ghetto, rivalità e competizione?

«Sì, è vero. In inverno è un po’ differente: durante i powder day si è per lo più tutti cordiali, si scia con in amicizia. In primavera il discorso cambia. Ci sono tanti team, tante crew o piccoli gruppi di sciatori. Gira un sacco di testosterone e più mistero. Come dicevo, odio trovare i pendii tracciati. Voglio essere il primo. Anche su linee che conosco a memoria come il Glacier Rond alla Midi, se uno degli amici che è con me chiede di poter andare per primo, lo lascio andare, ma dentro di me soffro un po’. Per questo spesso arrivo tra primi a mettermi in coda alle funivie, anche solo per essere davanti a tutti sulla cresta della Midi, oltre il cancelletto. È liberatorio! Purtroppo qui a Cham non tutti sono corretti. Chi ha soldi e sponsor ha diritto a priorità sulle cabine. Per non parlare poi degli elicotteri. In tanti hanno la coscienza sporca e a me piace troppo dire le cose come stanno. Per esempio quanto accaduto durante una discesa dell’Aiguille du Plan l’anno scorso, quando dei pro skier con una Guida sono stati portati su in elicottero: ho discusso, come è possibile che delle Guide propongano questo modo di andare in montagna a cercare le linee? C’è da vergognarsi».

Veniamo ai tuoi modelli: uno sciatore che ti ha ispirato?

«Se devo fare il nome di un pro skier, posso dirti Seth Morrison. Lo seguivo da ragazzino, poi l’ho visto a Cham e lo guardavo con rispetto e diffidenza. Ma poi siamo tutti skier, ci si capisce e adesso capita addirittura di sciare insieme!».

Veniamo alle domande tecniche: per lo sci che pratichi quali sono i tuoi materiali preferiti? 

«Mi piace utilizzare materiali che mi permettano di sciare bene e forte. Sono supportato da Armada e per i giorni di polvere full speed da quest’anno uso il Tracer da 118 mm sotto al piede e 195 cm di lunghezza, essendo alto e volendo cercare la velocità. Sogno una mia versione lunga 205 cm. Attacchi Look Pivot e scarponi Dalbello Krypton o Lupo: preferisco materiale solido e senza sorprese. Adoravo i JJ del 2015, adoro i Tracer e mi hanno sorpreso i Magic J. Per i pendii ripidi utilizzo un prototipo che sto sviluppando con Armada: 192c m di lunghezza, 115 mm al ponte, camber normale, rocker e bello rigido. La prima versione era meno intuitiva di quello che uso adesso, che è più confortevole. Non mi piacciono gli sci leggeri, perché leggerezza è sinonimo di sciare soft e a me piace sciare duro a tutta. Come attacchi uso i Marker Kingpin. Negli ultimi anni c’è stata una grossa evoluzione delle calzature: per la massima trasmissione devono avere la punta piatta e non stondata anche se facilita la rullata e poi non devono essere troppo basse come quelle da skialp puro. Ma per sciare la cosa più importante è l’asse e poi lo scarpone: prendi degli sci veri, solidi anche se più pesanti. Restituiscono migliori sensazioni e sicurezza. La leggerezza a tutti i costi va a discapito della sicurezza, specie se ami sciare veloce».

Cosa ti piace degli sci che usi e come ti trovi nel team Armada?

«Mi trovo molto bene, ormai da quasi sette anni. Seguono il rider nella costruzione e nello sviluppo di nuovi modelli. E poi hanno un team che tocca tutte le discipline, dal pipe al backcountry, dal big mountain skiing fino allo street. E c’era JP Auclair: un punto di riferimento che dava un bel supporto ai nuovi, aiutandoli e seguendoli. Infine, se devo essere sincero, quando vedo gli sci con quelle grafiche aggressive… sogno subito di essere in powder! È stato uno dei primi brand a capire l’importanza di creare grafiche emozionali oltre che ottimi attrezzi sviluppati da chi in montagna ci va per sciare davvero».

Ok, ora è il tempo di fare qualche foto, magari un po’ urban style, dove andiamo Tof?

«Beh, alla Midi, che adesso non c’è coda!»

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 121 DI DICEMBRE 2018, INFO QUI

© Federico Ravassard

Tour de La Meije quattro giorni au refuge

Continua la pubblicazione dei più interessanti articoli di viaggio di Skialper per non dimenticare che gli sci sono la migliore scusa per partire alla scoperta del mondo.

1893. È già passato un po’ di tempo se ci riflettiamo. Una storia racconta che quattro persone tra cui Cristophe Iselin si incontrarono verso sera fuori dal paese di Glarus, quasi di nascosto, per non stuzzicare la curiosità e l’ilarità dei vicini: da lì partirono con sci verso il colle Pragel. Uno era con le racchette ma le cronache giustamente non lo citano troppo volentieri. La salita in sci al suddetto passo, quota 1.554 metri, nel Canton Glarona, in Svizzera, è da considerarsi la prima vera scialpinistica sulle Alpi. A scanso di fake news, si può dunque pensare che quel giorno sia iniziata la storia dello scialpinismo. Mi è sempre piaciuto pensare che questa disciplina non si sia mai allontanata troppo dalle proprie origini: gli sci rimangono il miglior modo di muoversi in montagna in ambiente innevato. Non ce n’è. Sono fatti per sostenere, distribuire il peso sul manto nevoso limitando la fatica dei nostri spostamenti, aiutandoci e agevolandoci. Non saremmo lì in mezzo alle bianche alture senza di loro. O forse ci saremmo, magari con un paio di ciaspole, ma forse a quel punto avremmo pantaloni attillati, zaini enormi, pile rossi, calli sulle caviglie e sui polpacci e insomma… addio stories su Insta, salamini gratis da parte del salumificio dello zio che ci sponsorizza e zero tipe rimorchiate in ufficio mostrando le discese del weekend mentre ululiamo giù da vertiginosi pendii cercando di avere l’espressione delle Guide di Cham.

© Federico Ravassard

Forse diamo troppo per scontata l’importanza dei nostri sci. Ma è la loro natura intrinseca di mezzo di trasporto che ci consente di fare i fighetti. E come ogni mezzo di trasporto sono fatti per permetterci di affrontare un viaggio. Uno spostamento che si compie da un luogo di partenza a un altro distante dal primo. Una linea che collega due punti sulla neve. L’occasione per riscoprire l’essenza dello scialpinismo è stata del tutto inaspettata. Il cellulare si illumina: messaggio. È Mathias, un collaboratore di una rivista francese sempre del settore sci e outdoor. Mi informa che i rifugisti degli Écrins e l’ente turismo dei Pais des Écrins, nelle Alpi del Delfinato, in Francia, stanno organizzando un viaggio stampa per promuovere e far scoprire il loro meraviglioso massiccio. Un raid a sci negli Écrins! Meraviglia! La risposta è ovvia. Il massiccio transalpino lo conosco abbastanza bene, da Torino non è così distante e offre un terreno selvaggio con infinite discese, canali, pareti. Una mecca dello sci, selvaggia e spesso isolata. Negli anni però l’approccio è sempre stato un po’ mordi e fuggi. Quando ho cercato di ricordare tutte le volte che ero stato da quelle parti, la sequenza che mi veniva in mente è stata sempre più o meno la stessa:

  • Uno: sveglia ad orari in cui la Convenzione di Ginevra vedrebbe certamente la violazione dei diritti umani;
  • Due: caffè e biscotti in automatismo;
  • Tre: macchina, motore, fari, cassa dritta propedeutica all’occhio aperto;
  • Quattro: appuntamento tipo scambisti in qualche parcheggio autostradale o meglio di centro commerciale… con le quattro frecce;
  • Cinque: auto, velocità elevata;
  • Sei: arrivo, salita, sciata;
  • Sette: birra, Pastis, nutrimento, guarda foto, guarda parete, discuti, sogna;
  • Otto: auto, velocità elevata (ma in senso contrario);
  • Nove: ritardo;
  • Dieci: fai cose, dimostrati disponibile con i tuoi cari, sei in ritardo, dimostrati collaborativo.
© Federico Ravassard

Una sorta di decalogo, operazioni automatizzate. Che è un po’ quello di chi si spara le gite in giornata. Qualche menoso dirà che è un modo consumista figlio dei nostri tempi. Sì. Ma siamo un po’ tossici dell’aria aperta e della neve, con la faccia abbronzata delle Guide di Cham, sempre loro, ma magari abitiamo a 200 chilometri da dove vorremmo sciare, lavoriamo in ufficio, cantiere, ospedale o in università: quindi appena possiamo settiamo quella maledetta sveglia ancora un quarto d’ora prima perché magari ci scappano altri 300 metri in più. Un raid però è diverso. È un viaggio, ci si sposta in montagna, si entra in sintonia, si rimane ovattati dall’ambiente che ci circonda. Si riesce ad entrare in esso, passando attraverso diversi stati d’animo, ascoltando il proprio corpo, specie il giorno in cui le gambe andranno meno. Da un punto a un altro, una linea, con gli sci. Un sogno. Dopo gli ultimi consulti sul meteo, non proprio stabile dopo un inverno secco e avaro di precipitazioni come quello di quest’anno, il raid viene confermato.  Il tour della Meije, giro classico del massiccio. Quattro giorni La Bérarde to La Bérarde: nel mezzo tutti i rifugi e i loro gestori che accolgono alpinisti e scialpinisti in queste vallate remote. Si parte! Dopo una notte a La Grave in un posto degno di un film di Tarantino, con Federico arriviamo a La Bérarde sorprendentemente in orario. Si conosce il gruppo, si fa un piccolo briefing con le due Guide, Julia e Mathilde, e si parte in direzione del vallone di Etacons, dominato dal versante meridionale della Meije. Nei viaggi, oltre ai chilometri, al dislivello e alle discese, sono le persone che si incontrano, spesso per la prima volta, a caratterizzare la linea del percorso. Le impressioni che riceviamo da questi incontri diventano un tutt’uno con quelle del nostro movimento, creando l’esperienza. In questo caso abbiamo avuto l’occasione di condividere il rifugio quasi sempre con i soli rifugisti, complice la poca gente in giro e le previsioni non così definite. E fu così che…

© Federico Ravassard

Sandrine - Refuge du Promontoire

Oggi il menù prevede solo salita. Non c’è fretta, abbiamo tutta la giornata per arrivare al Refuge du Promontoire. Il set-up che preferisco per i raid classici non è leggero, lo sci è largo e lo scarpone un onesto 1.400 grammi. Piuttosto si alleggerisce lo zaino con meno cambi e pazienza per i vicini di branda. Le nuvole in cielo intanto si dissipano e arriviamo al Refuge du Châtelleret proprio dove il piatto vallone inizia a impennarsi in direzione Brèche de La Meije. Charles, occhi blu, mascella squadrata e abbronzatura non certo timida, ci accoglie con la sua compagna in questa isola spersa nel sole del vallone circondato da picchi che ben superano i 3.500 metri. Dopo una meravigliosa omelette, ripartiamo alla volta del Promontoire dove le nuvole che ci avevano avvolto con del nevischio lasciano posto a un bel sole. La gestrice è Sandrine, una gentile ragazza bionda. Giovane, con sorriso che lascia trasparire timidezza e una luce irrequieta negli occhi. Quelle persone che sembrano scappare da qualcosa. Le primissime rughe intorno agli occhi blu confermano che in realtà sta vivendo la vita che ha scelto: nata a Chamonix, sono sei anni che gestisce dei rifugi dopo aver lavorato per quattro come aiuto al Refuge Albert 1er ai piedi dell’Aiguille de Chardonnet, nel Bianco. Sandrine serve tutti, sparecchia, rassetta la cucina e poi mangia anche lei in sala. Convincerla a fare qualche foto si scontra con la sua timidezza, ma ce la facciamo e le strappiamo una risata quando ci improvvisiamo come sui set con le modelle e le chiediamo prima uno sguardo imbronciato e poi una mano nei capelli e uno più sexy. Ci perdonerà, credo. Ah, sappiate che Sandrine vi scatterà anche lei qualche foto: con una piccola automatica bianca, ruberà un momento del vostro passaggio per ricordo, senza chiedervi di mettervi in posa, quasi di nascosto. È timida, l’ho detto.

Jeff - Refuge de l’Aigle

Il giorno seguente, se non sarete trascinati a valle dal compagno che si dovrà legare con voi e se scamperete le insidie della conserva corta con gente poco avvezza ai ramponi risalendo il budello del Serret du Savon, ai piedi dei seracchi della parete Nord della Mejie, arriverete in quel magnifico nido d’aquila (appunto!) che è il Refuge de L’Aigle. Siamo su un cucuzzolo ai piedi della Meije Orientale che domina il caleidoscopico Glacier de l’Homme e il vasto Glacier du Tabuchet. Jeff è il rifugista: sulla cinquantina, sorriso da marinaio. A sedici anni è scappato da Parigi, biglietto sola andata per le montagne del Sud della Francia. Un richiamo a cui non ha saputo resistere. Ha lavorato prima come portatore, poi al Refuge du Viso e quindi al Refuge des Écrins. Fino all’anno scorso quando… Chiacchierando, ho collegato questo dettaglio subito e ho capito che mi trovavo davanti alla voce che per anni mi ha risposto al telefono quando chiamavo il Refuge des Écrins per chiedere info sulle condizioni e nevicate di fine primavera. Tutto per capire se sarebbe stato il giorno buono per scendere integralmente i 4.102 metri della Barre des Écrins per il versante Nord. Mai una volta che all’accento italiano rispondesse con info certe: solo pessimismo, desolazione e condizioni catastrofiche. Poi puntualmente il giorno dopo almeno una pulminata di francesi scendeva la parete. Eccolo davanti a me il maledetto! Non sembra neanche così scorbutico, anzi è simpatico, tanto che alle mie rimostranze la serata si anima e finiamo con una risata davanti a una birra. Accidenti a te Jeff!

Sabine - Refuge Villar d’Arène

Dopo la notte all’Aigle, il risveglio sul mare di nubi dopo una lieve nevicata fa sorgere qualche dubbio sul fatto di essere effettivamente svegli. Forse si sogna ancora e il dubbio permane anche durante la discesa del Tabuchet, intonso fino a Villar d’Arène. Dopo un provvidenziale passaggio a Pied du Col il nostro gruppetto riprende a salire in direzione del rifugio per la notte. La giornata è primaverile e la luce sulle pareti nord dell’Agneaux, in fondo al Cirque d’Arsine, fa capire che sarebbe il momento buono per sciarle. Questa notte dormiremo al Refuge Chamossière. Essendo però un viaggio alla scoperta dei vari rifugi che potrebbero fare da appoggio a questo raid, è d’obbligo una tappa enogastronomica al rifugio di Villar d’Arène, situato a circa cinquanta metri lineari dal Chamossière. Qui facciamo la conoscenza con Sabine, 20 anni trascorsi in questo angolo di paradiso. E arriva anche il momento critico del viaggio: la tarte au chou di Villar d’Arène. Una torta-sformato di cavolo, castagne e carni assortite che Sabine ci presenta con un sorriso sfidante. Ragazzi dimenticatevi tutte quelle barrette, cibi, gel che riportano la scritta energetica. Qui si gioca in un altro campionato. Eccellenza contro Champions League. Un’iniezione calorica e di fiducia in se stessi. Sabine si ripresenta al nostro tavolo solo dopo più di un’ora. A raccogliere i cocci di un gruppo disfatto dalla sfida appena sostenuta e a condividere ancora un dolce e un sorso di vino. Menzione per Federico a tavola: testa altissima.

Seb - Refuge Chamossière

Se qualcuno dicesse che Seb Louvet è uno che fa 1.300metri/ora non penso che si vedrebbero molte mani alzate di saputelli contestatori o diffidenti. Lo si capisce subito. Entri nel rifugio, curato come una spa, e ci si imbatte in una cyclette con i pedalini. Si allena dunque anche col brutto. Quindi si allena sempre. Seb è magro, molto magro. Persino le mani, seppur decisamente forti, sono magre. Seb corre, pedala, scia. E non lo fa piano. Seb è colui che ha organizzato il tutto per promuovere il giro della Meije e i suoi rifugi. Ha capito che i rifugi funzionano e rendono se costituiscono una rete tra di loro. Negli Écrins ci sono due associazioni di rifugi in base ai dipartimenti regionali, Hautes Alpes e Isère, ma sarebbe meglio che si ragionasse nell’ambito del massiccio e non secondo suddivisioni burocratiche. Il rifugista ci fa notare che l’attenzione è sempre maggiore, anche da parte della politica e degli enti turistici. Ci confessa che sua madre quando era giovane gli avrebbe dato dei soldi per dormire in un albergo piuttosto che saperlo in un rifugio. Erano luoghi più spartani, un punto di ricovero tra il parcheggio e la cima prefissata. Ora è diverso, il tempo dell’alpinismo vero in questa parte di Écrins secondo Seb è finito. Si lavora molto più con il trekking e il trail running. Il rifugio è diventato una meta a se stante al pari di una cima. Il Chamossière è un gioiellino molto curato con tanto legno e materiali naturali utilizzati per la ristrutturazione. Vale la pena di venirci anche solo per vederlo e cenare. A Seb piace chiacchierare e ci confessa che non sente alcuna competizione con il vicinissimo rifugio di Villar d’Arène di Sabine, anzi collaborano e si aiutano. La cucina di Sabine è super, ma lui ci va solo a prendere il caffè perché se no addio ai sacrifici che fa con l’allenamento. Per Seb quella del rifugista non è stata una vocazione, ma uno scherzo del destino: la prima cosa che aveva iniziato a sorvegliare era una rifugista dell’Adèle Planchard. La vita è strana.

Fanny - Refuge Adèle Planchard

Oggi si torna alla Bérarde, ma allunghiamo il giro verso il Col della Casse Désert per passare a conoscere il nuovo gestore del rifugio Adèle Planchard. Ventitre anni, riccioli d’oro e occhi azzurri: Fanny sorride nel suo piccolo regno al cospetto delle più belle montagne degli Écrins, ai piedi della Grand Ruine. Non ci fermiamo molto, ma quanto basta per capire che, seppur così giovane, ha trovato il suo mondo. La sua pace. Serenità, se dovessi scegliere una sola parola per descriverla. Ad aiutarla Cristophe, un omone timido che d’estate fa il malgaro in un altro massiccio transalpino. Omelette di rito e salpiamo a riprendere la nostra linea immaginaria che chiuderà il cerchio alla Bérarde. Oggi le gambe van da sole. La discesa sui pendii Ovest della Casse Déserte passa dalla farina alla neve trasformata senza praticamente nessuna zona di transizione. Ambiente Écrins, l’aria in faccia, sole. Ognuno un po’ per sé, liberi. Perché fare scialpinismo? Perché è bello.

TOUR DE LA MEIJE

Il raid in sci de La Meije è uno dei più classici e famosi delle Hautes Alpes. Un percorso vario, in alta montagna, riservato a scialpinisti preparati, a loro agio anche con ramponi e qualche basilare manovra alpinistica. Un itinerario che si può prestare a numerose varianti, regolando i tempi di percorrenza in funzione delle ambizioni e delle condizioni del momento. Il periodo migliore generalmente è ad aprile. Gli Écrins e i loro rifugi vi sapranno stupire. Quello che i nostri inviati hanno percorso è l’anello con partenza e arrivo alla Bérarde, sperduto paesino francese, vero cuore del Massif des Écrins.

 Giorno 1: La Bérade (1.720 m) – Refuge du Promontoire (3.092 m)

Milletrecentosettandue metri di sola salita per raggiungere uno dei più iconici e famosi rifugi del massiccio, arroccato ai piedi della cresta del Promontoire. Dalla Bérarde risalire il vallone des Etacons, superare il Rifugio Châtelleret (altro punto d’appoggio) e dirigersi verso la Brèche de La Meije. Giunti sui pendii che la precedono, svoltare verso destra riportandosi in direzione delle rocce della cresta del Promontoire, dove sorge il rifugio.

D+ = 1.372 m

Difficoltà = 2.3 E1

Giorno 2: Refuge du Promontoire (3.092 m) – Brèche de La Meije (3.357 m) – Serret du Savon (3.399 m) - Refuge de L’Aigle (3.450 m)

Dal Promontoire, prima con le pelli e poi con i ramponi, reperire la Brèche de La Meije (100 m, 45°), quindi a seconda delle condizioni scendere il ghiacciaio lato La Grave per circa 300 m e ripellare quindi costeggiando la parete Nord del Gran Pic della Meije fino in corrispondenza dell’attacco del Couloir Gravellotte (sceso da Tardivel nel 1997); proseguire in discesa svelti sotto i seracchi del Corridor fino alla base del Couloir del Serret du Savon che si risale per circa 250 m (massimo 45°) e poi brevemente con le pelli si arriva al Refuge de l’Aigle.

D+ = 900 m circa in funzione del punto delle ripellate

Difficoltà = 3.3 E3 (tratto sotto ai seracchi, couloir a 45° in salita, tratto alpinistico in discesa o possibile doppia dalla Brèche della Meije)

Giorno 3: Refuge de L’Aigle (3.450 m) - Meije Orientale (3891m) - Villar d’Arène (1.600 m) – Pont de l’Arsine (1.700 m) – Refuge Chamossière (2.106 m)

Dal Refuge de l’Aigle salire alla sella Nord della cresta a sinistra della cima della Meije Orientale, percorre tutta la cresta con passi di misto facile in funzione delle condizioni e giungere in vetta. Una volta tornati al luogo dove si sono lasciati gli sci è possibile scegliere tra la discesa del Glacier de l’Homme (soluzione più diretta e che vi porta già più vicino al Rifugio Chamossière senza bisogno di passaggi) o quella del Glacier du Tabuchet da noi percorsa fino a Villar d’Arène. Da qui in autostop raggiungere il parcheggio nei pressi del camping di Pont d’Arsine e in circa un’ora e mezza raggiungere il rifugio con comoda salita.

D+ = 800 m

D- = 2.200 m

Difficoltà = 3.3 E1

Giorno 4: Refuge Chamossière (2.106 m) – Col de la Casse Déserte (3.483 m) – La Bérarde (1.720 m)

Dal Rifugio salire il pianeggiante e lungo vallone di Valfourche passando sotto all’evidente canale Nord della Roche Faurio, poco prima di giungere al canale della Brèche Charrier, ben visibile davanti a voi, svoltare sulla destra e rimontare il vallone via via più ripido (ultimi 100 m a 45°) fino al Col de la Casse Déserte. Da lì scendere i pendii ovest (primi 100 m ripidi, possibile doppia) fino a reperire il vallone di Etacons poco sotto al Rifugio Chatelleret e di qui alla Bérarde.

D+ = 1.400 m

D- = 1.700 m

Difficoltà = 3.3 E2

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124

© Federico Ravassard

Freetouring è costruire, cambiare, pelle d'oca...

Freetouring è costruire: Pietro Marzorati

Canturino, 29 anni, ingegnere. Sciatore bipede fino al 2000, poi il colpo di fulmine per lo snowboard nel piccolo paese di Valdisotto, in provincia di Sondrio. Lo conosco personalmente e mi concedo la confidenza di un amico. Dichiara, sottovalutandosi, di essere approdato al freeride in seguito a cocenti delusioni con il freestyle. Il tono, quando lo racconta, è quello di un innamorato deluso. Conservo dei dubbi in merito.

Un passato da podista e di sport di fatica e l’acquisto di una delle prime split in Italia, ben presto lo avvicinano al freetouring. Mi folgora con la massima non c’è discesa senza salita e non c’è salita senza il fine ultimo della discesa, tuttavia è niente rispetto a quando lo vedo scendere certe pareti.

Per vivere a fondo questa passione, nel 2014 intraprende con Davide Bernasconi e Marco Moretti l’avventura di provare a costruire materiale da snowboard, per alimentare in maniera ancor più viscerale quella fiamma, per rendere concreto e tangibile un impulso producendo una tavola per surfare sulla neve. Nasce Comera, che fonde tecnica e passione, roba da ingegneri… o da innamorati, non mi sbagliavo.

 

Freetouring è cambiare: Marco Maffeis

Ingegnere, come molti scialpinisti!, ci tiene a sottolineare. Trentacinque anni sulle pelli, di cui molti passati tra Valsesia, Ossola e Vallese. Grande esperto delle valli del Rosa. Storce un po’ il naso quando gli parliamo di freetouring, allergico alle definizioni, in particolar modo nel mondo dello sci.

«Spesso non sono chiare nemmeno a chi (inconsapevolmente) le pratica! È stato così anche tempo fa, quando a un certo punto dalle mie parti (Alagna) abbiamo scoperto che quello che avevamo sempre fatto fino ad allora non si chiamava più fuoripista, ma era diventato improvvisamente freeride. Analogamente, nel caso del freetouring, mi piace pensare che si tratti semplicemente di una naturale evoluzione di ciò che è sempre stato lo scialpinismo classico: lo sviluppo di attrezzatura molto più performante ha consentito di spostare l'attenzione sull'aspetto più ludico e il piacere della discesa è diventato per molti l'obiettivo primario».

Circa una ventina di anni fa, stanco di faticare nelle discese su neve difficile, ha provato a fare qualche calcolo per determinare, in base al peso corporeo dello sciatore, quale fosse la superficie degli sci necessaria a ridurre la pressione esercitata sulla neve al di sotto di una certa soglia. Si dice che gli ingeneri risolvano tutto con un file di Excel e in effetti così è stato! Il risultato fu sconcertante, perché in quel momento in Italia semplicemente non esistevano attrezzi di dimensioni simili. Ben presto, tra lo scetticismo dei conoscenti, si procurò un paio di Rossignol Bandit XXX che, nonostante fossero solo 85 al centro, per l'epoca erano delle vere portaerei! Dovette quasi litigare con il suo negoziante per costringerlo a montarli con un paio di attacchini Dynafit, ma quel set up rappresentò il punto di svolta: un vero game changer!

Marco Maffeis

Freetouring è pelle d’oca: Elisa Sisa Vottero

Sisa è felice come una bambina, quando si parla di neve. Elisa, ma tutti la conoscono come Sisa, è appena tornata da un viaggio in sci e bicicletta in Cile: partenza in bici, poi un po’ di scialpinismo sui vulcani nella regione tra Termas de Chillan e Puerto Montt. Scivolate sul cono perfetto dell’Osorno e giù dal Lonquimay, poi, lasciati gli sci, ancora bicicletta fino a Puerto Tranquillo.

«Uno dei primi viaggi di fatica che faccio in compagnia». Di solito, preferisce vivere da sola questo tipo di esperienze. «Mi innervosisco se non raggiungo gli obiettivi che mi sono fissata e da sola è meglio». Quest’anno è stata in Marocco con gli sci, ha salito e sceso i classici 4.000 dell’Atlante. E pensare che sulle Alpi a quella quota non c’era mai stata… «Non ho fatto nessun exploit. Cose normali, tanto più che con gli sci ci lavoro e non utilizzo materiale particolarmente orientato alla salita, ma da sola mi sono ritrovata! Mi viene la pelle d’oca solo a ricordare quelle sensazioni e le emozioni che provo nello scendere. Penso sia qualcosa di viscerale!» A Sisa piace stare bene con se stessa, quando gli sci diventano i suoi compagni, ma dopo il Cile ci ha confessato che forse è meglio in due.

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Elisa Vottero

Freetouring è orgoglio: Roberto Parisse

Il modo di vivere lo sci libero non ha confini. Non bisogna essere per forza nati a Chamonix o nelle Dolomiti. È una cosa che senti dentro e non è detto che tutti ci arrivino alla stessa maniera. O che la interpretino nello stesso modo. Anzi, certi a quella sensazione di libertà ci arrivano quasi muovendosi in direzione ostinata e contraria, passando da esperienze che alcuni di noi potrebbero giudicare agli esatti antipodi. Ma il fascino di un movimento libero sta proprio in questa imprevedibilità e Roberto ne va orgoglioso.

«Sono del ’79, ma ci tengo a specificare che non sono ancora entrato negli anta perché son venuto alla luce a fine dicembre. Da cinque anni sono Maestro di sci. Abruzzese dell’Aquila, sono arrivato alla montagna dall’arrampicata sportiva praticata a livelli agonistici. Non nascondo che ad animarmi è sempre stato uno spirito competitivo. Un agonista vero, mi posso definire. Le gare, i cronometri, la difficoltà offerta da uno stesso terreno di gioco, sono a mio parere l’unica maniera per confrontarsi. Per determinare chi è più bravo. Anche nello sci. Così allo skialp classico ci sono arrivato attraverso le gare; mi ci portava mio padre che è sempre stato un grande appassionato di montagna. Avevo poi iniziato con le gare di Derby tipo la Meije o quelle che si tenevano a Colere, per poi passare, dal 2007 al 2011, al Freeride World Tour, dove ho sempre trovato un ambiente fantastico per confrontarmi con chi viveva sulle Alpi. Le Alpi le ho scoperte nel periodo in cui vivevo a Brescia. E da abruzzese è stata una bella soddisfazione quell’anno in cui sono stato primo nel ranking italiano. Mi sentivo un po’ giudicato in quell’ambiente, per via della mia provenienza. Vado molto orgoglioso delle mie origini e porto questo sentimento anche nel mio modo di sciare: la mia terra è il top per chi cerca l’esplorazione, i posti selvaggi e magari il disagio che comportano.

Alla tecnica ci sono arrivato dopo: ho iniziato a praticare prima lo sci fuoripista e lo skialp, contrariamente a molti. Però sono profondamente convinto che lo sci praticato su terreno libero sviluppi in modo incredibile l’adattamento alla neve, cosa che mi ha aiutato anche tra i pali e che cerco di trasmettere ai miei ragazzi quando insegno. Ribadisco quindi il mio orgoglio di avere questa passione qui nella mia terra, perché amare lo sci e in seguito avvicinarmi alla fotografia insieme a mio fratello, ha dato a entrambi l’opportunità di raccontare ciò che amiamo e di poterne vivere. Bello no?».

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Freetouring è feeling, Ettore Personnettaz

Classe 1975, Ettore Personnettaz vive ad Allein. Valdostano doc, è attratto dalla neve in maniera naturale, fino a diventare, nel 2003, maestro di snowboard. Dal 2007 istruttore nazionale, nel 2012 diventa anche insegnante di telemark, mentre dal 2018 mette la sua passione per lo snowboard a disposizione dei ragazzi disabili. Organizza ogni inverno camp di freeride per gli amanti della splitboard. Nel 2019 ha cercato di condensare la sua passione e le esperienze nel territorio in un libro dal titolo Freeride e snowboard in Valle d’Aosta, dove unisce racconti di esperienze vissute in montagna, itinerari e una parte dedicata alla formazione per muoversi liberamente sulla neve. Ha una fissa: guarda le montagne e immagina di tracciare una linea dalla cima!

«Mi sono avvicinato allo snowboard nel 1992 per curiosità e con un approccio più orientato al freestyle. Ma la vera rivelazione per me è stato l’avvento della split dieci anni fa! In montagna adoro andare in compagnia: si è più sicuri e ci si diverte di più a condividere situazioni… faticose! Tre secondo me è il numero perfetto per un team che si muove su sci e splitboard, anzi non mi vergogno a dire che per la buona riuscita di certe giornate è importante avere nel gruppo un amico sciatore. Non bisogna trascurare le dinamiche che s’instaurano tra i componenti, anche in piccoli gruppi.

Sono fortunato a vivere in Valle d’Aosta e ho potuto vedere tutta l’evoluzione dello sci e dello snowboard, dai materiali alla mentalità: negli ultimi anni ritengo ci sia stato un vero boom nello skialp. Non è più un’attività strettamente stagionale… anche per itinerari impegnativi. Tutto e subito, un po’ come avviene nella società. Eppure, per l’approccio che ho verso la pratica di questa disciplina, mi son reso conto, specie cercando di comporre i racconti del libro, che per assaporare veramente ciò che mi restituisce devo impormi del tempo per metabolizzare.

Andare in montagna aperta a sciare ti consente di esplorare i tuoi stati d’animo, il feeling con i tuoi compagni: questa è la parte che mi affascina di più e che mi spinge a continuare nell’attività».

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© Pierre Lucianaz

Freetouring è divertimento: Andrea Cis Cismondi

Per godere della neve e delle sensazioni che regala in discesa, il materiale è importante. È un percorso che alcuni hanno intrapreso da anni, guidati dalle aziende sempre più attente alla fase di downhill. Andrea Cismondi, 36 anni, maestro di sci e allenatore federale, si accorge che ogni qualvolta si trova davanti a della neve fresca e vede montagne di fronte a lui, gli sale una scimmia pazzesca. Da lì diventa rifugista/sciatore a tempo pieno. E il gioco è fatto. Gli sci inizia a usarli come mezzo di locomozione per raggiungere il posto di lavoro e tutto per lui diventa più free!

«Avevo 16/17 anni… sciare voleva dire fare pali. Per pagarmi un po’ di sci club, dopo scuola davo una mano in un negozio di sport. Lì passavano degli scialpinisti. Mi venne il pallino di provare e così comprai uno sci leggero con attacchini pin e scarponi, tutto rigorosamente iper-usato. Mi aggregai ad alcuni amici per una gita in Valle Stura: mi sentivo pronto! La salita andò bene. La discesa in mezzo a un ginocchio di farina fu infernale: abituato a sciare con altra attrezzatura, trovai la situazione a dir poco mistica, fino a quando in un avvallamento caddi e ruppi in due uno sci. Tornai a casa con le orecchie basse: volevo riprovare, ma non a quelle condizioni. In negozio trovai uno sci di un pisteur francese: un Dynastar 4x4 190 circa. Aveva una lamina scollata. Mi misi a dargli una sistemata e dopo una settimana ero nuovamente lì. Partii per la gita insieme a un sacco di gente. Tanti guardavano questi sci da pista, larghi e lunghi con un attacchino pin, con la diffidenza tipica degli skialper cuneesi, ultraconservatori. La discesa però questa volta fu uno sballo.

Per un po’, nell’ambiente ultraconformista dello skialp cuneese, fui quello con gli sci larghi. Poi man mano che la cultura del freeride si diffuse dalle zone limitrofe e dalla Francia, iniziai presto a essere in buona compagnia. L’idea del freeride abbinata allo scialpinismo non mi ha più abbandonato: divertimento sulla neve a 360°. Altri giorni godo per la salita. Non sono un atleta, anzi… mi prendo tutto il tempo e la calma del caso per girovagare sui monti, ma non rinuncio a portarmi dietro attrezzatura un po’ più abbondante, sia di dimensioni che di peso, per garantirmi comunque una bella sciata. Alcuni giorni cerco solo quelle sensazioni che esclusivamente alcune curve su certi pendii innevati sanno darti. Insomma, mi sento free perché il mio modo di andar per monti con gli sci ai piedi non è poi così codificato».

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© Alice Russolo

Paolo Tassi, freetouring è... democrazia

«Ciao Paolo, grazie che mi hai richiamato. Ti chiedo subito una cosa: ma lì a Cortina quanta ne ha fatta?». Perché, se bisogna iniziare a parlare con Paolo di sci, tanto vale iniziare dalle cose fondamentali. Perché per scivolare ci vuole la neve. Così è iniziata la nostra telefonata durante la big storm di Snowvember, per poi finire a parlare della sua passione per i viaggi sci ai piedi, alla ricerca del cristallo perfetto.

«Da trent’anni a Cortina, orgogliosamente bolognese, Guida alpina, alla domanda Chi è Paolo Tassi? non posso che rispondere che sono io e appartengo alla razza umana! Fuori sta nevicando, è tutto rallentato quando nevica e mi cogli un po’ alla sprovvista. Innanzitutto ci tengo a precisare che la cosa che mi piace di più è sciare nella neve. Cerco proprio il contatto più profondo ed ecco perché spesso scio telemark. E poi, se ci pensate, lo sci è l’unica forma di alpinismo rinnovabile: dopo una nevicata puoi essere di nuovo il primo a lasciare la tua traccia!

© Martino Colonna

È vero: sono un appassionato di neve e di montagna, ma soprattutto della gente che ci vive in mezzo. Ho scoperto i viaggi quando con Mauro Gilardi ho attraversato le Alpi con gli sci, ma forse il primo che ho organizzato davvero è stato quello in Norvegia nel 1997, con Luca Gasparini, Davide Alberti e Luca Manolo: abbiamo affittato una barca per portare gruppi di venticinque persone a sciare tra i fiordi nella zona delle Alpi di Lyngen. Perché la Norvegia? Beh, lì le persone vivono veramente la neve. L’inverno è lunghissimo, tutti si spostano nella neve, usano gli sci e poi le montagne nascono dal mare, senza nessuna transizione. Mi piace organizzare viaggi e non solo per lavoro, perché ho sempre ritenuto che convivialità e possibilità di condividere ciò che offre lo sci siano una parte fondamentale dell’esperienza. Amo definirmi un po’ un antropologo dello sci.

Da lì in poi non ho mai smesso e ti confesso che domani parto per i monti Altai. In questo periodo fa molto freddo e ci sono belle condizioni, ci sono stato diverse volte. Però, se ti dovessi consigliare un posto per un viaggio di sci, ti direi anche il Kashmir indiano, dove nel periodo tra gennaio e febbraio i villaggi vengono letteralmente sommersi dalla neve.  È incredibile come vivono le popolazioni di quelle zone.

E vuoi sapere cosa mi piace di più della neve? Il suo colore, il bianco, non è discriminatorio e di questi tempi non è cosa così scontata. La neve mi piace perché è democratica!».

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© Martino Colonna

Hélias Milleroux: «mi piace stare in montagna»

Eppure sono abbastanza allenato! È la frase che mi rimbomba in testa. Accompagna il ritmo delle pulsazioni. Bam! Bam! Bam! Eppure sono abbastanza allenato. Eppure sono abbastanza allenato. Eppure sono abbast…

In anni di montagna ho imparato a riconoscere alcuni segnali che il mio corpo inequivocabilmente mi invia in certe situazioni. Quando sento quel suono sordo di quando il cuore mi pulsa in testa è perché sto tirando. Il cervello dice alle gambe di andare a tutta, i muscoli e i polmoni sono leggermente meno d’accordo. In altre parole mi stanno tirando il collo! Non mi piace la cosa, non concepisco le gare in montagna, ma non mi piace la posizione di chi le sta prendendo: testa bassa e pedalare.

La risalita del Col des Flambeaux, seppur con i suoi soli 200 metri, spesso occupa, per chi si è cimentato con un qualche itinerario del versante italiano del Monte Bianco, un posto d’onore nel girone delle sofferenze alpinistiche. La giornata in fondo è finita, la modiva cala: mi son sempre detto che uno soffre in quella risalita per una pura questione psicologica, ci si sente già in funivia. Eppure oggi è diverso, siamo solo andati a fare un giro per scattare un po’ di foto, niente sbatta, relax, eppure la corda è bella tesa, anche più di come urlano le diverse Guide presenti sul percorso ai loro clienti barcollanti. Manco sudo per il freddo e sono al gancio. Una decina di metri dietro di me Federico parla poco, non penso sia concentrato per qualche foto: al gancio anche lui. Con i guanti non riesco neanche a prendere il cellulare in tasca: cardiologia non è nei preferiti e mi costerebbe una fermata che non mi posso permettere. La fatica sta cedendo il posto allo stordimento, sta per iniziare un personale Goa party, i contorni delle montagne intorno stanno diventando curvi e colorati, alcune spirali si diffondono bizzarre probabilmente dalle giacche fluo di altri alpinisti, un mix tra un film di Tim Burton e un rave. A un certo punto il flow cambia, tutto sta andando più piano, i colori tornano a essere quelli ordinari: la corda è meno tesa. Confuso alzo la testa, guardo avanti e lo vedo, Hélias, un braccio quasi fuori uso per una caduta in un crepaccio con un cliente la settimana prima; mi sorride e mi chiede: Do you have a cigarette, please?.

Forse sono ancora nel film di Tim, o forse è semplicemente così andare in montagna dietro a un Piolet d’Or. Insieme a Frédéric Degoulet e Benjamin Guigonnet, Hélias Millerioux è stato infatti insignito della più prestigiosa onorificenza del mondo alpinistico nel 2018 in seguito alla loro nuova linea sulla parete Sud del Nuptse: 2.200 metri di ghiaccio e roccia, terreno tecnico a oltre 7.000 metri. Se si sbircia tra i criteri di selezione per le salite che ambiscono al Piolet d’Or come seconda voce si trova: spirit of exploration. Spirito di esplorazione. Non siamo stupiti.

Abbiamo pensato di incontrare Hélias proprio perché è uno dei pochi alpinisti a tutto tondo sulla piazza a incarnare in toto la ricerca di avventura nel senso più romantico del termine. Trentadue anni, parigino, Guida alpina, che sia legato su una parete di misto o con gli sci, ha un modo preciso di vivere il mondo della montagna, all’inseguimento di esperienze il cui esito è incerto o inaspettato, ma proprio per questo pieno di fascino. Un avventuriero. Il classico tipo che se ti dice esco a prendere un pacchetto di sigarette, probabilmente ha già lo zaino pronto in macchina!

© Federico Ravassard

Ciao Hélias! Come nelle altre nostre interviste, partiamo dal principio, raccontaci chi sei, da dove arriva la tua famiglia…

«Guarda, famiglia normalissima, parigina. Con loro ho sempre fatto escursioni. Ho una sorella e un fratello che non posso certo definire grandi appassionati di montagna. Quando ho scoperto la montagna, ho poi passato la maggior parte della mia giovinezza a Fontainebleau, proprio come nella classica tradizione della scuola parigina, a partire da Pierre Allain e il Groupe de Bleau per intenderci».

Dove nasce la tua passione per la montagna? O forse è meglio dire per l’avventura? Spiando le tue imprese e le foto dei viaggi pare proprio che tu sia attratto dall’esplorare, dallo stare in montagna?

«Una volta scoperta la montagna da ragazzino, ho iniziato a desiderare di fare la Guida, perché lo vedevo come il modo per potere starci il più tempo possibile. Oggi ci trascorro più di 200 giorni l’anno, di cui almeno 70 per lavoro. Se penso a cosa mi ha portato a scalare, penso che sia legato a quando con mio padre - avrò avuto 11 anni - camminavo in montagna o su qualche ghiacciaio, ma senza raggiungere delle vere cime. Ritengo che sia stato quel senso di frustrazione legato alla volontà disattesa di raggiungere una cima durante quelle escursioni. Volevo essere sul punto più alto, guardare sull’altro versante. A 16 anni ho poi iniziato a frequentare dei camp estivi organizzati dalle federazioni alpinistiche francesi per i giovani. Da lì poi è partito tutto».

Hai un curriculum spaventoso: alpinismo, sci, ghiaccio, falesia e difficoltà, c’è una preferenza?

«Sinceramente no. Mi piace tutto, variare, è lo stare in montagna stesso che mi piace, non mi importa facendo cosa. A dire il vero mi sono avvicinato allo sci in montagna solo quando ho intrapreso il percorso per diventare Guida alpina: gli assi mi permettevano di essere veloce in inverno e primavera. Potevo utilizzarli per compiere quelle salite che a volte avevo tralasciato perché poco tecniche. Il terreno classico per intenderci. E poi a volte quei lenzuoli di neve si possono pure scendere!».

Con gli sci hai compiuto discese di tutto rispetto – il Nant Blanc all’Aiguille Verte per esempio – cosa ti piace di quel tipo di discese?

«Quando ho iniziato con lo sci su quel tipo di terreno ripido e tecnico ero un follower: non avevo esperienza, seguivo gente più esperta e abituata a quelle discese. Così ho imparato. Ci tengo a dire che non amo la definizione steep ski, mi piace parlare di sci di montagna, nel quale si possono incontrare terreni più o meno difficili. Per me non è un problema se durante una discesa devo mettere via gli sci e scendere con mezzi alpinistici, come per il Nant Blanc ad esempio. Non lo nascondo, vivo sempre un’esperienza e valuto i miei limiti».

Lo sci anche per spostarsi in alta quota: il viaggio in Pakistan di cui parla il movie Zabardast, il tentativo al Nanga Parbat. Pensi che sia il futuro, visto anche l’incremento di exploit degli ultimi due anni, dal K2 al Lothse e al Nanga Parbat?

«Penso che sugli ottomila lo sci sia un mezzo quasi ideale, specie per accorciare i tempi di discesa. Se farò altri ottomila, come al Nanga Parbat (nel 2016, dal versante Diamir in sci da 7.800 metri, ma in cima a piedi in un secondo attacco alla vetta) penso che me li porterò. Sono i mezzi giusti per muoversi sulla neve su terreno non troppo tecnico. A 4.500 o a 7.500 sciare è uguale da un punto di vista tecnico, ma ci si deve fermare molte più volte per respirare. Scendi più lento, ma io mi ritrovo con il mio stile che non è quello dei grandi curvoni supersonici. Penso che una sfida realistica per la prossima generazione di sciatori siano i 14 ottomila con gli sci!».

Sei un alpinista e sciatore completo? C’è stata una volta che avresti voluto avere gli sci o magari viceversa?

«Sì, sul Gasherbrum II per la discesa mi avrebbero fatto davvero comodo. Non uso materiale ultra leggero, ma avrei pagato volentieri il prezzo del peso in salita».

 A proposito di sci, il Mount Logan di quest’anno?

«Dopo il Nuptse ero davvero stanco. È stato un progetto che mi ha impegnato per anni. Nel 2017 ho anche assistito al tragico incidente di un membro del team Scott per una caduta di pietre nel Couloir Angelique. È stato un anno duro. Avevo fatto un sacco di cose. Mi sentivo contento ma non felice, e c’è una bella differenza! L’idea del Mount Logan, 5.959 metri, in Yukon, mi frullava in testa fin da prima: volevo un’avventura. È la montagna più alta del Canada, la seconda in Nord America dopo il Denali, ed è molto vicina al confine con l’Alaska. Nel corso di un’altra spedizione avevo visto quel fiume di ghiaccio: volevo risalirlo, scalare, sciare. Qualcosa di divertente e allo stesso tempo avventuroso. Per il Logan avevamo una mappa, un punto di inizio e uno di fine: il resto spettava a noi! Alla partenza eravamo io, Thomas Delfino, Alexandre Marchesseau e Grégory Douillard, una guida fluviale, visto che volevano tornare scendendo il fiume sul lato opposto della montagna fino al mare e su una canoa fino ad allora avevo passato solo un pomeriggio in vita mia.  Abbiamo deciso di partire dal Malaspina Glacier dopo essere atterrati a Yukutat. Piccolo aneddoto: il secondo giorno uno sciamano locale è venuto per scacciare gli spiriti cattivi che aleggiavano su di noi: pare che il giorno prima ci fosse stata una curiosa coincidenza tra il canto di un uccello e l’abbaiare di un cane, segno di grande sventura, o almeno qualcosa del genere. È un ghiacciaio enorme, guarda questo punto sulla cartina, sembra stretto: beh, saranno dieci chilometri!».

Altri spazi!

«Assolutamente, siamo partiti con una slitta e zaini da 35 chili per ciascuno con l’idea di stare fuori più di un mese e mezzo. Avevamo programmato otto giorni fino al campo base, ma ne abbiamo impiegati il doppio. Siamo arrivati in un punto dove il ghiacciaio, largo quasi 15 chilometri, era insuperabile, un dedalo di crepacci che con le nostre slitte trainate a sci ci avrebbe richiesto troppo tempo e altrettanti rischi. Siamo riusciti a superarlo risalendo delle montagne sui suoi fianchi: sulla mappa erano definite hill, colline. Ma ci sono voluti due giorni».

Poi siete arrivati al campo base, quanto vi siete fermati e che via avete scelto per la cima?

«Ci siamo riposati un giorno, per noi i veri giorni di riposo dovevano essere quelli con tempo bello. Con il brutto, la neve e la pioggia, in alta quota non ti riposi davvero, devi sempre fare qualcosa: spalare, evitare che entri acqua, sei teso e il clima uggioso porta a pensare e alla fine non ci si riposa. Con il sole invece ci si rilassa davvero e così abbiamo fatto. Abbiamo deciso di salire e provare a sciare la Cresta Est del Mount Logan: ci abbiamo impiegato dieci giorni ed essere lenti ma continuare a salire anche con tempo non ottimale è stata una delle chiavi del successo. L’altra è stata la decisione di costruire sempre delle grotte nella neve per i bivacchi. In cave fa più caldo, non c’è il pericolo che il vento te la rovini e sei protetto dai pericoli: è stato vincente e, una volta rodati, ci impiegavamo solo un paio d’ore a costruirla con delle buone pale in alluminio! Una volta in cima, siamo scesi per l’itinerario di salita. Una cresta prima immensa e poi un filo che s’insinua in una parete di seracchi. L’ho percorsa tutta in sci a eccezione di due sezioni troppo affilate, per un totale di trecento metri lineari. Abbiamo spezzato la discesa su due giorni. Incredibile sciare nello stretto tecnico su una montagna tanto enorme!».

Poi c’è stata la discesa del fiume sul lato opposto, fino di nuovo all’oceano…

«Esatto, ma prima di raggiungere il fiume abbiamo dovuto percorrere di nuovo con le pelli l’immenso ghiacciaio sul lato opposto del Mont Logan per giorni. A quel punto abbiamo depositato parte del materiale che non ci serviva più sull’aereo e abbiamo iniziato a navigare un fiume non impetuoso ma immenso, completamente immersi nella wilderness dell’Alaska e dello Yukon. Alla fine questa che temevamo si è rivelata la parte più facile».

Invece per la spedizione in Pakistan, nel Karakorum, di Zabardast eri la guida ingaggiata per accompagnare i membri o hai partecipato anche alla creazione del progetto?

«L’idea qui era di Thomas Delfino, un ragazzo splendido, sempre motivato per le avventure. L’ho conosciuto allora e poi mi ha accompagnato quest’anno al Logan. Sono stato ingaggiato dalla produzione del film come Guida, ma ho chiesto di venir aiutato da Yannik Graziani visto che la crew era di otto persone. Alla fine siamo diventati un gruppo, non c’erano più distinzioni e quello che mi piace del film è che ha raccontato questo spirito, così come si sono vissuti i diversi momenti della spedizione».

Ogni anno fai diverse spedizioni: quali sono le tre cose che non devono mancare nelle tue avventure?.

«Mi piace esplorare le montagne e per me una buona spedizione deve avere tre ingredienti: uno, buoni amici, perché per me è una vacanza;
due, deve essere un viaggio prima di tutto. E se hai fortuna e tutto è andato per il verso giusto, si riesce realizzare anche qualche obiettivo;
tre, l’estetica. Un aspetto non legato alla difficoltà, ma alla bellezza in sé della linea. Prima non nascondo di essermi concentrato solo sui numeri, ma mi sono accorto che si perde tutto il resto.
Le grosse montagne sono meravigliose, mi attraggono proprio perché richiedono più tempo, più energie».

Domanda semplice, ma sempre difficile per un alpinista: una montagna che vorresti scalare. E una che vorresti sciare.

«Certamente il K2, che è nei prossimi imminenti progetti, oppure anche il Masherbrum, ce ne sono molte in realtà che mi piacerebbe salire. Invece con gli sci vorrei ripercorrere una linea che ho salito alcuni anni fa: la parete Sud del Monte St. Elias, sempre al confine tra Yukon e Alaska. Quando si è giovani come me adesso, si ha più tempo, quindi meglio dedicarsi a grandi montagne. Per esempio, in Patagonia mi piacerebbe andare, ma… tra un po’ di anni».

Come organizzi le tue spedizioni, sei maniacale o lasci qualcosa al caso?

«Non lascio molto al caso, non ce lo si può permettere per questo genere di spedizioni. Penso di essere abbastanza maniacale. Spesso si commettono degli errori nella fase organizzativa che capisci poi sul campo. Ma sbagliando s’impara tanto. Basti pensare al cibo, o al materiale da impiegare. Poi durante la spedizione cerchi di gestire le diverse situazioni».

Proponi anche ai tuoi clienti questa visione di alpinismo?

«Mi è capitato, ma solo con quelli che conosco meglio e con cui ho un rapporto di estrema fiducia. Son sincero, non mi trovo molto a mio agio. In spedizione, specie ad alta quota, ci sono molti più rischi. Mi basta pensare al mio incidente della scorsa settimana quando sono caduto nel crepaccio alla base della normale per il Mont Blanc du Tacul con il cliente che è rimasto fuori. Un incidente banale di questo tipo potrebbe avere ben altre conseguenze su alcune montagne del mondo. Poi quando ci si ingaggia davvero devi pensare a te stesso e non è facile gestire i clienti».

E invece qui sulle Alpi ci sono posti dove trovi ancora l’avventura?

«È sempre più difficile, ma ad esempio un massiccio come quello degli Écrins ha ancora molto da offrire. Specie in inverno sono diverse le vie dure dove puoi rimanere solo per chilometri».

Last but not least: durante la tua carriera alpinistica ti sei mai ispirato a qualcuno?

«Mi sento di risponderti di no. Se scali con l’idea di un mentore davanti a te che ti guida nelle scelte, non lo stai facendo nel modo giusto. Perché non lo stai facendo davvero per te stesso. Ed è quello che conta, specie se vuoi vivere la tua personale avventura!».

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© Federico Ravassard

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


Tour de La Meije quattro giorni au refuge

1893. È già passato un po’ di tempo se ci riflettiamo. Una storia racconta che quattro persone tra cui Cristophe Iselin si incontrarono verso sera fuori dal paese di Glarus, quasi di nascosto, per non stuzzicare la curiosità e l’ilarità dei vicini: da lì partirono con sci verso il colle Pragel. Uno era con le racchette ma le cronache giustamente non lo citano troppo volentieri. La salita in sci al suddetto passo, quota 1.554 metri, nel Canton Glarona, in Svizzera, è da considerarsi la prima vera scialpinistica sulle Alpi. A scanso di fake news, si può dunque pensare che quel giorno sia iniziata la storia dello scialpinismo. Mi è sempre piaciuto pensare che questa disciplina non si sia mai allontanata troppo dalle proprie origini: gli sci rimangono il miglior modo di muoversi in montagna in ambiente innevato. Non ce n’è. Sono fatti per sostenere, distribuire il peso sul manto nevoso limitando la fatica dei nostri spostamenti, aiutandoci e agevolandoci. Non saremmo lì in mezzo alle bianche alture senza di loro. O forse ci saremmo, magari con un paio di ciaspole, ma forse a quel punto avremmo pantaloni attillati, zaini enormi, pile rossi, calli sulle caviglie e sui polpacci e insomma… addio stories su Insta, salamini gratis da parte del salumificio dello zio che ci sponsorizza e zero tipe rimorchiate in ufficio mostrando le discese del weekend mentre ululiamo giù da vertiginosi pendii cercando di avere l’espressione delle Guide di Cham.

© Federico Ravassard

Forse diamo troppo per scontata l’importanza dei nostri sci. Ma è la loro natura intrinseca di mezzo di trasporto che ci consente di fare i fighetti. E come ogni mezzo di trasporto sono fatti per permetterci di affrontare un viaggio. Uno spostamento che si compie da un luogo di partenza a un altro distante dal primo. Una linea che collega due punti sulla neve. L’occasione per riscoprire l’essenza dello scialpinismo è stata del tutto inaspettata. Il cellulare si illumina: messaggio. È Mathias, un collaboratore di una rivista francese sempre del settore sci e outdoor. Mi informa che i rifugisti degli Écrins e l’ente turismo dei Pais des Écrins, nelle Alpi del Delfinato, in Francia, stanno organizzando un viaggio stampa per promuovere e far scoprire il loro meraviglioso massiccio. Un raid a sci negli Écrins! Meraviglia! La risposta è ovvia. Il massiccio transalpino lo conosco abbastanza bene, da Torino non è così distante e offre un terreno selvaggio con infinite discese, canali, pareti. Una mecca dello sci, selvaggia e spesso isolata. Negli anni però l’approccio è sempre stato un po’ mordi e fuggi. Quando ho cercato di ricordare tutte le volte che ero stato da quelle parti, la sequenza che mi veniva in mente è stata sempre più o meno la stessa:

  • Uno: sveglia ad orari in cui la Convenzione di Ginevra vedrebbe certamente la violazione dei diritti umani;
  • Due: caffè e biscotti in automatismo;
  • Tre: macchina, motore, fari, cassa dritta propedeutica all’occhio aperto;
  • Quattro: appuntamento tipo scambisti in qualche parcheggio autostradale o meglio di centro commerciale… con le quattro frecce;
  • Cinque: auto, velocità elevata;
  • Sei: arrivo, salita, sciata;
  • Sette: birra, Pastis, nutrimento, guarda foto, guarda parete, discuti, sogna;
  • Otto: auto, velocità elevata (ma in senso contrario);
  • Nove: ritardo;
  • Dieci: fai cose, dimostrati disponibile con i tuoi cari, sei in ritardo, dimostrati collaborativo.
© Federico Ravassard

Una sorta di decalogo, operazioni automatizzate. Che è un po’ quello di chi si spara le gite in giornata. Qualche menoso dirà che è un modo consumista figlio dei nostri tempi. Sì. Ma siamo un po’ tossici dell’aria aperta e della neve, con la faccia abbronzata delle Guide di Cham, sempre loro, ma magari abitiamo a 200 chilometri da dove vorremmo sciare, lavoriamo in ufficio, cantiere, ospedale o in università: quindi appena possiamo settiamo quella maledetta sveglia ancora un quarto d’ora prima perché magari ci scappano altri 300 metri in più. Un raid però è diverso. È un viaggio, ci si sposta in montagna, si entra in sintonia, si rimane ovattati dall’ambiente che ci circonda. Si riesce ad entrare in esso, passando attraverso diversi stati d’animo, ascoltando il proprio corpo, specie il giorno in cui le gambe andranno meno. Da un punto a un altro, una linea, con gli sci. Un sogno. Dopo gli ultimi consulti sul meteo, non proprio stabile dopo un inverno secco e avaro di precipitazioni come quello di quest’anno, il raid viene confermato.  Il tour della Meije, giro classico del massiccio. Quattro giorni La Bérarde to La Bérarde: nel mezzo tutti i rifugi e i loro gestori che accolgono alpinisti e scialpinisti in queste vallate remote. Si parte! Dopo una notte a La Grave in un posto degno di un film di Tarantino, con Federico arriviamo a La Bérarde sorprendentemente in orario. Si conosce il gruppo, si fa un piccolo briefing con le due Guide, Julia e Mathilde, e si parte in direzione del vallone di Etacons, dominato dal versante meridionale della Meije. Nei viaggi, oltre ai chilometri, al dislivello e alle discese, sono le persone che si incontrano, spesso per la prima volta, a caratterizzare la linea del percorso. Le impressioni che riceviamo da questi incontri diventano un tutt’uno con quelle del nostro movimento, creando l’esperienza. In questo caso abbiamo avuto l’occasione di condividere il rifugio quasi sempre con i soli rifugisti, complice la poca gente in giro e le previsioni non così definite. E fu così che…

© Federico Ravassard

Sandrine - Refuge du Promontoire

Oggi il menù prevede solo salita. Non c’è fretta, abbiamo tutta la giornata per arrivare al Refuge du Promontoire. Il set-up che preferisco per i raid classici non è leggero, lo sci è largo e lo scarpone un onesto 1.400 grammi. Piuttosto si alleggerisce lo zaino con meno cambi e pazienza per i vicini di branda. Le nuvole in cielo intanto si dissipano e arriviamo al Refuge du Châtelleret proprio dove il piatto vallone inizia a impennarsi in direzione Brèche de La Meije. Charles, occhi blu, mascella squadrata e abbronzatura non certo timida, ci accoglie con la sua compagna in questa isola spersa nel sole del vallone circondato da picchi che ben superano i 3.500 metri. Dopo una meravigliosa omelette, ripartiamo alla volta del Promontoire dove le nuvole che ci avevano avvolto con del nevischio lasciano posto a un bel sole. La gestrice è Sandrine, una gentile ragazza bionda. Giovane, con sorriso che lascia trasparire timidezza e una luce irrequieta negli occhi. Quelle persone che sembrano scappare da qualcosa. Le primissime rughe intorno agli occhi blu confermano che in realtà sta vivendo la vita che ha scelto: nata a Chamonix, sono sei anni che gestisce dei rifugi dopo aver lavorato per quattro come aiuto al Refuge Albert 1er ai piedi dell’Aiguille de Chardonnet, nel Bianco. Sandrine serve tutti, sparecchia, rassetta la cucina e poi mangia anche lei in sala. Convincerla a fare qualche foto si scontra con la sua timidezza, ma ce la facciamo e le strappiamo una risata quando ci improvvisiamo come sui set con le modelle e le chiediamo prima uno sguardo imbronciato e poi una mano nei capelli e uno più sexy. Ci perdonerà, credo. Ah, sappiate che Sandrine vi scatterà anche lei qualche foto: con una piccola automatica bianca, ruberà un momento del vostro passaggio per ricordo, senza chiedervi di mettervi in posa, quasi di nascosto. È timida, l’ho detto.

Jeff - Refuge de l’Aigle

Il giorno seguente, se non sarete trascinati a valle dal compagno che si dovrà legare con voi e se scamperete le insidie della conserva corta con gente poco avvezza ai ramponi risalendo il budello del Serret du Savon, ai piedi dei seracchi della parete Nord della Mejie, arriverete in quel magnifico nido d’aquila (appunto!) che è il Refuge de L’Aigle. Siamo su un cucuzzolo ai piedi della Meije Orientale che domina il caleidoscopico Glacier de l’Homme e il vasto Glacier du Tabuchet. Jeff è il rifugista: sulla cinquantina, sorriso da marinaio. A sedici anni è scappato da Parigi, biglietto sola andata per le montagne del Sud della Francia. Un richiamo a cui non ha saputo resistere. Ha lavorato prima come portatore, poi al Refuge du Viso e quindi al Refuge des Écrins. Fino all’anno scorso quando… Chiacchierando, ho collegato questo dettaglio subito e ho capito che mi trovavo davanti alla voce che per anni mi ha risposto al telefono quando chiamavo il Refuge des Écrins per chiedere info sulle condizioni e nevicate di fine primavera. Tutto per capire se sarebbe stato il giorno buono per scendere integralmente i 4.102 metri della Barre des Écrins per il versante Nord. Mai una volta che all’accento italiano rispondesse con info certe: solo pessimismo, desolazione e condizioni catastrofiche. Poi puntualmente il giorno dopo almeno una pulminata di francesi scendeva la parete. Eccolo davanti a me il maledetto! Non sembra neanche così scorbutico, anzi è simpatico, tanto che alle mie rimostranze la serata si anima e finiamo con una risata davanti a una birra. Accidenti a te Jeff!

Sabine - Refuge Villar d’Arène

Dopo la notte all’Aigle, il risveglio sul mare di nubi dopo una lieve nevicata fa sorgere qualche dubbio sul fatto di essere effettivamente svegli. Forse si sogna ancora e il dubbio permane anche durante la discesa del Tabuchet, intonso fino a Villar d’Arène. Dopo un provvidenziale passaggio a Pied du Col il nostro gruppetto riprende a salire in direzione del rifugio per la notte. La giornata è primaverile e la luce sulle pareti nord dell’Agneaux, in fondo al Cirque d’Arsine, fa capire che sarebbe il momento buono per sciarle. Questa notte dormiremo al Refuge Chamossière. Essendo però un viaggio alla scoperta dei vari rifugi che potrebbero fare da appoggio a questo raid, è d’obbligo una tappa enogastronomica al rifugio di Villar d’Arène, situato a circa cinquanta metri lineari dal Chamossière. Qui facciamo la conoscenza con Sabine, 20 anni trascorsi in questo angolo di paradiso. E arriva anche il momento critico del viaggio: la tarte au chou di Villar d’Arène. Una torta-sformato di cavolo, castagne e carni assortite che Sabine ci presenta con un sorriso sfidante. Ragazzi dimenticatevi tutte quelle barrette, cibi, gel che riportano la scritta energetica. Qui si gioca in un altro campionato. Eccellenza contro Champions League. Un’iniezione calorica e di fiducia in se stessi. Sabine si ripresenta al nostro tavolo solo dopo più di un’ora. A raccogliere i cocci di un gruppo disfatto dalla sfida appena sostenuta e a condividere ancora un dolce e un sorso di vino. Menzione per Federico a tavola: testa altissima.

Seb - Refuge Chamossière

Se qualcuno dicesse che Seb Louvet è uno che fa 1.300metri/ora non penso che si vedrebbero molte mani alzate di saputelli contestatori o diffidenti. Lo si capisce subito. Entri nel rifugio, curato come una spa, e ci si imbatte in una cyclette con i pedalini. Si allena dunque anche col brutto. Quindi si allena sempre. Seb è magro, molto magro. Persino le mani, seppur decisamente forti, sono magre. Seb corre, pedala, scia. E non lo fa piano. Seb è colui che ha organizzato il tutto per promuovere il giro della Meije e i suoi rifugi. Ha capito che i rifugi funzionano e rendono se costituiscono una rete tra di loro. Negli Écrins ci sono due associazioni di rifugi in base ai dipartimenti regionali, Hautes Alpes e Isère, ma sarebbe meglio che si ragionasse nell’ambito del massiccio e non secondo suddivisioni burocratiche. Il rifugista ci fa notare che l’attenzione è sempre maggiore, anche da parte della politica e degli enti turistici. Ci confessa che sua madre quando era giovane gli avrebbe dato dei soldi per dormire in un albergo piuttosto che saperlo in un rifugio. Erano luoghi più spartani, un punto di ricovero tra il parcheggio e la cima prefissata. Ora è diverso, il tempo dell’alpinismo vero in questa parte di Écrins secondo Seb è finito. Si lavora molto più con il trekking e il trail running. Il rifugio è diventato una meta a se stante al pari di una cima. Il Chamossière è un gioiellino molto curato con tanto legno e materiali naturali utilizzati per la ristrutturazione. Vale la pena di venirci anche solo per vederlo e cenare. A Seb piace chiacchierare e ci confessa che non sente alcuna competizione con il vicinissimo rifugio di Villar d’Arène di Sabine, anzi collaborano e si aiutano. La cucina di Sabine è super, ma lui ci va solo a prendere il caffè perché se no addio ai sacrifici che fa con l’allenamento. Per Seb quella del rifugista non è stata una vocazione, ma uno scherzo del destino: la prima cosa che aveva iniziato a sorvegliare era una rifugista dell’Adèle Planchard. La vita è strana.

Fanny - Refuge Adèle Planchard

Oggi si torna alla Bérarde, ma allunghiamo il giro verso il Col della Casse Désert per passare a conoscere il nuovo gestore del rifugio Adèle Planchard. Ventitre anni, riccioli d’oro e occhi azzurri: Fanny sorride nel suo piccolo regno al cospetto delle più belle montagne degli Écrins, ai piedi della Grand Ruine. Non ci fermiamo molto, ma quanto basta per capire che, seppur così giovane, ha trovato il suo mondo. La sua pace. Serenità, se dovessi scegliere una sola parola per descriverla. Ad aiutarla Cristophe, un omone timido che d’estate fa il malgaro in un altro massiccio transalpino. Omelette di rito e salpiamo a riprendere la nostra linea immaginaria che chiuderà il cerchio alla Bérarde. Oggi le gambe van da sole. La discesa sui pendii Ovest della Casse Déserte passa dalla farina alla neve trasformata senza praticamente nessuna zona di transizione. Ambiente Écrins, l’aria in faccia, sole. Ognuno un po’ per sé, liberi. Perché fare scialpinismo? Perché è bello.

TOUR DE LA MEIJE

Il raid in sci de La Meije è uno dei più classici e famosi delle Hautes Alpes. Un percorso vario, in alta montagna, riservato a scialpinisti preparati, a loro agio anche con ramponi e qualche basilare manovra alpinistica. Un itinerario che si può prestare a numerose varianti, regolando i tempi di percorrenza in funzione delle ambizioni e delle condizioni del momento. Il periodo migliore generalmente è ad aprile. Gli Écrins e i loro rifugi vi sapranno stupire. Quello che i nostri inviati hanno percorso è l’anello con partenza e arrivo alla Bérarde, sperduto paesino francese, vero cuore del Massif des Écrins.

 Giorno 1: La Bérade (1.720 m) – Refuge du Promontoire (3.092 m)

Milletrecentosettandue metri di sola salita per raggiungere uno dei più iconici e famosi rifugi del massiccio, arroccato ai piedi della cresta del Promontoire. Dalla Bérarde risalire il vallone des Etacons, superare il Rifugio Châtelleret (altro punto d’appoggio) e dirigersi verso la Brèche de La Meije. Giunti sui pendii che la precedono, svoltare verso destra riportandosi in direzione delle rocce della cresta del Promontoire, dove sorge il rifugio.

D+ = 1.372 m

Difficoltà = 2.3 E1

Giorno 2: Refuge du Promontoire (3.092 m) – Brèche de La Meije (3.357 m) – Serret du Savon (3.399 m) - Refuge de L’Aigle (3.450 m)

Dal Promontoire, prima con le pelli e poi con i ramponi, reperire la Brèche de La Meije (100 m, 45°), quindi a seconda delle condizioni scendere il ghiacciaio lato La Grave per circa 300 m e ripellare quindi costeggiando la parete Nord del Gran Pic della Meije fino in corrispondenza dell’attacco del Couloir Gravellotte (sceso da Tardivel nel 1997); proseguire in discesa svelti sotto i seracchi del Corridor fino alla base del Couloir del Serret du Savon che si risale per circa 250 m (massimo 45°) e poi brevemente con le pelli si arriva al Refuge de l’Aigle.

D+ = 900 m circa in funzione del punto delle ripellate

Difficoltà = 3.3 E3 (tratto sotto ai seracchi, couloir a 45° in salita, tratto alpinistico in discesa o possibile doppia dalla Brèche della Meije)

Giorno 3: Refuge de L’Aigle (3.450 m) - Meije Orientale (3891m) - Villar d’Arène (1.600 m) – Pont de l’Arsine (1.700 m) – Refuge Chamossière (2.106 m)

Dal Refuge de l’Aigle salire alla sella Nord della cresta a sinistra della cima della Meije Orientale, percorre tutta la cresta con passi di misto facile in funzione delle condizioni e giungere in vetta. Una volta tornati al luogo dove si sono lasciati gli sci è possibile scegliere tra la discesa del Glacier de l’Homme (soluzione più diretta e che vi porta già più vicino al Rifugio Chamossière senza bisogno di passaggi) o quella del Glacier du Tabuchet da noi percorsa fino a Villar d’Arène. Da qui in autostop raggiungere il parcheggio nei pressi del camping di Pont d’Arsine e in circa un’ora e mezza raggiungere il rifugio con comoda salita.

D+ = 800 m

D- = 2.200 m

Difficoltà = 3.3 E1

Giorno 4: Refuge Chamossière (2.106 m) – Col de la Casse Déserte (3.483 m) – La Bérarde (1.720 m)

Dal Rifugio salire il pianeggiante e lungo vallone di Valfourche passando sotto all’evidente canale Nord della Roche Faurio, poco prima di giungere al canale della Brèche Charrier, ben visibile davanti a voi, svoltare sulla destra e rimontare il vallone via via più ripido (ultimi 100 m a 45°) fino al Col de la Casse Déserte. Da lì scendere i pendii ovest (primi 100 m ripidi, possibile doppia) fino a reperire il vallone di Etacons poco sotto al Rifugio Chatelleret e di qui alla Bérarde.

D+ = 1.400 m

D- = 1.700 m

Difficoltà = 3.3 E2

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© Federico Ravassard