Il comprensorio sciistico senza impianti

Tra le poco più di mille anime di Kremmling, a 125 miglia da Denver, i cappelli con scritto Trump 2020 sono più popolari dei caschi da sci. Eppure a mezz’ora da questo sonnolento villaggio del West, lungo la strada per Steambot Springs, nel bel mezzo di una steppa fangosa, lo scorso dicembre ha aperto quella che potrebbe diventare una pietra miliare nell’evoluzione di un’industria multi-milionaria, come ha scritto Simon Usborne sul Financial Times. L’idea è semplice da immaginare quanto complicata da mettere in pratica: la prima località sciistica human powered o, come preferisce definirla Erik Lambert, co-fondatore di Bluebird Backountry con Jeff Woodward, a backcountry light ski area, un comprensorio sciistico per avvicinarsi allo scialpinismo. Bluebird Backountry ha aperto i battenti per due settimane di test nella scorsa primavera, a febbraio e marzo, al Whiteley Peak, nel Peak Ranch, e dopo un migliaio di skipass venduti, per il 40 per cento a persone che non avevano mai messo le pelli sotto i piedi, ha affrontato la sua prima, vera, stagione sciistica. Sempre su una proprietà privata, all’interno dello stesso enorme ranch, ma in un’area leggermente diversa da quella del marzo scorso, sulla Bear Mountain. 

Poco meno di 400 metri di dislivello, cinque chilometri quadrati, il 15 per cento di discese verdi, il 35 per cento di blu, il 40 per cento di nere e il 10 percento di double black diamond (che nelle località sciistiche americane sono paragonabili alle nostre nere, visto che nella classificazione manca il colore rosso). L’unica differenza rispetto a un tradizionale ski resort è che non ci sono seggiovie o telecabine, ma sette tracce di salita con le pelli. E che il terreno è completamente naturale, nessun albero è stato abbattuto per fare spazio alle discese. Per il resto è tutto molto simile: un parcheggio, dove dal giovedì alla domenica è consentito dormire sul proprio van, un base lodge ospitato in una calda tensostruttura, il noleggio dell’attrezzatura, il posto di primo soccorso, i bagni (chimici), un food truck e dei barbecue all’aperto. Non manca una mid mountain warming hut, una specie di baita con bagni chimici, barbecue, posto di primo soccorso e ski patrol lungo le discese. Oltre all’area inbound, messa in sicurezza, ci sono altri 12 chilometri quadrati ai quali si può accedere solo accompagnati da una Guida. Bluebird sta per chiudere la sua stagione e in pochi giorni, prima dell’apertura, sono stati venduti 500 skipass stagionali. Lo stagionale, in pre-vendita a 299 dollari (successivamente 350) garantisce l’accesso sempre, mentre il giornaliero, che costa 50 dollari, richiede la prenotazione.

© Bluebird Backountry

Bluebird sembra l’asso nella manica nell’inverno del distanziamento perché prevede la presenza massima di 200 persone e si passa la maggior parte del tempo all’aperto, ma l’idea è nata molto prima della pandemia. Erik e Jeff, rispettivamente 37 e 38 anni, si sono conosciuti al Darthmouth College. Nel 2018 lanciano un’indagine online, alla quale rispondono 3.000 sciatori, poi degli eventi per testare il concetto, per un totale di 6 giornate, anche all’interno di alcuni comprensori sciistici, come Winter Park. A gennaio 2020 Erik e Jeff raccolgono più di 100.000 dollari con una campagna su Kickstarter, il 330 per cento dell’obiettivo che si erano prefissati, e la scorsa primavera ecco l’esperimento delle due settimane al Whiteley Peak. «Impariamo dall’esperienza, da un giorno all’altro abbiamo cambiato anche 15-20 protocolli, per esempio ora le tracce di salita sono doppie, perché la gente vuole parlare mentre sale, ma la prima sfida se vuoi creare una località sciistica, anche quelle con gli impianti, è trovare un bel posto con il terreno giusto e tanta neve, vicino al tuo pubblico potenziale, ed è un lavoro enorme - dice Erik – Così l’anno scorso eravamo al Peak Ranch per capire se i pendii e la neve fossero quelli giusti per la nostra clientela».

Oltre al distanziamento naturale c’è un altro motivo per il quale il concept di Bluebird Backountry è tremendamente attuale in un inverno nel quale non pochi sono passati dalle piste al mondo del fuori. «Vediamo che c'è molta differenza ad avvicinarsi allo scialpinismo in modo soft, come permettiamo qui, oppure in maniera più tradizionale. Nel secondo caso, se le persone non hanno un mentore, un amico esperto con il quale iniziare, si trovano a dover scegliere tra un corso costoso che dura quattro giorni e che li spaventa o evitarlo e andare direttamente in montagna e non è un bene. Quello che abbiamo cercato di creare è uno spazio dove le persone si sentano benvenute e possano avvicinarsi allo scialpinismo sviluppando abilità e abitudini, dai materiali, alla progressione, alle inversioni, sostanzialmente imparare ad affrontare la montagna aperta». Così, accanto al comprensorio inbound, Bluebird offre due tipi di corsi, le lezioni di backcountry, suddivise in tre livelli, che durano mezza giornata o una giornata e costano 69 o 79 dollari, e i corsi di sicurezza e autosoccorso certificati AIARE (The American Institute for Avalanche Research and Education), suddivisi in tre livelli, con moduli di uno o tre giorni. Nel corso base di backcountry si imparano a conoscere i materiali, le pelli e la tecnica ed è rivolto a chi non ha mai fatto skialp, mentre il livello due è per chi ha già praticato e si concentra sul miglioramento della tecnica di salita e discesa e i rimedi per i problemi ai materiali. Infine il livello tre riguarda la programmazione della gita e l’osservazione della montagna ed è la porta d’entrata ai corsi sulla sicurezza. Rivolgendosi prevalentemente a chi si vuole avvicinare allo scialpinismo, Bluebird Backountry propone anche il noleggio di sci, scarponi, splitboard e dell’attrezzatura di sicurezza ed esiste uno skipass giornaliero comprensivo di noleggio e corso base che costa 199 dollari, mentre per esperienze nella natura che circonda il compren- sorio si può acquistare il pacchetto che prevede la presenza di una Guida per tutta la giornata, al costo di 950 dollari e da dividere fino a sei persone.

Bluebird è un’idea che viene da lontano ed è solo all’inizio della sua parabola. Nella testa di Erik ci sono già tante idee, non solo a misura di beginner. «Il nostro progetto a lungo termine è di creare un comprensorio interessante come quello delle migliori stazioni sciistiche, ma interamente human powered, e questo significa terreno ampio e vario, tanta neve, insomma un resort dove le persone possano migliorare la loro tecnica e la loro educazione allo scialpinismo, ma anche per gli scialpinisti con più esperienza che cercano una montagna meno selvaggia dove divertirsi». Forse non sarà il futuro su larga scala dell’industria multi-milionaria dello sci di massa, ma, come ha scritto Usborne, potrebbe effettivamente essere una pietra miliare, che indica la strada. Però, come ogni curva nella neve fresca è diversa e ogni otto non perfettamente sovrapponibile, anche Bluebird Backcountry non è un concetto così facilmente replicabile. Erik ne è convinto. «È un progetto che nasce dalla passione, sappiamo quanto è difficile trovare il giusto terreno; c’è ancora tanto lavoro, ma andiamo avanti perché abbiamo avuto segnali incoraggianti. C’è il rischio che una società più grande di noi copi il concetto che stiamo sviluppando anno dopo anno, magari una località sciistica? Ovviamente sì, ma i resort si concentrano su quello che sanno fare meglio, cioè gestire impianti per portare tanta gente sulle montagne, invece noi cerchiamo di creare un’esperienza unica, esclusiva. Immagina di non essere mai andato a sciare e di arrivare da solo in un comprensorio sciistico, senza amici, in un enorme parcheggio. Gli scarponi devi metterli prima di salire sul minibus che porta agli impianti o dopo? Poi arrivi al lodge e cosa devi fare? Come funziona l’attrezzatura? E gli impianti? Non c’è nessuno che ti aiuti a meno di spendere tanti soldi per prendere una lezione. Noi cerchiamo di creare un’esperienza amichevole perché ci mettiamo tanta attenzione e passione. Fondamentalmente vogliamo creare un ambiente completamente diverso». Stay hungry, stay foolish… stay backcountry.

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© Bluebird Backcountry

Rimbocchiamoci le maniche

Mia figlia pratica ginnastica ritmica a livello agonistico da dieci anni eppure, per qualche anno, il suo voto in ginnastica è stato un sei secco. Nella corsa è lenta, nel salto in lungo atterra corta. Le motivazioni erano le più svariate, peraltro comprensibili. Non mi piace parlare di me o della mia famiglia e, per principio, sono il tipo di genitore che, ancora oggi che si dà del tu al professore, considera a priori la ragione dalla parte di chi insegna. Però credo che questo esempio sia lo specchio del fallimento della scuola italiana, che emerge prepotentemente dopo un anno di pandemia. Un’estate e un inverno che hanno visto la riscoperta della montagna aperta hanno messo in luce i limiti di un sistema educativo che non sa (o non vuole) guardare oltre il compitino. In montagna sono arrivati ragazzi che non sanno camminare mi hanno detto senza troppi giri di parole alcune Guide alpine attive nel soccorso alpino. C’è chi fa fatica a fare un paio di scale, chi va giù secco di tallone sulla neve ghiacciata e vola, chi arriva sul cucuzzolo con le infradito.

Manca cultura dello sport e dell’attività fisica, manca ancora di più cultura dell’ambiente. Arrivano senza scarpe e abbigliamento adatto, quando il sole è già alto, e chiedono qual è il sentiero per andare su vette che richiedono tempo, preparazione e tecnica dicono i soccorritori. Oppure sono vestiti per una spedizione himalayana ma la meta è la baita poco oltre le piste di sci chiuse. Naturalmente è un’iperbole, ma dà il senso della realtà. È capitato anche a me. A febbraio, mentre partivo per un giro con sci e pelli, vedo due ragazzi, uno con la splitboard e uno attrezzato di tutto punto, con scarponi e sci top di gamma. Ci chiedono dove si può andare a fare una gita perché erano diretti da un’altra parte, fidandosi di una guida degli itinerari, ma un’ordinanza comunale vietava scialpinismo e fuoripista per rischio valanghe. Quel giorno la scala del pericolo era al livello 3. I due si accodano e, parlando, capisco che non hanno mai messo il naso fuori dalle piste e che il corso con la Guida lo faranno solo più avanti. Arriviamo a una cresta, bisogna mettere gli sci sullo zaino, ma lo zaino non ha il portasci…

Per fortuna le condizioni favorevoli e le piste di sci chiuse, che hanno attirato la maggior parte dei nuovi arrivati, hanno reso l’inverno meno problematico dell’estate, ma il punto è un altro: una società immersa nel mondo virtuale si trova ad avere sempre meno legami con l’ambiente del quale noi tutti facciamo parte e di cui dovremmo conoscere le regole. E la scuola, prigioniera di schemi novecenteschi, burocrazia e politichese, fa poco per educare all’ambiente e allo sport. Quel poco al posto del nulla è giustificato dall’intelligenza e dall’impegno di tanti professori e dirigenti, ma è il sistema che ha fallito perché non garantisce uno standard. Due anni fa mia figlia è arrivata terza ai campionati italiani del suo circuito e l’istituto dove studia (non lo stesso dove prendeva sei) le ha fatto i complimenti sul sito web. Ma quanti meriti di quella medaglia sono della scuola italiana e quanti della passione e dedizione dei ragazzi e delle famiglie o dei singoli professori? Un sistema educativo che crede nei valori dello sport per la formazione dei cittadini dovrebbe dare a priori un voto in più a chi lo pratica tutti i giorni a livello agonistico. O no?

La scuola è lo specchio del futuro di un Paese e per riparare i danni di decenni di immobilismo ci vorrà tempo, quindi meglio iniziare a rimboccarci tutti le maniche e dare il nostro contributo per creare una cultura dell’attività fisica all’aria aperta. «Attraverso i nostri canali digital e social non vogliamo solo promuovere le novità di prodotto delle maggiori aziende dell’outdoor, ma anche diffondere la cultura dell’attività sportiva e ricreativa a contatto con la natura, immaginando la possibilità di grandi campagne a tema dirette a stimolare nel pubblico e anche nelle istituzioni una sempre maggior consapevolezza sull’importanza del rapporto uomo-natura, come uno dei presupposti fondamentali per il benessere e la crescita sociale». A parlare è Vittorio Forato, responsabile per la comunicazione di Italian Outdoor Group, l’associazione che nell’ambito di Assosport raccoglie i più importanti marchi italiani dell’outdoor. Avanti così, tutti. Perché chi lotta può perdere, chi non lotta ha già perso.


Il Villaggio degli Alpinisti a due passi dal Sellaronda

Sono fortunato, molto fortunato. Vivere in Alta Badia, per chi ama lo sci, l’arrampicata e le Dolomiti, è il massimo. Certo, sono tante le valli e i paesi che mi piacciono e dove ho trascorso molto tempo, dalla Val di Zoldo alla Conca Ampezzana, dalla Val di Fassa alla Val Gardena e ogni posto ha qualcosa di speciale e delle montagne uniche. Ma qui si è proprio al centro di tutto. Il centro di un territorio incredibile dove è facile muoversi attraverso i passi e raggiungere le valli vicine. In inverno l’esteso sistema di impianti e collegamenti consente di spostarsi facilmente alla ricerca della neve migliore, raggiungendo in breve la Marmolada, il Sella, la zona del Lagazuoi e tante altre aree limitrofe con una scelta di itinerari senza paragoni. Avete presente la comodità di partire da casa a piedi, utilizzare gli impianti e poi le pelli per sciare lungo qualche canale sul Sella e a fine giornata rientrare percorrendo una Val Mezdì o Val Setus al tra- monto? E con rientrare intendo proprio fare l’ultima curva sulla soglia del garage! 

Ok, qualcuno potrebbe dire: certo, ma c’è tanta gente, confusione, non vorresti più pace e tranquillità? In effetti in alta stagione il Sellaronda attira tanti sciatori da tutto il mondo e, se si vogliono utilizzare gli impianti, si deve sempre fare i conti con la popolarità del comprensorio. Per fortuna però la Val Badia si trova tra due grandi parchi naturali, il parco di Fanes - Sennes - Braies ad Est e il Parco Puez - Odle a Nord-Ovest. Queste due grandi aree naturali e sistemi Unesco sono un vero paradiso per lo scialpinismo e per allontanarsi dalla confusione. La zona di Fanes è molto apprezzata e conosciuta anche a livello internazionale, offre tanti itinerari prevalentemente di stampo classico e, grazie ai suoi comodi rifugi in quo- ta, è ideale per le traversate di più giorni. Per esempio quella di Fanes - Sennes - Braies che dalla Val Badia arriva al famoso lago di Braies e che è diventata ormai una grande classica dello scialpinismo in Dolomiti. Ma è del Puez che vorrei parlarvi e in particolare della valle di Longiarù, in ladino Val da Lungiarù. Questo è un posto speciale ed è qui che mi piace andare per trovare la tranquillità vicino a casa. Il parco Puez - Odle non ha rifugi aperti in quota come Fanes e le gite si effettuano in giornata dalle valli. Se gli accessi dal versante della Val Gardena e dall’Alta Badia sono facilitati dagli impianti, che permettono di alzarsi in quota verso i confini del parco, sugli altri versanti le gite iniziano dal fondovalle o al più da qualche strada che sale alle numerose e caratteristiche frazioni. La valle di Longiarù, in particolare, è quella che offre il maggior numero di itinerari e si presta molto bene a un soggiorno scialpinistico di qualità. Qualità nel soggiorno, perché i ritmi e l’atmosfera sono quelli di un turismo più lento e rilassato, ma soprattutto qualità nella varietà dello sci, perché qui, oltre alle gite facili nel bosco e su terreno aperto, sono tanti i canali dolomitici e gli itinerari di stampo più moderno. Non per niente Longiarù è stato riconosciuto come Villaggio dell’alpinismo. 

© Francesco Tremolada

Ma cosa significa? I Villaggi dell’alpinismo sono un’iniziativa dei Club Alpini e nascono da un progetto del Club Alpino austriaco. Più precisamente «le località riunite nell’iniziativa Villaggi dell’alpinismo sono pioniere dell’alpinismo nelle loro regioni. Per questo motivo le montagne e l’alpinismo hanno un grande valore nell’immaginario culturale dei nativi del posto e dei loro ospiti. Qui la consapevolezza dell’armonia necessaria tra la natura e l’uomo è ancora viva e si manifesta nel rispetto dei confini naturali».  Per essere inseriti nella lista, i comuni devono rispettare criteri rigorosi, impegnandosi nell’attuazione del protocollo della Convenzione delle Alpi (un documento stipulato tra gli otto Stati alpini e l’Unione Europea, che ha come fine lo sviluppo sostenibile e la tutela delle Alpi). Una filosofia che va oltre il semplice marketing turistico, ma spazia a 360 gradi dall’edilizia alla mobilità, ai trasporti, all’agricoltura, alla tutela del paesaggio e della cultura locale. E al centro di tutto c’è l’attività outdoor, estiva e invernale, nel rispetto della natura. Vi invito a leggere e approfondire, perché credo che sia veramente la filosofia a cui bisognerebbe puntare in tante località, soprattutto in funzione dei cambiamenti climatici. Non che io sia contrario agli impianti di risalita, anzi, li uso per piacere e per lavoro e sono sicuramente la miglior risorsa del turismo invernale per gran parte delle Alpi. Ma ha senso costruirne ancora in zone dove non ce ne sono? Capisco l’aggiornamento e miglioramento di quelli esistenti, nei comprensori che funzionano, ma non è meglio in tante valli puntare su un turismo diverso, più sostenibile, visto che gli esempi di successo non mancano? Siamo solo scialpinisti, alpinisti, escursionisti, non sta a noi decidere, ma alla fine è la domanda che crea l’offerta. Se privilegiamo luoghi come Longiarù o la Valle Maira o una delle altre località che puntano a sviluppare un turismo diverso, contribuiamo a segnare la strada verso il futuro. Vi sembra qualcosa di irrealizzabile? Forse, ma vi sareste mai aspettati un mondo così diverso, e in così poco tempo, a causa di una pandemia? 

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© Francesco Tremolada

Alpi selvagge

Ventitré anni fa usciva per la BLV Verlag di Monaco un libretto polemico intitolato Berg Heil. Heile Berge? Rettet die Alpen di Reinhold Messner. Venne pubblicato in Italia quattro anni dopo, per la Bollati Boringhieri di Torino, col titolo Salvate le Alpi. Erano anni intellettualmente vivaci in cui si iniziava a raccogliere le idee per delle Alpi nuove: ci si avvicinava alla Convenzione europea del Paesaggio, e si iniziava finalmente a capire che forse era il caso di lasciarsi alle spalle i vecchi modelli turistici novecenteschi, insieme al secolo che stava per finire. Insomma, stava nascendo quel gruppo di dieci, forse quindici intellettuali che dicevano le cose che ripetiamo ancora noi oggi. Erano storici, antropologi, climatologi e così via, per lo più torinesi, che da lì a dieci anni si sarebbero ritrovati uno a fianco all’altro tra le pagine del periodico Dislivelli. 

Tutto questo però avveniva lontano dalle pareti, dalle falesie, dai canali ghiacciati, dai sentieri. Sì, in mezzo a loro c’erano anche alpinisti, ma restava un mondo per qualche ragione troppo alto e inaccessibile, soprattutto per quei nuovi frequentatori che iniziavano a gironzolare tra le montagne: dei ragazzi che vestivano largo, che portavano il cappellino da baseball al contrario, che parlavano una lingua di strada, e soprattutto che non ascoltavano il Coro della SAT. Poi anche i ragazzini sono cresciuti, le informazioni sono diventate più accessibili e, soprattutto, il mondo ha iniziato ad andare sempre più convinta- mente in una direzione diversa. Il risultato è che le cose che dicevano vent’anni fa quei dieci o quindici illuminati, oggi sono nella bocca di un sacco di persone, di qualsiasi target. Talvolta per sentito dire, talvolta consapevolmente, talvolta fintamente. Fatto sta che ormai c’è tanta gente che ne parla e, per quanta potesse essercene al tempo, oggi ce n’è dieci volte di più: basta impianti, basta infrastrutture, basta sfruttamento del paesaggio, basta commercializzazione dell’outdoor, ma cura per le zone abbandonate, per un’economia lenta, per un turismo di prossimità, colto, consapevole e così via. 

Però nessuno aveva ancora fatto il grande salto. Perché il problema di tutta questa roba qua è che è tutto fuori che semplice, e ci sembra un grande salto nel vuoto. Come tutti i cambiamenti. E sembra un salto nel vuoto soprattutto per quelli che di questa roba ci devono campare. E sebbene esista un turismo nuovo, ed esista un outdoor nuovo, sebbene ci sia in realtà già tutto un sistema capace di rendere le Alpi un luogo più inclusivo, sebbene tutta questa roba qua esista, e abbia dimostrato di funzionare, non viene ancora vista come un’alternativa con la A maiuscola. Poi però quest’anno è successo qualcosa. Ed è successo che tutto quel sistema, vecchio, superato, supportato artificialmente con fondi pubblici, è stato spazzato via da una cosa che nessuno si era immaginato. E che non solo ha spazzato via tutta quella roba là, ma è come se ci avesse puntato il dito sopra per dirci: vedete? Di tutte queste cose fareste bene a dimenticarvene. 

Come tutte le crisi, questa ha colpito soprattutto i settori che stavano in piedi non si sa bene come, i castelli di sabbia. Però ha accelerato dei cambiamenti che erano comunque già in atto. E così facendo, quasi senza volerlo, ci ha creato su misura quell’inverno che fino ad ora avevamo soltanto letto nei libri, e che sognavamo da tempo; vale a dire senza quel turismo mangia e bevi, fatto di trenini rossi, di impianti, di piste, e di après-ski, che portano soldi, ma ne portano via di più. Il problema è che rimarranno indietro anche un mucchio di persone, ma questo succede con tutte le crisi. Per questa ragione non basta starcene a guardare quel mondo crollare, ma dovremmo anche iniziare a dare fiducia alle alternative di cui si parlava prima. E questo lo dovremmo fare prima di tutto noi come frequentatori. Insomma, abbiamo l’opportunità di rivedere le nostre priorità, di lasciarci alle spalle tutte le inutili sovrastrutture di cui ci eravamo circondati e soprattutto di avere delle Alpi spoglie e selvagge come non lo erano più da un secolo. 

Abbiamo avuto un’estate senza gare, che ci ha ricordato la ragione per cui corriamo e per cui andiamo in montagna. E che ci ha riportato a una dimensione originaria della corsa, senza gonfiabili e premi finisher. Le Alpi di questa stagione invernale sono Alpi selvagge, siamolo noi altrettanto. 

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Yannick Boissenot, dentro l’azione

Fotografia. Catene montuose. Montagna. Fotografia in montagna. Un legame spesso forte, ampiamente sviscerato, analizzato e sempre in continua evoluzione. A volte ci si trova in montagna per un’ascensione o una discesa e si documenta la giornata con scatti più o meno numerosi, cellulare di ultima generazione o reflex digitale. Obiettivi, inquadrature, filtri. Trofeo effimero di un ricordo o ricerca dell’attimo perfetto.

Fin dalle prime immagini della fine del XIX secolo, popolate di personaggi che affrontavano salite e ghiacciai con abbigliamento e attrezzature che ora paiono rudimentali, fu chiaro che si apriva un mondo grazie alla possibilità di riprodurre fedelmente quegli ambienti di sublime bellezza e le persone che vi si muovevano. In ambiente alpino, tanto più durante le attività che si possono praticare in quota, non sono pochi gli alpinisti e i fotografi professionisti che sembrano essere più attratti dagli scatti che possono immortalare con le luci che solo l’aria sottile sa regalare, rispetto alla vetta stessa. Da quando poi la fotografia è diventata strumento alla portata di tutti, non c’è chi, dal semplice escursionista fino all’alpinista estremo, non abbia provato il desiderio di riportare a casa con sé le immagini delle cime e delle azioni che su di esse si compiono. La potenza degli scatti catturati dagli alpinisti sulle montagne più alte e remote, ma anche da semplici escursionisti sulle vette che vediamo dalla finestra di casa.

Una delle citazioni più note in cui anche l’alpinista del week-end può ritrovarsi in merito al suo legame tra monti e fotografia è quella che Guido Rey fece in tempi non sospetti nel suo Alpinismo Acrobatico: «…l’antipatico gingillo meccanico che rechiamo sui monti, legato alle spalle, è divenuto per noi un compagno utile e fedele che, ad un nostro cenno, guarda e ritiene con memoria più sicura della nostra; un compagno che malediciamo cento volte nella salita, che pesa, ci preme il fianco o sbatacchia sulla schiena, […] la piccola scatola racchiude nel suo segreto alcune rapide visioni che sono tesori, […] un attimo fuggente della vita».

Smettendo di essere così aulici, non ricordo chi, ma probabilmente un saggio, diceva a proposito della fotografia in montagna contemporanea: «professionisti e amatori, esattamente come nel porno…» tutti con il proprio gingillo al collo o in tasca. Non penso quindi che si possa rendere giustizia alla fotografia, anche a quella alpina, con una definizione stringente. È ibrida, mutevole, nasconde molteplici motivazioni che spingono sia l’amatore sia il professionista a scattare. È arte dopotutto la fotografia. Anche in montagna. Il quindicenne Yannick le montagne le aveva davanti. Ci viveva, in montagna. Nato a Bourg-Saint-Maurice, Yannick ha imparato a sciare, fare snowboard, skateboard e arrampicare nella vicina Les Arcs, in Savoia. Quasi per caso i suoi genitori in quel periodo adolescenziale gli regalarono la prima fotocamera digitale. Arrivarono subito gli esperimenti a immortalare i suoi amici e successivamente la specializzazione in una scuola di arti audiovisive a Montpellier. Fotografia e montagna: ed eccoci qui a chiacchierare con Yannick Boissenot. Molti infatti scattano fotografie in montagna, ma pochi sono a proprio agio come Yannick a immortalare action sport praticandoli davvero insieme ai protagonisti, in equilibrio sulle lamine degli sci su una linea estrema del massiccio del Monte Bianco o su una parete extraeuropea.

© Damiano Levati/Storyteller Labs

Cameraman e fotografo di montagna, Yannick è diventato un testimone chiave della verticalità. Un nome nuovo che ha saputo conquistare un proprio spazio gradualmente sul campo, sciando, arrampicando e regalando storie attraverso le immagini che cattura in prima persona, direttamente dal centro dell’azione. Cosa non troppo scontata. Amante dello sci, specie quello estremo, come mezzo di esplorazione e condivisione, nell’ultimo periodo ha deciso di ampliare le inquadrature iniziando a cimentarsi con il parapendio. Le sue immagini e i suoi film sono miscellanee delle passioni verticali che porta avanti a Chamonix e nei suoi viaggi. Del suo lavoro dice: «quando faccio un film, il mio obiettivo è condividere le emozioni!». Sembra facile, ma far sognare chi guarda, come chi legge, è tutt’altro che banale. Abbiamo fatto due chiacchiere per conoscere chi sta dietro l’obiettivo di redpointmovie.com e il suo modo di andare per pareti.

Yannick nel 2020: chi sei? Dove sei? Cosa stai facendo? Insomma, iniziamo come al solito dalle presentazioni.

«Sono nato a Les Arcs, una località sciistica abbastanza famosa. Ho iniziato a sciare a tre anni come tutti i bambini di quelle valli. Dopo dieci anni di sci e gare ho capito che la competizione non faceva per me, avevo bisogno di essere più libero, ho provato lo snowboard, il telemark per molti anni e a 19 anni sono tornato sugli sci per quello che amo di più in questo momento: lo ski de pente! Ora ho 36 anni, sono uno sciatore supportato da Salewa e Black Crows, un cameraman specializzato in alpinismo, spedizioni, e arrampicata e sono anche allenatore del club di arrampicata di Ginevra. Yannick nel 2020? È a casa, come molti purtroppo. Ma mi godo in tranquillità le montagne e la famiglia. Avrei dovuto essere in Perù per una spedizione alpinistica con i miei amici Thomas Huber e Stephan Siegrist quest’estate, ma a causa del Covid abbiamo cancellato tutto a giugno. Avendo più tempo, ho deciso di imparare a usare il parapendio, quindi negli ultimi tre mesi… sono stato in volo. Se ci penso, negli ultimi quattro anni non sono mai stato a casa (2019, 2018 in Pakistan; 2017 in Perù) quindi sono stato abbastanza felice di rimanere a Chamonix. Sono sposato da sabato scorso (questa intervista è di settembre, ndr) e ho un bambino di 18 mesi».

Lo sci è sempre stato molto importante?

«Negli ultimi anni è diventato la ricerca della linea che non era mai stata disegnata. Esplorazione. Ovviamente amo le giornate in neve fresca, lo sci o lo snowboard tra gli alberi, in foresta. Giornate selvagge di puro divertimento, ma di sicuro, da quando mi sono trasferito a Chamonix dieci anni fa, il mio modo di vedere lo sci è cambiato. Quando sono arrivato qui ero motivato a provare a sciare su tutte le linee, tutto era così enorme, specie arrivando da una stazione sciistica classica come Les Arcs. Presto mi sono trovato a studiare per tutto il tempo nuovi progetti o le king lines che vorrei sciare. Il gioco è studiarle ed essere pronti quando ci saranno le buone condizioni.

A volte la neve si attacca alla roccia o al ghiaccio per uno o due giorni, poi magari basta anche per dieci anni».

Hai saputo coniugare la tua passione per alpinismo e sci con la fotografia, cosa ti ha portato ad avvicinarti alle arti visive?

«Ho iniziato seriamente 12 anni fa. Mi sono specializzato nelle foto e nei video di sport estremi. Praticando steep skiing, alpinismo e arrampicata, posso essere veramente vicino all’azione, soprattutto quando seguo atleti professionisti come Thomas Huber, Victor Delerue, Simon Gietl. È fantastico riuscire a combinare queste due passioni. Quando esco per un servizio non mi accorgo che in realtà sto lavorando».

Il 2020 non è stato un periodo facile con i problemi e le restrizioni connesse al Covid-19. Come hai trascorso il tuo tempo?

«I due mesi a casa sono stati davvero frustranti e credo che sia stato lo stesso per tutti. Ho passato dei bei momenti con il nostro bambino e l’altro figlio di mia moglie di otto anni. Il tempo è stato sempre bello, abbiamo un giardino, quindi non mi posso lamentare più di tanto. Soprattutto pensando ad alcune persone che vivono in un piccolo appartamento in una grande città, non stavamo giocando allo stesso gioco. Inoltre il piccolo ha deciso di iniziare a camminare proprio durante il lockdown, un bel da fare!».

Alpinista e papà, cosa è più impegnativo?

«Di sicuro essere papà! Mi piace pensare che la cosa più incredibile sarà il momento in cui potrò trasmettergli la mia passione e condividere del tempo insieme in montagna! Abbiamo fatto il nostro primo bivacco di famiglia durante l’estate: è stato fantastico».

La montagna è davvero una buona opzione in ottica social distancing?

«Certo, ma non a Chamonix. A questo proposito, con i miei sponsor sono felice di aver trovato un buon equilibrio. Non sono ossessionati da ciò che è social e preferiscono i contenuti e i progetti di qualità lontani dal meccanismo quickly done, well done, purtroppo in voga».

La maggior parte degli accessi all’alta quota nell’area di Cham si effettua con impianti e funivie, non il massimo per il distanziamento sociale. Alla fine del lockdown però gli impianti sono rimasti chiusi ma, dopo l’isolamento forzato, in paese eravamo tutti super affamati di aria aperta e di poter tornare in montagna, così abbiamo iniziato apartire da valle a piedi, magari anche prima della mezzanotte per essere alla base delle pareti prima del sorgere del sole, come si fa in primavera. Alla fine si facevano uscite con 2.500-3.000 metri di dislivello. Faticoso, insolito per Chamonix, ma non andava affatto male! Questa è anche una delle ragioni per cui mi sono avvicinato al parapendio: meglio volare che scendere camminando dopo aver sciato o scalato una parete».

Un posto isolato a Chamonix?

«Sembra un paradosso, ma in certi giorni, magari un po’ fuori stagione, andate nella zona del Refuge d’Argentière. Ci sono talmente tante possibilità, seppur così evidenti, pendii facili esposti a Sud o le grandi pareti del circo Nord che, conoscendo bene i luoghi, rischierete di non trovare nessuno. Per me è un posto unico nel massiccio del Monte Bianco».

Ultimamente grandi dislivelli quindi. Un trend di un certo alpinismo, insieme alla velocità. Qual è il tuo stile?

«Non sono un ragazzo che vive quel genere di competizione. Non voglio sapere sempre quanto dislivello ho fatto in un anno o quanto ore ho impiegato per una cima. Però mi piacciono i progetti sfidanti, in cui mettersi in gioco: percorrere più pareti in sequenza, salire one-push direttamente da valle, ma per favore: nessun cronometro con me in montagna. E poca ostentazione. Anche il mondo dei media e dei social media a mio avviso non ha spinto gli sport di montagna nella giusta direzione. Mi sarebbe piaciuto diventare un atleta del mondo dello sci durante gli anni ’90.

A questo proposito, con i miei sponsor sono felice di aver trovato un buon equilibrio. Non sono ossessionati da ciò che è social e preferiscono i contenuti e i progetti di qualità lontani dal meccanismo quickly done, well done, purtroppo in voga».

So che ti piace molto viaggiare per sciare e scalare in posti remoti. Raccontaci il tuo viaggio ideale.

«Se potessi tornerei in Pakistan durante la primavera per sciare. Sono già stato diverse volte, ma sempre con progetti alpinistici. È un paese meraviglioso. Il mio sogno sarebbe quello di poter sciare su una vetta vergine di 6.000 o 7.000 metri: ci sono così tante opzioni.

La gente è sempre stata più attratta dagli Ottomila, mentre tanti posti non sono mai stati visitati e nascondono un potenziale enorme. Amo la cultura e le persone del Karakorum».

Hai sciato e fotografato anche in Perù: un altro terreno di gioco storicamente speciale per lo sci estremo.

«Penso che il Perù sia stato un buon passo da fare prima di sciare in Himalaya. Avvicinamenti brevi da Huaraz che ti concedono di scoprire cos’è lo sci ripido a 6.000 metri... e non è facile.

Abbiamo sciato Artesonraju (6.025 m) e Tocllaraju (6.032 m) impiegando due giorni ogni volta e ce ne sono voluti tre per lo Scudo sullo Huascaran Sur (6.768 m). Poi quando hai finito ti ritrovi in hotel a bere birra e mangiare del buon cibo a mille metri sul livello del mare. Non è la stessa partita quando stai al campo base a 5.000 metri come in Himalaya».

I tuoi progetti quindi guardano al Pakistan?

«Una linea che non posso far a meno di sognare è il Laila Peak. Mi piacerebbe sciarlo dalla cima, senza doppie, in buone condizioni, il modo come va fatta una discesa del genere. Anche nell’area del Bianco ho ancora molti sogni. Linee che non vorrei svelare e che vorrei aprire o anche discese majeur da ripetere. Se dovessi dirtene una, sono sempre stato attratto dal Macho al Mont Blanc du Tacul».

Quindi ecco la meta del prossimo viaggio?

«Non lo so. In realtà in Pakistan stiamo portando avanti anche un altro progetto, raccogliendo attrezzatura, sci, snowboard, abbigliamento tecnico qui a Chamonix da inviare laggiù per fare conoscere le gioie di questi sport ai bambini del posto. Julien Pica Herry, che è il mio migliore partner con il suo snowboard, è il principale promotore di questo progetto. Pica conosce alla perfezione l’Hunza Valley in Pakistan. Se non ci saranno problemi con le restrizioni e i blocchi legati alla pandemia, dovremmo andare sul posto il prossimo febbraio con altri cinque o sei amici. L’idea è quella di insegnare ai local come usare sci e tavole, passando del buon tempo insieme».

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Nuovo General Manager in La Sportiva

Cambio nel management dell'azienda trentina: lascia dopo 19 anni il general manager Lanfranco Brugnoli ed entra, nello stesso ruolo, Marcello Favagrossa. A seguire il comunicato ufficiale dell'azienda.

Da piccolo laboratorio artigianale alla sua fondazione nel 1928 per mano di Narciso Delladio, ad azienda innovatrice che ha cambiato con i suoi prodotti i modi di andare in montagna sotto la guida di Francesco Delladio fino ad arrivare all’espansione sui mercati internazionali grazie all’attuale CEO e Presidente Lorenzo Delladio, affiancato per oltre 19 anni dal GM uscente, per raggiunti requisiti di quiescenza, Lanfranco Brugnoli.
Con Lorenzo e Lanfranco ai vertici, l’azienda della Val di Fiemme, in Trentino, ha visto negli anni una crescita costante a doppia cifra ed un riposizionamento da azienda calzaturiera a brand globale con l’espansione nel settore dell’abbigliamento tecnico da montagna ed il consolidamento sui mercati strategici quali Nord America e Cina. «A Lanfranco va tutta la mia gratitudine – dice Lorenzo Delladio – per aver affiancato la nostra Famiglia facendola crescere giorno dopo giorno con grande dedizione, sensibilità e responsabilità. In meno di 20 anni siamo passati dall’essere un marchio di nicchia per appassionati della montagna ad un brand distribuito in oltre 70 Paesi e con la massima attenzione agli aspetti ambientali e sociali. Un percorso che traccia la via per la prossima generazione famigliare e manageriale».

Marcello Favagrossa, 55 anni, laureato in Economia e Commercio, vanta una consolidata esperienza nel marketing di importanti aziende internazionali e strutturate in vari settori e una carriera internazionale come General Manager che lo ha visto a lungo negli Stati Uniti. «Marcello trova un’azienda solida – aggiunge Delladio – in costante crescita e con un piano di sviluppo ambizioso. In questo percorso sarà affiancato da me e dai miei figli, che si preparano a guidare l’azienda nei prossimi anni». All’interno di quello che è stato definito da La Sportiva il progetto Climbing to Excellence, nome che ricorda la vocazione per il mondo verticale, l’azienda ha lavorato ad una profonda riorganizzazione dei processi aziendali introducendo nuove figure in tutti i reparti chiave, capaci di generare valore per l’azienda. L’area marketing in particolare ha assunto un ruolo centrale con la nomina di Giulia Delladio, quarta generazione della famiglia, al ruolo di Corporate Marketing Director.

«Uno dei focus fondamentali oggi – aggiunge Giulia Delladio – è la sostenibilità a tutti i livelli: dal prodotto al processo, passando per le scelte quotidiane di dipendenti, collaboratori e fornitori. Vogliamo che gli appassionati del nostro marchio e tutti coloro che contribuiscono al suo sviluppo, possano sentirsi orgogliosi di rappresentarlo, vestirlo e calzarlo»

La nuova struttura ha ora il compito di raggiungere gli obiettivi strategici attraverso una crescita sostenibile e la valorizzazione del patrimonio di competenze costruito negli anni.


La Pierra Menta è affare italiano

Relegata a un'unica tappa, solo per gli atleti nazionali, la Pierra Menta 2021 è andata in scena ieri ed era valida come ISMF-LGC World Championships LDT cioè Mondiale Lunghe Distanze. Certo la Pierra 'pandemica' perde il fascino della grande classica, ma con i titoli mondiali in palio è stato agonismo vero e l'Italia ha trionfato. Tra gli uomini il successo è andato a Michele Boscacci e Davide Magnini sugli svizzeri Bonnet-Marti. Terzo gradino del podio per gli altri azzurri Nadir Maguet e William Boffelli davanti agli austriaci Hoffman-Herrmann e alla coppia Robert Antonioli-Matteo Eydallin. Ancora meglio nella classifica femminile, con Alba De Silvestro e Giulia Murada davanti a Ilaria Veronese e Mara Martini. Terze le francesi Axelle Gachet Mollaret e Lorna Bonnel, quarte le svedesi Tove Alexandersson e Fanny Borgstrom, quinte Giulia Compagnoni e Katia Tomatis.


Axelle Mollaret: «non mi sarei aspettata di tornare in forma così velocemente»

Voce del verbo vincere. Fuoriclasse indiscussa, stile inconfondibile, al secolo Axelle Mollaret. Resilienza, umiltà e tenacia sono il suo mantra, collezionare ori, coppe e mondiali, la routine. Campionessa del mondo individual e vertical ai Mondiali di Andorra gli ultimi successi. Il suo destino è tracciato nel palcoscenico della Grande Course: nata e cresciuta a Arêches-Beaufort, teatro della Pierra Menta, la tigre delle nevi francese è sposata con Xavier Gachet, con il quale ha avuto un bambino da pochi mesi. È rientrata dalla maternità con la grinta e lo spirito di sempre: a confermare che campionesse ci si costruisce anche fuori dalla pista. In estate si mette alla prova con sfide a fil di cielo nel chilometro verticale – giusto per tenersi in forma – e quando toglie gli abiti da campionessa indossa quelli di fisioterapista. Atleta di punta del team La Sportiva da ben cinque stagioni, fa parte della Nazionale Francese di scialpinismo, team che l’azienda della Val di Fiemme veste come main sponsor da tre stagioni. Il suo segreto? Non arrendersi mai. 

Quando hai iniziato a fare scialpinismo?

«Ho iniziato a fare scialpinismo con i miei genitori a 11 anni e ho fatto la mia prima gara a 15: da allora non ho mai smesso. Dal 2014 lavoro anche come fisioterapista ad Arêches-Beaufort, il posto che preferisco in assoluto, dove sono nata, vivo e mi alleno ogni giorno. Qui ci sono davvero infinite opportunità per fare scialpinismo ed è il parco giochi per tantissimi appassionati». 

Com’è cambiato il mondo dello scialpinismo negli ultimi mesi di pandemia? Come immagini l’espansione di questo sport in epoca Coronavirus, considerando che è una disciplina che permette di mantenere le distanze opportune e rigenerarsi stando a contatto con la natura?

«A causa di Covid19 quest'inverno gli impianti di risalita sono rimasti chiusi e molte persone si sono approcciate per la prima volta allo scialpinismo perché era l'unico modo per poter sciare. Ho parlato con tanti nuovi appassionati davvero entusiasti per aver scoperto questa attività: sono sicura che nei prossimi anni vedremo molte più persone con le pelli sotto gli sci, anche se le stazioni sciistiche saranno aperte».

Lo scialpinismo è una disciplina individuale, ma com'è lo spirito all'interno della Nazionale Francese? C'è più competizione o solidarietà?

«C’è un grande spirito di squadra nella nostra Nazionale, siamo fortunati! Anche se è uno sport individuale e ogni atleta ha i propri obiettivi, sapere di poter contare sull'altro è davvero un nostro punto di forza».

C’un’altra atleta o qualcosa che temi? 

«Non temo nessuna rivale perché mi piace la competizione e il confronto. Di certo non sono abituata a perdere una gara, e per questa ragione cerco sempre di dare il massimo in ogni momento».

Hai detto ‘Prenditi il tempo di vivere e di guardare intorno a te. Non avere sempre fretta e fai le cose che ami’. Durante le gare di scialpinismo riesci a prenderti questo spazio? Non sei stanca di rincorrere il tempo?

«No, questa frase è relativa alla vita in generale più che al contesto agonistico. Durante la competizione non mi guardo certo intorno. Rimango concentrata sul mio obiettivo, ma comunque mi rimangono impressi molti ricordi nella memoria». 

Oltre che essere un’atleta e una mamma sei anche fisioterapista. Questo lavoro ti aiuta nella tua attività come atleta e nello staccare mentalmente dal mondo dell’agonismo? 

«Per me è molto importante svolgere un'altra attività oltre a quella di atleta: così, dopo un fine settimana di gare impegnative, il lunedì mattina ho la possibilità di concentrarmi su qualcos'altro. Di sicuro il know-how e l’esperienza che ho come fisioterapista mi aiutano molto nella mia attività sportiva».

Chi è Axelle Mollaret nella vita di tutti i giorni? Cosa fa nel tempo libero?

«Il problema è che mi manca il tempo libero! Quando riesco mi piace molto trascorrere il tempo con la mia famiglia e gli amici».

Sei sposata con Xavier Gachet, un altro nazionale francese. È un po’ noioso parlare sempre di scialpinismo o questa passione comune rafforza il vostro legame?

«È davvero un'opportunità unica poter condividere la nostra passione: ci spinge reciprocamente a migliorare continuamente, in più agevola anche la nostra organizzazione nella vita di tutti i giorni perché ci permette di comprendere l'altro al volo». 

Sei appena rientrata dalla maternità che ti ha fermata a gennaio della stagione 19-20, e sei tornata subito in forma e vai alla grande. Come hai fatto? E cosa hai da dire alle donne che temono che la maternità comporti 'perdersi qualcosa', essere meno performanti (negli allenamenti, in ufficio)?

«Avere un bambino era un mio grande desiderio. Nella mia mente perdere qualcosa significava più non godere di questa nuova vita piuttosto che perdere una gara o una stagione. Sapevo che forse avrei dovuto saltare una stagione, ma l’ho accettato. Inoltre mio figlio è nato ad agosto e penso che sia stato il momento migliore per me in ottica degli allenamenti, anche se di certo non mi sarei aspettata di tornare in forma così velocemente, era una scommessa, e sono orgogliosa di esserci riuscita! Penso che mi accompagni la forza del mio bambino, che continuo ad allattare».

Quale è il tuo prodotto preferito La Sportiva e perché?

«La Sportiva Stratos V, lo scarpone race in carbonio: lo uso ogni giorno ed è il partner che mi aiuta a vincere».

Come immagini il futuro dello scialpinismo? E un’ipotetica gara alle Olimpiadi di Milano-Cortina 2026?

«I Giochi Olimpici non sono mai stati il ​​mio primo obiettivo. Ora però posso dire che di certo se lo scialpinismo sarà disciplina olimpica nel 2026 farò di tutto per partecipare». 

Come ti vedi in futuro? Prossimi obiettivi a breve e lungo termine?

«Non mi piace guardare troppo lontano. Il mio progetto per ora è mettere su casa e magari sciare con mio figlio, tra qualche anno». 

© Equipe de France/AgenceKros/RemiFabregue

Il lato B di La Grave

The Backyardigans (la serie televisiva in Italia è stata nominata Gli Zonzoli, ma la traduzione letterale di backyard è giardino dietro casa o, volendo, cortile) è un programma televisivo per bambini dei primi anni duemila di cui fino a qualche anno fa ignoravo l’esistenza. È un cartone animato su una banda di amici che utilizzano l’immaginazione per inventarsi avventure indimenticabili... senza lasciare il giardino di casa, il loro parco giochi. Il mio amico peruviano Koky, che viveva accanto a me, me ne parlava in continuazione mentre si meravigliava per le sciate che facevamo insieme proprio dietro le nostre case, al di là delle creste e delle cime che vedevamo dalla finestra, nei giorni di gloria polverosa. All’epoca vivevo già da dieci anni nel piccolo villaggio di Ventelon e apprezzavo molto questo lato di La Grave, il versante soleggiato e innocuo della valle, oscurato dalla fama dei pendii raggiungibili con la telecabina. Però l’allegoria di Koky mi ha fatto rivivere quella magia dell’esplorazione intorno a casa con l’innocenza di un bambino e mi ha riportato ai primi ricordi che ho dello sci.

Quando mia madre mi ha messo per la prima volta gli scarponi di cuoio a tre anni, facendomi provare la sensazione di scivolare, era proprio dietro casa nostra, nel mio giardino. La periferia di Toronto è corrugata da collinette appena sufficienti per provare l’effetto della forza di gravità con gli sci ai piedi, ma è stato il morso della mela che mi ha spinto verso le località sciistiche più vicine, fino a quando sono diventato uno ski bum, fuggendo dalla folla delle piste. Scoprire il mondo con gli sci è stato il mio romanzo di formazione e mi ha permesso di fare esperienze in molti parchi giochi. Eppure quei ricordi così vividi della prima infanzia, quando esploravo con gli sci il bosco nel burrone dietro casa, sono sempre rimasti tra le esperienze più importanti per la mia crescita.

Non tutti quelli che rimangono stregati dalle incredibili possibilità sciistiche nella montagna aperta offerte dalla telecabina di La Grave finiscono per fermarsi qui. Man mano che vivevo alle pendici di un comprensorio così intenso, ne venivo completamente sopraffatto, ma parte del fascino è dovuto al forte contrasto di questa realtà con quella che ho vissuto in Canada. Lì per trovare lo stesso terreno devi andare in posti lontani e isolati, oppure in costosi e lussuosi resort senza alcun legame con la terra. La mia passione per lo sci avventuroso si è sempre risolta in lunghi e faticosi viaggi in auto. La Grave ha saputo conservare e valorizzare il suo patrimonio e uno stile di vita in montagna che ha messo in ombra il percorso scontato di molti sciatori verso uno stile di vita da era nucleare. La Grave mi ha mostrato la speranza di poter mettere in pratica il mio vecchio e romantico sogno di non lavorare e di coltivare il cibo durante l’anno, in modo da poter sciare, mangiare e dormire (e fare un po’ di festa) in inverno.

© Ptor Spricenieks

Ho incontrato Mathieu Bonnetbleu nei miei primi anni a La Grave. All’epoca era un vero ski bum e c’era molta affinità tra di noi, così il passo per diventare uno dei miei più preziosi compagni di gita è stato breve. Mi piaceva il modo di ragionare elementare di Mathieu. Lui ammassava nella sua piccola baita di pietra il cibo a km zero che aveva coltivato o comprato e poi sparivamo per diversi giorni, portandoci dietro patate locali, formaggio, pane e bottiglie di vino al posto dei noodle o del ramen confezionati. Con il passare degli anni Mathieu si è completamente evoluto, dimenticando la telecabina e diventando pastore. In un batter d’occhio ha messo su famiglia, fattoria, una piccola mandria di capre e 300 pecore Merinos. Non solo ha finito per sciare dove viveva, ma ha anche vissuto dove sciava... Il suo parco giochi dietro casa è diventato sede di lavoro e fonte di vita. La scelta permaculturale* di Mathieu è stata la leva per fare di qualcosa frivolo e infantile come lo sci il mio stile di vita.

La mia fantasia del parco giochi dietro casa si è materializzata quando mi sono sposato e abbiamo costruito il nostro nido a Ventelon. Appena dietro le mura c’è una montagna con pendii erbosi frequentata solo dal bestiame, dai cervi, dalle volpi... e dagli altri backyardigan. Il nostro lato soleggiato della valle è perfetto per far crescere l’aglio in primavera, fornisce l’energia solare ideale e in inverno permette comunque di mettere gli sci e toglierli in giardino appena qualche centimetro di neve ricopre l’erba. Qui gli elementi hanno rimodellato il mio ego. Fuori dal bosco i venti costanti creano onde di neve simili ai pipe dei park. Questo spirito ha alimentato la sciata interiore e influenzato lo stile e le aspirazioni. Ho iniziato a non avere più bisogno di sciare tutti i giorni perché stavo eliminando ciò che volevo dimenticare andando a sciare. L’immobilità fertilizzava la sensibilità verso la natura e la qualità delle sessioni di sci.

Lo scorso inverno è stato bello nel mio parco giochi. Con Ryan Koupal di 40 Tribes Backcountry, con il quale da dieci anni porto gruppi a sciare nei parchi giochi più esotici, abbiamo creato il primo Mystery Trip. Chi si è iscritto ha iniziato l’avventura nella sua immaginazione, all’atto dell’iscrizione, sapendo solo che sarebbe stato accolto a Ginevra e avrebbe sciato con me e un’altra Guida locale... da qualche parte. L’esuberanza giovanile del mio amico e Guida alpina Joe Vallone ha funzionato perfettamente durante il nostro pigiama party di una settimana al Refuge du Goléon. Joe, grazie al suo background freestyle, incarna perfettamente lo stile ludico dello sci che trae il massimo profitto dal nostro parco giochi e dal cameratismo delle notti in rifugio intorno a un tavolo. Nessun ha sentito la mancanza della telecabina.

I miei due figli hanno imparato a sciare nel nostro giardino. Mentre crescono e li guardo costruire kicker e camminare per fare i loro 50 metri di sciata in neve fresca quando si depositano 20 centimetri sull’erba, sto chiudendo un cerchio. C’è un senso di completezza perché ho capito quello che mi motiva. Più tempo passo nel mio parco giochi, più sembra grande. Sciare non significa per forza complicazione. Le cose semplici sono in sinfonia alla Mandelbrot. I frattali** del mondo interno si muovono all’infinito sempre più dentro, diventando intricati man mano che si va nel dettaglio. L’immaginazione ci porta lì, soprattutto in questi giorni in cui il mondo esterno, ancora convalescente dalla malattia mitologica del XIX secolo, sembra chiudersi intorno a noi. C’è sempre spazio per divertirsi di più nel parco giochi se sei un backyardigan.

*La permacultura è un insieme di pratiche mirate con il fine di progettare e gestire il nostro habitat in modo che soddisfi i bisogni primari (cibo, fibre ed energia) salvaguardando la stabilità e sostenibilità degli ecosistemi naturali.

**Ente geometrico caratterizzato dalle dimensioni non intere e dalla proprietà di riprodurre l’ente di partenza a ogni scala. L’insieme di Mandelbrot, dal nome del matematico Benoît Mandelbrot, è uno dei frattali più popolari

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© Ptor Spricenieks

Onde

Questo articolo è un estratto del racconto originale pubblicato sul numero 1 di AA Arcipelago Altitudini. AA ha le fattezze di un libro, ma nell’idea di periodicità è inteso come una rivista, è un contenitore di racconti, ma anche di saggi narrativi, di poesie, di foto reportage e di graphic novel con tema la montagna nei suoi diversi aspetti e significati. Un insieme di tante storie eterogenee e voci diverse, in cui scrittori affermati si affiancano a esordienti, componendo un vero e proprio affresco, un racconto sfaccettato e originale sulla montagna, per scoprirla, approfondirla e per lasciarsi ispirare. 19 euro – 224 pagine. Curatore: Teddy Soppelsa.

Chi lo fa per amore, chi per desiderio, chi per narcisismo, chi per sentirsi giovane. Io lo faccio per noia, solo fottutissima noia. La ragione è che non ne posso più di scendere le autostrade di neve. Un giorno dalla seggiovia guardo i puntini che disegnano la stessa traccia con gli stessi sci e lo stesso lasciapassare sullo stesso identico monotono piatto insulso tappeto di neve da cannone e trabocco di noia. «Sono così anch’io?», mi chiedo fissando gli scarponi di plastica lattescente, e piuttosto di fare il puntino torno indietro con la seggiovia. Fuori pista non posso andare perché ci sono i sassi: i puntini sciano sulla striscia di carta igienica. Non so niente del surf da neve. Neanche il nome, infatti non si chiama così. Mi documento, leggo storie, trovo qualche commento esaltato e qualcuno poetico e scopro che il mondo della discesa è diviso in due come quello della scalata. La gente come me ha cominciato a sciare con gli sci, due e distinti, ispirandosi all’eleganza dei vecchi maestri, invece i più giovani imparano direttamente sulla tavola, sorprendente metafora del nuovo pensiero. La tecnica dello sci deriva da una concezione lineare, classica, cartesiana, mentre lo snowboard s’ispira a un pensare obliquo e laterale, postmoderno, che ha un corrispettivo urbano nello skateboard. Le due filosofie non si parlano, sono mondi separati. All’inizio lo chiamavamo surf, effettivamente, e lo consideravamo lo sport dei pazzi d’oltreoceano. Capelli lunghi, faccia abbronzata, brache larghe e cervello allentato. La filosofia della tavola veniva dall’America ed era molto diversa dalle tavole sempre apparecchiate di casa nostra. Il surf arrivava dalle nevi e dagli sciatori anarchici degli Stati Uniti, anche se nessuno conosceva l’inventore, e saliva dal mare, dove era nato in altre sembianze per cavalcare le creste.

Il senso originario era appunto solcare le onde di neve, scivolando di bolina su un pezzo di legno incurvato. Non sciare, ma navigare. Gli sciatori scendono e i surfisti navigano, solcano, galleggiano. Sciare e navigare sono due parole diverse, e le parole sono importanti. Se fossi stato attento alle parole! Lo snowboard arriva sulle Alpi negli anni Ottanta, espugnando un nocciolo di curiosi e di coraggiosi. Il popolo delle piste li guarda ghignando come si guardano i circensi e i numeri da circo. L’attrezzo piatto non si arrende e cerca faticosamente di conquistare il mercato europeo, di guadagnare immagine e fiducia, quindi inciampa, barcolla, si rialza e finalmente decolla negli anni Novanta, adattandosi al pubblico di quaggiù. Il surf di noialtri elabora un pensiero facile, che è la pratica sulle piste battute, demone e spauracchio degli sciatori tradizionali, e coltiva un pensiero complesso che è la navigazione sui campi di neve intonsa, che una volta si chiamava «vergine» in onore del maschilismo alpino. È su quella neve che il surfista che ha rinunciato a essere un macho disegna tracce e inventa attraversamenti.

L’attrezzo è concepito per veleggiare negli spazi aperti, dicono gli adoratori della buona tavola. Serve a navigare i mari di neve fresca, non a grattugiare le piste. Attratto dalla filosofia decido di sperimentare il nuovo linguaggio. Ci arrivo per caso, come succede per le cose importanti della vita. Basta non dire di no. Una domenica di febbraio salgo a Prali in Val Germanasca, che è il vecchio rifugio dei valdesi dove i montanari dalla testa dura hanno mantenuto un comprensorio a misura d’uomo e di portafoglio. A Prali si scia bene e si spende poco. A Prali c’è una di quelle seggiovie di una volta che parti giovane e arrivi vecchio, però almeno hai il tempo per pensare. Anche dalla seggiovia vetusta di Prali si vedono i puntini che disegnano la pista di sci, ma oggi non si vedono perché è salita la nebbia. In cima alla seggiovia c’è un bar un po’ triste come tutti i bar degli sciatori, vicino al bar ci sono i cartelli delle piste battute e oltre i cartelli c’è la mia trappola.

«Allora vuoi provare?» dice Andrea.

«Sono venuto per provare, no?».

«Allora buttati, socio».

Per provare per prima cosa bisogna inchiodarsi alla tavola, ed è già un passaggio difficile. Gli sci te li metti ridendo, li domini, invece la tavola ti cattura e sei in balia. Servo patetico e obbediente. Cerchiamo un posto in piano, lontano dagli sguardi indiscreti. Facendo la faccia dell’esperto scambio gli sci con la tavola di Andrea Giorda, vecchio compagno d’avventure, che si prende anche i bastoncini lasciandomi solo e imbullonato all’attrezzo. Lui scende scodinzolando e io sono un cane di marmo. Scultura ingloriosa. Si è messo a nevicare e viene giù cattiva, di traverso, come quando ti sale la voglia di essere a casa. Tra un’ora chiudono gli impianti e io resto qui come un fesso, penso in cima alla pista, un monumento all’imperizia umana. Oppure mi tolgo l’asse maledetto e scendo a piedi, come fanno i bipedi. Quello lo so fare bene. Alle quattro del pomeriggio sono bloccato sul vertice invisibile della pista rossa, contento che nessuno mi veda, in precario equilibrio trasversale sulla tavola di Andrea. Nevica più forte. Sono sudato. Da un’ora sto inginocchiato in faccia al pendio cercando l’equilibrio. Ogni volta che provo a tirarmi su ricado come un fantoccio sulle ginocchia. Ho i menischi marci, nevica, tira vento e fa sera. Tempo da lupi, e qui ci sono i lupi. Erano decenni che non m’inginocchiavo davanti a qualche cosa. Aggrappandomi alla neve bagnata cerco l’ancoraggio che non esiste. Se avessi capito la filosofia saprei che non c’è appoggio nel surf, c’è solo il vuoto. Bisogna imparare a volare. La tavola serve a quello. Mi rigiro faccia a monte, scivolo, gratto, derapo. La discesa è alle spalle. Eterna. Minacciosa. Per la prima volta affronto una montagna senza vederla. Massaggiandomi il ginocchio tumefatto concludo che per oggi non ce n’è. Scenderò a piedi. Prendo la tavola sotto braccio e divallo come un reduce di Russia. Per dare un senso alla situazione mi dico che bisognava provare per rinunciare. Sono uno stupido, rido di me stesso. Eppure c’era scritto su tutte le riviste, che la tavola fa male all’ego, ma io ho sottovalutato le parole. Bastava leggere meglio, bastava credere alle disgrazie degli altri.

L’apprendimento dello snowboard in età adulta è una regressione sconvolgente. Le tecniche acquisite in trent’anni di vita sportiva sono inutili, anzi peggio, sono controproducenti. Più ne sai più non vai. Più ti gonfi più ti fai del male. Ti ripeti che sei nato con gli assi ai piedi, che sai sciare da quarant’anni, che ci andavi ogni festa comandata invece della messa, che come Smilla conosci la neve farinosa, ventosa, gessata, bianca come una sposa o sporca da chiedere scusa, e invece non sai niente di tavole e di neve e di volare, sei solo un pivello che annaspa sulla pista numero sei. Hai meno chance del principiante che eri da bambino, infinitamente di meno, perché lui aveva la mente libera mentre a te tocca prima disimparare, umiliarti, dimenticare: piede destro e piede sinistro, peso a valle, piegamento, rotazione… Addio regole, addio ragionamento simmetrico. Per pensare da surfer devi vuotare la testa e riempirla con qualcos’altro. Allora guardi gli altri che volano sul pendio e ripeti «diamine è così facile!, guarda quello com’è grasso, quello è solo un ragazzino, quell’altro magari lavora in banca, non vedi che basta voltare le spalle e la tavola gira da sola!». E invece non hai capito niente, ruoti il busto, strappi la curva e sbatti la faccia sulla neve. Ti rialzi, prendi velocità, pieghi, ruoti, strattoni e cadi. Ti rialzi, strappi, t’inclini, bestemmi e sbatti di nuovo. È come se un energumeno ti tenesse le caviglie e un altro energumeno ti desse lo spintone. Una bella domenica.

Arrivo in fondo alla pista numero sei al buio e finalmente restituisco la tavola al mio amico. Portatela via, non voglio vederla mai più. Lui dice che è così per tutti: tre giorni di agonia e una vita di felicità. Non gli credo. Tre giorni e resusciti, dice. Non lo ascolto nemmeno. Ridammi i miei sci, grande millantatore, cerchiamo una tavola vera e facciamoci una birra. Naturalmente non demordo, adesso è una questione di orgoglio. Per notti e giorni penso agli errori commessi: sono sicuro di avere imparato. Mi lecco le ferite e mi accarezzo l’ego. La domenica seguente affitto una tavola ancora più cattiva, una putrella blu metallizzato, e scelgo una giornata ancora meno misericordiosa, con la neve dura e gelata. Fa bello e fa freddo, è inverno. Questa notte il vento ha spazzato il tappetino di farina, ma io ormai sono un veterano e ho seminato buoni propositi. Basta lanciarsi, genuflettersi e raccogliere. Va peggio della prima volta, perché i polsi fanno ancora male, la schiena è a pezzi e ho deciso di fregare la gravità. Quindi cado di continuo. L’energumeno non ha pietà. Ne esco più bastonato di domenica scorsa. Ma Andrea ha detto tre giorni, che ci vogliono tre giorni per disegnare le prime curve, così aspetto l’alba magica della resurrezione e alle prime ore del terzo giorno sono di nuovo in cima al calvario. Questa volta ho affittato una tavoletta ridicola, corta e marroncina, l’ho battezzata Truciolo, pesa poco e si piega tanto. Eppure non si fa domare e io mi sento un manico di scopa. Alle dieci del mattino ho già le ginocchia fradice. Quel gran bugiardo di Andrea. Rivoglio le mie gambe, ridatemi due gambe.

Sulla pista c’è una specie di chalet e gli sciatori hanno appoggiato alla parete decine di attrezzi. Le tavole da surf sono poche, cromate e seducenti. Le guardo, le odio. Aggiungo la mia tavoletta beige e la fisso come una fidanzata che ha tradito. Nel bar ordino un génépy e bevo d’un fiato per dimenticare. Invece continuo a pensarci, perché ormai è una battaglia tra me e lei, la tavola. Anzi lui: Truciolo. È guerra tra il pensare diretto e il pensare laterale. Possibile che sia così fottutamente bello da vedere e così fottutamente difficile da fare? Dopo il bicchierino della resa una voce bisbiglia all’orecchio: «Non hai capito? Funziona se non ci pensi troppo. Abbandonati, lasciati andare!». La vocina ha ragione, ma è solo filosofia. E non conosco neanche un filosofo che sappia vivere o surfare. Comunque ascolto la vocina e alleggerito dall’alcol faccio un ultimo tentativo. È uscito il sole e la pista sembra un tavolo da biliardo. I pendii luccicano di farina bianca, le creste si stanno scrollando la neve di dosso. Adesso che sono ubriaco mi sento meglio. Appena inforco la tavola la sento più leggera, malleabile, quindi la lascio fare e lei misteriosamente comincia a obbedire. Che fai adesso? Giri? Truciolo ruota docile sotto gli scarponi, rispondendo alle traiettorie del mio pensiero. Io lo penso e lui lo fa. Cazzo era un gioco facile, non c’era niente da imparare.

Quando il surfer in erba chiude la prima curva senza cadere pensa: «Che stupido, ero già capace». Più che apprendere il gesto bisognava liberarlo. La tavola asseconda le menti libere e non perdona la violenza. Lo sci era il pensiero forte della discesa, lo snowboard è una distrazione femminile. La tavola non si domina con i quadricipiti ma con la dolcezza, accarezzando il pendio sulla superficie, senza graffiare, senza far male. La tavola è come l’arco nelle mani dell’arciere: non è il braccio a scagliare la freccia, il dardo si scaglia da sé. Il saggio zen insegna che «con l’estremità superiore dell’arco l’arciere fora il cielo, all’estremità inferiore è appesa la terra fissata con un filo di seta. Se il colpo parte con una forte scossa c’è il rischio che il filo si spezzi. Per il volitivo e il violento la frattura diventa allora definitiva e l’uomo resta irrimediabilmente nello spazio intermedio tra il cielo e la terra».

Pochi in Europa hanno ascoltato i maestri dello snowboard. Con il passare degli anni la filosofia è scivolata rapidamente verso soluzioni sintetiche, verso tavole sempre più corte, arcuate e nervose, gobbe artificiali, trampolini di neve compattata, snowpark per le esibizioni acrobatiche. Nell’immaginario collettivo il surfer è diventato il ragazzino che gratta, derapa e rimbalza a bordo pista, il funambolo della discesa, la palla da flipper che taglia le gambe agli sciatori per bene, l’indisciplinato utente delle piste, il teppista. Porta pantaloni a vita bassa, scarpe da astronauta e giganteschi giacconi per nascondersi dai grandi.

Io continuo a vestirmi da sciatore alpinista e comincio a navigare i valloni delle Alpi occidentali con il mio vecchio compagno di cordata. Monviso, Monginevro, Monte Rosa, nevi in rosa. Riscopriamo la magia della neve fresca, l’odore gelido della farina e la gioia del mare aperto. Le nostre tavole solcano onde zuccherose d’inverno e campi di neve trasformata in primavera. Nella farina facciamo il disegno e sul firn ci divertiamo senza lasciare traccia. Abbiamo dei vantaggi sugli sciatori. Quando gli assi sprofondano noi galleggiamo, in crosta ce la caviamo, sulla neve marcia voliamo. Le tavole da surf tratteggiano linee diverse dagli sci, creano altre geometrie. Il diverso pensiero genera segni differenti. Si scendono dislivelli fantastici e si scopre un’altra montagna, disegnandola e ridisegnandola come i bambini con quelle lavagnette magiche: scrivi, scrivi e poi cancelli tutto.

L’avventura è quella cosa: passare e cancellare la traccia. Per assaggiare l’avventura devi spingerti oltre la pista segnata e battuta, se c’è un confine devi superarlo, se trovi un divieto devi trasgredirlo. Ma l’avventura è per pochi e la navigazione in neve fresca pretende coraggio. Bisogna essere molto amici dell’inverno e della montagna per distinguere fra il tracciato sicuro e il pendio da valanga, e bisogna farlo molto in fretta, con i tempi della discesa. La neve fresca non è programmabile, la fresca è anarchica, scende dal cielo e copre il segno che c’era prima. La neve fresca non è né sintetica né pop, infatti il mercato usa la seduzione dei grandi spazi per catturare i nuovi adepti e poi li mette in fila sulle piste. Ti faccio vedere il mare, te lo faccio perfino annusare, e dopo t’incateno all’ombrellone. Non bisogna essere dei filosofi per esercitare l’avventura con la tavola da snowboard, comunque si fa della filosofia. La tavola è rovesciamento logico, trasgressione sintattica e reinvenzione estetica. Si vola con il vento e ci s’impantana nel mucchio.

Per me la buona tavola in neve fresca è stata una liberazione della mente. L’evasione da una cella chiusa. Per qualche inverno ho partecipato al nuovo pensiero, anche se si trattava già di uno sguardo minoritario, e forse lo era sempre stato, superato in un lampo dalle convenzioni sintetiche che abilmente ci seducono e subdolamente ci fregano.

© Achille Mauri

Arriva Salomon S/Lab Pulsar

Quando Kilian Jornet ha vinto nel 2019 alla Sierre Zinal, facendo registrare il record della gara, aveva ai piedi la versione beta della Salomon S/Lab Pulsar. Ora quella scarpa arriva sul mercato, con alcuni presupposti per rivoluzionarlo.

Grazie all'intersuola Salomon più leggera in produzione e alla tomaia anch’essa dal peso piuma abbinata a tecnologie avanzate, è possibile provare l'ebbrezza della velocità in uno dei modelli S/LAB più leggeri di sempre: meno di 170 grammi. Il giusto livello di ammortizzazione nei punti strategici per garantisce una falcata agile nei percorsi trail non estremamente tecnici. Con un fit simile a quello che può generare una calza e con la rete traspirante Matryx rinforzata con fibre aramidiche la scarpa avvolge il piede con straordinaria omogeneità, praticamente come se fosse un guanto. L’intersuola è in schiuma leggera e reattiva creata dal mix ottenuto con EVA e copolimero olefinico a blocchi [OBC], il tutto per offrire un’ammortizzazione a lunga durata e una restituzione dell’energia con un efficace effetto rimbalzo.

Drop: 6 mm (23 mm-17 mm) - Peso: 170 g - Misure: 36-49 - Prezzo: 185 euro 

GLI ATLETI SALOMON ITALIANI CHE UTILIZZANO S/LAB PULSAR 

Alberto Vender, Andrea Rota, Riccardo Borgialli, Camilla Magliano, Davide Cheraz, Davide Magnini, Federico Presa, Giuliano Cavallo, Giulio Ornati, Luca Carrara, Marco Filosi, Mattia Bertoncini, Pablo Barnes, Riccardo Montani, Riccardo Scalet, Simona Morbelli, Sonia Locatelli e Virginia Olivieri.


Mondiali, nell’individual è triplete azzurro

Tripudio azzurro nella gara più sentita dei Mondiali di scialpinismo, ad Andorra, l’individual. Oggi nella gara Senior maschile oro per uno straordinario Matteo Eydallin davanti a Robert Antonioli e Davide Magnini. Ai piedi del podio lo svizzero Rémi Bonnet e quinto Michele Boscacci. Tra le donne bronzo di Alba De Silvestro, dietro all’argento Tove Alexandersson (SWE) e all’oro Axelle Gachet-Mollaret (FRA). Ai piedi del podio Giulia Muarada, seguita da Ilaria Veronese e Mara Martini. Successi azzurri anche nelle Under 23 (Giulia Murada, argento Giorgia Felicetti), negli Under 23 (Sebastien Guichardaz) e nelle Under 20 (Samantha Bertolina). Negli Under 20 oro per l’austriaco Paul Verbnjak, negli Under18 per lo svizzero Jérémy Muriset e nelle pari età femminili della tedesca Antonia Niedermaier.