«La TransParco – così l’avevo chiamata – è rimasta per tanti anni confinata tra gli obiettivi di qualche escursionista, finché lo scorso anno un gruppo di ragazzi del CAI di Feltre la scopre e se ne innamora. Attorno a essa costruiscono un progetto, coinvolgono il Parco e le Sezioni CAI, alcune aziende outdoor come Ferrino e Aku, vogliono ridargli vita mettendo a frutto le loro esperienze. ‘Questi sono luoghi preziosi’ dico ai ragazzi, ‘e la sola ragione che può spingerci ad incentivarne la loro frequentazione si radica, e trova la sua giustificazione, nell’esperienza concreta tra l’uomo e la natura di queste montagne. Qui possiamo ancora udire l’autentica voce dei monti, altrove è ormai sopita’». A parlare è Teddy Soppelsa, autore dell’ampio reportage sulla neonata Alta Via delle Dolomiti Bellunesi che pubblichiamo su Skialper 119 di agosto-settembre.

©Roberto De Pellegrin

DOLOMITES WILDEST PATH – Il nomignolo che è stato dato a questo trekking di una settimana (sei o sette tappe a seconda del passo) è davvero appropriato perché da Pian del la Fòpa a Passo Croce d’Aune si cammina nel cuore delle Dolomiti più selvagge, lontano da rifugi cinque stelle e comprensori sciistici. Proprio l’incontro con rifugi e rifugisti è uno dei momenti più belli del giro.

©Roberto De Pellegrin
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CAPITANI CORAGGIOSI – Luca ha 38 anni, per lui gestire il rifugio Pramperet non è stata una scelta ma una necessità: «Ero senza lavoro e ho preso un’occasione al volo. Ora però mi trovo bene e vorrei continuare, vorrei che non diventasse come i rifugi che ci sono a Nord, dove ormai è stato addomesticato tutto. Elena e Gavino sono sedici anni che gestiscono il rifugio Pian de Fontana. Lei vicentina e lui di Alghero, cercavano un posto dove lavorare in montagna e l’anno trovato qui, su un antico pascolo in vista della Schiàra. «Quando devo dire non ce l’hoa chi mi chiede l’acqua calda, la camera doppia, il tiramisù o i gelati, vedo che rimangono un po’ perplessi – dice Elena -. Abbiamo tutti molte cose e questo è un posto che ne offre meno, ma ti dà un’esperienza in più. Poi la maggior parte delle persone al mattino mi dice: Sono stato bene, grazie dell’atmosfera. Allora sono io che mi stupisco perché non ho fatto niente di speciale». Enzo un bel giorno si è stancato di fare il falegname e da sette anni con sua moglie Sonia gestisce il rifugio Furio Bianchet. «Per gestire un rifugio non bisogna amare la montagna, perché la montagna non la vedi» dice con un po’ di ironia in un marcato accento vicentino. «Io che sono il cuoco-falegname sono dentro la cucina dalla mattina alla sera e quando si sta quattro mesi fermi in un rifugio se non ci sei con la testa muori subito». Questa e altre interessanti storie nel bellissimo reportage con le foto di Roberto De Pellegrin!

©Roberto De Pellegrin
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