Suffer fest Ice & Palms
*suffer fest: neologismo di origine anglosassone, indica un’attività sportiva di endurance nella quale è previsto che buona parte (se non tutti) dei partecipanti siano costretti a una fatica prolungata con annessa sofferenza fisica e mentale.
Il Baden-Württemberg è uno dei principali land della Germania. La sua capitale è Stoccarda, conosciuta nel resto del mondo come la patria dell’automobile (Mercedes-Benz, Porsche, Bosch hanno sede qui, ad esempio), e l’economia dell’intera regione si basa largamente sull’industria. Confina con la Francia a Est e con la Svizzera a Sud, mentre i principali rilievi sono rappresentati dalla Foresta Nera, la catena dello Giura e le Prealpi del Lago di Costanza. Il Baden-Württemberg sembra un buon posto dove vivere, se non fosse per un piccolo dettaglio: il mare, specialmente quello caldo, è lontano, parecchio lontano. E di conseguenza, se un paio di amici si dovessero inventare di voler andare al mare in bicicletta, le cose si complicherebbero parecchio, specialmente se lungo l’itinerario ci si volesse portare dietro anche degli sci e decidere di utilizzarli nel miglior modo possibile.
I due amici sono Jochen Mesle e Max Kroneck che, oltre alla passione per lo sci scoprono di condividere anche quella per le pedalate, specialmente quelle lunghe e faticose, e per la fotografia, in particolar modo quella che ti impone di utilizzare apparecchi pesanti e scomodi. L’idea che partoriscono insieme ha le caratteristiche comuni di ogni suffer fest* che si rispetti: dev’essere lunga, fisicamente estenuante, particolarmente ricca di incognite e problematiche di varia natura, originare vesciche in vari punti del corpo e apparire insensata agli occhi delle persone normali. Et voilà, ecco il progetto Ice & Palms: Jochen e Max vogliono partire da casa loro a Dürbheim, nel Baden-Württemberg, raggiungere l’Austria e da lì attraverso i principali valichi alpini arrivare fino al lungomare di Nizza, senza mai utilizzare mezzi a motore e sciando il più possibile, filmando allo stesso tempo la loro avventura. Di tanto in tanto, poi, verranno raggiunti da amici che daranno una mano nella ripresa delle immagini.

I loro destrieri saranno due bici gravel, equipaggiate con portapacchi anteriori e posteriori sui quali sistemare l’attrezzatura. Sci e scarponi dietro, insieme a uno zaino con il materiale per la notte. Sacca anteriore sinistra per il pentolame e macchine foto. Sacca anteriore destra: accessori e abbigliamento da pioggia, pronti per essere tirati fuori in poco tempo. Peso totale, cinquanta chili, grossomodo: vista l’agilità, più che destrieri li si potrebbe definire dei ronzini un po’ sovrappeso. Quello della partenza, nella primavera del 2018, è un momento strano, Jochen e Max sembrano fuori posto: un po’ come quei modelli da catalogo, ritratti in ambiente ma con abbigliamento e attrezzatura perfettamente in ordine e puliti. Ci vorranno un paio di giorni per cominciare a stropicciarsi il giusto e toccare la neve dopo più di 100 chilometri di distanza percorsa. Non è poi così male, tutto sommato, poter acclimatarsi in modo soft prima di arrivare sulle montagne vere. Viaggiare con bicicletta e sci al seguito significa perdere continuamente tempo a fare e disfare i bagagli, che richiedono un ordine maniacale, in perfetta antitesi con la natura degli sciatori. Ogni pezzo dev’essere nel posto giusto per essere trovato nel momento giusto: Mark Twight diceva che in montagna ci vuole un accendino in ogni tasca, per non impazzire quando si tratta di accedere il fornello in bivacco, e in bike packing non cambia più di tanto.
Al quarto giorno sono nell’Arlberg, da lì si dirigono verso la Svizzera. Di neve qui non sembra essercene molta, ma bisognava pur trovare un compromesso per poter beneficiare dell’apertura di quasi (tutti) i valichi. Sono le classiche condizioni in cui, una volta - come dicono i vecchi - cominciava la stagione dello scialpinismo. A St. Anton un avventore in un bar chiede loro cosa faranno quando, una volta arrivati a Nizza, non troveranno più neve da sciare. «Ci siamo portati dietro anche il costume da bagno» la risposta perentoria.
Dopo nove giorni e 500 chilometri si comincia a fare sul serio. La coppia di ciclo-sciatori si avvicina al massiccio del Bernina e dalle sacche sulle ruote spuntano fuori piccozze e corde, ingredienti necessari per il menù dei giorni a seguire: Piz Bernina e Cima di Rosso, itinerari grandiosi che strizzano l’occhiolino alle pendenze sopra i 45°. Si muovono bene, dopo le prime tappe in cui hanno patito entrambi le conseguenze di infortuni occorsi durante la stagione invernale. Strano ma vero, le centinaia di chilometri in bicicletta hanno fatto da terapia e ora si avvicinano alla metà della distanza che separa la Germania dal Mediterraneo. Dopo due settimane di viaggio arrivano al Furkapass, che collega le Alpi Lepontine a quelle Bernesi. Su questi tornanti, negli anni ’60, Sean Connery sfrecciava sulla sua Aston Martin durante le riprese di Agente 007 - Missione Goldfinger, ma quando Jochen e Max arrivano alla sbarra del fondovalle capiscono in poco tempo che per loro il valico sarà tutt’altro che velocità e adrenalina: la parte alta non è ancora stata ripulita dalla neve ed è, in poche parole, chiusa al traffico. Non rimane altra scelta che accettare la sfida e caricarsi le biciclette letteralmente sugli zaini, tirare fuori le pelli e proseguire carichi come sherpa lungo i pendii innevati, sotto una leggera nevicata che non fa altro che rincarare la dose di sofferenza. I due viandanti procedono barcollanti sotto i loro carichi monumentali e, un passo alla volta, cominciano a salire verso i 2.436 metri del passo. La discesa è una scena surreale, fatta di curve molto controllate e allo stesso tempo storte come un quadro cubista, fino a quando, esausti, possono finalmente rimettere le ruote sull’asfalto, mentre il nevischio ora tramutato in pioggia fa apprezzare ancora di più la mutevolezza del meteo primaverile.

Sono passati ventun giorni dalla loro partenza e con 960 chilometri nelle gambe il Vallese si apre davanti a loro. Mentre a pochi chilometri i turisti gozzovigliano nei ristoranti di Zermatt, i nostri due eroi puntano gli sci verso mete sicuramente più di nicchia. «È bello ritrovarsi completamente soli in montagna e sapere di avercela fatta con le proprie forze» commentano, salendo verso il rifugio da cui partiranno il giorno successivo. Il Bishorn lo sciano nella nebbia, non senza qualche spavento. Le valanghe si fanno sentire ma non si fanno vedere, mentre a quattromila metri, immersi nel white-out, aspettano una finestra di cielo pulito per scendere il più velocemente possibile. Sul Brunegghorn, due giorni più tardi, vengono premiati dagli dei della montagna con una discesa memorabile, in una di quelle giornate in cui lo scialpinismo primaverile si manifesta in tutta la sua bellezza. Cielo azzurro, polvere fredda e, duemila metri più sotto, il verde dei pascoli a fare da quinta. La parete Nord è una pratica che viene liquidata in una decina di curve che giustificano pienamente lo sforzo supplementare di utilizzare assi da freeride al posto di perline da scialpinismo light: entrambi, infatti, hanno deciso di portarsi dietro sci oltre i 100 millimetri al centro e scarponi a quattro ganci da freetouring. L’attenzione della coppia, ormai innamorata del Vallese, si sposta a questo punto su un altro monumento del ripido, che risponde al nome di Grand Combin de Valsorey. Lo scivolo Nord-Ovest, che culmina a 4.184 metri, viene descritto da Max come una scala di Giacobbe, facendo riferimento all’affresco di Raffaello in cui il profeta biblico sogna una scalinata da cui gli angeli possano muoversi fra la Terra e il Cielo. Lo stesso scivolo in cui, nel film La Liste, Jérémie Heitz perdeva uno sci, riuscendo incredibilmente a salvarsi la pelle dopo una caduta a 50° di pendenza. Per i due la giornata si rivela fortunatamente meno adrenalinica, anche se la stanchezza inizia a farsi sentire. Proprio quel giorno avrebbero dovuto riposare, ma passare sotto a quella rampa senza sciarla non sarebbe stata un’azione da fedeli devoti alla causa dello sci.

Al trentesimo giorno, nei pressi del Gran San Bernardo, iniziano a manifestarsi i primi indizi che indicano che ormai è solo questione di pochi giorni prima di potersi spaparanzare in spiaggia. Nizza 323 km, recita un cartello nei pressi del tunnel. Pochi chilometri più in là, a Donnas, delle palme appaiono a bordo statale come oasi nel deserto. Come i barbari alla fine dell’Impero Romano, i due germanici continuano a calare verso Sud a bordo dei loro ronzini meccanici, nutrendosi unicamente di pizza, pasta e carboidrati vari per onorare la cultura del turismo tedesco in Italia. Valle di Susa, poi il Monginevro: il prossimo obiettivo sarà la Barre des Écrins, il quattromila più meridionale dell’arco alpino, e sarà anche l’ultima vetta in programma prima di dirigersi verso il Col du Vars e le spiagge francesi.
Quella sulla Barre è un’altra giornata memorabile. Si filmano a vicenda all’alba, mentre si dirigono, sci ai piedi, verso la terminale della parete Nord, che per l’occasione si è presentata con il vestito dei giorni di festa. Solitamente è un muro ghiacciato e non sempre la neve la ricopre in modo sufficiente per poter essere sciata. Solitamente non vuol dire sempre, e per i due l’ultima discesa del loro viaggio può cominciare direttamente dalla croce sommitale, dalla quale si può vedere tanto il Monte Bianco quanto il Golfo di Nizza. Chi ha già sciato nelle Alpi del Sud sa bene l’emozione che si prova a vedere il Mediterraneo scintillare in lontananza, la stessa che provano Jochen e Max mentre gli attacchi fanno clack.
Il Col du Vars è una formalità che viene sbrigata in fretta, aspettando l’ultimo ostacolo: il Col de la Bonnette, che con i suoi 2.715 metri è, insieme allo Stelvio, all’Iseran e all’Agnello, tra i più alti valichi asfaltati delle Alpi. Nel 2016 il Giro d’Italia era passato di qua in una tappa memorabile, la penultima: in soli 134 chilometri erano stati concentrati 4.100 metri di dislivello, con le salite al Vars, alla Bonnette e alla Lombarda per poi terminare sui tornanti che conducono al Santuario di Sant’Anna di Vinadio. Proprio qui, sul finale, Vincenzo Nibali aveva attaccato sul diretto concorrente Esteban Chaves, che si era visto sfilare la maglia rosa a meno di 24 ore dalla fine del Giro. Quel giorno, all’arrivo, i genitori di Esteban si erano resi protagonisti di una scena di sport indimenticabile, andando ad abbracciare il siciliano sul traguardo e complimentandosi con lui per la vittoria. Uno sgambetto è stato riservato anche a Max, che riesce a forare a meno di 30 km da Nizza, dopo 42 giorni e 1.800 chilometri di strade di montagna. L’arrivo sul lungomare è uno shock: dopo sei settimane in cui le uniche priorità erano state sciare, pedalare e più generalmente sopravvivere, il senso di smarrimento è totale. «Cosa faremo ora?», si chiedono i due, confusi al punto che pure scegliere dove andare a cenare rappresenta una sfida al pari della traversata del Furkapass innevato. Succede così che il capitolo finale del loro viaggio viene scritto in un ristorante messicano nel sud della Francia, un’idea assurda e apparentemente incomprensibile quanto voler partire dalla Germania per arrivare al Mediterraneo sciando e pedalando. Cosa ci insegnano Max e Jochen? Beh, di sicuro potrebbero illuminarci sulla loro gestione del tempo libero, ma è limitante dire che per intraprendere un progetto come Ice & Palms sia sufficiente trovare 40 giorni di ferie, anche perché, in un certo senso, loro in quel momento stavano lavorando, in quanto freeskier professionisti. No, Jochen e Max ci insegnano che le avventure più belle possono essere vissute anche dietro casa, che non è necessario viaggiare dall’altra parte del mondo per ritrovarsi in balia dell’incognito. E che l’incognito - o inesplorato, che fa più figo - può avere moltissime forme diverse: dalle condizioni della neve sul Grand Combin a quelle della strada sul Furkapass, fino a quelle fisiche di Max quando, nel trasferimento dalla Val d’Aosta alla Francia, si ritrova a macinare duemila metri di dislivello con 39 gradi di febbre. E ci insegnano anche in cosa consiste la creatività, ovvero su come prendendo due o più concetti e fondendoli insieme si possano creare infinite nuove idee. Tipo andare in bici e sciare, o sciare e andare al mare. Oppure, andare al mare pedalando e sciando. Insomma, ci siamo capiti. Un’ultima lezione potrebbero darcela sulla gestione della biancheria in sei settimane di ambienti umidi e freddi, ma quella è tutta un’altra storia.
Ice & Palms è un cortometraggio di 32 minuti prodotto da El Flamingo Films e diretto da Jochen Mesle, Max Kroneck, Philipp Becker e Johannes Müller.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124
https://youtu.be/AzyK5qr-WC0
https://vimeo.com/elflamingo/iceandpalms
The godmother of all couloirs
Conoscevo la Norvegia come famosissima meta per ski trip di fine stagione; piuttosto diciamo che ne avevo sentito parlare, dormire in barca, spostarsi tra i fiordi, per poi risalire dolci pendii con giornate dalla luce interminabile. Sapevo che c’erano le isole Svalbard, le Lofoten e poco più. Non sapevo nulla. Motivo principale della mia ignoranza, il fatto che ne avevo sempre sentito parlare come di un viaggio per comitive di ski tourer con un budget sostanzioso da investire in gite in barca e sciate sul piano… Come mi sbagliavo. Si dice che non tutti gli incontri accadano per caso e in effetti da una situazione fortuita è partita l’avventura. Io e Carolina verso gennaio abbiamo incontrato Alice e Marco a Cortina mentre erano impegnati in un photo-shooting e mentre pranzavamo insieme salta fuori di questo viaggio che vorrebbero fare nelle Lyngen Alps, per dare un’occhiata al posto e per eventualmente portarvi a sciare i clienti. Fino a qui tutto nella norma, con l’idea di affittare casa e muoversi da una montagna all’altra in auto, senza grosse spese, in autonomia totale, decidendo giorno per giorno quale gita affrontare. I presupposti erano molto interessanti, abbastanza da iniziare a farci un serio pensiero, anche se senza ulteriori dettagli sembrava qualcosa destinato a rimanere per aria. Finito il pranzo ci salutiamo con il solito ci sentiamo e fammi sapere. Onestamente l’idea mi stuzzicava, ma sia io che Carolina avevamo altro per la testa e quindi ci avremmo pensato con calma. Quel poi non ha tardato ad arrivare e una sera di marzo Alice mi chiama e mi bombarda di whatsapp: prezzi e biglietti aerei da prenotare, itinerari e un periodo, aprile, perfetto per andarci. Giusto il tempo di prendere i documenti nel cassetto per prenotare i voli e via, inutile pensarci troppo, al massimo si vedrà un posto nuovo, tanto se si sta li a pensarci troppo non si parte mai.

HEJA NORGE
Rispetto ad altre mete, se escludiamo il ritardo dell’aereo, il viaggio è stata una passeggiata di salute: due voli da un paio d’ore e un paio di ore di auto da Tromsø fino alla nostra casa, un simil-villaggio vichingo, con abitazioni autonome disposte in cerchio, attorno alla casa madre, nei pressi della piccola cittadina di Lyngseidet. Pur arrivando alle due di notte, il buio non era totale e l’ambiente appariva selvaggio e desolato, molto affascinante. Visto le poche ore di sonno, l’indomani avremmo optato per una gita classica in punta al fiordo, un panettone sovraffollato di ski tourer, pure avvolto nella nebbia, niente di speciale tutto sommato: un po’ quasi a confermare quello che pensavo di quei posti. Ma di lì a poco, sulla strada verso casa, ora sgombra dalle nubi, avremmo visto il gioiello della corona, una discesa estetica e apparentemente inaccessibile, un canale enorme che poggiava i piedi sulle rive dei fiordi, fino a erigersi, nascondendosi a tratti tra le pieghe della roccia, in cima a una grossa formazione rocciosa. Nel libro di itinerari di Marco avremmo presto scoperto il suo nome, piuttosto azzeccato ed estremamente calzante: The Godmother of all Coulouirs. Dopo avere fatto un’altra gita preparatoria e avere raccolto (cosi pensavamo) tutte le informazioni necessarie, l’indomani avremmo attaccato la nostra meta. Secondo i nostri calcoli e il libro, l’avvicinamento sarebbe stato una più o meno agevole camminata in riva al fiordo, di quasi 6 chilometri, con un tempo stimato intorno all’ora e mezza, per poi attaccare il conoide; ovviamente la valutazione non si sarebbe potuta rivelare più errata. Forse il buona fortuna di un gruppo di norvegesi ospiti di un local, prima di intraprendere la costa, avrebbe dovuto farci drizzare le antenne; cosi come l’invito a tornare il giorno successivo e farci traghettare in barca fino alla base, ma ormai eravamo li… L’ora e mezza di fatto è volata via solo per rivelare un articolato cammino tra rocce e detriti di volume sempre maggiore, a volte coperti da uno strato di neve che sfondava. Dopo molti zig-zag e saliscendi, uno strato di neve più continuo ci ha permesso di calzare gli sci, ma non per questo di essere più rapidi, perché la via era un labirinto di piccole alture e alberi e di nuovo rocce; arrivare alla base del conoide ha richiesto già molto tempo ed energie, e al momento di calzare i ramponi più di tre ore erano già passate. Onestamente vista l’ora e i progressi fatti eravamo tutti un po’ perplessi, io e Carolina in particolar modo, cosi arrivati alla fine del conoide, verso le 13,40, con appena 500 metri di dislivello alle spalle, abbiamo deciso di abbandonare, dividendoci in due coppie. La decisione non era facile da prendere, ma eravamo meno veloci di loro, e il pensiero del ritorno dopo altri 1000 metri a quell’ora tarda, suggeriva che fosse meglio mollare. Non sempre si vince e riconoscere i propri limiti a volte è più importante, anche se senza dubbio più doloroso a posteriori. Dopo sette ore e mezza totali saremmo arrivati all’auto.
Alberto Casaro

IL CHIODO FISSO
Prima ancora di sapere se quella linea ci fosse sul libro, se fosse conosciuta e soprattutto, fattibile, dal momento in cui Albi l’ha adocchiata, è stato amore a prima vista. Il nome poi, una volta scoperto, parlava da sé. Non si poteva non pianificarci una gita. Il canale si trova dall’altra parte del fiordo, ma in quella parte non ci sono strade. Tutti noi pensavamo, o forse speravamo, si trovare un sentiero sulla costa sul quale affrontare i chilometri di portage. E invece no. È stata una ravanata. Dopo quasi tre ore e mezza siamo appena all’attacco del conoide. La neve è marmo, mettiamo i ramponi. È già mezzogiorno passato. Nonostante la decisione di Alberto e Carolina di tornare indietro, Marco e io decidiamo di andare avanti. La neve cambia drasticamente. La previsione di Marco di trovarla bella nel canale si rivela azzeccata. Proseguiamo dentro al Godmother. 0 – 1.318 m, di cui 900 di canale con tratti che raggiungono i 50°. L’ambiente è pazzesco. Ti ingloba. Non c’è vento. Non c’è sole. Silenzio. Solo il rumore di qualche spin drift che scende ogni tanto e copre immediatamente le nostre tracce. Proseguiamo con un buon ritmo e cominciamo a intravedere la fine. Le pareti si stringono e diventano completamente bianche, la neve attaccata alle rocce lo rende ancora più mistico. Sono le 16,09 e siamo in cima. Le ore dentro al Godmother sono volate. Il panorama alle nostre spalle è stupendo, ma guardare verso il basso, scorrere con lo sguardo le nostre ultime tracce, osservare tutto il canale e scorgere in fondo il mare è impagabile. Marco inaugura la prima curva e da qui partono le foto. Tanto sono belle le condizioni per sciarlo da cima a fondo, tanto sarebbe un peccato non spendere qualche minuto per fermarsi, scattare e riguardare, una volta a casa, da che linea è stato attratto Albi. Arrivare in fondo significa arrivare in spiaggia. Ci guardiamo indietro e la soddisfazione è davvero tanta. Recuperiamo le nostre scarpe, sci nello zaino e ci avviamo per il lungo rientro. La luce del tramonto ci fa compagnia e tinge il fiordo con le sfumature dell’arancio. I chilometri di portage che ci aspettano perdono importanza, l’emozione cancella la fatica e la bellezza del luogo è una piacevole distrazione. Solo una volta arrivati al nostro Artic Lodge, davanti a delle meritate birre e a un apprezzato piatto di pasta dal sapore di casa, scopriamo definitivamente che la maggior parte delle persone che affrontano il Godmother lo fanno partendo con la barchetta che si trova dall’altra parte del fiordo. Sapevatelo. A noi comunque, fatto così, soddisfa. Come mimino sei ore e dodici chilometro in più!
Alice Russolo
La Norvegia ci ha sicuramente insegnato che le giornate sono più lunghe, in tutti i sensi, e ci ha regalato delle bellissime gite in un ambiente selvaggio, dove spesso eravamo soli; ci ha insegnato che c’è da sbattersi sul serio, ma anche che la ricompensa può essere enorme. La partita rimarrà aperta, almeno per me, diciamo che sarà una bella motivazione per tornare e finalmente calcare le lamine tra le sinuose forme della madre di tutti i canali.
Alberto Casaro
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124

Argentera reloaded
«Argentera è sempre stato il posto di cui non bisognava parlare. Troppo bella, troppo poco affollata per essere data in pasto agli affamati di polvere, specialmente quando lì se ne trovava mediamente più che nel resto dell’arco alpino. Protetta dalla massa anche grazie al suo isolamento: dalla pianura del cuneese bisogna sciropparsi cinquanta chilometri di curve, spesso intasati dai tir diretti verso la Francia attraverso il Colle della Maddalena. Da Milano ci vogliono quattro ore, da Torino poco più di due: forse troppi per una stazione che ha da offrire una seggiovia e uno ski-lift. Ciononostante il mito di Arge è cresciuto negli anni, senza tuttavia riuscire mai a diventare un fenomeno mainstream come è successo ad altre località simili, per rimanere in Piemonte, Prali, forse anche a causa del fatto che i suoi frequentatori hanno preferito mantenerla per sé, per fare in modo che nei giorni di polvere in coda agli impianti ci si potesse contare nell’ordine di un paio di decine di sciatori». Scrive così Federico Ravassard nell’ampio reportage sulla località piemontese che pubblichiamo nel numero 127 di Skialper, di dicembre-gennaio.

Da qui sono passati anche dei miti come Kaj Zackrisson, Henrik Windsted, Mike Douglas e Candide Tovex, eppure questa valle non è mai decollata, uno dei migliori segreti delle Alpi, ben conservato. Ora che gli impianti, almeno per questa stagione, sembrano destinati a rimanere chiusi, che ne sarà di Arge? In 17 pagine ripercorriamo i fasti del passato, intrecciamo storie di ieri e di oggi, incontriamo local e sciatori che questi pendii li conoscono molto bene e chi ha deciso di crede ancora in Arge. Perché Arge è un po’ un’icona. «Dall’essere un secret spot al diventare un insieme di piloni arrugginiti e baite abbandonate dimenticato il passo è purtroppo breve ed è proprio Argentera a insegnarcelo. Ovunque, nelle Alpi, esistono luoghi che rischiano di morire e che proprio per questo possono avere un fascino particolare, oltre che l’assenza di altri pretendenti per la prima traccia, con le pelli o con gli impianti: piccole borgate che meritano di essere salvate attraverso la loro frequentazione, perché raccontano e custodiscono il passato e il futuro delle Alpi al pari di località più blasonate. Probabilmente poter dire di aver sciato l’Incianao immacolato fa meno figo di aver vibrato su un Toula coperto di gobbe, ma è proprio da qui che bisognerà ripartire».


Su Skialper di dicembre-gennaio uno speciale di 16 pagine sull'autosoccorso in valanga
Grazie ai telefoni cellulari e agli elicotteri il soccorso arriva sulla valanga in tempi sempre più brevi. Nonostante ciò, le procedure di autosoccorso messe immediatamente in atto dai compagni di escursione rimangono una priorità assoluta. L’esperienza ci ha insegnato che nei primi 15-18 minuti la probabilità di sopravvivenza dei sepolti è ancora relativamente alta (circa il 90%) ma che nella mezz’ora successiva, in seguito all’ipossia, decade fortemente. Da questa semplice considerazione si deve dedurre che il soccorso in valanga è un tipo di intervento strettamente legato al tempo e come tale va messo in atto seguendo procedure standardizzate e mirate a individuare e disseppellire il più rapidamente possibile i sepolti.

«La valanga fortunatamente è un fenomeno piuttosto raro, ma se questo da un lato ci può consolare, dall’altro ci deve rendere consapevoli che non è possibile sviluppare un bagaglio di esperienze personali sufficienti a garantirci un’operatività ottimale nel momento dell’emergenza – scrive Maurizio Lutzenberger - Il carico emozionale che grava sulle persone coinvolte è tale da congelare anche le azioni più semplici, impedendo loro di reagire correttamente in tempi brevi. La soluzione al problema è senza dubbio un apprendimento sistematico delle procedure di ricerca e disseppellimento e un’automatizzazione delle stesse attraverso frequenti esercitazioni, allo scopo di sviluppare una buona capacità di adattamento a un modello comportamentale standard per tutte le possibili varianti del caso».

Su Skialper 127 di dicembre-gennaio pubblichiamo un vademecum di 16 pagine, a cura di Maurizio Lutzenberger, sulle Linee guida per la ricerca e il recupero delle vittime da valanga tramite apparecchi ARTVA. Vengono analizzati il materiale di autosoccorso, le informazioni di partenza, la conversione del segnale in ricezione, la ricerca del primo segnale, la ricerca sommaria, la ricerca fine, il sondaggio, il disseppellimento, il seppellimento multiplo, le interferenze con altri apparecchi. Il tutto corredato da pratici disegni. Per apprendere sistematicamente le procedure di ricerca e disseppellimento e automatizzarle attraverso frequenti esercitazioni. La realizzazione dell’inserto è stata resa possibile grazie a Mammut.
K2, 57 anni di serio divertimento
«K2 non sarebbe dov’è, non sarebbe chi è, se tutti i Doug Coombs che nel tempo l’hanno coccolata e nutrita fossero mancati. E con loro, tutta la follia che si portavano dentro. Personaggi visionari, capaci di immaginare cose che gli umani non sanno neppure di poter concepire. Uno sci largo quando tutti usavano lo stretto. Uno sci sinuoso quando tutti usavano quello dritto. Uno sci sbananato quando tutti si fermavano al vecchio ponte. Un mezzo light per vivere il backcountry ad ogni livello, quando ancora nessuno ci pensava». Scrive così Veronica Balocco nell’ampio reportage su Skialper 127 di dicembre-gennaio dedicato alla storia di uno dei marchi che ha innovato di più la scena dello sci fuori dalle piste.

Dietro a sci come i nuovi Mindbender, ma anche i Coomba, i Big Kahuna o i Pontoon, per citare solo alcune pietre miliari nella storia dello sci fuori, ci sono tanti interpreti di uno stile. K2 non sarebbe dov’è senza Seth Morrison, Scot Schmidt, Glen Plake, Shane Mc Conkey, Brad Holmes, Kent Kreitler. «L’eredità che oggi brilla sotto il nome di Mindbender - 116 sotto il piede, rocker puro e un raggio da quasi 23 metri, sfornato per i palati desiderosi di pushing the envelope, di sfidare lo sfidabile sulla polvere - è un libro lungo quasi sessant’anni. Pagine e pagine di aneddoti e nomi che periodicamente, quasi ciclicamente, si incontrano faccia a faccia con una svolta decisiva». Ecco perché l’articolo su Skialper 127 non è il solito reportage aziendale, ma un avvincente romanzo fatto di tante storie che si intrecciano.

No spoiler… però ecco uno degli aneddoti che raccontiamo. «Corre l’anno 2005 e a Whistler Blackcomb si presenta questo nuovo atleta, Shane McConkey, con una trovata assurda: un paio di sci con due ganci a occhiello e un cavo tensionato in modo del tutto artigianale, ad azzerare totalmente il camber. ‘You’re not going to believe how great they are’ dice lui a uno stralunato pubblico. Ma la prova la dà sul serio: all’uscita di heliski che l’azienda mette in palio al sales meeting per quattro fortunati estratti, Shane si presenta con quella roba ai piedi. Jeff Mechura, di K2, ricorda ancora quando gli ha urlato: ‘Hey, come check this out!’. E non scorda la luce negli occhi quando, dopo due discese da urlo prima della rottura di tutto quell’ambaradan, lo sciatore butta lì un entusiasta ‘It works… we gotta try it!’. Perché in fondo è fatta. Via il camber, con Shane la forma dell’asse viene totalmente stravolta rispetto alla tradizione. Un’intuizione geniale, che varrà la conferma assoluta di questa caratteristica tecnica come elemento fondamentale dello sci da polvere pura. Diventerà i Pontoon».

Bruno Compagnet, l’arte di reinventarsi
C’è stato un momento in cui i freerider hanno iniziato a montare attacchini sui loro sci e gli scialpinisti cercavano di capire cosa significasse il termine rocker. Entrambi ignoravano che in realtà per alcuni quella pratica altro non era che la naturale evoluzione dello sci che avevano praticato negli ultimi venti o trent’anni. Bruno Compagnet è uno di questi. Un curioso la cui personalità e l’atto dello sciare si sono legati l’uno all’altro indissolubilmente, fino a condizionarsi a vicenda: la sua evoluzione come sciatore riflette quella della persona, e viceversa. Ma soprattutto un trend setter che ha importato nello skialp quello che di bello c’è nel freeride: set-up più discesistici, un’estetica curata tanto nel materiale quanto nell’abbigliamento, un rispetto reverenziale verso la discesa che si tramuta nella ricerca dei pendii e nevi ideali per divertirsi.

«Se gli fai presente che la sua figura ha influenzato la concezione dello scialpinismo negli ultimi anni, lui fa le spallucce, come se non lo riguardasse più di tanto: effettivamente basta parlarci per pochi minuti per capire che è davvero fatto così, mezzo freak e mezzo artista, amante della neve in tutte le sue forme, del buon vino e del vivere con una certa leggerezza – scrive Federico Ravassard su Skialper 127 di dicembre-gennaio - Se lo conosci capisci che sciare non ha solamente a che fare con lo scivolare sulla neve, piuttosto è un modo di inquadrare la vita e ciò che si è. Parafrasando Palombella Rossa, chi scia male, pensa male e vive male».

Bruno è un po’ l’icona del freetoruing. «A Chamonix abbiamo sempre usato le pelli, è una pratica che è insita nel DNA di questi luoghi. Anni fa utilizzavamo gli Alpin Trekkers con gli attacchi alpini, ma non percorrevamo mai grandi dislivelli. La transizione è avvenuta in modo graduale, senza momenti di rottura. Poi, con l’età, se si continua a spingere solo in discesa con gli impianti a fine giornata le ginocchia e la schiena vengono a chiederti il conto: il freetouring, se vogliamo chiamarlo così, è invece un modo di sciare più completo ed equilibrato, si fa più lavoro aerobico e lo stress dato dallo sforzo in discesa è più contenuto. E poi è anche più spontaneo, più naturale: con Layla mi piace scoprire nuovi luoghi andandoci con le pelli, senza ricorrere a cartine e gps, e cercare di muoverci in modo logico solo in base alle nostre competenze e a quello che vediamo intorno a noi. La trovo un’esperienza più completa rispetto allo stare in un comprensorio». Su Skialper 127 di dicembre-gennaio un reportage-intervista di 15 pagine su Bruno Compagnet.
Evoluzione di un'idea
«Uno dei primi ricordi che mi legano al mondo del fuoripista e dello scialpinismo è un canale nel gruppo del Sella. Una linea sinuosa che parte poco sotto la cima del Piz Boè e arriva, attraverso larghi pendii, fin sopra al paese di Arabba, ben visibile dalle piste da sci. Scoprii tempo dopo che si trattava della Val delle Fontane. Allora ero poco più che un ragazzino e passavo le mie giornate sugli sci tra i pali da gigante e scorribande sulle piste delle Dolomiti. Di scialpinismo non se ne parlava proprio e trascorsero alcuni anni prima che il desiderio di esplorazione prendesse il sopravvento. Ciò che mi lega a questo ricordo è proprio la linea, l’estetica della discesa con gli sci attraverso quel canyon. Ancora oggi credo che sia una tra le discese più belle del Sella! Per me lo sci è ricerca, creatività e divertimento. A essere sinceri non amo fare fatica, o meglio, non sono uno che gode in salita, ma se il tutto è finalizzato a una bella discesa ecco che la fatica assume un sapore completamente diverso! Non importa quanto alta è la montagna, se la cima è famosa o se è un colle appena sopra al paese, se è un canale ripido o se è un bellissimo pendio dolce. Ciò che mi spinge a voler andare li e sciare è l’estetica, il colpo di fulmine appena vedi il pendio, la soddisfazione nel girarsi a fine discesa e ripercorrere ogni singola curva fatta su quel terreno perfetto». Così scrive Tommaso Cardelli nell’articolo Evoluzione di un’idea su Skialper 127 di dicembre-gennaio. La sua è una visione comune a molti skialper delle nuove generazioni: «Quello che mi spinge a salire è legato principalmente al divertimento e alla bellezza della discesa. Un piacere edonistico che raggiunge il suo apice in una linea intonsa e possibilmente su bella neve. Mi succede spesso di rimanere folgorato dalla bellezza di una discesa e di non sapere nemmeno il nome della montagna, la difficoltà o le condizioni della neve». Le parole d’ordine? Ricerca, creatività, linea e divertimento! Per approfondire l'argomento c'è Skialper di dicembre-gennaio...

Aprono oggi le iscrizioni al Tour du Rutor
Apriranno ufficialmente oggi le iscrizioni alla ventesima edizione del Millet Tour du Rutor Extrême, in programma dal 26 al 29 marzo 2020 tra i comuni di Arvier, Valgrisenche e La Thuile. La data fissata per la chiusura delle iscrizioni è il 3 febbraio 2020. Per iscriversi alla ventesima edizione è necessario in primo luogo acquistare o rinnovare la Carte Grande Course e in seguito seguire la procedura a seconda della propria categoria, Senior, Master, Junior e Cadetti indicata sul sito www.tourdurutor.com.

Il ventesimo Millet Tour du Rutor Extrême, andrà in scena con una nuova formula che prevede quattro giorni di gara per le categorie Senior e Master (non più tre come nelle precedenti edizioni) con una nuova e straordinaria tappa che farà rivivere quella del ’33 sul ghiacciaio del Rutor sul versante di La Thuile, e che renderà la kermesse valdostana ancora più bella e spettacolare con in totale 9.500 m di dislivello positivo, 105 km di fuoripista, 60 km di salita, 45 km di discesa, 6 km di creste aeree. Inoltre, durante ogni tappa gli atleti saliranno oltre i 3.000 metri di quota. I giorni di gara per le categorie Junior e Cadetti saranno invece, eccezionalmente, solo per questa edizione, due e non tre, come nelle passate edizioni e si disputeranno il 28 e 29 marzo.

Nato ufficialmente nel 1933 sul ghiacciaio del Rutor, versante di La Thuile, il Tour du Rutor ha poi trovato la sua definitiva collocazione nel cuore della Valgrisenche. Dopo diversi anni di stop, il Tour du Rutor rinasce nel 1995 per volontà dello Sci Club Corrado Gex di Arvier e di alcuni giovani appassionati di alpinismo. L’ultima edizione del 2018 ha visto la partecipazione di oltre 700 concorrenti da 18 differenti nazioni, di cui 300 équipe maschili, 22 femminili e 30 squadre giovanili.
Electric Greg
«Ho scelto la zona di Bonney perché sapevo che sarebbe stato l’unico posto senza sole e con – 18. No, dai, scherzo, l’ho scelta perché so che molte persone avrebbero potuto salire i mille metri di dislivello e godersi una giornata di sci nella powder senza tracce con me. Ho fatto un paio di giri e alcuni semplici calcoli in alto: 2.000.000-1.998.500 = 1.500 piedi. Sono sceso con gli sci per 1.500 piedi e poi sono tornato indietro e ho incontrato Tracey, mia mamma, Don e alcuni grandi amici nella parte superiore, proprio mentre il mio orologio ticchettava. Pensavo che sarebbe andato tutto bene e che questa linea di due milioni sarebbe stata solo immaginaria. Ma guardandolo ticchettare, rivivendo ogni singolo istante e andando con la mente allo sforzo che è stato dedicato a quel piccolo numero e al fantastico supporto che i miei amici e la mia famiglia mi hanno dato per portare a termine questa pazzia, l’emozione è venuta a galla e mi sono ritrovato a piangere. Ho investito tanto in questo sciocco obiettivo che alla fine è stata una carica travolgente avere Tracey lì con me, con gli amici e lo champagne, è stato incredibile».

Come preparativo per il cenone di San Silvestro del 2010 Greg Hill si è regalato due milioni di piedi di dislivello con gli sci ai piedi, una media di 5.500 per ogni giorno dell’anno, con un picco di 23.000 piedi al giorno e 77 giornate oltre i 10.000, salendo 71 montagne in Nord e Sud America, sciando 1.039 piste in quattro Paesi. Sono rispettivamente 609.600 metri di dislivello, con una media di quasi 1.700, picchi di 7.000 e 77 giorni con 3.000 metri. E non è l’unica ‘pazzia’ di Greg, perché lo scialpinista canadese ha fatto partire la corsa al record del dislivello giornaliero e si è testato anche sui 30 giorni. Potrebbe essere uno skialper tutto sci stretti e tutina, ma Hill, la cui storia è appena stata inserita dai colleghi statunitensi di Backcountry Magazine tra quelle da ricordare per celebrare i 25 anni della rivista, non scende mai sotto i 106 mm al centro e questa bulimia di dislivello è funzionale alla sua voglia di esplorazione. Insomma, un perfetto freetourer che siamo andati a intervistare tra le montagne dell’Alberta, dove vive. Ne parliamo in un ampio reportage Skialper 127 di dicembre-gennaio.

Da domani i Campionati italiani a Pontedilegno-Tonale
Il comprensorio Pontedilegno-Tonale è pronto a illuminarsi a festa per un lungo fine settimana che avrà il compito di assegnare i titoli tricolori giovani, under 23 e assoluti di skialp delle specialità sprint, staffetta e vertical. Da venerdì 13 a domenica 15 dicembre i migliori interpreti italiani e le giovani promesse, in rappresentanza dei Comitati Fisi d’Italia, andranno a caccia di medaglie nei tre eventi che l’Adamello Ski Team ha messo in cantiere. La sprint e la staffetta andranno in scena nella formula serale proprio a Ponte di Legno, creando una sorta di stadio con una cornice fatta di musica, intrattenimento e iniziative collaterali. La gara sprint scatterà alle 17.30 con le prime qualifiche per la categoria giovani, quindi seguiranno le sfide under 23, senior e master su un percorso allestito nei pressi del campo scuola Cida, perfettamente illuminato, che rispetterà gli standard imposti dalla Federazione per sviluppo e dislivello. Anche la staffetta di sabato godrà dello stesso teatro nei pressi della stazione della cabinovia a Ponte di Legno e identico sarà l’orario di partenza delle prime staffette giovanili: ore 17.30.
Domenica mattina invece spazio al vertical, che andrà in scena al Passo del Tonale con lo start della alle ore 10.30. Lo scorso anno gli scudetti tricolori erano andati al petto di Michele Boscacci ed Alba De Silvestro nella vertical race, di Robert Antonioli e Giulia Murada nella sprint, mentre la staffetta, come da pronostico, vide trionfare il Centro sportivo Esercito e al Comitato Alpi Centrali per quanto riguarda i giovani.
Transalp, il think-tank dello skialp itinerante
Ci sono eventi che diventano il simbolo di una filosofia di affrontare l’outdoor e l’avventura. Basti pensare al Raid Gauloises, all’UTMB o alla Parigi-Dakar. E, perché no, alla Fischer Transalp che nel 2020 arriverà al traguardo delle dieci candeline. Se oggi lo scialpinismo è sempre più legato all’idea del viaggio, di attraversare valli e regioni per andare da un punto all’altro, lo dobbiamo in buona parte alla Transalp. Quando nel 2010 un piccolo gruppo di skialper di lingua tedesca si diede appuntamento in un paesino dell’Austria c’era ancora un mondo da inventare. «La Transalp è nata proprio perché a quei tempi qui in Austria la maggior parte degli scialpinisti non faceva altro che su e giù in giornata per i monti mentre noi sapevamo che la nostra attrezzatura era molto resistente e credevamo che fosse perfetta per tour di più giorni: così abbiamo pensato che il modo migliore per farla conoscere fosse proprio quello di organizzare una traversata delle Alpi» dice Martin Eisenknapp, project manager della divisione scialpinismo del marchio austriaco. Da allora quello che era un esperimento è diventato un marchio ben conosciuto, entrato nell’immaginario dello skialper medio come l’avventura da provare una volta nella vita. Ma anche un think-tank dove sono nati alcuni degli sci più adatti allo skialp moderno.


Su Skialper 127 di dicembre-gennaio abbiamo ripercorso la storia della traversata delle Alpi con gli sci ai piedi, tra curiosità, aneddoti e prospettive per il futuro, però se volete provare a partecipare alla prossima edizione è meglio che ci pensiate velocemente. La Fischer Transalp 2020 è stata anticipata di circa un mese rispetto alla tradizione, con partenza dalla Slovenia il 2 marzo e arrivo in Austria, dopo essere passati per l’Italia, l’8 marzo. Fino al 12 gennaio c’è tempo per mandare la propria candidatura attraverso l’indirizzo Internet fischersports.com/transalp. Sono richieste ottima padronanza della tecnica sciistica, conoscenza dell’ambiente montano e un fisico allenato ad affrontare una settimana con medie di 1.500 metri di dislivello al giorno.

Kamchatka, la penisola di fuoco
«Io l’avevo già visitata, circa dieci anni fa, feci una vacanza di heliski. Si dormiva in città, a Petropavlovsk, si passavano ore in un hangar ad aspettare il bel tempo e, se poi eravamo fortunati, ci trovavamo su qualche pendio senza sapere esattamente dove. Elicotteri enormi, oblò piccoli, 25 persone: una funivia con le pale. Non mi era piaciuta l’esperienza nel suo insieme, ma la Kamchatka sì. La natura è meravigliosa e meritava un’altra chance» scrive così Paolo Tassi, insieme a Martino Colonna autore dell’articolo sulla Kamchatka che pubblichiamo su Skialper 127 di dicembre-gennaio.

E dopo quella esperienza Tassi in Kamchatka ci è tornato, scoprendo che sciare su un vulcano è un’esperienza particolare: «L’esposizione costante del pendio fa sì che le sciate siano infinite, non esistono punti intermedi dove fermarsi, si parte e si va...». E poi ci sono i geyser, spazi infiniti, granchi, gamberi e salmoni tra i migliori al mondo. Ecco perché vale la pena di leggere il reportage di 11 pagine che pubblichiamo su Skialper in edicola. E naturalmente la neve. Scrive Martino Colonna: «I vulcani della Kamchatka sono molto più grandi e attivi di quelli del Giappone e possono superare i 4.500 metri. L’altra sensibile differenza la fa il clima. La Kamchatka è più a Nord e quindi se uno pensa che gli inverni in Hokkaido siano particolarmente freddi e ventosi è solo perché non ha mai avuto a che fare con il clima della Kamchatka. Nella parte meridionale della penisola le temperature medie invernali sono inferiori ai meno 10 e le precipitazioni annuali superano i 2.000 mm di acqua l’anno, molta della quale cade sotto forma di neve. A fine aprile, quando siamo stati nella zona Sud della penisola, c’erano ancora due metri di neve al livello del mare». Sono quattro i vulcani sciati dal duo Tassi-Colonna: Avachinsky, Viluchinsky, Mutnovsky e Gorely, con dislivelli fino a 2.700 metri, raggiungibili con lunghi avvicinamenti in motoslitta, fuoristrada o gatto delle nevi. Welcome in Kamchatka!














