Outdoor Guide 2021, 320 pagine per sapere tutto prima di acquistare
Il mondo dell’outdoor estivo in meno di dodici mesi dall’ultima edizione della Outdoor Guide è cambiato profondamente: processi in atto che la pandemia ha accelerato alla velocità della luce. Decine di migliaia di persone che avevano visto la montagna e la natura solo sui loro smartphone si sono riversate in massa nella wilderness. Così anche l’Outdoor Guide 2021 (320 pagine, 10 euro), in edicola a partire dal 13 maggio, cambia pelle. Non ha più senso una separazione netta tra camminare e correre e in parte anche tra camminare e usare mani e piedi per salire. Sono categorie mentali che corrispondono a mondi collegati tra di loro. Abbiamo eliminato le vecchie categorie trail, ultra, sky & vertical, day hiking, multiday hiking e mountain per passare a quattro idee: correre (Speed Race), correre e camminare (Trail), camminare (Hike), salire (Mountain). Ogni categorizzazione porta sempre con sé qualche forzatura, è normale. Ma, oltre la semplificazione nel passare da sei a quattro categorie, c’è una riivoluzione nel modo di pensare e di approcciarsi all’attività all’aria aperta. Non abbiamo più ragionato con schemi rigidi, legati esclusivamente o prevalentemente ad aspetti fisici e misurabili come il peso o il drop dei prodotti testati, ma partendo dalla passione e dalle emozioni di chi frequenta l’outdoor che si traducono in obiettivi, atteggiamento, tipo di movimento e di terreno. Nonostante la rivisitazione delle collezioni estive 2021 a causa della pandemia, là fuori ci sono davvero tante novità e, ancora una volta, si è fatto uno step verso qualità e funzionalità. Prodotti brutti non ce ne sono più, o quasi. E andare a fare sport o attività fisica (per rimanere alle distinzioni dei DPCM) è divertente e fa bene. Meglio un sorriso di una smorfia di dolore. No smile, no gain.
I PRODOTTI IN TEST
Circa 300 tra scarpe, zaini, bastoni, cinture e marsupi, GPS palmari, sportwatch, smartwatch, lampade frontali, tende, sacchi a pelo, materassini, fornelletti, filtri. Tutti provati.
IL TEAM
Una squadra di esperti e appassionati con un nucleo di veterani e qualche new entry. Trail runner top, amatori, Guide alpine, Accompagnatori di media montagna. Tutti insieme per consigliarti il migliore prodotto per le tue esigenze, come se un amico di cui ti fidi ti dicesse i pro e contro di una scarpa o di uno zaino che vorresti acquistare. Il test è stato reso possibile grazie a: Alessandro Brunetti, Franco Collé, Giuditta Turini, Graziana Pè, Niki Gresteri, Nicola Giovanelli, Silvio Pesce, Michael Dola, Francesco Paco Gentilucci, Sergio Pezzoli, Alessio Alfier, Federico Foglia Parrucin, Lorenzo Cavanna, Alice Arata, Elisabetta Caserini, Guido Chiarle, Carlo Gabasio, Paolo Tombini, Valerio Dutto, Luca Serenthà. Ai testatori si è aggiunta una squadra di fotografi appassionati, pronti a fermare l’obiettivo sui dettagli che contano: Federico Ravassard, Chiara Guglielmina, Lorenzo Bognetti, Matteo Cottardo, Daniele Molineris.
LA LOCATION
Finale Ligure è la capitale italiana dell’outdoor e ci ha consentito di provare nelle migliori condizioni, anche quando poco lontano nevicava. Trail, arrampicata, hiking: tutto nel giro di pochi chilometri e vista mare. Per la parte mountain ci siamo spostati ai piedi del Cervino.
LE SCHEDE
Abbiamo rivisitato il format e i parametri di valutazione. Le scarpe più interessanti sono state trattate in una pagina con prova a secco, sul campo, diverse misurazioni e test non solo sul terreno ma anche in laboratorio. Più informazioni nelle schede tecniche, dalla taglie disponibili alla possibilità di scegliere una versione con membrana impermeabile. Tra i dati rilevati, l’indice minimalista (che fornisce un parametro di quanto la calzatura influisce sulla naturale biomeccanica di corsa) e il tipo di ammortizzazione. Tra i nuovi test quello del grip in laboratorio, su piastra bagnata a inclinazione costante.
SPEED RACE
Abbiamo inserito le scarpe più leggere e veloci in una nuova categoria pensata per chi sa e vuole correre, possibilmente con appoggio di avampiede o mesopiede. Non necessariamente per fare gare, ma per affrontare l’outdoor alla ricerca della prestazione. 19 calzature, 15 zaini e cinture, 3 bastoni top: tutto quello che serve per chi sa come correre bene, ma niente di più perché ogni grammo di troppo è superfluo.
TRAIL
Il grande mondo di va in montagna preferibilmente per correre, ma non necessariamente. 48 scarpe, 15 zaini, 16 bastoni per per la maggioranza dei runner della natura. Potrebbero essere una scelta ragionevole anche per qualche escursionista.
HIKE
Camminare, camminare e camminare. Prevalentemente su sentiero, ma anche più in quota e su qualche sfasciume. 27 scarpe, 18 zaini, 12 bastoni: tutto quello che serve per muoversi con sicurezza e in comodità nella natura.
MOUNTAIN
Quando il gioco si fa duro: salire, a volte usando le mani, magari con la vetta di un quattromila come obiettivo, ma anche solo per fare una ferrata o una traversata con passaggi su ghiacciaio. Oppure per avvicinarsi alla parete. 29 scarpe, 12 zaini, 4 bastoni per salire. Le proposte da media montagna, che accettano i semi-automatici e hanno una migliore rullata, sono ormai diventate le migliori per l’alpinismo estivo. E nel mondo dell’avvicinamento i modelli mid e low cut rosicchiano quote di mercato alle tradizionali pedule.
GPS
Orologi per monitorare il training e le performance in montagna, comunicatori satellitari utili in caso di emergenza, palmari cartografici: il Covid ha rallentato produzione e innovazioni ma non mancano new entry. 10 modelli provati in ogni condizione.
LAMPADE FRONTALI
11 lampade: minuscole e leggerissime da dimenticare nello zaino e un po’ più grandi e pesanti per chi ha bisogno di tanta luce per correre veloce o andare in mountain bike.
BASE CAMP
10 tende, 5 materassini, 11 sacchi a pelo, 4 fornelletti, 2 filtri. Modelli tre stagioni o per un turismo un po’ più stanziale, ma sempre nella natura selvaggia. Dormire in tenda nella natura è la forma di turismo più sostenibile ed è perfetta per mantenere il distanziamento. Una sezione completamente rivisitata con foto dei prodotti nelle condizioni di utilizzo. La riscoperta di una montagna più selvaggia a causa della pandemia ha reso interessanti alcuni prodotti che fino a poco tempo fa acquistava solo chi partiva per la grande wilderness come i filtri per purificare l’acqua e così li abbiamo aggiunti anche noi all’elenco del materiale provato.
FARE SPORT PER ESPLORARE
Fare fatica nella natura è bello ed è un’occasione per andare alla scoperta di nuovi posti. Komoot è un’app perfetta per partire con questo spirito, che consente di scegliere il proprio sport, pianificare itinerari e la navigazione sul proprio smartphone o GPS. Acquistando la Outdoor Guide si ha diritto a un coupon per scaricare gratuitamente un pacchetto di mappe per la navigazione offline.
RIVOLUZIONE PLATE
Il plate in carbonio sembra essere il futuro anche nel mondo del trail running. Con Xenia, azienda leader nella produzione di materiali compositi, abbiamo approfondito l’argomento e i possibili sviluppi.
CORRERE E CAMMINARE BENE
Non si va a scuola di camminata e di corsa perché sono due dei gesti più naturali, però in funzione di come si corre o si cammina si consumano più o meno energie e si hanno più o meno possibilità di infortunarsi. Tutti i consigli e le informazioni degli esperti della Clinica del Running.
Esanatoglia state of mind
Qualcuno le ha definite l’Oregon italiano. Con le dovute differenze, bisogna ammettere che le Marche sono un territorio piuttosto selvaggio e dimenticato dove si può ancora trovare un po’ di spazio per avventure e corse di molte ore in totale solitudine. Tutti conoscono le strade bianche e le colline della Toscana, ci vivono i pro del ciclismo e ci sono molti eventi ma, quando parli delle Marche, è già tanto se il tuo interlocutore riesce a collocare la regione nella cartina geografica.
Le Marche, nel bene e nel male, sono un posto lasciato a se stesso. Nella stessa giornata puoi esaltarti per la scoperta di luoghi che al Nord sarebbero giostre per turisti a pagamento e puoi rabbrividire vedendo i cacciatori sparare a qualsiasi cosa gli capiti sotto tiro indisturbati, magari fuori stagione di caccia, senza che nessuno muova un dito. Io le Marche non è che le odio o le amo, mi è solo capitato di nascerci. Non nutro nessun sentimento di particolare attaccamento al luogo da cui provengo. Credo di essere una di quelle persone che non si fa grossi problemi a dire senza campanilismi quali sono le cose belle e quelle brutte del posto in cui vivo. Insomma, non starò qui a sostenere che le montagne delle Marche sono quasi come le Dolomiti, perché non lo sono. Non starò a raccontare la favola dell’oasi perfetta: basta fare un giro sui Sibillini e veder giacere a terra piloni di funivie mai entrate in funzione (e invece di ragionare sul rimuoverle si teorizza ancora sul potenziamento degli impianti di risalita). Però vi posso assicurare che, se non avete mai visto la fioritura delle lenticchie a giugno o sciato un canale dei Sibillini in inverno, vi state perdendo qualcosa. E poi esistono anche luoghi ancora più remoti e nascosti dei Sibillini, per esempio Esanatoglia.
Siamo tutti un po’ malati del più
Quando lavoravo per un’azienda che produce scarpe, una volta una signora mi chiese il costo degli scarponi d’alta quota. Li voleva comprare sul momento, seppure il costo di listino fosse alto e ovviamente non si effettuasse vendita di scarponi da 8.000 metri a un festival in pieno centro a Milano. Le chiesi se andasse in montagna e mi rispose che entro qualche mese sarebbe partita per l’Everest. Le domandai quali altre montagne avesse scalato: la sua esperienza alpinistica si limitava a una salita della Marmolada con l’ausilio della funivia (aveva camminato meno di un chilometro). Perché voleva andare sull’Everest, tralasciando il fatto che sarebbe stata ovviamente una salita fatta con sherpa, bombole dell’ossigeno e farmaci contro il mal di quota? Perché è la più alta. Questo è ciò che chiamo la sindrome del più. Ecco, se sei alla caccia del più qualcosa, non ti trovi nel luogo giusto.
A Esanatoglia non ci sono montagne più qualcosa di altre; la quota rimane sempre sotto i 1.500 metri. Non ci sono località balneari famose nelle vicinanze (il mare è a 70 chilometri), non ci sono location che si prestano come sfondo per foto su Instagram o didascalie da claim aziendale di industrie del fitness, profumi o auto sportive. Ed è proprio per questo che amo Esanatoglia. Qui le montagne e le colline non sono (ancora e spero mai) giostre per turisti portati in autobus a depredare il territorio e comprare souvenir e non esistono tutte quelle strutture simbolo del turismo non sostenibile delle Alpi, i belvedere in cemento o i kindergarden, i baracchini di patatine fritte e gli hotel di lusso per i russi. Esanatoglia, ma un po’ tutta la zona dell’entroterra marchigiano, permette di vivere giornate piuttosto reali, senza troppi fronzoli. Il rovescio della medaglia è ovviamente che per qualsiasi cosa devi arrangiarti. Se vuoi passare un giorno correndo, devi essere preparato al fatto che i sentieri potrebbero interrompersi nel nulla, che potresti trovarci trappole di bracconieri o filo spinato ad altezza collo e devi essere autosufficiente quando ti muovi. Questo aspetto si rispecchia nelle attività di manutenzione dei sentieri e in generale di salvaguardia del tuo sport: se ci tieni, devi rimboccarti le maniche. Esanatoglia è sempre la mia prima scelta per correre un po’ di chilometri nel bosco senza troppi patemi d’animo.
Esanatoglia
C’è ancora un piccolo borgo di meno di 2.000 anime in cui tutti si conoscono, la gente corregge il caffè al bar con il Varnelli e le vecchiette ti chiedono di chi sei il figlio. Un paese a 70 chilometri dall’autostrada, circondato da colline e montagne e lontano dai grandi flussi turistici, dalla tecnologia all’avanguardia e dai ritmi di vita esasperati delle metropoli. E poi sentieri, tantissimi sentieri, tutti curati e mantenuti in modo impeccabile, chilometri di single track nel bosco segnalati alla perfezione dove è impossibile perdersi: per avere la cartina, gratuita, basta andare a chiederla al tabacchino del paese. Questa oasi curata e tenuta sempre in condizioni perfette è opera dell’olio di gomito di Leopoldo Giordani e dei suoi soci appassionati di mountain bike che nel corso degli anni hanno iniziato a prendersi cura dei sentieri locali, rimettendoli in funzione e segnalandoli con segnavia in legno, fino alla loro ultima creazione, l’Esatrail Supehero, ovvero il collegamento di molti dei sentieri in un giro unico: 90 chilometri e 4.000 metri di dislivello positivo. Ecco ritornare il mantra: se ci tieni, devi rimboccarti le maniche. Il percorso è diviso in 12 checkpoint, ognuno di essi ha una piccola foratrice con un design diverso. Chi lo vuole, può acquistare la tessera per collezionare i 12 timbrini (10 euro) e dimostrare il proprio passaggio. Se riesci a percorrere il giro in un giorno vieni premiato al bar con una coppa, in due con una medaglia.
Morbido e selvaggio
Non mi dilungherò troppo sul percorso, perché oltre a trovare traccia ed esauriente descrizione sul sito esatrail.it, la cosa migliore da fare è partire per un giro. I fondi dei sentieri sono prevalentemente morbidi, ci sono strade forestali sterrate e qualche passaggio più roccioso. In alcune sezioni si trova un po’ di esposizione, ma niente di realmente pericoloso. Ci sono tantissime fonti d’acqua, che sono comunque segnate sulla cartina e sulle tabelle segnavia. Occhio solo a un paio di cani maremmani in una fattoria in frazione Sant’Angelo, ma incontrare dei cani pastori fa comunque parte dell’esperienza; per il resto bisogna solo metterci le gambe e godersi il viaggio.
Il mio Esatrail
La mia concezione di corsa va nella direzione di cercare di ridurre il superfluo il più possibile e portare con me solo il necessario. Non sono un grande pianificatore, non avevo idea del tempo che avrei potuto impiegare per correre questo percorso, quindi il materiale era più o meno lo stesso che uso sempre, anche in allenamento: un paio di pantaloncini, una t-shirt che ho utilizzato poco in quanto ho quasi sempre corso a torso nudo, due borracce a mano da mezzo litro, occhiali da sole e un cappello con visiera. Un paio di Hoka Speedgoat 2 (una vecchia versione) con su oltre 700 chilometri e un vecchio marsupio dove avevo infilato cinque gel e cinque Snickers completavano il mio assetto.
Sono partito al mattino presto dopo aver dormito in macchina, alle 5:17 ho fatto scattare il cronometro. Dopo pochi minuti di salita, evidentemente ancora assonnato, sono inciampato, cadendo in avanti, e ho rotto una delle borracce a mano, quindi ho proseguito per diverse ore tenendola stretta in discesa e incastrandola nell’elastico dei pantaloncini in salita. Tenete presente che quando ho fatto il giro (una settimana prima del lancio ufficiale) mancavano dei cartelli che rendono di fatto al momento impossibile perdersi e dover pensare dove girare nei bivi e il mio passo non è mai stato eccessivamente tirato. A metà percorso c’erano mio padre e mia sorella a fare un picnic e ho messo una frontale in testa (anche se non mi è servita), caricato altri cinque gel e cinque Snickers. Ho mangiato delle patatine fritte e bevuto della Cola. Dopo la salita al Monte l’Antica e al Monte Corsegno, sono ripartito da Palazzo (una piccola frazione con una bella fontana di acqua fresca) per la salita al Monte Gemmo verso l’una. Faceva veramente caldo e mi sono goduto tutta la salita perso nei miei pensieri, senza praticamente correre un metro e in discesa ho sbagliato strada, tornando indietro e accumulando svariate centinaia di metri in più del previsto. Non stavo puntando a una grande performance, volevo solo passare una bella giornata in montagna e così è stato. In 14 ore e 22 minuti di corsa ho incontrato due persone, alcuni cinghiali, tantissimi caprioli e un serpente. Basta. Il tempo di percorrenza serve solo per darvi un’idea, ovviamente se si vuole correre in maniera decisa, si può ridurre, e di parecchio.
Mezza
Spezzare il giro in due giorni è semplicissimo. A metà percorso, in corrispondenza del checkpoint del cartello del Fabulous Esatrail, si scende nel lungo fiume Esino, a pochi chilometri da Esanatoglia. Sui prati dell’argine ci sono piazzole di sosta, barbecue, tavolini e panchine. È il posto perfetto per una pausa e anche per fermarsi a campeggiare e ripartire il giorno seguente. Questo è anche il punto migliore se si vuole avere o prestare assistenza a qualcuno impegnato nel giro. Un altro punto chiave è l’abitato di Palazzo in cui si transita in una comoda zona con una fontana e un prato, dopo 70 chilometri circa. Altrimenti in paese ci sono B&B e altre sistemazioni. Mangiare non è un problema, in realtà uno degli aspetti più belli dell’Esatrail Superhero è che non devi preoccuparti di molto se non di correre e goderti i tunnel di bosco nei sentieri. Le quote mai elevate permettono di effettuare questo giro anche nelle mezze stagioni, in autunno e inverno, prima che arrivi molta neve. La mia speranza è che diventi prima o poi una gara, chi lo sa. Nel frattempo è un bellissimo giro ben segnalato che si può andare a provare ogni giorno dell’anno e merita di sicuro il prezzo del biglietto. Run it easy.
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Da casa al Monte Bianco e ritorno
Non che sul Monte Bianco non ci fosse già stata, nel 2010 e altre due volte l’anno scorso, però Hillary Gerardi, statunitense trapiantata nella valle di Chamonix, voleva inventarsi qualcosa per dare un senso alla permanenza forzata ai piedi del Monte Bianco e alla mancanza di gare nella stagione della pandemia. Così la trail runner e ambassador Black Diamond, guardando distrattamente la cartina in rilievo che ha in cucina, non ci ha pensato su due volte: partire da casa, a Servoz, all’inizio della valle di Chamonix, e salire dritta fino al Monte Bianco, per poi tornare a sedersi sulla sdraio nel giardino nella stessa giornata. Non la linea più logica, non la più bella, ma quella più diretta da casa alla vetta e ritorno. Partenza alle 2 di notte, arrivo in vetta alle 11,15 e rientro per godersi il panorama e riposarsi sulla chise-long. Ne è nato un simpatico cortometraggio, Home Summit Home, tutto da guardare, magari iniziando a pensare alla propria avventura dietro casa.
https://youtu.be/YyVYzuvu-f0
Le UTMB World Series sono la Superlega del trail?
L’annuncio della nascita delle UTMB World Series - non del tutto inaspettato - segna un ulteriore step verso la spettacolarizzazione, professionalizzazione (e la fine dello spirito trail, secondo i più nostalgici) del mondo della corsa in natura.
Il gioco è semplice ed è piramidale. Si parte dall’alto, dalle finali, OCC, CCC e UTMB. Le tre gare della settimana chamoniarda saranno, rispettivamente, il gotha sui 50K, 100K e 100M (miglia). Per qualificarsi bisogna partecipare o a una gara delle UTMB World Series Majors (sono qualificati i primi 10 uomini e donne di ogni categoria 50K, 100K e 100M), o a una delle UTMB World Series Events (si qualificano i primi 3 di ogni categoria e distanza). Poi, ancora più sotto, ci sono le migliaia di gare UTMB World Series Qualifiers. Partecipare alle Events farà guadagnare delle pietre che permetteranno di essere ammessi all’estrazione dei pettorali UTMB, mentre le probabilità di essere estratti aumenteranno per gli iscritti alle Majors.
Nasce anche un nuovo indice di performance calcolato su quattro categorie (20K, 50K, 100K e 100M). E le gare? per ora ci sono solo le prime otto perché il calendario definitivo verrà svelato in autunno e il sistema sarà operativo dal 2022. Oltre all’UTMB ci sono Val d’Aran by UTMB (Spagna), Thailand by UTMB (Tailandia), Panda by UTMB e Gaoligong by UTMB (Cina), Tarawera Ultramarathon by UTMB (Nuova Zelanda), Ultra-Trail Australia by UMB (Australia) e Mozart 100 by UTMB (Austria). Le ultime tre gare sono targate The IRONMAN Group con il quale viene organizzato il circuito.
Nella pratica l’iniziativa UTMB diventa il vero circuito mondiale del trail e dell’ultra-trail, al quale, prevedibilmente, parteciperanno gli elite. Una specie di Superlega del trail. Rimane da capire quale sarà la posizione di gare simbolo trail come, per esempio, la Diagonale des Fous o di altre storiche competizioni che sono nel calendario dell’Ultra-Trail World Tour, come d’altra parte la maggior parte delle gare delle World Series, per esempio la Western States. Non c’è dubbio che potrebbe essere proprio l’UTWT a essere messo in ombra dal nuovo circuito. Ci saranno gare italiane? Anche questa è una domanda alla quale non c’è per ora risposta. Peraltro il più importante appuntamento italiano, la LUT, insieme, tra le altre, a Patagonia Run, Ultra Pireneu e Trans Gran Canaria, non fa più parte dell’UTWT ma del circuito Spartan Trail World Championship.
Nel comunicato di presentazione delle UTMB World Series si fa riferimento alla consultazione di una decina di atleti elite prima di dare vita al nuovo circuito. E i runner italiani come la pensano? Stefano Ruzza, settimo a Chamonix nel 2018, ha preso una posizione netta con un lungo post su Facebook. La conclusione? «L’ultratrail non è l'ironman, e Chamonix non è Kona. Gli atleti elite cosa pensano? Io non sono abbastanza elite, ma non ho alcuna intenzione di fare una delle poche gare imposte da loro per qualificarmi per un futuro UTMB. Ci sono tantissime altre belle gare che vorrei fare. E per quest'anno, mi verrebbe proprio di non andarci e di guardarmi intorno».
Patagonia per le comunità energetiche
Patagonia, il noto marchio di abbigliamento e accessori per l’outdoor, non è la prima volta che sostiene iniziative e cause ambientali anche non direttamente collegate con il mondo dello sport e delle attività outdoor. L’ultima azione prevede un sito e il documentario We the Power per mettere in luce il crescente movimento delle comunità energetiche in tutta Europa. Le comunità energetiche sono un sistema di produzione di energia in cui gruppi di cittadini producono la propria energia rinnovabile e condividono i benefici economici all'interno della comunità locale. La campagna mira a dimostrare i vantaggi che potrebbe portare questa rivoluzione energetica, sia alle persone che al pianeta.
Attualmente sono un milione i cittadini europei coinvolti nel movimento in veste di membri, investitori o clienti delle comunità energetiche. Entro il 2050 questo numero potrebbe aumentare fino a 260 milioni di cittadini e le comunità energetiche potrebbero contribuire a generare fino al 45% dell’energia dell’Unione Europea, fornendo posti di lavoro locali, bollette ridotte, un ambiente più sano e un tessuto sociale più forte.
La campagna We the Power chiede ai cittadini europei di immaginare un nuovo sistema energetico, libero dai grandi monopoliestrattivi energetici che controllano elettricità e denaro, oltre ad aggravare la crisi climatica. Al posto di questo modello obsoleto e dannoso c'è quello della produzione di energia rinnovabile locale, di proprietà della comunità, socialmente innovativo ed economicamente vantaggioso per le comunità locali.
L'obiettivo della campagna è quello di spronare i cittadini a scegliere come fornitore di energia elettrica una comunità di energia rinnovabile, a unirsi o investire in un gruppo - favorendo così la creazione di posti di lavoro, la crescita della comunità e sostenendo gli abitanti del posto che vivono in condizioni di povertà energetica - o a fondare una nuova comunità energetica. Tutte queste azioni potrebbero accelerare la crescita di questo importante movimento in tutta Europa.
Il film di 30 minuti e la campagna presentano le storie dei pionieri delle comunità energetiche come Dirk Vansintjan, fondatore e presidente della federazione europea delle cooperative di energia rinnovabile REScoop. Altri leader del movimento includono Sebastian Sladek, i cui genitori hanno fondato EWS Schönau negli anni '80, come risposta diretta ai potenziali pericoli nucleari derivanti dal disastro di Chernobyl. Nel film vengono presentati anche Agamemnon Otero, MBE, direttore e fondatore di Repowering London ed Energy Garden – che ha introdotto nel movimento il concetto di resilienza della comunità e di buy-in – e Nuri Palmada, membro del consiglio della comunità energetica spagnola Som Energia.
Il film è stato diretto da David Garrett Byars, il pluripremiato regista del documentario Patagonia Public Trust, che è stato visto 2,5 milioni di volte dal lancio nel settembre 2020.
Per saperne di più sulla campagna We the Power di Patagonia visita il sito Patagonia.
Trail-food
Era bello fermarsi con gli amici a bere una birra dopo una sciata, certo. Per non parlare della comodità di poter pernottare in quota e raggiungere la cima dopo una colazione al caldo. Ma era ciò che ci motivava a partire? L’assenza di punti di appoggio gestiti in montagna obbliga a ingegnarsi col fai-da-te, e non è necessariamente una brutta cosa. Uno dei primi punti da affrontare, soprattutto per gite sugli sci di più giorni in autosufficienza in ambiente innevato, è proprio il cibo. Viaggiare leggeri e con una buona scorta di nutrienti a disposizione è una questione cruciale in inverno, ma non è facile. Un buon pasto caldo richiede lunghi tempi di preparazione, strumenti di cottura sofisticati e altrettanto spazio per essere trasportato. D’altra parte, il classico panino veloce e poco ingombrante dopo un po’ stanca, non si conserva a lungo e finisce per sbriciolarsi tra l’attrezzatura. La buona notizia è che gestire tutto ciò non solo è possibile, ma diventa anche un’ottima occasione per riflettere sul valore dell’autonomia e sulla portata dell’impatto sull’ambiente che attraversiamo. O almeno, questo è quello che è successo a me e ciò che mi ha portata a scoprire la cultura del trail-food e della filosofia zero-waste.
Era una delle mie prime traversate in totale autosufficienza, 80 chilometri in uno degli angoli più selvaggi del Trentino. Sulle spalle tutto quello che serviva a sopravvivere, oltre alle solite cianfrusaglie a cui l’escursionista alle prime armi non riesce a rinunciare. Appesantita da scatolame, pasta, vasetti, bustoni di cibo precotto e varie confezioni monodose di colazioni, pranzi e cene, capivo che una scelta non accurata dei viveri non influiva solo sulla resistenza degli spallacci: in quattro giorni avevo prodotto più spazzatura di quanta ne buttassi a casa in settimane. Nelle escursioni di più giorni ti rendi conto di quanti rifiuti produci perché sei obbligato a far posto nello zaino per portarli tutti con te: ne senti letteralmente il peso. A casa, al contrario, hai l’impressione che, una volta differenziato, un imballaggio o una bottiglia vuota smetta di esistere e che non sia più un tuo problema. Ero partita per stare a contatto con la natura in un ambiente selvaggio, ma stavo mantenendo ritmi di consumo peggiori di quelli cittadini; mi sembrava una contraddizione.
Cercando una soluzione più sostenibile, economica e comoda da trasportare ho scoperto il mondo del trail-food fai da te: come autoprodurre e conservare, per lo più con il metodo dell’essiccazione, tutti i tipi di snack e pasti che vengono usati nelle attività outdoor in modo da evitare l’acquisto di prodotti preconfezionati e di conseguenza sfruttare materie prime locali, ridurre lo spreco di imballaggi e risparmiare parecchio peso. Una pratica che nasce tra backpacker e thru-hiker d’oltreoceano dove, a differenza di quanto accade normalmente nei territori alpini, i punti per rifornirsi lungo i più famosi cammini di lunga percorrenza distano normalmente parecchi giorni l’uno dall’altro. Più che di scienza culinaria si tratta di una vera e propria cultura dell’arrangiarsi nella wilderness: un espediente pratico collegato al desiderio di muoversi in totale autonomia e senza lasciare traccia nella vastità incontaminata dei parchi statunitensi.
La sfida dell’autoproduzione mi ha subito appassionata, il tema infatti non riguarda solo l’alimentazione ma rispecchia, in generale, un approccio a basso impatto tanto nella frequentazione dell’ambiente naturale quanto nella quotidianità; se ci si vuole muovere in natura senza lasciare traccia, tenendo con sé tutta (tutta per davvero) la spazzatura prodotta, allora è comodo ridurla al minimo fin dall’inizio, cominciando a seguire abitudini di basso consumo già a casa.
COME FUNZIONA
Alla base delle varie tecniche per autoprodurre alternative casalinghe ai più comuni alimenti preconfezionati troviamo quasi sempre l’essiccazione, uno dei più antichi metodi di conservazione naturale del cibo. Con un buon forno, un essiccatore o un semplice telaio in ambiente caldo e ventilato è possibile disidratare qualsiasi alimento e ad- dirittura un intero piatto già pronto. Tolta la componente umida, il pasto perde la maggior parte del suo peso, mantenendo intatte tutte le proprietà nutritive; e può essere conservato in contenitori ermetici per mesi. Che siano snack, gel energetici fai da te, guarnizioni per panini o pasti completi, gli alimenti essiccati occupano pochissimo spazio e possono essere trasportati in normali sacchetti da freezer riutilizzabili all’uscita successiva. Si consumano così come sono (frutta secca, barrette, chips di verdure) oppure reidratandoli con un procedimento del tutto simile alla preparazione delle più comuni buste di cibo precotto. Il gusto sarà quello di un piatto fatto in casa e ci si ritroverà con parecchi rifiuti in meno da gettare lungo il percorso. Se poi si sceglie di partire da materie prime sfuse acquistate localmente, l’impatto complessivo della preparazione si avvicinerà ancora di più allo zero.
COSA SERVE
Ottenere un pasto pronto fai da te in pochi minuti con attrezzatura e tempi ridotti al minimo è semplicissimo: la prossima volta che preparate un piatto completo a casa, che si tratti di zuppe, cereali, pasta o legumi, aggiungete qualche porzione in più. Quello che avanza può essere essiccato così com’è, conservato in vasetti ermetici e trasferito poi in sacchetti da freezer monodose al momento della partenza (con l’accortezza di sceglierne in plastica resistente alle alte temperature: dura di più e si può utilizzare diverse volte).
Il processo di essiccazione consiste nell’eliminare dal prodotto parte del contenuto di acqua iniziale per mezzo del calore senza però cuocerlo, limitando così i processi di fermentazione e riducendone il volume. La soluzione ottimale per ottenere questo risultato è l’utilizzo di un essiccatore, i cestelli ravvicinati permettono di essiccare grandi quantità di cibo ottimizzando tempi e consumi. Gli stessi effetti, a livello di qualità, si possono ottenere con un forno che funzioni a temperature sotto ai 70 gradi, con l’accortezza di impostare la modalità ventilato oppure lasciando lo sportello socchiuso per favorire la dispersione dell’umidità.
Per consumare un pasto essiccato basta un fornelletto a gas e una gavetta nella quale reidratare il composto a fuoco lento per qualche minuto. Volendo ridurre davvero al minimo tempi di cottura, pentolame e scorte di gas, si può versare l’acqua bollente direttamente nel sacchetto e aspettare una decina di minuti mentre il pasto si reidrata da sé: quest’ultimo metodo prende il nome di freezer bag cooking, funziona meglio con ricette semplici a base di alimenti di veloce cot- tura (come zuppe di cereali, piccoli legumi, verdure e accompagnamento per cous cous) ma permette di avere una cena calda istantanea, completa e gustosa senza accumulare piatti da lavare.
QUALCHE RICETTA
Quadretti energetici al cioccolato
Il freddo aumenta esponenzialmente il fabbisogno energetico e queste barrette ultra caloriche e super golose sono lo snack perfetto da consumare durante una giornata sulla neve.
Ingredienti
/ 125 gr di datteri
/ 2 cucchiai di cacao amaro in polvere
/ 125 gr di mandorle tritate
/ 1 banana
/ fiocchi d’avena sbriciolati per guarnire
Procedimento Frullate i datteri con mezzo bicchiere d’acqua e una banana fino a ottenere una crema densa. Aggiungete il cacao e le mandorle tritate mescolando fino a che l’impasto non sarà uniforme. Stendete l’impasto su un tagliere, formando una sfoglia dello spessore di un centimetro, poi tagliate in quadretti. Ricoprite di fiocchi d’avena sbriciolati facendoli aderire alla superficie dei quadretti. Versione raw: se avete in programma di consumarli a breve, sarà sufficiente lasciarli addensare qualche ora in frigo. Si conservano fino a una settimana. Versione scorta: personalmente preferisco prepararne in gran quantità una sola volta, in modo da avere snack pronti sempre disponibili con poco impegno. In questo caso disponete i quadretti sui cestelli dell’essiccatore per 3 ore a 50 gradi e trasferite poi in contenitori ermetici: dureranno per mesi. Si possono mangiare così come sono, ma risultano meno morbidi; potete togliere dal contenitore la quantità da consumare a breve lasciandola qualche ora in frigo per far riprendere al composto un po’ di umidità in modo che torni alla consistenza iniziale.
Mix di verdure e legumi con cous cous
La soluzione in assoluto più gustosa e più veloce per una cena pronta da bivacco: il cous cous, oltre a garantire energia e pancia piena con poco ingombro, è velocissimo da preparare. Accompagnarlo a un goloso mix di verdure e legumi reidratati sul posto darà tutto un altro sapore alla cena. Solitamente ne preparo in grandi quantità nella stagione estiva, quando le materie prime abbondano ed essiccarle diventa anche un modo per non sprecare le eccedenze dell’orto.
Ingredienti per 4 persone
/ 2 carote
/ 1 melanzana
/ 1 zucchina
/ pomodorini
/ 300 gr di ceci
/ 300 gr di cous cous
Procedimento Dopo aver tagliato le verdure a cubetti, saltatele in padella condendo a piacere per preparare una comune dadolata. Aggiungete i ceci lessati a parte e triturati grossolanamente a fine cottura (se lasciati interi impiegherebbero troppo tempo a reidratarsi). Disponete sui piani dell’essiccatore e lasciatelo in funzione tutta la notte a 60/70 gradi, estraendo il composto solo quando non saranno più presenti tracce di umidità. Si conserva in vasetti chiusi ermeticamente per parecchi mesi. Consumazione e preparazione in viaggio: prima di partire, trasferite la quantità di verdure desiderata in una busta di plastica da freezer resistente alle alte temperature insieme al cous cous e a un pizzico di sale. Una volta giunti a destinazione, sarà sufficiente versare dell’acqua bollente nella busta fino a coprire il composto e lasciar riposare una decina di minuti. Il pasto può essere consumato direttamente dalla busta, e questa si può riutilizzare all’uscita successiva.
Infuso di zenzero e limone
Il gesto ormai automatico quando la sveglia suona per andare a sciare è far bollire l’acqua per il thermos, immaginando già il piacere di una bevanda calda sulla cima. Il grande classico invernale che preferisco è l’infuso di zenzero e limone, energetico e riscaldante, oltre che semplicissimo da preparare.
Ingredienti
/ zenzero essiccato
/ limone essiccato (a buccia edibile)
/ scorze di limone essiccate
/ miele o zucchero
Procedimento Affettate limone e zenzero a fettine sottili e disponeteli sui cestelli dell’essiccatore (3 o 4 mm di spessore) per almeno 3 ore a 50 gradi. Una volta essiccati, sbriciolate il tutto e chiudetelo in vasetti ermetici: la scorta di infuso è pronta e durerà tutto l’inverno. Preparate la bevanda seguendo il normale procedimento di infusione, lasciando uno o due cucchiai del composto in acqua bollente per qualche minuto e aggiungendo un dolcificante a piacere.
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Arthur Conan Doyle, un passo alpino sugli ski
È incredibile come certe persone possano essere visionarie, ahead of their time, in anticipo sui tempi, come direbbero oltre oceano. Lo è stato sicuramente Arthur Conan Doyle. In un articolo pubblicato su The Strand Magazine (VIII, July-December 1894, pp. 657-661), che pubblichiamo a seguire, con divertente humour british, 126 anni fa, l’autore del più famoso detective di tutti i tempi, Sherlock Holmes, aveva già intuito le formidabili potenzialità di due assi di legno, ma soprattutto il potere che hanno sull’anima e sul nostro benessere. Arthur Conan Doyle aveva scoperto lo sci durante una lunga e forzata vacanza in Svizzera dove la moglie Louise era in cura per la tubercolosi.
Non v’è nulla di particolarmente insidioso nell’aspetto di un paio di ski. Si tratta di due lingue di legno d’olmo lunghe otto piedi e larghe quattro pollici, munite di coda quadrata, punta all’insù e legacci al centro per assicurare i piedi. A guardarli, nessuno immaginerebbe le possibilità che nascondono. Ma vi basterà calzarli, rivolgere un sorriso agli amici per controllare che vi guardino, e subito dopo cadrete di testa in un cumulo di neve e scalcerete come dannati fino a rimettervi in posizione più o meno stabile, per poi ricadere rovinosamente su quello stesso cumulo, con il risultato di offrire agli amici un divertimento di cui non vi sareste mai creduti capaci.
Questo succede agli inizi. È normale in quella fase mettere in conto guai, i quali non tardano ad arrivare. Man mano che si va avanti, però, la faccenda si fa più irritante. Gli ski sono gli oggetti più capricciosi della terra. Un giorno fila tutto liscio. Un altro, pur essendo immutate le condizioni di clima e neve, va tutto storto. Ed è quando meno ve lo aspettate che gli imprevisti sono in agguato. Ve ne state in cima a un pendio e disponete il corpo a una rapida discesa, ma gli ski s’incollano al terreno facendovi capitombolare di testa. Oppure vi trovate lungo un plateau che sembra piatto come una tavola da biliardo, quando all’improvviso, senza né cause né segnali, essi schizzano in avanti lasciandovi a terra a guardare il cielo. Su un uomo che dia segni di eccessivo amor proprio, un assaggio di scarpe da neve norvegesi potrebbe avere un ottimo effetto morale.
Quando vi preparate a cadere, state pur certi che non accadrà mai. Ritenetevi spacciati quando vi sentite affatto sicuri. Arrivate a un pendio di ghiaccio vivo, con un’inclinazione di settantacinque gradi, e lo salite a zigzag conficcando le lamine degli ski, sapendo che se una zanzara vi si posasse addosso sareste finiti. Ma non succede nulla e arrivate in cima sani e salvi. Vi fermate in piano a congratularvi con il vostro compagno e avete solo il tempo di dire «Che veduta meravigliosa!» prima di ruzzolare di schiena e ritrovarvi con gli ski incrociati attorno al collo. O ancora, vi capiterà di compiere una lunga escursione senza infortuni, dopodiché, tornando lungo la pista, vi fermerete ad annunciare il vostro successo a un gruppo di persone sulla terrazza di un albergo. Basterà un nonnulla, e d’un tratto quelle persone si troveranno a rivolgere i complimenti alla spatole dei vostri ski. Se non avete la bocca piena di neve, per trovare un qualche conforto non vi resterà che snocciolare i nomi di un po’ di paesini svizzeri. Ragatz potrebbe fare al caso vostro ed evitare uno scandalo.
Ma tutto ciò appartiene alle prime fasi dell’uso degli ski. Dovrete pattinare in piano, muovervi su per i pendii a zigzag o alla maniera di un granchio, scivolare senza perdere l’equilibrio e soprattutto curvare con agilità. Al primo tentativo di curvare, gli amici penseranno che fate i buffoni. Il grande volteggio in aria sugli ski ha un aspetto fra i più insoliti, come una sfrenata danza tribale. Eppure quel repentino scodinzolo è veramente la più necessaria delle manovre, perché solo così è possibile curvare sul fianco della montagna senza scivolare. Mai porgere i talloni al pendio: è questa la sola maniera per farlo.
Fatto sta che, disponendo di perseveranza e di un mese libero nel quale superare tutte le prime difficoltà, si giungerà a credere che gli ski aprono un orizzonte di sport che è, a mio avviso, unico. Non riscuote ancora apprezzamento, ma sono convinto che un giorno centinaia di inglesi verranno in Svizzera per la stagione dello ski, in marzo e aprile. Credo di potermi dichiarare il primo, a eccezione dei due svizzeri di cui vi parlerò, ad aver compiuto traversate in montagna sulle scarpe da neve (seppure su distanza piuttosto modesta), ma senz’altro non sarò l’ultimo, anzi mi seguiranno migliaia di persone.
Il fatto è che in inverno scalare una normale vetta e compiere la traversata di valichi alpini è più facile che in estate, a patto che il tempo resti sul bello. In estate dovrete sia salire che scendere, e le due fasi sono egualmente faticose. In inverno la fatica è ridotta a metà, poiché buona parte della discesa è una semplice pattinata. È molto più semplice salire zigzagando con gli ski sopra una neve passabilmente compatta, anziché scarpinare su per i massi sotto un cocente sole estivo. Inoltre la temperatura invernale è più propizia all’esercizio, poiché nulla è tanto delizioso quanto l’aria tonificante e pura delle montagne, purché, naturalmente, s’indossino gli occhiali per proteggersi dal brillio della neve.
Il nostro programma era di andare da Davos ad Arosa attraversando il Passo della Furka, a oltre novemila piedi di altezza. In linea d’aria il tragitto non supera le dodici-quattordici miglia, ma in inverno è stato compiuto soltanto una volta, quando, lo scorso anno, i due fratelli Branger lo percorsero sugli ski. Erano loro i miei compagni nella spedizione che descriverò di seguito, i più fidati cui un novizio potesse sperare di accompagnarsi. Sono entrambi uomini di notevole resistenza, capaci di non soccombere neanche a una lunga esposizione al mio tedesco.
Svegli già prima delle quattro, alle quattro e mezzo eravamo in cammino per il paesino di Frauenkirch, dove avremmo attaccato l’ascensione. Una grande luna pallida splendeva nel cielo violetto, punteggiato di quelle stelle che è possibile ammirare soltanto ai Tropici o sulle cime più alte delle Alpi. Alle cinque e un quarto deviammo dalla strada per scarpinare sulla salita, dove si alternavano distese ancora coperte d’erba e chiazze di neve. Gli ski li portavamo in spalla, gli scarponi da ski attorno al collo, poiché si progrediva spediti sulla neve dura, là dove il sole aveva picchiato durante il giorno. Qui e là, in corrispondenza di una conca, affondavamo fino alla cintola in un manto soffice, ma nel complesso la marcia procedeva facilmente, e finché la pista attraversò un’abetaia fu impossibile calzare gli ski. Attorno alle sei e mezzo, dopo una lunga e continua sfacchinata, uscimmo dai boschi e poco dopo passammo davanti a una malga di legno, l’ultimo segno di presenza umana che avremmo visto fino ad Arosa.
Poiché sui pendii la neve era ancora abbastanza dura da offrire un buon appiglio ai nostri piedi, proseguimmo veloci sopra ondulati campi di neve che tendevano generalmente a salire. Più o meno alle sette e mezzo il sole rischiarò i picchi alle nostre spalle e il bagliore su quella grande distesa immacolata si fece accecante. Scendemmo per un lungo tratto e poi, giunti al corrispondente versante esposto a settentrione, trovammo la neve soffice come polvere e così alta che il bastone non toccava il fondo. Fu lì che calzammo le scarpe da neve e zigzagammo su per il lungo e candido fianco della montagna, per poi fermarci in cima a riposare. Sono oggetti utili gli ski, poiché, vedendo che la neve era ancora abbastanza dura da reggerci, li convertimmo in un comodissimo sedile, dal quale ammiravamo la vista di un completo circo di montagne, i cui nomi il lettore sarà contento di sapere che ho completamente dimenticato.
La neve si ammorbidiva rapidamente sotto i raggi solari, così che senza le scarpe la progressione sarebbe stata impossibile. Ci inerpicavamo sul ripido fianco di una valle e la bocca del Passo della Furka ci stava grossomodo di fronte. La neve lassù si posava a un’angolazione di cinquanta-sessanta gradi e poiché quello scosceso pendio lungo il quale scarpinavamo precipitava in un baratro, scivolare poteva essere rischioso. I miei compagni più esperti mi lasciarono camminare più a monte per quel mezzo miglio circa che durò il pericolo, ma presto sbucammo su una salita più leggera, dov’era possibile cadere senza gravi conseguenze. E allora sì che cominciammo veramente a usare le nostre scarpe da neve. Fino a quel punto avevamo camminato alla stessa velocità di un paio di scarponi, però su un terreno dove gli scarponi non sarebbero passati. Ma adesso assaporavamo un piacere che gli scarponi non potranno mai regalare. Per un terzo di miglio pennellammo curve che solcavano delicatamente la neve, schizzando fino a valle senza muovere i piedi. In quel grande deserto inviolato, dove campi di neve facevano da cornice alla nostra vista su tutti i lati e dove non si scorgevano tracce di vita che non fossero le impronte di camoscio o di volpe, fu glorioso sfrecciare in quel modo agevole. Un breve zigzag ai piedi della china ci condusse, alle nove e mezzo, alla bocca del passo, e vedemmo i piccoli alberghi giocattolo di Arosa, laggiù in fondo tra le abetaie, migliaia di piedi sotto di noi.
Avevamo ancora grossomodo mezzo miglio, che percorremmo trascinandoci dietro i bastoni. Mi pareva che la parte difficile del viaggio fosse finita e che dovessimo soltanto stare in equilibrio sugli ski e farci portare a destinazione. Eppure fu lì che arrivarono i guai. La discesa si fece sempre più ripida, fino a precipitare in quello che per un soffio non era un burrone bell’e buono. Ma è appunto in ragione di quel soffio, là dove sia coperto di neve soffice, che è possibile sfruttare in un altro modo le meravigliose lingue di legno. I fratelli Branger concordavano sul fatto che il tratto era troppo difficile perché tentassimo di attraversarlo con gli ski. Quanto a me, mi pareva che la sola opzione possibile fosse un paracadute, ma mi limitai a fare quello che facevano i miei compagni. Si tolsero gli ski, li allacciarono l’uno all’altro con i legacci e li capovolsero per ottenere una slitta alquanto rudimentale. Ci sedemmo sopra, conficcando i talloni nella neve e premendo forte i bastoni dietro di noi, e cominciammo a scendere lungo lo scosceso versante del passo. Penso che i miei compagni giunsero a pentirsene, visto che arrivati al fondo erano bianchi come la moglie di Lot. Ma ero alle prese con guai così impellenti da non avere tempo per curarmi di loro. Cercai di moderare la velocità dei miei balzi premendo il bastone, il che ebbe l’effetto di far ruotare di lato la slitta, facendomi sbandare giù per la discesa. Fu così che ficcai i talloni nella neve e venni catapultato all’indietro, dopodiché in un lampo i miei ski, legati assieme, schizzarono come una freccia da un arco, oltrepassarono i Branger con un sibilo e svanirono sulla china dirimpetto, lasciando il proprietario carponi nella neve fonda. Sui campi più alti, dove i cumuli di neve vanno dai venti ai trenta piedi, poteva essere un incidente sgradevole, ma nel mio caso la ripidità era un vantaggio, perché lì la neve non si accumulava in grandi quantità. Scesi il tratto che mi restava alla mia maniera.
A detta del mio sarto, l’Harris Tweed non si logora mai. È una pura teoria, che non reggerebbe a un esperimento scientifico dotato di tutti i crismi. Brandelli della sua merce si trovano esposti, infatti, dal Passo della Furka ad Arosa, e per il resto di quel giorno fui particolarmente felice di camminare rasente ai muri.
Tuttavia, se non si conta che uno dei Branger si era slogato la caviglia nel corso della discesa, andò tutto bene e arrivammo ad Arosa alle undici e mezzo, dopo un viaggio di sette ore spaccate. Gli abitanti di Arosa, sapendo del nostro arrivo, avevano messo in conto che prima dell’una non ci saremmo fatti vivi, e così uscirono per assistere alla discesa del ripido passo più o meno quando noi finivamo un lauto pranzo al Seehof. Non starò qui a rimproverarli per un divertimento innocente, ma vi dirò che fui felice di sapere che il mio piccolo spettacolo fosse finito prima che loro si riunissero muniti di binocolo. Senza un pubblico, ce la si cava ottimamente durante un nuovo esperimento sugli ski.
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Aperte le iscrizioni al BUT Formazza
Dal primo maggio sono aperte le iscrizioni all’edizione 2021 di BUT Formazza, il trail in programma il prossimo 10 luglio in Alta Val Formazza, nel nord del Piemonte.
Saranno tre i percorsi previsti: Bettelmatt Trail, Bettelmatt Skyrace e Bettelmatt Race. Bettelmatt Trail (BT) ritornerà sul percorso classico e si svolgerà quindi su una distanza di 57 km per oltre 3.000 m D+-; Bettelmatt Sky Race (BSR) vedrà invece gli atleti sfidarsi sul percorso di 37 km per quasi 2.500 m D+- già provato nel 2019; anche Bettelmatt Race (BR) si svolgerà sul percorso classico, che prevede 24 km per 950 m D+-.
Grazie a questa grande varietà il 10 luglio sarà possibile veramente per tutti, ognuno secondo il proprio allenamento, vivere al meglio le famose Emozioni Ad Alta Quota caratterizzanti questa gara, che vede gli atleti delle due distanze più lunghe arrivare ai 3000 m del Rifugio 3A; gli atleti di BT e BSR scenderanno poi fino alla frazione di Canza, per risalire dal sentiero accanto alla Cascata del Toce, uno dei luoghi più caratteristici di questo territorio, e tornare al classico luogo di partenza e arrivo, il borgo di Riale, a oltre 1.700 m di quota. Il percorso di Bettelmatt Race 24 km ricalca invece la prima parte di Bettelmatt Trail, passando per il Lago Toggia, il Passo San Giacomo e l’Alpe Bettelmatt prima di tornare a Riale.
Anche nel 2021 l’evento organizzato da Formazza Event farà parte del circuito Salomon Golden Trail National Series ed è gara FISKY, Federazione Italiana Sky Running.
Le iscrizioni a BUT Formazza si potranno effettuare esclusivamente on line sul sito www.butformazza.it
Domenica è tempo di Trail Mottarone
Il Vibram Trail Mottarone segna l'inizio della stagione agonistica della corsa in natura, un inizio ancora più atteso dopo il lungo stop imposto dalla pandemia. Il lungo programma del weekend di trail running sul Lago Maggiore prevede la Mottyno Run (12 km - 300 d+) sabato 8 maggio e il Vibram Trail Mottarone il giorno successivo. La gara principale ha una lunghezza di 20 chilometri per un dislivello positivo di 2100 metri, con partenza da Stresa e arrivo sulla vetta del Monte Mottarone (1.491 m). Il tempo limite di sette ore la rende accessibile praticamente a tutti, come una grande festa dello sport.
Il main sponsor dell'evento è Tecnica che sarà presente anche all'Area Expo sul Lungolago Marconi di Stresa con uno stand espositivo e commerciale con tutte le calzature da trail running con sistema CAS, incluse le Origin LD, novità della stagione 2021 per le lunghe distanze.
«Come ogni trail runner, non vedevamo l'ora di tornare a provare l'emozione del pettorale - spiega Marco Aliprandi, marketing manager Italia Blizzard-Tecnica - E anche noi negli ultimi mesi abbiamo fatto fatica a mettere abbastanza chilometri nelle gambe in allenamento, ma per la gara di domenica abbiamo un asso nella manica da condividere con gli appassionati della disciplina. Le tomaie e i plantari delle scarpe Tecnica sono presagomate per adattarsi alla specifica forma anatomica del piede fornendo una calzata perfetta e ottime sensazioni sin dal primo passo, eliminando virtualmente la necessità di un rodaggio di adattamento prima di poterle usare in competizione. Inoltre, per esigenze specifiche, dove non arriva la presagomatura arriva il sistema CAS di customizzazione derivato dalla tecnologia di boot fitting dei nostri scarponi da sci».
Godere delle stesse cose
La pandemia ha stravolto tutto. Anche il mio modo di vivere lo sci. Nella primavera scorsa, di ritorno dalle Antille dopo una traversata atlantica con la mia vecchia barca a vela, non vedevo l’ora di sciare. Dopo mesi di assoluta libertà sull’acqua sono piombato, impreparato, in pieno lockdown duro. Le montagne intorno a casa sembravano di panna montata e io non potevo che stare a guardarle. Non capivo bene perché potessi solo andare al supermercato, poi mi hanno spiegato che se mi fossi fatto male sciando, gli ospedali erano pieni. Ho pensato che con 74 anni di sci alle spalle, senza mai usare il casco, non mi ero mai rotto un osso e che forse era più facile che mi facessi male cadendo dalle scale. Ho anche pensato che sarebbe stato meglio che fossi rimasto a navigare oltreoceano, anziché rientrare in una Italia infetta. Confesso che, non avendo capito bene la gravità della situazione, la voglia di trasgredire si è fatta sentire, forte. Ho programmato fughe notturne con gli sci sulle spalle, un po’ come ai vecchi tempi, quando si partiva dalla città ancora addormentata, dopo una notte brava, per qualche gita demenziale.
Un po’ come i miei amici di Livigno (non posso fare nomi) che sono riusciti in quei giorni a eludere i controlli, effettuando un perfetto raid in sci. Soffrendo non poco, ho aspettato la fine di aprile per iniziare la stagione scialpinistica. Le necessità di distanziamento, unita all’età e allo scarso allenamento, mi hanno portato a ripetere più volte in solitaria itinerari collaudati come la classica salita a Punta Rocca in Marmolada. Proprio io che non ho mai amato vivere lo scialpinismo da solo e ripetere gli stessi itinerari. Speravo di chiudere bene allo Stelvio a fine giugno con il Tuckett ma ho trovato una coda chilometrica di giovani atleti alla funivia e così ho dovuto accontentarmi dei bei pendii ripidi di Cima Nagler, dove un tempo ci si allenava a fare lo speciale con i pali rigidi. Bilancio di fine stagione tutto sommato positivo, come pretendere di più in questi mala tempora! Però niente raid di rifugio in rifugio, che sono la forma di sci che prediligo in primavera. Tutto rimandato a chissà quando. Lo sci, ai tempi della pandemia, perde purtroppo la dimensione di continua scoperta propria dei raid e il piacere del viaggio vissuto con gli amici, il che non è certo poco. O forse sono io che non sono capace di vivere altrimenti questa dimensione di plenitudine dello sci? La pandemia solleva in me questi dubbi profondi.
Poi arrivò l’estate, e sembrò che il peggio fosse passato. Ho ordinato gli sci nuovi,
sci da ragazzetto, sognando il prossimo inverno. Ma, con l’autunno, apriti cielo! I contagi sono ripresi alla grande e finalmente ho capito la gravità della situazione ed i rischi che, soprattutto alla mia età, stavo correndo. La paura del contagio è diventata una costante e la pratica dello sci nulla di più che un modo per evadere, almeno per qualche ora, dall’incubo. La fortuna ha voluto che la neve arrivasse copiosa già ad inizio dicembre a soli 950 metri di altitudine, dove abito. Nel timore, anzi nella certezza, che durasse poco ad una quota così bassa, ho sciato fino a notte fonda sul prato illuminato davanti a casa, risalendo il pendio con una manovia di una cinquantina di metri. Poche curve ma di alta qualità su di una bella polvere mi hanno proiettato nel mondo bianco della mia infanzia sciatoria. Quando instancabile andavo su e giù su di un prato simile a questo, a Sauze d’Oulx, allora perfetto paese di montagna, risalendo decine di volte il pendio a scaletta, senza l’aiuto di manovie, di skilift o degli orribili e diseducativi tapis roulant che infestano oggi i campi scuola. Quando prendevo orgoglioso, bardato da sciatore, il tram 22 con il mio papà e, attraversata tutta Torino, si arrivava al capolinea di Sassi.
Di qui si proseguiva con la cremagliera di Superga. Che discesa il vallone di Cartman dove adesso corre la strada del traforo del Pino! Un freeride per palati fini fra le vigne ed i muretti a secco. Su e giù più volte come dei matti, intervallate dalle code di sciatori alla biglietteria.
Poi, come previsto, il caldo è ritornato e la neve davanti a casa si è sciolta quasi tutta. Per superare il senso di smarrimento dato dal rivedere l’erba verde del prato sono salito più in alto, sfidando il pericolo dei cani lasciati liberi nei masi sopra il mio, fino a raggiungere i bellissimi boschi esposti a nord della Panarotta, la piccola stazione in crisi non tanto per il lockdown quanto per una cronica mancanza di idee. Ho risalito con le pelli più volte le piste deserte, ho respirato a pieni polmoni l’aria pulita, ho ritrovato il profumo della neve e del lariceto. In fondo mi basta questo, ho pensato che la pandemia è servita a qualcosa, a farmi rivivere i piaceri delle brevi e semplici gite d’altri tempi, nell’incanto bianco di boschi vivi e silenziosi.
Ho trovato assurdo che la seggiovia fosse ferma a causa dei divieti. Ma lo sci non è uno sport individuale all’aria libera? Capisco chiudere le cabinovie, i chiassosi ritrovi lungo le piste, le discoteche. Ma perché anche le seggiovie e gli skilift? Che male fanno? Ho provato addirittura un’istintiva solidarietà con i pistaioli chiusi in casa e con i gestori di questa vecchia seggiovia, ora ferma fino a chissà quando. Anche se a me tutto sommato va bene così, perché posso risalire quando voglio con le pelli la pista deserta. Arriva dunque, con il Natale, il regalo della nuova raffica di decreti governativi che vietano anche i più innocui spostamenti in auto. Ecco riaffacciarsi imperiosa la voglia di trasgredire. Una voglia che mi riporta ai miei anni migliori, quando godevo a salire e scendere alte montagne senza permessi. Con gli sci nuovi appesi alla prodigiosa e-bike e gli scarponi da telemark nello zaino risalgo da casa le forestali che raggiungono la neve. Ancora gli stessi pendii, gli stessi boschi, gli stessi dislivelli con le pelli, le stesse curve. Ormai mi è chiaro che la pandemia impone di godere delle stesse cose, dei microcosmi che la montagna sempre sa offrire. È come essere in un supercarcere dotato di un grande parco giochi. È come vivere in un mondo chiuso, in una bolla surreale che ha assunto le dimensioni di una artificiosa normalità.
Potrò ancora partire, viaggiare, rivivere i grandi spazi, le grandi traversate con gli sci? Mi rimane poco tempo per farlo, alla mia età. I grandi spazi a cui continuo, imperterrito, ad anelare, oggi mi sembrano così distanti, così difficilmente raggiungibili, che non so rispondere. Nell’attesa che qualcosa cambi e di sentirmi nuovamente libero, ecco una bella notizia: la neve ha ripreso a cadere copiosa sul prato davanti a casa. Polvere sopraffina, un vero regalo. Posso riprendere senza indugio la ricerca di quella curva lenta che prolunga al massimo il piacere del fruscio dei fiocchi di neve sotto le solette degli sci. Una curva ideale che descrive tutto il bello dello sci, alla faccia della pandemia. È la ricerca della curva perfetta.
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Saper apprezzare il silenzio
«Stavamo attraversando, a 800 metri di quota, il tratto periferico di un ghiacciaio dal nome impronunciabile - sulla carta c’è scritto Øksfjordjøkelen - e la temperatura nell’arco di poche centinaia di metri era crollata di parecchi gradi rispetto ai pendii più vicini alla costa. Davanti a noi, e anche dietro, e di fianco, montagne senza nome rese ancora più cupe dalla luce bassa del sole. A febbraio, oltre il Circolo Polare Artico, il sole si alza ben poco sopra l’orizzonte: anche a mezzogiorno le ombre sono lunghe come al tramonto. Ci stavamo spostando con gli occhi ben aperti e la consapevolezza di essere gli unici esseri umani in giro, a parte la cinquantina di abitanti che occupano il piccolo insediamento portuale e altri quattro sciatori, ospitati come noi da Morten. Per raggiungere la civiltà, da qui, occorrono due ore di traghetto e altrettante di pullman, sempre che il mare non sia agitato o la strada non venga chiusa per le valanghe: e per civiltà sto parlando di Alta, ventimila anime distribuite con una media di cinque abitanti per chilometro quadrato. Ci sentivamo soli, anzi, di fatto lo eravamo: quella solitudine che uno sciatore cerca e, quando la trova, lo posiziona a metà strada tra l’esserne affascinato o intimorito».
Su Skialper 135 di aprile-maggio pubblichiamo lo straordinario reportage di Federico Ravassard da Bergsfjord, un minuscolo villaggio nella wilderness norvegese dove si va a sciare usando anche la barca. «La sera stessa in cui arriviamo capiamo di essere finiti in un lunapark per bambini troppo cresciuti: i canali più vicini sono letteralmente sopra il paese e le pelli si mettono direttamente sull’uscio di casa. Per arrivare a quelli più lontani, invece, ci pensa Nicky, la piccola barca bianca e arancione che usiamo il giorno successivo per muoverci fino al punto di partenza. Il briefing prima di salpare è essenziale ma efficace: se si dovesse cadere in acqua durante la navigazione avremmo non più di una decina di minuti di autonomia prima di passare all’altro mondo per l’ipotermia, sempre nel caso in cui non fossimo già affogati».
Federico è stato ospite nel lodge di Morten Christensen, sciatore e skipper norvegese che ha percorso tutta la costa del Paese in barca a vela, alla ricerca dei migliori sport per unire le sue due passioni. E del silenzio. «A posteriori si capisce che una delle qualità necessarie per vivere qui sei mesi all’anno è la stessa che viene richiesta agli sciatori o ai velisti: sapere apprezzare il silenzio, nella sua accezione più ampia possibile, quella di assenza delle cose. Dei suoni, delle trasmissioni, a volte anche delle altre persone o di attività a esse collegate. Quel tipo di silenzio ti permette di concentrarti di più e di entrare a contatto con l’essenza di quello che stai facendo. La pagina di un libro, uno sci che scorre sulla neve in salita, un’onda che si infrange sullo scafo. Sarebbe superfluo dirvi di venire in un posto come Bergsfjord per le sue montagne incontaminate: il senso di un luogo così sta nel suo essere silenzioso».
Sciatori del secondo tipo
«In fondo tutti sappiamo che esistono due tipi di sciatori. Quelli che smettono e quelli che in realtà non smettono mai. O se smettono è solo per un attimo, per quel periodo che si fa sempre più lungo tra l’ultima lingua di neve e la prima nevicata. Una parentesi, diciamo. Un cartello Torno subito fuori dal locale».
Ecco, visto che ci avviciniamo alla fine della stagione, l’articolo Sciatori del secondo tipo di Saverio d’Eredità, che pubblichiamo su Skialper 135 di aprile-maggio, è proprio d’attualità. Perché è proprio nelle prossime settimane che si vede la vera passione. «Perché di sciatori ce ne sono di due tipi. Ovvero quelli che sciano diciamo fino all’ora legale, la chiusura impianti o finché gli alberi non mettono fuori le foglie, che quando vedono lampeggiare 20 °C sul cruscotto o hanno l’appuntamento del cambio gomme, dicono beh la stagione è finita. E quegli altri.
Quelli che la stagione per certi versi a quel punto inizia, che si svegliano alle 3:33 e scendono dal letto lacerando i propri sogni per seguirne altri. Che - ça va sans dire - gli sci iniziano la gita sempre sullo zaino». Un racconto leggero su un tipo di sciatore nel quale molti di noi si immedesimeranno. Una riflessione tra il serio e l’ironico, senza la pretesa di dare un giudizio.
«Non è questione di chi sia meglio o peggio, chi ha ragione o chi torto. Anzi, i primi mi sa che se la vivono sicuramente meglio. Sono inseriti nella società, godono di un certo consenso, sono spesso molto bravi perché sciano al posto giusto nel momento giusto e non soffrono il cambio di stagione. Spesso hanno auto ben in ordine, interno ed esterno, e di solito l’arbre magique.
Quegli altri, quelli del secondo tipo invece, l’auto è facile che la puliscano due volte l’anno e tengano i finestrini abbassati a primavera per non svenire dalla puzza di scarpone bagnato. Quegli altri devono sempre trovare una buona scusa e spesso per giustificarsi fanno gli arroganti, ma in realtà soffrono dentro. Avvertono disagio nel caldo che monta, nell’aria opalescente dei pomeriggi di pianura, disorientati dal non poter più seguire linee bianche sui primi rilievi all’orizzonte».