Grignetta Vertical, sabato la sfida

Format vincente non si cambia. Sabato 8 giugno torna la Grignetta Vertical, con 905 metri di dislivello positivo sulla Grigna Meridionale, ‘parco giochi’ per gli amanti del free climbing e ambiente storico dove i vari Bonatti, Cassin e i Ragni di Lecco hanno costruito la preparazione per le loro imprese mondiali. Il GSA Cometa ripropone la sesta edizione di una gara storica (ex Trofeo Vidini) per la classica Via Cermenati con partenza dal Pian dei Resinelli ed arrivo al Bivacco Ferrario, in cima alla Grigna a quota 2.184 metri con passaggi su roccette e catene. Ritiro pettorali dalla mattinata e start a crono a partire dalle ore 14.00, con partenze ogni 20". All'arrivo in vetta verrà consegnato una maglia tecnica Montura (offerta dallo sponsor Alpstation Brianza) e uno zainetto CT offerto dagli altri sponsor.
Nel 2017 sono crollati i record storici con il portacolori La Sportiva Michele Boscacci che ha fermato il suo crono a 32'33" e Silvia Cuminetti con 41'12”; entrambi nel 2018 sono ritornati per cercare di migliorarsi ma non ci sono riusciti: ce la faranno quest'anno?
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Sabato è il giorno della Doppia W Ultra 60

Doppia W Ultra 60, il countdown è cominciato. In vista della seconda edizione in programma sabato mattina con start nell’abitato grigionese di Poschiavo e arrivo nella città valtellinese di Tirano, il comitato italo svizzero sta lavorando a ritmi serrati per regalare ai quasi 500 concorrenti una giornata indimenticabile. Vista la troppa neve in quota, dopo ripetute supervisioni e su consiglio del direttore gara – la guida alpina Luca Tenni – sono state apportate alcune modifiche che hanno tagliato i punti più esposti, senza per questo pregiudicare la spettacolarità dell’evento. I numeri cominciano a essere importanti con atleti provenienti da sei differenti nazioni: in 160 correranno la prova integrale. Sono inoltre accreditate 29 staffette a 2 elementi, 22 team da 3 e 200 iscritti alla camminata.

IL PERCORSO - Si correrà comunque su una distanza di 60 km con un dislivello prossimo ai 4300 metri. Rispetto al percorso originale sono stati tolti i punti a maggiore rischio valanghivo. Nonostante il rialzo termico degli ultimi giorni, in quota vi è ancora molta neve, si è quindi optato per un piano B.
Partenza confermata alle ore 5.30 di sabato mattina da Poschiavo. Da lì si punterà Passo Malghera. Raggiunto l’omonimo rifugio, non si andrà più al Passo di Pedruna, ma si tornerà in Svizzera sempre dal Passo di Malghera (tracciati di andata e ritorno per buona parte su percorsi differenti). Passaggio di San Romerio e la zona di cambio staffetta resteranno invariati. Altra modifica in zona Pian Cavallino, qui non si salirà più verso la cresta ed il Passo Portone (condizioni davvero proibitive) ma si percorrerà un sentiero altrettanto bello e caratteristico che porterà gli atleti a Prà Campo, Prà Baruzzo, Ghiaccia, Sovo e Rifugio Schiazzera (anche per il secondo cambio staffetta nessuna variazione). Il resto del percorso rimarrà invariato.
Anche programma e eventi collaterali non hanno subito variazioni con festa grande in zona arrivo, premiazioni alle 17:30 e un terzo tempo da non perdere. Dalle 21 sono infatti previsti concerto e festa con Jovanotti Tribute Band Jovanotte

I PROTAGONISTI - Se il campionissimo valdostano Franco Collé sarà presente nel ruolo di guest star per alcuni acciacchi che all’ultimo gli hanno impedito di indossare il pettorale, la starting list di questa seconda edizione si preannuncia comunque di livello. Sfogliando la lista partenti spiccano i nomi di Michele Tavernaro (vincitore 2018), Marco Zanchi, Christian Pizzatti e Luca Manfredi Negri.
Gara vera anche al femminile con la vincitrice 2018 Cecilia Pedroni chiamata a guardarsi le spalle da Cristiana Follador. Ruolo di outsider per l’esperta Patrizia Pensa e la ‘local’ Lucia Moraschinelli.


Scott Sports inaugura la nuova sede

Sette piani, 440 scale, fino a 600 postazioni di lavoro, 50 sale riunioni, 800 motori per la gestione delle finestre, oltre 4.000 metri quadrati di showroom. Sono questi alcuni dei numeri del nuovo headquarter di Scott Sports, realizzato da IttenBrechbühl Architects e General Planners a Givisez, in Svizzera, con molta attenzione alla sostenibilità e alla vivibilità degli ambienti di lavoro. L’edificio è il primo in Europa ad avere un sistema per controllare il riscaldamento, la ventilazione e l'acustica tutto allo stesso tempo. Grazie alla geotermia viene fornita energia sostenibile e riscaldamento a basso consumo, tecnologia solare e teleriscaldamento ne sottolineano ulteriormente il carattere sostenibile. Incorniciata da un'architettura chiara e una combinazione di materiali senza tempo come il legno, cemento, vetro e metallo, la nuova sede offre il palcoscenico ideale per il portafoglio dei prodotti del gruppo che ha fatto di innovazione e design i suoi valori chiave.  

L’atrio centrale si sviluppa su tutta l'altezza dell'edificio e una scala che conduce l'ospite all'ingresso dell'auditorium Le stanze pubbliche si sviluppano ai lati dell'auditorium. La caffetteria e il ristorante sono collegati a questo spazio aperto offrendo uno sguardo completo nell'area esterna grazie a una superficie in vetro continua. Lo spazio dedicato agli uffici si trova sui quattro piani superiori. L'ampiezza degli spazi promuove lo scambio vivace e lo sviluppo di idee, mentre le aree chiuse favoriscono un'atmosfera di lavoro più concentrata. La facciata in alluminio microforato e controllata dal sole consente alla luce del giorno di fluire piacevolmente all'interno. La protezione dinamica, studiata per contrastare i raggi del sole, e la facciata high-tech del seminterrato rendono visibile l'attività svolta all'interno e suscitando curiosità. L'ampio atrio  illuminato valorizza le doghe in legno posizionate verticalmente e il pavimento in cemento grezzo, mentre le tonalità dei colori naturali sottolineano e donano tranquillità agli spazi e agli uffici.

Nell’headquarter trovano spazio anche i marchi controllati: Syncros, Bergamont, Bold Cycles, Avanti, Malvern Star, Dolomite, Powderhorn, Bach, Lizard e Outdoor Research. «La cultura del lavoro e il luogo in cui si svolge sono molto importanti per noi - ha detto il ceo Beat Zaugg - Viviamo una forte filosofia di gruppo e i progetti sono seguiti da diversi dipartimenti contemporaneamente. Avere tutti i dipendenti nello stesso edificio consente una comunicazione e una collaborazione veloce e senza interruzioni, una vera alternativa all'home office». 


Cazzanelli e Ratti ripetono la Cresta Cassin al Denali: poco meno di 19 ore dalla terminale alla vetta

Due volte in vetta al Denali (6.190 m), con tempi da fast & light. Queste le notizie che arrivano dall’Alaska dove François Cazzanelli, ben conosciuto dai lettori di Skialper, e Francesco Ratti (testatore della nostra Outdoor Guide) sono saliti il 23 maggio sulla West Rib (a un esatto dalla vetta del Lhotse di Cazzanelli in compagnia di Marco Camandona) e poi il 30 maggio sulla Cresta Cassin. La Cassin, salita da Cassin e dai Ragni di Lecco nel 1961 e solitamente percorsa in alcuni giorni, è una via lunga e impegnativa con circa 2.500 metri di dislivello. 

© Francesco Ratti/Facebook

«Parliamo di tempi, con partenza e arrivo dal campo 4, abbiamo impiegato 26 ore e 45 minuti - scrive Cazzanelli in un post su Instagram -. Dalla terminale alla punta abbiamo impiegato 18 ore e 58 minuti. L’avvicinamento lo abbiamo fatto in 4 ore e 20 minuti risalendo prima verso la West Rib fino al colletto a 4.900 m (600 m di dislivello dal campo 4 situato a 4.300 m), dopo il colle siamo scesi per 1.200 m per la seraccata chiamata Seattle Ramp. Per la discesa ci sono volute 3 ore e altri 27 minuti circa, gli abbiamo spesi alla base per prepararci e sulla punta. Abbiamo sempre arrampicato tranne quando ci siamo riparati nella tenda mono telo, per 3 ore (dalle 23.00 alle 2.00) per riposare e rifocillarci; alla ripartenza la temperatura segnava -36° e il vento era di 45 km/h. I metri totali saliti sono stati 3.100. Nei primi 1000 m di via abbiamo trovato la traccia, nei restanti 1.500 la traccia l’abbiamo fatta noi, con la neve che arrivava tra le caviglie e le ginocchia. Tenuto conto anche di questo siamo molto soddisfatti del risultato!». In un altro post Cazzanelli esprime la soddisfazione per essere riusciti ad affrontare la Cassin in stile alpino e parla della meticolosa preparazione, durata tutto l’inverno. 

© Francois Zaccanelli/Facebook

Nella scorsa stagione estiva François aveva realizzato la traversata integrale delle Grandes Murailles con Kilian Jornet in meno di 11 ore da Cervinia e le quattro creste del Cervino in poco più di 16 ore, in compagnia di Andreas Steindl. In spedizione con Cazzanelli e Ratti ci sono anche Stefano Stradelli e Roger Bovard. 


Domenica si assegnano i titoli mondiali trail

Gli azzurri sono già in Portogallo per testare il percorso della Trilhos dos Abutres, la gara che domenica assegnerà i titoli mondiali trail. 44,2 km con più di 2.000 metri dislivello. «Percorso di ‘confine’ - spiega il responsabile tecnico dell’Italia, Paolo Germanetto - tra una gara lunga e una prova di corsa in montagna. Credo che sarà molto aperta, anche a qualche sorpresa, senza guardare troppo al punteggio ITRA. Come Italia speriamo di essere della partita, anche perché questo format di gara si avvicina di più a quello del nostro movimento». Squadra bella ‘compatta’ quella azzurra, soprattutto al maschile: se le ‘punte’ sono Marco De Gasperi, Francesco Puppi e Alessandro Rambaldini, anche Luca Cagnati, Davide Cheraz e Andreas Reiterer possono certamente dire la loro. Nel team rosa invece, le sei azzurre al via sono Barbara Bani, Gloria Giudici, Lidia Mongelli, Sarah Palfrader, Emma Linda Quaglia e soprattutto Silvia Rampazzo.

©Marco Gulberti

FAVORITI - Come non partire dalla Spagna con Luis Alberto Hernando (che se non è proprio un tracciato ‘favorevole’ al tre volte campione del mondo) e Cristofer Clemente, poi la Francia con Ludovic Pommeret, Nicolas Martin e Julien Rancon, la Gran Bretagna con Jonathan Albon, Andy Symonds e Ricky Lightfoot. E ancora lo statunitense Mario Mendoza o i rumeni Ionut Zinca e Gyorgy Szabolcs.
Nella gara rosa ci sarà la campionessa del mondo in carica, l’olandese Ragna Debats, la vice, l’iberica Laia Cañes (ma in casa Spagna attenzione anche Gemma Arenas e Azara García) e ancora la neozelandese Ruth Croft, l’austriaca Sandra Koblmüller, la francese Adeline Roche, la statunitense Kasie Enman, la rumena Denisa Dragomir, la polacca Magdalena Laczak, la svedese Sanna El Kott…
Insomma avete capito, difficile fare un pronostico.

©Marco Gulberti

Seguendo le orme del lupo

Tra le Alpi Marittime in Italia e il massiccio del Mercantour in Francia si snoda la linea di un confine aperto. In un mondo dove oggi stanno sorgendo troppi muri, il limite amministrativo tra i due Stati del vecchio continente in questa zona di splendide montagne non intende dividere, ma favorire il passaggio di uomini (senza mezzi motorizzati) e di animali. A stringere in un grande abbraccio la porzione più occidentale della catena alpina ha contribuito l’istituzione di due grandi aree naturali protette, che collaborano da tempo in modo efficace attraverso specifici protocolli d’intesa. Si tratta del Parco Naturale Alpi Marittime sul versante italiano settentrionale (istituito nel 1995) e del Parc National du Mercantour su quello meridionale francese (fondato nel 1979). Gli spazi selvaggi che si estendono all’interno dei due parchi coprono una superficie complessiva di quasi mille chilometri quadrati e, grazie all’integrità naturale, sono frequentati da numerose specie faunistiche. In parallelo si è affermata modalità di turismo rispettosa dell’ambiente, attenta ai valori della natura ma anche ad altri motivi di interesse di questo territorio che, sul lato italiano che ricade nella Provincia Granda di Cuneo, riguardano ad esempio le spettacolari strade militari e i sentieri utilizzati per raggiungere i luoghi di caccia frequentati un tempo da Re Vittorio Emanuele II.

L’abbandono dell’attività di caccia da parte della famiglia reale e l’istituzione delle aree naturali protette hanno progressivamente favorito la crescita numerica di molte specie animali. Nel Parco Naturale Alpi Marittime oggi si possono contare circa 4.000 camosci e 500 stambecchi, ai quali si aggiungono caprioli, cinghiali, cervi e mufloni. Tra gli uccelli spiccano le presenze della coturnice, del fagiano di monte e della pernice bianca, oltre a quelle dell’aquila reale (10 coppie) e del maestoso gipeto. Gli aspetti naturalistici si completano con circa 1.800 piante superiori (oltre il 30 per cento del totale della flora italiana), e dieci endemismi vegetali ad areale ristretto, che si possono osservare solo sulle Alpi Marittime. Numeri e specie già rilevanti, ma ai quali va aggiunta anche la straordinaria presenza del lupo (Canis lupus), animale di fondamentale importanza ecologica. L’ufficialità del suo ritorno porta la data del 24 dicembre 1989 quando, a seguito di osservazioni dirette effettuate da operatori del Parco Naturale delle Alpi Marittime e del Parco Nazionale del Mercantour, è stata accertata la presenza di alcuni lupi a cavallo della frontiera tra Italia e Francia.

L’aumento delle prede e delle superfici forestali hanno costituito le principali condizioni ambientali che hanno richiamato gradualmente fin qui alcuni esemplari di lupo provenienti dall’Appennino, dando vita a un processo di colonizzazione spontanea che ha favorito il ritorno del grande predatore. Il confine tra i due parchi è quindi zona di transito per questo animale e, da alcuni anni, anche di un affascinante percorso escursionistico che si snoda all’interno delle valli e delle montagne che frequenta. L’itinerario si chiama Trekking del Lupo e lungo il percorso si trovano diversi rifugi e punti di appoggio in quota per il ristoro e il pernottamento. In otto tappe si può compiere a piedi l’intero viaggio mantenendo ritmi che consentono di osservare con calma paesaggio, flora e fauna, ma i più allenati possono anche dimezzare i tempi escursionistici e percorrerlo in tre-quattro tappe.

© Alfredo Croce/Pillow Lab

Si cammina in buona parte su sentieri ed ex strade reali di caccia dal fondo selciato, ma non mancano passaggi su pietre e massi (e talvolta anche neve) caratteristici degli ambienti alpini, che rendono più indicato l’utilizzo dello scarpone a quello delle scarpette da trail o di scarpe basse da hiking. Si superano spesso i 2.000 metri, pertanto la stagione estiva fino all’inizio dell’autunno rappresenta il periodo ideale per organizzarne una vacanza a passo lento o veloce sulle orme del lupo. La parte iniziale del trekking non richiede eccessivo impegno. Da San Giacomo d’Entracque si percorre il Vallone del Gesso della Barra passando dai boschi del fondovalle ai pascoli e alle rocce distribuiti alle quote più elevate. Il vispo torrente, la marmotte e camosci accompagnano fino al rifugio Soria-Ellena. Il giorno successivo il cammino riprende ancora in salita, ora più ripida e faticosa. L’ampia e storica traccia si sviluppa in direzione sud fino al Colle di Finestra (2.471 m, stambecchi in zona) e poi, in territorio francese, raggiunge il Pas de Ladres (2.448 m). Il Lac de Trecolpas allieta la prima parte di discesa in direzione del Refuge de Cougourde, mentre la seconda, accanto al torrente, percorre ambienti alpestri rilassanti che accompagnano a Le Boréon.

Il cammino riprende nei pressi del lago di Boréon in direzione nord per raggiungere il Colle di Ciriegia (2.543 m), dove sono stati osservati i primi lupi nel 1989. La salita richiede impegno fin da subito nel Vallon du Cavalet e non è da sottovalutare nemmeno la lunga e a tratti tecnica discesa che dal colle riconduce in Italia, con ampie visuali sul Monte Argentera (3.297 m) e sulle sue sorelle a corredo del cammino fino al Rifugio Elena (1.834 m). La tappa che segue costituisce ancora un viaggio nella natura (zone umide e laghetti) ma anche nella storia, con tratti da percorrere su strade reali e altri su opere viarie risalenti alla Grande Guerra. Oltre il Colletto di Valasco (2.429) si prosegue lungo la Val Morta e poi si risale al rifugio Questa (2.388 m), affacciato sul lago delle Portette.

Il Vallone e il Pian del Valasco sono gli elementi che caratterizzano principalmente la sezione successiva che si conclude alla borgata di Terme di Valdieri. Da qui una passerella in legno conduce all’imbocco del vallone di Lourousa. La zona è un paradiso per gli escursionisti ma anche per alpinisti e arrampicatori. Il canalone di Lourousa fino al Colletto Coolidge rappresenta una logica, ambita e impegnativa linea su neve da percorrere all’inizio dell’estate (difficoltà AD, 3-4 ore e 950 metri di dislivello dal bivacco Varrone), mentre il vicino Corno Stella (3.262 m) ha visto all’opera sulle sue pareti nord-est e sud-ovest alpinisti del calibro di Allain, Grassi, Kosterlitz, Ravaschietto e Berhault. Dopo la sosta al rifugio Morelli-Buzzi (zona frequentata anche da numerosi stambecchi) si riparte alla volta del vicino Colle del Chiapous (2.526 m), dal quale si scende nell’omonimo vallone fino alla grande diga del Chiotas (1.980 m) e da qui in breve al Rifugio Genova-Figari (2.013 m), prossimo al bel lago alpino naturale Brocan.

La tappa conclusiva del trekking del Lupo raggiunge nel suo ultimo tratto di salita il Colle di Fenestrelle (2.643 m). In questa zona si osservano due piccoli laghi effimeri e uno stupendo panorama sul Monte Gelas attorno al quale, sui ghiacciai più meridionali della catena alpina, e a poche decine di chilometri in linea d’aria dalle famose località turistiche balneari della Costa Azzurra, si sviluppano interessanti itinerari scialpinistici. La discesa, dalla pendenza graduale, supera il Piano del Praiet e conduce, lungo il tratto percorso all’inizio del trekking nel Vallone del Gesso della Barra, di nuovo a San Giacomo di Entracque. Un’avvertenza: il nome dato al trekking non deve indurre a credere che gli esemplari di lupo siano facilmente osservabili. La possibilità di vedere direttamente questo animale è piuttosto remota e la sua presenza è riferita a segni (impronte, tracce, escrementi, peli e resti delle sue prede) di non semplice interpretazione. Però rimane immutato il fascino di attraversare le montagne gradite dal grande carnivoro e pensare che mentre stiamo camminando, magari, ci stia osservando.

 

Il Trekking del Lupo ha una lunghezza complessiva di circa 75 chilometri e può essere suddiviso in 8 tappe.

TAPPA 1. Da Cuneo si percorre la SP22 fino a raggiungere Entracque, dove in località Casermette si può visitare il Centro Faunistico Uomini e Lupi. Sul sito del comune (www.comune.entracque.cn.it), nell’area tematica ‘guida turistica’, sono disponibili le indicazioni su alloggi e strutture ricettive. Con l’auto ci si porta a San Giacomo d’Entracque (1.213 m), dove si parte a piedi per il rifugio Soria-Ellena (1.840 m) [totali: 627 m D+, 2h30’]

TAPPA 2. Dal rifugio Soria-Ellena (1.840 m) a Le Boréon (1.460 m) attraverso il Colle di Finestra (2.471 m), il Pas des Ladres (2.448 m) e il Lac de Trecolpas (2.150 m) [totali: 900 m D+, 1.100 m D-, 6h] - nota: la tappa si può spezzare in due con una piccola variante al Refuge de la Cougourde (2.110 m).

TAPPA 3. Da Le Boréon (1.460 m), dove si può visitare il Centro faunistico Alpha Loup, si parte alla volta del rifugio Regina Elena (1.834 m), passando dal Col de Cerise/Colle di Ciriegia (2.543 m) [totali: 1.070 m D+, 700 m D-, 5h30’]

TAPPA 4. Dal rifugio Regina Elena (1.834 m) al rifugio Questa (2.388 m) attraverso il Colletto di Valasco (2.429 m) [totali: 850 m D+, 300 m D-, 4h]


TAPPA 5. Dal rifugio Questa (2.388 m) a Terme di Valdieri (1.368 m) passando per il rifugio Vallone di Valasco (1.763 m) [totali: 250 m D+, 1.270 m D-, 3h]


TAPPA 6. da Terme di Valdieri (1.368 m) al rifugio Morelli-Buzzi (2.351 m) [totali: 1.080 m D+, 100 m D-, 3h]

TAPPA 7. Dal rifugio Morelli-Buzzi (2.351 m) al rifugio Genova-Figari (2.015 m) transitando dal Colle del Chiapous (2.526 m) [totali: 300 m D+, 640 m D-, 2h30’]

TAPPA 8. Dal rifugio Genova-Figari (2.015 m) a San Giacomo di Entracque (1.213 m) passando per il Colle di Fenestrelle (2.463 m). Possibile visita alla seconda struttura del Centro Faunistico Uomini e Lupi, collocata nel paese in Piazza Giustizia e Libertà [totali: 460 m D+, 1.265 m D-, 5h]

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© Alfredo Croce/Pillow Lab

Armando Mariotta saluta l'ISMF

A fine settembre ci sarà il nuovo presidente della ISMF. Presidente che non sarà più Armando Mariotta che, dopo due mandati alla guida della federazione internazionale dello scialpinismo, non potrà più candidarsi, ‘da statuto’.

Otto anni alla guida della ISMF, un bilancio?
«Non dovrei farlo io, ma mi ritengo molto soddisfatto. Per il riconoscimento del CIO, l’approdo alle Olimpiadi giovanili il prossimo anno, e ancora la Coppa del Mondo che quasi non esisteva e che ora ha una buona rilevanza internazionale e soprattutto con un format unico come le altre discipline invernali. Senza dimenticare che lo skialp adesso è in pianta stabile ai Mondiali Militari e ai World Master Winter Games. Ma ci metterei dentro anche il controllo antidoping, l’evoluzione dei regolamenti, il sistema di cronometraggio».

Però lo ski-alp in Cina alle Olimpiadi non c’è, e in Coppa del Mondo, e ci aggiungerei anche i Mondiali, spesso ci sono state gare non all’altezza.
«Partiamo da Giochi in Cina. Ci abbiamo provato, siamo stati in più occasioni dagli organizzatori cinesi, ma la risposta è stata quella che per quell’appuntamento non c’era il via libera del CIO. Adesso pensiamo al 2026. Dico pensiamo perché l’attuale consiglio dovrà fare le prime mosse già dopo la scelta della sede a fine giugno a Losanna. Abbiamo avuto contatti con entrambi gli organizzatori, ma anche qui il CIO ci ha detto di aspettare. Una volta decisa la location del 2026, dovremo muoverci.
Per quanto riguarda la Coppa del Mondo bisogna fare una precisazione: non è l’ISMF che decide i luoghi, ma sono le federazioni nazionali che indicano la località; a me sarebbe piaciuto andare a Courchevel, ma se i francesi ci indicano Puy-St. Vincent o Super Devoluy, andremo lì.
Noi abbiamo fatto il possibile per far capire alle stazioni che la Coppa del Mondo era un prodotto in più da offrire e non un peso: sopralluoghi in estate, riunioni; credo che spesso ci siamo riusciti, altre volte forse meno. Nell’ultima edizione della Coppa siamo arrivati a sei tappe, con tutte le gare disputate e con grandi risultati. E le finali a Madonna di Campiglio direi che si sono concluse con un grande successo organizzativo.
Agli ultimi Mondiali, poi il maltempo l'ha fatta da padrone e comunque non abbiamo annullato nessuna gara. Resta, comunque, un altro aspetto. Piaccia o meno, il nostro format di gare è questo: dobbiamo avere partenza e arrivo vicino alla piste».

La sensazione è quella che lo skialp, però, non sia decollato, come per esempio il biathlon.
«Abbiamo fatto una scelta con il nostro partner Infront: prima, iniziare una diffusione attraverso le televisioni per raggiungere il grande pubblico e poi lavorare sui canali social dove c’è una presenza ovviamente dei più appassionati. Non avevamo le dirette, ma il nostro magazine è andato a milioni di spettatori, Thailandia compresa. Ripeto, è un progetto a lungo termine, e non è facile da conseguire in breve tempo, ma siamo soddisfatti dei risultati raggiunti».

Capitolo LGC, perché questa divisione?
«Non l’ho vissuta bene, anche perché non ho condiviso la loro scelta. Abbiamo sempre cercato di mantenere il mese di marzo ‘libero’ dalla Coppa del Mondo, il sistema del ranking credo fosse un bel compromesso. Per i Mondiali, però, non avevamo altra scelta che su quella data. Lo abbiamo comunicato a settembre, chiedendo alla Pierra Menta di cambiare i giorni di gara. Non è stato fatto e di conseguenza si è perso tutto quello che avevamo fatto insieme prima. Mi auguro che si possa ricucire in futuro, perché questo è un danno per il nostro sport. Sempre considerando che sono due format diversi, ma alla fine credo che sia sempre ski-alp e che gli atleti siano gli stessi».

Cosa farà Mariotta in futuro?
«Ho già detto che non accetterò incarichi politici, piuttosto se lo vorranno, darò una mano a livello operativo. Altrimenti andrò a vedere le gare, spero quelle dei Giochi del 2026».


Il meteo ostacola Mosetti, Grant, Briggs e Petersson in Alaska. Lo svedese trascinato per 800 metri da una valanga

L’obiettivo erano due linee nella catena del Denali, in Alaska. Ma il meteo non è stato favorevole ed Enrico Mosetti, Tom Grant, Ben Briggs e Jesper Petersson tornano a casa con «molte partite a scacchi, alcune delle notti più fredde mai vissute in montagna e un tentativo di salita sul Denali stoppato a 5.700 metri in quello che doveva essere ‘il giorno’ ma con gli dei della montagna che hanno deciso di spingerci giù con venti a 80 chilometri orari e – 25°» scrive Mosetti in un post sul suo account Instagram. Tom e Jesper sono poi riusciti a salire sul Denali un altro giorno e a sciare il couloir Messner. L’avventura in Alaska ha vissuto anche attimi di paura quando, sul Kahiltna Queen (3.773 m), Petersson ha fatto partire una lastra che ha generato una piccola valanga in un canale a 50 gradi. «Abbiamo raggiunto la vetta intono alle 12 e iniziato a sciare – scrive Petersson in un post Instagram – era una discesa tecnica ma siamo riusciti a farla senza doppie. Quando eravamo nella parte finale ho fatto partire una piccola valanga e non sono riuscito a restarne fuori, così sono stato trascinato per 700-800 metri in un canale di 50 gradi con neve, ghiaccio, rocce e un salto alla fine». Mosetti e Grant sono riusciti a raggiungere subito Petersson e a chiamare i soccorsi che hanno evacuato lo svedese in elicottero non appena i venti hanno permesso il soccorso. L’infortunio ha comportato fratture alle vertebre cervicali e alle costole. «Sono stato fortunato e sono felice di essere vivo, la sensazione è quella di avere avuto un’altra opportunità di vivere» conclude Petersson.


KOM e Hierro, per arrivare in fondo

Dici New Balance e dici soprattutto no problem. Le scarpe per correre nella natura della casa americana sono da sempre sinonimo di buona ammortizzazione e comodità, soprattutto per le lunghe distanze. Chi non ricorda la Leadville, compagna fidata di generazioni di ultra-trailer? Passano gli anni e l’offerta diventa più ampia e si segmenta e oggi la gamma da trail, votata prevalentemente alle distanze ultra, di New Balance si articola su due prodotti: Fresh Foam Hierro v4 e Summit KOM. Due scarpe per certi versi simili, per altri diverse. Le abbiamo messe alla prova nei piedi di Giulio Piana, atleta che corre con le scarpe NB e conosce molto bene le Hierro, mentre sta iniziando a usare le KOM. Giulio è un testatore perfetto per queste scarpe perché, oltre a essere atleta top (i risultati che riportiamo nel box di queste pagine parlano chiaro) è anche un utilizzatore alto e più pesante della media dei top. Non corre certo come un trail runner pesante della pancia del gruppo, però può fornire qualche indicazione in più per utilizzatori comuni mortali.

FRESH FOAM HIERRO v4 - La Fresh Foam Hierro v4 è una scarpa pensata per trail su distanze lunghe, in gara e allenamento, con l’obiettivo del cushioning. Per certi versi un’alternativa alle massimaliste. Questa versione 4, in vendita da qualche settimana, è un’evoluzione della 3, uscita l’anno scorso, che non viene snaturata, ma solo migliorata in due dettagli. Per intenderci: non è un salto come dalla 2 alla 3, che sono scarpe abbastanza diverse nell’aspetto. Gli interventi riguardano tomaia e tallone. La prima è realizzata ora in Stretch Film, un materiale termosaldato simile a quello utilizzato l’anno scorso, ma con aperture di dimensioni differenti. In pratica sulla 3 c’erano delle piccole squame, ora fori di dimensioni diverse per assicurare traspirazione dove serve e più fasciatura del piede e resistenza in altri. Il tallone invece adotta una nuova struttura di sostegno per avvolgerlo meglio. Per il resto è la scarpa del 2018, con tanta ammortizzazione (profilo 28-20 mm) e 8 mm di drop. Per fare tanti chilometri su terreni poco o mediamente tecnici. «Confermo, l’anno scorso ho corso sempre con Hierro, in allenamento e in gara, perché voglio arrivare sempre in fondo e in buone condizioni, per me questa è la priorità: avere una scarpa con la quale poter correre ai ritmi richiesti da un trail e da un ultra trail, ma che sia comunque protettiva e mi supporti bene» dice Giulio. Una macina chilometri per arrivare fino in fondo. «Il grip è sempre valido e anche a fine gara hai quel comfort che può fare la differenza, il disegno della suola non è pensato per terreni eccessivamente fangosi, ma la superficie ampia e il disegno danno comunque un aiuto» aggiunge Giulio. Le indicazioni di utilizzo vedono Hierro più sbilanciata sulle lunghe distanze (anche cento miglia) e valida proposta per utilizzatori di medio livello e runner anche pesanti, volendo pure in chiave speed hiking, ma Giulio Piana dimostra la versatilità del prodotto, valido anche per atleti di livello su gare da ritmo medio o per distanze più corte.

©Alice Russolo

SUMMIT KOM - Con un nome così (KOM è l’acronimo di King Of The Mountain) corri incontrastato ovunque. Ed è proprio la versatilità quello che piace di questa scarpa, pensata per distanze medie ma che può trovare pane per i suoi denti anche su qualche trail più corto. Versatilità che, grazie a suola con mescola Vibram Megagrip e struttura della tomaia avvolgente, permette di spingersi più sul tecnico rispetto a Hierro. Il rockstop inoltre protegge sempre bene dalle asperità del terreno. «Sto iniziando a usarla in allenamento, è un po’ meno soft come impostazione, la vedrei per allenamenti e distanze lunghe ma più corte della Hierro, però il cushioning rimane un aspetto importante» dice Giulio. L’anno scorso era stata una delle sorprese della nostra Outdoor Guide e conferma quanto di buono emerso. Per chi e cosa? Distanze maratona-ultra, diciamo fino 70-80 chilometri, allenamenti intensivi, utilizzatori di medio livello o alto su ritmi medi. E anche in questo caso chi pesa un po’ di più è accontentato. L’impostazione è sicuramente meno voltata al comfort e apparentemente più rigida di Hierro, con un rebound energico e probabilmente durevole nel tempo dato dalla tecnologia RevLite usata per l’intersuola, ma l’ammortizzazione non manca. Come per le auto, c’è chi preferisce una molleggiata francese e chi una rigida tedesca e New Balance accontenta tutti, facendoli arrivare sani al traguardo.

GIULIO PIANA - Classe 1981, modenese, Giulio Piana ha 822 punti ITRA. Nel 2018 un secondo posto al Tartufo Trail e al Cima Tauffi Trail. In Palmarès le vittorie al Quadrifoglio, Amorotto, Cima Tauffi, un secondo posto alla Maremonta e alla UTLO e un diciottesimo alla CCC.

New Balance Fresh Foam Hierro v4

Peso: 324 gr
Drop: 8 mm
Suola: Vibram Megagrip
Prezzo: 140 euro

New Balance Summit KOM

Peso: 310 gr
Drop: 8 mm
Suola: Vibram Megagrip
Prezzo: 125 euro

©Alice Russolo

Volete provare il tracciato del MEHT?

Poco meno di due mesi alla seconda edizione dell’Hoka One One Monterosa EST Himalayan Trail, la MEHT per intenderci, in programma sabato 27 luglio. Il trail organizzato da Sport Pro-Motion piace sempre di più e sta riscuotendo un gran successo tra gli amanti della corsa in natura. Alle 6 di sabato 27 luglio, godendo del sole che all’alba illumina il Monte Rosa, saranno centinaia al via. Ad oggi gli iscritti sono già 230 con dieci nazionalità rappresentate.
Prima, però, la giornata da non perdere è sabato 8 giugno: un appuntamenti dove tutti i trail runner sono invitati per ‘assaggiare’ il MEHT 2019. Alle 14.30 verrà organizzato un allenamento collettivo denominato ‘Sulle tracce del MEHT’ lungo il percorso della nuova gara da 15 km. Saranno presenti Stefano Ruzza e Giulio Ornati. Ritrovo fissato alle ore 14 presso la Kongresshaus di Macugnaga (in località Staffa), con la possibilità di usufruire di uno spogliatoio con doccia dopo l’allenamento presso le piscine comunali a soli 100 metri dalla Kongresshaus.
Ma a luglio ci saranno, oltre alle 15 km, ci saranno altre distanze in programma: la 23K (con 1600 m D+), la 38K (con 2900m D+) e la 60K, con dislivello positivo di 4.500 metri, con il passaggio sulla diga di Mattmark/Saas Almagell e scollinamento al Passo del Monte Moro. Un percorso che si potrà affrontare anche a staffetta.


La via del confine pacifico

«I confini sono un catalogo di ipotesi. Ad esempio, più che demarcazioni lineari, sono passi, creste, frastagli, onde. Sono percorsi, tracce e sentieri. Prima che geografie, sono storie, racconti e immagini» Il pensiero di Gian Luca Favetto, scrittore e giornalista torinese, corrisponde con la mia idea di confine e da questa percezione mentale, che nasce da un dato fisico, ha inizio il nostro viaggio.

L’idea è semplice. Vorrei camminare lungo i versanti nord e sud delle Vette Feltrine, al margine della linea di confine che per quasi 400 anni ha diviso due Stati, la Repubblica di Venezia dal Tirolo: oggi confine tra due regioni, il Trentino e il Veneto, e le due province di Trento e Belluno. Un confine pacifico, che segue in gran parte il profilo di cime che superano i 2.000 metri che, a dispetto dell’idea di dividere, ha sempre unito le vallate. Le labbra del tempo raccontano di passaggi di pastori, contrabbandieri, cacciatori, viaggiatori e rivoltosi, in una mescolanza di commerci, lingue, matrimoni e idee. E non c’è viaggio che non attraversi un confine, dunque partiamo. Le Vette Feltrine sono il gruppo più meridionale delle Dolomiti, si trovano nella zona sud-occidentale della provincia di Belluno. A sud dominano la vallata Feltrina, a nord costituiscono una barriera naturale sulla Valle di Primiero e se non ci fosse la stretta gola dello Schenèr, ad unirla alla pianura veneta, anche la storia del Primiero sarebbe un’altra cosa.

Per tutto il Medioevo il Feltrino e il Primiero sono stati uniti sotto il controllo del vescovo conte di Feltre. Con il dominio dei Duchi d'Austria il Primiero venne consegnato nel 1401 ai Conti Welsperg. A sud, oltre la gola dello Schenèr, nel 1404 la storia di Feltre prende una piega diversa, in seguito alla sua spontanea consegna alla Serenissima Repubblica di Venezia, e il Feltrino diventa terra di confine. Il piccolo gruppo di amici che mi accompagna si è dato appuntamento a Feltre. Giacomo e Laura sono due local e in parte conoscono i luoghi che visiteremo. Giacomo fa la guida escursionistica ed è un fotografo naturalista, recentemente ha pubblicato un bel libro sulla fauna delle Dolomiti Bellunesi. Laura è fisioterapista, la sua passione è stare il più possibile all’aria aperta, meglio se in alta quota e in tutte le stagioni. Federico invece arriva da Torino e come fotografo di Skialper avrà il compito di raccontare con le immagini il nostro cammino.

Partiamo verso il Primiero. Arrivati a Pontét spiego che qui c’era la dogana tra l'Impero austro-ungarico e il Regno d'Italia e l’albergo accanto alla strada era l’ufficio doganale austriaco. Entriamo nella gola dello Schenèr, la strada sfiora la riva del lago e poco dopo esce in vista della conca di Primiero. Seguiamo il corso del torrente Cismón fino a una rotatoria con al centro una lontra gigante in ferro. Penso a come le rotatorie da semplici collinette siano diventate luoghi d’arte contemporanea, un luogo di libertà per sindaci, architetti e artisti. Qui giriamo a destra verso la Val Noana. La strada si stringe e divide il poco spazio disponibile con il torrente. Sale tortuosa dentro un profondo canyon, a tratti in galleria. Sopra la gola, sulla nostra destra, incombono i versanti settentrionali delle Vette Feltrine e alla sommità di essi corre il confine pacifico.

I giganti della Val Noana

Prima di giungere alla testata della valle giriamo a destra verso malga Val Stua di Sopra; ci fermiamo alla Casina forestale del Comune di Mezzano dove ci aspetta Silvano Doff Sotta. Quando si dice un nome e un destino, Silvano (ovvero l’uomo dei boschi o delle selve) ne è l’esempio. Da 39 anni è il custode forestale dei boschi del Comune di Mezzano e, come la maggior parte dei boschi trentini, anche questi sono di proprietà delle comunità locali che li amministrano da secoli tramite sistemi di regole. Chiediamo a Silvano di mostrarci qualcuno dei suoi gioielli: gli abeti giganti della Val Noana. Prima di raggiungere i grandi patriarchi della foresta, Silvano tira fuori alcune mappe e tabelle e ci mostra i segni adottati a indicare i confini comunali e le particelle forestali. In questo caso i confini sono al servizio delle comunità. «In questa foresta» ci dice «vivono numerosi alberi di grandi dimensioni, abeti, tassi e faggi, alti diverse decine di metri, che si sviluppano all'interno di boschi maestosi in tempi relativamente brevi. Ciò è dovuto al clima particolarmente favorevole e a una storia che non ha mai visto uno sfruttamento eccessivo». Potremmo rimanere tutta la giornata ad ascoltare Silvano parlare della ‘sua’ foresta, ma è ora di mettersi in cammino. La parte superiore della valle, dopo il lago, si divide in altri due bacini, da una parte il Rio Giasinozza e dall'altra il Rio Nèva che seguiremo fino al rifugio Boz. Il paesaggio si addolcisce e nella foresta si celano insospettabili oasi a prato e pascolo punteggiate di fienili, stalle e abitazioni temporanee.

©Federico Ravassard

Mamma, quando andiamo al mare?

Per raggiungere il rifugio Boz abbiamo ben tre possibilità: il sentiero 748 che passa per il Col San Piero, il sentiero 727 che coincide con la rotabile che termina a casera Nèva Seconda e la variante 727/A, nota anche come sentiero dei Pinteri (dei bottai), che risale la sinistra orografica del Rio Nèva. Conosco bene le tre vie di accesso e ogni opzione ha la sua attrattiva, dipende solo dal tempo a disposizione. Considerato che siamo un po’ ritardo e il sole picchia forte, propongo ai miei compagni di seguire la rotabile fino a casera Nèva Seconda dove potremmo conoscere i malghesi Ruggero e Linda. La strada s’inerpica decisa e in breve la foresta è alle nostre spalle. Dinanzi a noi ora abbiamo i dolci pascoli di Nèva e le pareti del Sass de Mura che sbucano dal verde della mugheta. È una giornata calda e afosa, il sudore inzuppa i vestiti e secca la gola. La mulattiera dopo un’ampia curva termina dinanzi casera Nèva Seconda (1.741 m) che molti chiamano ancora Nèva austriaca o tedesca, per distinguerla da Nèva italiana che sta poche centinaia di metri più in là, oltre il confine che per secoli ha diviso questi pascoli tra il Veneto e l’Austria. La casera è cinta da un filo elettrico per impedire al bestiame di avvicinarsi all’abitazione. Dentro il recinto due bambini giocano in una piccola piscina gonfiabile riempita con pochi centimetri d’acqua. Arriva a farci visita il cane pastore, due abbaiate stanche e poi si ritira al fresco sul pavimento in pietra. Linda ha 31 anni, cappelli cortissimi e biondi, è la mamma di Mirco e Anna i bambini che sgambettano nella piscina. Ci saluta con gentilezza e un bel sorriso, in mano ha il secchio per l’allattamento dei vitelli. Lei e suo marito Ruggero da cinque anni conducono questa malga che è di proprietà del Comune di Mezzano. Hanno in custodia 60 manze, 40 vacche con vitelli, 8 mucche da latte, 25 cavalli e 50 pecore. Da giugno a settembre questa è la loro casa. «Ogni anno, con due bambini piccoli, lasciare la nostra casa a Lamon per venire qui in montagna è sempre complicato» mi dice Linda. «Dobbiamo aspettare che Anna finisca la scuola e intanto trasferire quanto necessario per avviare l’alpeggio». Ruggero ha 42 anni, quando non è in malga fa il boscaiolo. «Qui io sono l’operaio e Linda è il capo. È lei la titolare del contratto di lavoro» mi dice sorridendo. «Ciò che amo di più di questo lavoro è il grande senso di libertà che mi dà vivere qui. Ogni giorno ci sono tantissime cose da fare, ma ci sono anche tanti piccoli momenti per noi e i bambini» e i suoi occhi corrono a cercare quelli di Linda. Federico con discrezione chiede se può scattare qualche foto dentro casa. La cosa pare non disturbarli. Ruggero ci accompagna perfino nel sottotetto dove c’è la loro camera da letto. Quello che vedo è commovente: in mezzo alla stanza ci sono tre letti e un lettino, tutti attaccati ‘vicini-vicini’. Sembra una favola, la notte in montagna stretti uno all’altro non fa più paura. Mirco ora è in braccio alla mamma che lo asciuga e gli cambia i vestiti fradici. Dico a Linda che i suoi figli sono due bambini fortunati e da adulti ricorderanno le estati qui in malga come uno dei momenti più belli della loro vita. «Anch’io penso questo, ma trovare il giusto equilibrio non è facile» mi dice Linda. «Qui non ci sono bambini e Anna, che ora ha 9 anni, spesso si sente sola. Qualche giorno fa è venuta a trovarla una sua amica, di ritorno dal mare. Alla sera Anna mi ha detto: mamma e noi quando andiamo al mare?».

Una moltitudine di lingue e nazioni

Prima di arrivare al rifugio Boz avverto i miei compagni che stiamo per attraversare il vecchio confine di Stato. Gli indico un cippo in pietra che ha inciso su un lato la V di Veneto e sul lato opposto la T di Tirolo. Dico che è uno degli undici segni posti nel 1782 per sanare una controversia confinaria fra l’Austria e la Repubblica di Venezia. La pretesa dell’Austria era di portare il confine sulle cime che fanno da spartiacque naturale, invece Venezia, carte alla mano, sosteneva che fin dal medioevo la conca di Nèva era feudo del Vescovo di Feltre. Il tutto si concluse con un compromesso politico. Venne individuata una linea artificiale, indicata da cippi in pietra e da segni scolpiti nelle rocce. La prima ad accorgersi del nostro arrivo è Neva, il border collie di Daniele e Ginetta. La stagione è appena iniziata e non ci sono molti escursionisti in giro, anche se le prenotazioni non mancano. «Da quando l’Unesco ha riconosciuto le Dolomiti Patrimonio dell’Umanità, abbiamo visto crescere il passaggio di stranieri un po’ da tutto il mondo: israeliani non mancano mai, ma spesso sono coreani, neozelandesi, canadesi, americani e anche brasiliani. Arrivano dopo giorni di cammino lungo l’Alta Via n. 2 o l’Alta Via Europa 2 che parte da Innsbruck» mi dice Daniele. «Invece sono calati gli italiani e i tedeschi che avevano hanno fatto la fortuna delle alte vie» Considero questo aspetto cosmopolita del rifugio come un fatto interessante, ma anche una stranezza della globalizzazione: luoghi rimasti per secoli al margine diventano improvvisamente centro, ma rimangono sempre terra di confine per le lingue che si parlano. Ginetta ritorna in cucina a preparare l’impasto per le torte. «Con il cambiamento climatico è cambiata anche la vita qui al rifugio» mi dice. «Le stagioni si sono allungate e siamo spesso aperti anche fuori stagione» Da 35 anni lei e suo marito gestiscono il Boz, nato nel 1970 come bivacco. «Chi è cambiato sono le persone che arrivano qui. Un tempo il rifugio era un punto di partenza verso altri luoghi, per escursioni o arrampicate, ora è un punto di arrivo, soprattutto per mangiare. Così dai semplici piatti dei primi anni siamo passati a una cucina più ricca, che richiede però maggior impegno».

©Federico Ravassard

I contrabbandieri del Passo Finestra

Meno di mezz’ora di cammino separa il Passo Finestra dal rifugio Boz. In prossimità del passo invito i miei compagni a seguirmi in una breve deviazione. Pochi metri e siamo dinanzi al vecchio passo: el ‘bus de finestra’, com’era chiamato questo stretto intaglio tra due pareti di roccia. Racconto che qui è passata la storia dei rapporti tra montanari di diverse vallate. C'erano i pastori che conducevano gli armenti al pascolo. Ma anche i contrabbandieri, in particolare di tabacco, che entravano di nascosto nel territorio della Repubblica di Venezia carichi di merce acquistata a prezzi più bassi in Tirolo. Un passaggio difficilmente controllabile, dove le milizie arrivavano raramente. Mentre racconto la storia di questi luoghi veniamo raggiunti dai primi raggi del sole e anche le pareti di Dolomia del Sass de Mura si accendono dei colori del mattino. Il percorso che ci attende oggi è abbastanza lungo e articolato, almeno sei ore di cammino. Non ci sono grandi dislivelli da superare, tuttavia la fatica a fine giornata si farà sentire. Per raggiungere il rifugio Dal Piaz cammineremo sulla via aperta dai militari italiani negli anni 1916-17, quando costruirono la Linea Gialla, la linea arretrata di fortificazioni, baluardo in caso di sfondamento della prima linea. Mentre cammino osservo il sentiero ben scavato nella roccia, tagliare il ripido pendio con regolarità, avvicinarsi ove possibile alla linea di cresta per ispezionare le valli nemiche. Rimango sempre affascinato dall’abilità del genio militare nel costruire sentieri e mulattiere che da cent’anni facilitano le nostre escursioni. In prossimità della salita al Sasso Scàrnia il sentiero si restringe in un’esile cresta, sospesa sull’abisso sopra la Val Noana e la Val Canzói. Poi s’impenna, prosegue sullo spigolo roccioso inciso da alcuni gradini. È un punto davvero suggestivo e Federico scatta in avanti a fotografare. La salita termina sulla spalla sotto la cima del Sasso Scàrnia. Il panorama è qualcosa di grandioso e selvaggio. Montagne conosciute e sconosciute, luoghi lontani e vicini. La percezione è di una natura selvaggia ma umana. La vita selvatica che ci ha fatto da preludio sopravvive con noi. Laura, agile e veloce, ci precede nella discesa lungo la balza inclinata di rocce che ci riporta tra i mughi. Dalla Busa de Ramézza fino al Passo Piétena cammineremo dentro la Riserva Integrale: un’area che racchiude i più elevati valori biologici e merita la massima tutela. Non a caso queste montagne dal 1990 sono una delle perle del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi. Un breve tratto sul versante nord e all’improvviso ci appare la misteriosa Piaza del Diàol. Non è facile capire cosa sia successo. È un pendio disseminato di macigni e sfasciumi rocciosi, con al centro una ‘piazza’ erbosa sgombera da massi che la tradizione vuole sia un luogo di convegno di streghe. Ora anche Giacomo si è messo a fotografare, la sua attenzione è soprattutto rivolta alla fauna. Un branco di giovani mufloni con le madri ci ha appena tagliato la strada. Giunti sul Passo Piétena abbiamo davanti a noi alcuni dei circhi glaciali più spettacolari delle Vétte, veri giardini botanici dove le specie più delicate hanno trovato un rifugio. Nel fondo di queste buse si aprono vasti pianori d'alta quota interrotti da fenditure e avvallamenti di natura carsica, circondati da bianchissimi ghiaioni. Indico ai miei compagni un accumulo di pietre poco lontano da noi. «Da lì, il 29 settembre 1944, il partigiano Paride Brunetti ‘Bruno’, con l’unica mitragliatrice a disposizione, cercò di arrestare l’avanzata dei tedeschi che erano qui per un rastrellamento. Insieme al comandante Bruno c’era anche un altro personaggio leggendario, il maggiore Bill Tilman, un ufficiale inglese inviato dagli alleati per sostenere le formazioni partigiane. Tilman all’epoca era un alpinista famoso, aveva salito il Nanda Devi (7.816 m) senza ossigeno, la cima più alta, fino ad allora, raggiunta dall’uomo».

La focaccia di Mirco ed Erika

La mulattiera sale dolcemente verso l’ultimo passo di questa lunga traversata: il Passo Vette Grandi. Pochi metri più in basso ed ecco il rifugio Dal Piàz, l’ultimo anche per chi percorre l’Alta Via delle Dolomiti n. 2. Il sogno di Mirco ed Erika era di aprire un agriturismo, poi è arrivata l’occasione di gestire un rifugio e sono qui da quattro anni. «Siamo soddisfatti della nostra scelta e vogliamo continuare, però la carenza d’acqua molte volte mette a dura prova il nostro coraggio» mi dice Erika. La natura carsica delle Vette non aiuta il rifugio Dal Piaz e l’acqua spesso non basta nemmeno per la cucina. Marito e moglie ogni giorno, a turno, scendono a valle. Mille metri in discesa e il giorno dopo altrettanti in salita. Scendono per stare, almeno alla sera, con le loro bambine e liberare un po’ le nonne dall’impegno. «Ho provato a tenerle qui, ma sono ancora troppo piccole» mi dice Erika. Intanto sul tavolo del rifugio è arrivata la specialità di Mirco: la focaccia Dal Piaz. Nessuno si aspetterebbe di trovare qui questa bontà. Mirco ci racconta che volevano creare una pietanza per caratterizzare il rifugio. Con sua moglie ha seguito un corso di pizzaiolo ed è nata la focaccia: un impasto da lasciare lievitare tre giorni, non rotonda come una pizza ma di forma allungata, da mangiare in più persone su un unico tagliere. Come a condividere le fatiche della montagna e i piaceri della gola.

©Federico Ravassard

Il Pavióne, la più bella piramide erbosa delle Dolomiti

«Il mattino ha l'oro in bocca» ci dice Mirco mentre ci prepariamo a lasciare il rifugio. Federico mi chiede cosa significa. «Intende dire che è meglio sfruttare le ore del mattino per realizzare i nostri progetti. D’estate qui sulle Vette il forte riscaldamento dell’aria alle basse quote produce sovente nebbie che avvolgono per molte ore le cime, quindi è meglio muoversi!». Le nebbie non ci hanno ancora raggiunto, le vediamo avanzare e ritirarsi sotto di noi mentre camminiamo sui crinali erbosi che ci portano verso il Pavióne. Sono verdi e lunghissimi crinali che collegano cime arrotondate e smussate dal tempo, lo sguardo può spaziare su entrambi i versanti e seguire il sottile filo che unisce le cime. Percorrere la creste del Coston delle Vette Grandi e del Col di Luna è un’esperienza indimenticabile. La vetta del Pavióne, il punto più altro del nostro cammino, ci appare all’improvviso. Non c’è più nulla da salire solo un orizzonte sconfinato di cime da osservare, un panorama a 360° che ci lascia incantati. Lo spettacolo delle Pale di San Martino, dei Lagorai, il reticolo dei paesi del Primiero, le Dolomiti Agordine e Bellunesi, i monti dell’Alpago, la Val Belluna, l'altopiano dei Setti Comuni,le Prealpi e più lontano il luccichio della laguna di Venezia. Rimaniamo alcuni minuti in silenzio, sdraiati sui prati ancora umidi di rugiada, con lo sguardo nel cielo a incrociare le traiettorie dei rondoni alpini.

La discesa a valle

Dalla vetta scendiamo verso il Passo Pavióne, all’estremità occidentale delle Vette. Il nostro cammino ora prosegue a nord verso l’Alpe Vederna. Scendiamo lungo delle balze rocciose fino a incontrare il bosco di abeti e larici. Il sentiero sistemato di recente ci dice che abbiamo superato il confine regionale. Da malga Agneròla non seguiamo la strada forestale ma il sentiero nel bosco, più diretto, che termina proprio al rifugio Vederna. Una sosta veloce al rifugio, appena il tempo per bere qualcosa e far conoscenza con i gestori Roberto e Mirella. La strada è ancora lunga. Giriamo ad est verso il Piàn Grant, la zona pianeggiante dell'Alpe Vederna, da sempre un'importante fonte di fieno per la popolazione di Imèr. Ora ci attendono un paio di ore di cammino lungo la strada forestale che taglia tutti i versanti settentrionali delle Vette e che ci riporta al punto di partenza. Ritroviamo i profumi di resina e di terra umida, le erbe rigogliose del sottobosco e infine gli abeti giganti di Silvano. Vedo che ognuno di noi, di tanto in tanto, alza lo sguardo oltre le chiome degli abeti, verso le cime, come a cercare l’indefinito confine. Siamo fatti di confini, bisogna solo farli stare bene dentro di noi.

La via del confine pacifico fa parte dell'Altavia delle Dolomiti Bellunesi

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 113: INFO QUI

©Federico Ravassard

Valle Intrasca a Giulio Ornati e Riccardo Borgialli

251 coppie al via della Valle Intrasca, 89 alla Mezza Valle Intrasca: il caldo era tanto, e la crisi era dietro l’angolo ma gli atleti sono stati letteralmente trascinanti all’arrivo da un pubblico straripante, soprattutto nei punti più panoramici del percorso.
Se la sono goduta fino in fondo: Giulio Ornati e Riccardo Borgialli hanno dominato la quarantacinquesima edizione della Valle Intrasca percorrendo i 33,750 km per 1.625 metri di dislivello in 2h50’50”; una volta arrivati, sono tornati sui loro passi per dare il cinque a tutto il pubblico assiepato lungo l’arrivo, un bel modo per ringraziare l’accoglienza che piazza Ranzoni, sede di arrivo, ha riservato loro.
Seconda posizione per Stefano Trisconi e Saverio Ottolini (3h18’08”) molto soddisfatti al traguardo, mentre la terza piazza è andata alla coppia che forse è stata la vera sorpresa della giornata: Fabrizio Zeffiretti e Andrea Marchetto (3h21’04”).
Sara Rapezzi si è ripetuta: lo scorso anno prima con la gemella Fabiana, nel 2019 prima nelle coppie miste con Stefano Masciadri: 3h47’18” il tempo della coppia lombarda, che staccato Alice Pedroni e Filippo Cambiaggio di 6’02”, mentre terzi sono arrivati Lino e Ylenia Polti.
La gara femminile ha visto Monica Moia e Simona Lo Cane letteralmente scatenate; la coppia seconda nel 2018 ha vinto in 4h04’46”, precedendo Francesca Ferrari e Romina Caretti (4h18’56”) e Giulia Torresi e Elisabetta Bendotti (4h15’43”).
Erano tra i favoriti della Mezza e non hanno deluso le attese: Alessandro Turroni e Marco Giudici si sono aggiudicati la vittoria in 1h14’08”. Al femminile vittoria, con grandi festeggiamenti, per Chiara Cerlini e Marilena Fall, prime in 1h38’18”, mentre nelle coppie miste ha primeggiato il duo formatosi nelle ultime ore prima della gara e composto da Chiara Iulita e Mauro Bernardini.