Il Bivacco tessile
È stato da poco inaugurato il nuovo bivacco Aldo Frattini, in Val Seriana, lungo il Sentiero delle Orobie. La struttura, realizzata grazie alla collaborazione tra GAMeC (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo) e CAI di Bergamo nell’ambito di Pensare come una montagna – Il Biennale delle Orobie, è stata progettata da EX., laboratorio di ricerca e progettazione che unisce arte, paesaggio e tecnologia sostenibile attraverso l’architettura. Il bivacco, a quota 2.300 metri, è un progetto innovativo sotto diversi aspetti.


È concepito come un rifugio leggero, reversibile e tecnologico. Il suo design richiama la forma della tenda alpina, che rievoca le prime esplorazioni in alta quota, e punta a ridurre al minimo l’impatto ambientale. La struttura è realizzata in legno, con rivestimento interno in sughero naturale che garantisce isolamento termico e acustico. La copertura esterna però è una pelle tessile innovativa, resistente agli agenti atmosferici, studiata in collaborazione con Ferrino. Il sistema costruttivo, sviluppato ad hoc, consente l’installazione in contesti estremi grazie a un peso complessivo di soli 2.500 kg e a una superficie di appoggio ridotta, di circa 2,5 mq. Le dimensioni compatte (3,75 x 2,60 x 2,60 m) e la forma svasata della scocca riflettono un approccio progettuale attento alla funzionalità e al minimo impatto sul suolo. Progettato per accogliere fino a nove persone, è dotato di panche perimetrali e letti pieghevoli ispirati ai portaledge alpinistici, convertibili in barelle d’emergenza.

© T. Clavarino
Tomba, il gatto alpinista
Secondo la leggenda i corvi sarebbero la reincarnazione delle Guide alpine morte in montagna. Si può crederci oppure no, ma è difficile pensare che Tomba non fosse la reincarnazione di una saggia Guida alpina. Non stiamo ovviamente parlando dello sciatore bolognese, ma di un gatto vissuto tra il 1988 e il 1993 nelle Alpi Svizzere, più precisamente a Kandersteg, nel Vallese. Il nome che i proprietari dell’hotel Schwarenbach diedero a quel grazioso gattino è dovuto in parte all’Albertone, ma anche a quello della madre, Tomassa.

Tomba iniziò subito a fare capire le proprie intenzioni a dieci mesi quando alcuni alpinisti che soggiornavano in hotel se lo trovarono tra le gambe mentre salivano al Rinderhorn (3.453 m) e qualche giorno dopo al Balmhorn (3.699). Tomba non solo li seguì, ma arrivò in cima come se avesse i ramponi sotto le unghie. Si dice che abbia ripetuto le salite alle vette più alte del circondario più volte e che la sera amasse annusare gli zaini degli ospiti dell’hotel e scegliersi i compagni di avventure per il giorno successivo. L’episodio più interessante della storia di Tomba riguarda il miracoloso salvataggio di una coppia di sposini da una valanga. Durante la salita a un certo punto si fermò, riluttante a proseguire, e iniziò a miagolare insistentemente, rifugiandosi dietro un masso. I due, incuriositi, lo seguirono e subito dopo il percorso che stavano seguendo fu investito da una valanga. Alla fine degli anni ’80 Tomba diventò una star internazionale con fotografie e notizie nei tabloid dal Giappone al Sud Africa e servizi sulla televisione Svizzera. Purtroppo la sua vita fu corta perché nel 1993, a quattro anni e mezzo, morì insieme alla madre a causa della AIDS felino. La sua storia è raccontata il un libretto della famiglia Stoller, che gestiva l’hotel Schwarenbach, scritto da Hedy Sigg e con le fotografie di Max Piffner.

Casco obbligatorio per tutti (anche gli scialpinisti)
È passata un po’ in sordina, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale di sabato 9 agosto scorso, ma la modifica dell’articolo 17 del decreto legislativo 28 febbraio 2021, n. 40, inserita nel decreto-legge 30 giugno 2025, n. 96 ha delle conseguenze importanti per il mondo dello sci e della montagna.
Con la nuova norma viene infatti estesa a tutti gli sciatori l’obbligatorietà del casco e non solo ai minori di 18 anni.

A prima lettura, un obbligo (che ci risulta esistere solo in Italia, almeno nel continente europeo) che riguarda poco gli scialpinisti ma, a parte che un giro in pista prima o poi lo fanno tutti, non è proprio così. Basta anche solamente passare per un comprensorio sciistico nella fase di avvicinamento alla meta per dover considerare questa ipotesi. Senza considerare che il popolo di chi si allena in prossimità delle piste per poi usarle in discesa è una fetta importante del mercato.
La nuova norma obbliga tutti questi scialpinisti all’utilizzo del casco, perché in pista non ci può essere nessuno che ne sia sprovvisto. La ratio è la stessa dell’assicurazione RC: per utilizzare le piste è obbligatoria. La mancata osservanza? Una multa che può raggiungere i 150 euro, ma il problema principale non è la sanzione, quanto la conseguenza alla quale ci si potrebbe esporre in caso di incidente. L’inosservanza della legge, infatti, potrebbe avere una serie di conseguenze legali, a partire dai risarcimenti.
E allora qualche casco usare, che vada bene sia fuoripista che nel comprensorio? «Il modello ideale, perché versatile per entrambi gli utilizzi, leggero e areato, è quello con la doppia omologazione per sci e scialpinismo, sul quale abbiamo puntato da tempo, con due prodotti diversi in catalogo, Hailot e The Peak» fanno sapere in Julbo, il marchio francese specializzato in caschi, maschere e occhiali. La doppia omologazione fa riferimento alle norme EN-1077 (sci e snowboard) ed EN 12 492 (alpinismo e arrampicata). La norma EN-1077 prevede le classi A e B: la prima è solitamente più protettiva (prevede per esempio anche la protezione delle orecchie) ma porta alla realizzazione di prodotti più pesanti e meno ventilati. I caschi a doppia omologazione sono generalmente inseriti nella categoria B e hanno pesi di circa 300 grammi.

© Julbo
Védrines e Jean: prima salita del Jannu Est
Lo scorso 15 ottobre i due francesi hanno salito il settemila himalayano in stile alpino alla parete Nord.
Ci sono montagne che non vengono semplicemente scalate. Si attraversano come esperienze, si vivono come viaggi interiori. Il Jannu Est, 7.468 metri nel massiccio del Kangchenjunga, è una di quelle. Uno degli ultimi enigmi himalayani, una delle vette non ancora salite. Una parete nord di 2.250 metri, un muro che sembra custodire il senso più puro dell’alpinismo. È qui che Nicolas Jean, 26 anni, e Benjamin Védrines, 33, hanno deciso di misurarsi, con un obiettivo tanto semplice quanto radicale: salire in stile alpino, senza ossigeno, senza corde fisse, senza aiuti esterni. Solo due uomini, una linea, e la volontà di andare leggeri.

L’idea e il ritorno
L’autunno 2024 aveva già lasciato un segno. Un primo tentativo finito troppo presto, il sogno rimasto sospeso. Ma la montagna, come spesso accade, concede una seconda possibilità a chi sa aspettare. Così Jean e Védrines sono tornati, con un piano ancora più essenziale: niente squadra, niente supporto, solo loro due.
Nei mesi precedenti avevano costruito la fiducia e la forza dove tutto è iniziato: sul Monte Bianco. Una traversata in sci di tre giorni, poi le quattro pareti del Bianco in un solo giorno, quasi 8.000 metri di dislivello. Un modo per allenare il corpo, ma anche per rafforzare quella connessione mentale che tiene insieme una cordata.
La salita
Il 12 ottobre si mettono in marcia verso la base della parete. Il meteo concede una finestra stretta ma buona, e la scelta è fatta: partire. Due notti sospesi nel vuoto, tra ghiaccio e roccia, fino a raggiungere la cresta sommitale. È lì che capiscono che la vetta, quella vera, è ancora oltre. Un falso picco li aveva illusi, e davanti resta un ultimo tratto estenuante: neve instabile fino al bacino, pendii verticali, la stanchezza che si fa totale. Alle 13:40 del 15 ottobre, però, i due raggiungono la cima. In silenzio. Perché a quell’altitudine, le parole servono a poco.
«Gli ultimi 500 metri sono stati i più duri» racconta Jean. «Eravamo esausti, ma dovevamo restare lucidi. La discesa, in quelle condizioni, è stata una battaglia».
Per Védrines, è la salita di una vita. Non solo per la difficoltà, ma per l’armonia nata con Nicolas: due velocità diverse, due generazioni diverse, ma una sola idea di montagna.

Il valore della leggerezza
In un’epoca di spedizioni pesanti e commerciali, questa ascensione riporta l’ago della bussola verso l’essenza. Leggerezza non significa semplicità: è una scelta consapevole, che comporta rischio, autonomia e responsabilità. La loro attrezzatura, sviluppata insieme al marchio Simond, è il riflesso di questa filosofia: piccozze e ramponi alleggeriti al massimo, imbraghi e tende ridotti all’essenziale. Ogni grammo tolto, un po’ di libertà guadagnata.
Una traccia che resta
Il Jannu East è ora segnato da una nuova via, ma la montagna resta intatta. Jean e Védrines hanno lasciato poco più che il segno dei loro passi, e forse è proprio questo il valore di un certo alpinismo oggi: fare tanto, lasciando poco.
Nei prossimi mesi arriveranno le relazioni tecniche, le immagini, il racconto completo. Ma il senso di questa salita si può già leggere: il ritorno a un alpinismo di ricerca, dove la prestazione si intreccia con l’etica e la bellezza con il rischio.

© Simond, Quentin Degrenelle, Thibaut Marot
L’incredibile storia di Urban Zemmer, primo uomo sotto i 30’
Nel 2014 l’altoatesino è stato il primo a scendere sotto la barriera della mezz’ora
Fully, Vallese (Svizzera), sabato 25 ottobre 2014. Cielo coperto, temperatura 11,5 gradi, umidità 76%, vento quasi assente. I dodici rintocchi dei campanili hanno già segnato l’arrivo del mezzogiorno. Lungo il percorso di una vecchia funicolare immersa tra i vigneti e i boschi centinaia di persone si accalcano per fare il tifo. La partenza è a Belle-Usine de Fully, a 500 metri. L’arrivo a Garettes, esattamente mille metri più in alto. Se si potesse tendere un filo in orizzontale sarebbero 1.920 metri. La pendenza media è superiore al 50%. In questo angolo di Vallese c’è il chilometro verticale più corto e ripido del mondo, tanto che è obbligatorio indossare un casco. Senza bastoni è quasi impossibile salire. Si parte uno per volta, prima gli amatori, poi gli atleti élite. Il pettorale numero uno è quello del vincitore dell’anno precedente e parte per ultimo.
Castelrotto, Bolzano, venerdì 24 ottobre 2014. Cinquecentocinquantotto chilometri separano una fattoria sui pascoli ai piedi dell’Alpe di Siusi, da quella vecchia rotaia che corre su dritta per la montagna del Vallese con il sole che trasforma i binari in specchi.
Un’auto parte per la Svizzera. Salgono un uomo e una donna, Urban e Astrid. Lui si è appena tolto la tuta da lavoro. Si è alzato alle sei di mattina, è andato in stalla a controllare i vitelli. Poi si è messo gli abiti dell’idraulico e infine è tornato a casa ed è passato ancora per la stalla. Sopra casa ci sono prati e boschi ripidi, è tutto un vertical, basta decidere dove andare. E capire quanto tempo è rimasto prima che sia buio. Nonostante questo in estate fa qualcosa come 100.000 metri di dislivello tra bici e vertical.

Tra i vigneti di Fully la tensione sale, l’adrenalina dei concorrenti è alle stelle. Arriva il turno del pettorale numero uno. È proprio lui, Urban, contadino e idraulico, per hobby uomo verticale. All’anagrafe la sua nascita è stata registrata nel 1970, 44 anni fa. Ogni cento metri c’è un cartello a indicare il dislivello percorso. Lo sforzo è sovraumano, la fatica impossibile. Ogni metro il tifo si fa più forte. Salire per che cosa? Per fare la fine del toro nell’arena, con il pubblico impazzito come in un baccanale e il cuore a mille? No, 178, i battiti di soglia sono 178. Non perché Urban usi un cardiofrequenzimetro, ma perché alla visita medica per l’abilitazione sportiva il medico si è reso conto di avere tra le mani un motore da fuoriserie. Contano la testa e il cuore, quel cuore che pompa, quella testa che ogni tanto vorrebbe mollare. «Ci sono sempre quei momenti quando pensi che devi calare il ritmo, ma prima o poi vanno via e comunque ci vuole la testa dura, altrimenti non faresti mai questa fatica». Ci vuole un motore che ‘canta’, ma senza la caparbietà di Urban non funzionerebbe così bene. Strategia? «Partire subito a tutta». I minuti passano e ogni istante sembra eterno. Il tempo si ferma, come cristallizzato, tra le urla di incitamento del pubblico. Di prima mattina faceva fresco, ma ora, nel bel mezzo della giornata, fa caldo, forse troppo per una fatica da Ercole.
Si dice che le imprese sportive negli sport di fatica siano favorite dal clima fresco. Quel calore e quell’umidità dell’aria e del tifo riportano invece la lancetta indietro di due anni, a un altro clima, quello dell’estate 2012. Faceva caldo anche allora, a fine giugno. Ma a un certo punto qualcosa è andato storto e improvvisamente Urban non ha più sentito una parte del corpo. Un ictus, o qualcosa di simile. Tanto spavento, un ricovero in ospedale, esami approfonditi. E la paura di non potere salire più veloce. Per uno che ha scoperto l’arena agonistica per caso, un po’ per rinforzare le ginocchia dopo un infortunio, un po’ dopo avere vinto una garetta goliardica organizzata dagli amici tanto per divertirsi, per uno che ha messo le scarpe da mountain running solo a 34 anni, scoprire che a 42 devi fermarti è una doccia gelata. Ma lui non sa stare fermo e non lo ha mai fatto. Ha continuato ad allenarsi dolcemente. E ora è qui su questa salita infinita. Quei momenti, quegli istanti in cui il suo corpo non lo sentiva più, gli passano davanti agli occhi mentre una goccia di sudore cola dal naso. Mancano cento metri.
Cento metri verticali. Eppure le sensazioni non sono buone. Un paio di settimane fa, a Limone sul Garda, il vertical non è andato come sperava. Fa caldo. Le mani spingono a tutta sui bastoni. I passi si fanno un po’ più corti. Anche i suoi. Sì, perché Urban ha una tecnica tutta sua. Nel vertical non esiste, in realtà, una tecnica ‘ortodossa’, però la maggior parte degli atleti fanno passetti corti, altri continuano a corricchiare anche quando la pendenza sale. Lui no, lui non corre e fa i passi lunghi. Li ha fatti anche quando a Canazei è diventato campione del mondo e ha dovuto riacchiappare gli altri big che erano scappati via sul primo pratone dove si corre. Li ha fatti anche quando è diventato campione europeo.
Il tabellone del cronometro sul traguardo si ferma. Tutto si blocca, anche le bocche spalancate del pubblico che incita sembrano immobili, come in un fermo immagine. Il mondo si ferma. 29’42’’741. Per la prima volta un uomo ha percorso mille metri verticali in meno di mezz’ora. Quell’uomo si chiama Urban Zemmer, contadino e idraulico di Castelrotto, non Usain Bolt o Carl Lewis. Non è un atleta professionista, ma un working class hero. Non ha tabelle da seguire e gel nella tasca, ma la sua benzina sono le lasagne cucinate con amore dalla compagna Astrid. Non va al caldo ad allenarsi in inverno, la sua preoccupazione, quandolascia casa per una gara, sono i vitelli: chi li curerà? Mezz’ora vuol dire tutto e niente. È stato calcolato che l’uomo medio passa circa 54 minuti in viaggio per andare a lavorare, impiega 77 minuti per mangiare, trascorre 177 minuti davanti allo schermo dello smartphone e 168 davanti a quello della televisione. Tutti multipli del record di Urban.
«Sono venuto a Fully per vincere, non pensavo al record, in realtà non avevo nemmeno sensazioni così buone, a Limone un paio di settimane fa non è andata come volevo, il clima non era così fresco e poi quando non sai mai quanto tempo hai per allenarti e non puoi fare programmi non puoi neppure programmare un record» dice Urban. Sapeva che poteva andare sotto i 30 minuti, voleva andare sotto i trenta minuti, ma solo Dio può decidere quando.
(Il testo è tratto da La Sportiva 90, monografia realizzata da Mulatero Editore per il novantesimo anniversario del marchio)

© La Sportiva 90 - Mulatero Editore
Bonnet stupisce ancora: 27’21’’
Nuovo record del mondo nel chilometro verticale a Fully, ritoccato anche il primato femminile.
He did it. Rémi Bonnet, dopo l’oro nel vertical ai Mondiali ferma il cronometro a 27 minuti e 21 secondi nel Kilomètre Vertical de Fully. È nuovo record del mondo, ritoccato di un minuto e 32 secondi a distanza di otto anni. Il primato infatti era di Philipp Götsch e non veniva battuto dal 2017: 28’53’’. È successo tutto sabato scorso, sul percorso del vertical nel quale sono stati registrati quasi tutti i record nelle gare con utilizzo di bastoncini. «Sono partito molto veloce, all’inizio ho pensato che il ritmo fosse un po’ troppo sostenuto, ma poi mi sentivo bene e ho capito che poteva essere una giornata speciale» ha dichiarato un ancora incredulo Bonnet dopo la gara.
Il percorso del Kilomètre Vertical de Fully è particolarmente ripido: mille metri secchi su 1,9 km di lunghezza, con una pendenza media del 50%. È il tracciato di una vecchia funicolare tra i vigneti. Bonnet si è imposto su Henri Aymonod (30’08’’) e Aurélien Gay (30’32’’).
Non finisce di stupire anche Axelle Mollaret che, dopo il record a Nantaux dello scorso settembre (33 minuti esatti), ritocca ancora il tempo, fermando il cronometro a 32’52’’ e rifilando quasi sette minuti a Victoria Kreuzer (39’43’’). Indubbiamente due atleti che, dallo scialpinismo al chilometro verticale, non finiscono di stupire.

© Baptiste Fauchille / Red Bull Content Pool
L’attacco ibrido con il freno davanti
La curiosa proposta del marchio californiano AlpenFlow Design
E se l’attaco ibrido, il modello più chiacchierato del momento, avesse il freno al puntale, invece che alla talloniera? È la prima curiosità di AlpenFlow 89, della start-up californiana AlpenFlow Design. Il modello, non ancora in commercio, è pre-ordinabile dal sito del marchio al costo di 760 dollari e le prime consegne, se verranno raggiunti 500 pre-ordini, inizieranno nell’autunno 2026. La proposta prevede, oltre allo ski brake (da 90, 100, 110 o 120 mm) anteriore, che si apre e si chiude semplicemente inserendo lo scarpone nei pin o togliendolo, una talloniera step in in alluminio lavorato con macchine CNC e il passaggio dalla fase ski a quella walk avviene aprendo e chiudendo con una rotazione verticale la stessa talloniera, permettendo la chiusura e riapertura senza dover togliere lo sci in situazioni che richiedono scalettatura o per brevi discese con le pelli. I valori di sgancio dichiarati sono 5-13, sia laterali che verticali e, oltre alla modalità flat, ci sono due aiuti salita. Risulterebbe inoltre nullo il drop in fase di sciata. Il puntale LockTurn, per il quale è stata depositata una richiesta di brevetto, ruota liberamente con lo scarpone durante l'intera corsa elastica, assicurando che lo scarpone sia bloccato meccanicamente nell'attacco. Solo quando l'intera corsa elastica è esaurita, consente allo scarpone di sganciarsi, impedendo lo sgancio anticipato e consentendo un’apertura controllata in modalità sci. AlpenFlow 89 non è però certificato TUV.

Tom Evans: la vittoria e il pannolino di Phoebe
Intervista esclusiva al vincitore dell’ultima UTMB Mont Blanc
C’è una nuova luce negli occhi di Tom Evans. E no, non è soltanto la soddisfazione per aver vinto l’ultima UTMB. È qualcosa di diverso. È la luce di chi, negli ultimi mesi, ha conosciuto una stanchezza diversa da quella delle gare. L’abbiamo incontrato in occasione del meeting organizzato da ASICS, suo sponsor tecnico, a Zinal, in Svizzera, a fine settembre.
Tom ci ha raccontato del suo anno più intenso: non solo per la preparazione della gara, ma per l’arrivo della prima figlia, Phoebe. Perché diventare padre è stato un cambiamento più radicale di qualsiasi protocollo di allenamento.
«Diventare padre mi ha reso un atleta migliore»

© UTMB® Marta Baccardit
Chiedergli come abbia fatto a preparare una gara come l’UTMB a pochi mesi dalla nascita di sua figlia sembra quasi una domanda retorica. Ma Tom ci risponde con molta naturalezza.
«È stata una nuova sfida, senza dubbio. Ma ho avuto dalla mia parte una persona speciale: Sophie, mia moglie. È una madre fantastica e una compagna incredibile. E poi ho avuto la fortuna di poter contare su una rete di supporto che ci ha tenuti a galla: amici, parenti, tecnici. Ma soprattutto, Phoebe mi ha insegnato qualcosa che nessun allenatore avrebbe mai potuto darmi: una prospettiva diversa sulle cose».
Poi ci racconta un momento che ha del tenero, quasi comico: lui già pronto per la partenza dell’UTMB, zaino in spalla, pettorale indossato… e un pannolino da cambiare all’ultimo minuto.
«Ero lì, completamente in assetto gara e ho cambiato Phoebe. Niente panico, nessuna tensione. Anzi, ero felice. Quel momento mi ha aiutato ad affrontare la partenza con più leggerezza. Non perché non fosse importante, ma perché avevo capito che non era tutto».
Durante la gara, gli bastava vedere il volto di Sophie o di Phoebe per ritrovare motivazione.
«In quei momenti, non pensi al cronometro o al distacco da chi ti segue. Vuoi solo correre al meglio, per loro».
E se parliamo di giornate no, quelle che ogni atleta conosce fin troppo bene, la sua risposta è semplice:
«Anche se un allenamento va male, basta tornare a casa, vedere il sorriso di mia figlia e tutto il resto sparisce. Ti rimette al tuo posto, ti ricorda cosa conta davvero».
Una casa piena di passione (e di tabelle di allenamento)
Quella di Tom è una famiglia di atleti. Sophie Coldwell è una triatleta di altissimo livello e, come ci ha raccontato Tom, questo è stato un vantaggio, ma anche una sfida.
«Da un lato è stato più facile: lei capisce perfettamente di cosa ho bisogno per allenarmi. D’altro canto, quando entrambi in famiglia sono atleti professionisti, che hanno bisogno di tempo e spazio per allenarsi, non è facile accettare che, in certi momenti, uno dei due debba avere la priorità. È una dinamica complicata da gestire per entrambi, e ha reso le cose più difficili sia durante la gravidanza che nei primi mesi dopo la nascita di Phoebe»
Allenarsi insieme, come facevano un tempo, ora è quasi impossibile.
«Mi manca quel quality time condiviso. Ora lei ha allenamenti fissi con la squadra, mentre io, post-UTMB, sono più flessibile. Ma sappiamo che è una fase e che torneremo ad allenarci fianco a fianco».
E poi c’è stata Chamonix, nelle ultime otto settimane prima della gara:
«Portarle con me è stato un privilegio. Vivere insieme quel blocco di lavoro è stato un regalo. Non tutti possono permetterselo, e ne siamo consapevoli».
Oltre gli allenamenti virali: la verità sul successo
Dopo la vittoria, molti media hanno acceso i riflettori su un aspetto in particolare del suo allenamento: la strength-endurance con il giubbotto zavorrato. Ma Tom ci tiene a rimettere le cose in ordine.
«Credo che l’aspetto più importante della mia preparazione sia stato individuare con onestà le aree in cui ero carente e lavorarci sopra con un approccio mirato. Dopo UTMB, però, ho provato un certo dispiacere nel vedere come molti media abbiano concentrato tutta l’attenzione su un solo elemento: l’allenamento in salita con la weight vest, quasi fosse l’ultima rivoluzione del trail running.
In realtà, sono certo che atleti come Jim Walmsley o Vincent Bouillard non abbiano mai fatto una singola sessione di quel tipo. Eppure, sia io che Ruth Croft utilizziamo da anni quel genere di protocolli: semplicemente, solo quest’anno sono finiti sotto i riflettori perché abbiamo vinto.
Un altro aspetto che secondo me viene spesso frainteso è l’uso dei dati. Leggendo certi articoli sembra che tutto ruoti attorno ai numeri, ma la verità è che io mi alleno quasi sempre basandomi sulle sensazioni e sul metodo RPE – rate of perceived exertion. Anche durante gli esercizi a variazione di intensità uso solo un allarme sull’orologio per segnare l’inizio e la fine dell’intervallo, nient’altro. E in gara difficilmente guardo i dati. Credo davvero che l’approccio basato sulle sensazioni sia parte integrante del successo di molti atleti in questo sport. Non è una tabella Excel a fare la differenza, ma la capacità di ascoltarsi e conoscere il proprio corpo».
Mondiali sì, ma non così: «C'è tanto da cambiare»

© UTMB® Quentin Iglesis
L’ultima volta che Tom ha corso un mondiale di trail è stato sette anni fa. Ci chiediamo se tornerà mai a farlo.
«È bello vedere World Athletics interessarsi al trail. Ma organizzare un mondiale a poche settimane dall’UTMB è un errore. E 80 km non rappresentano il vero long trail, credo che gare e lunghezze come quelle della Western States e della LUT siano più in sintonia con il concetto di Long Trail. Il nostro sport è un’altra cosa».
Parla anche con franchezza delle difficoltà nel rappresentare il team della Gran Bretagna:
«Non c’è supporto governativo. E sei obbligato a correre con un kit che non è quello del tuo sponsor. È un sistema che, per un professionista, non funziona. Il premio per vincere un mondiale è il 10% di quello che ricevi per UTMB. E questo, per me, è un lavoro. «Credo che quest’anno l’organizzazione dei vari team internazionali abbia fatto un ottimo lavoro nel selezionare i migliori atleti per ciascuna distanza dei mondiali. Tuttavia, non sono convinto che tutti fossero davvero coinvolti al 100% nell’evento, mentre all’UTMB ho percepito una motivazione decisamente più alta da parte degli atleti.
La Top-5 dei mondiali, in ogni disciplina, era sicuramente di altissimo livello, ma se guardiamo alla profondità del campo partenti, la Top-10 delle UTMB Finals era molto più competitiva.
Mi auguro che, già dalle prossime edizioni, venga fatto un lavoro serio sull’accesso alla gara, in modo che i podi possano realmente rappresentare i migliori atleti del mondo nella loro specialità. Al momento, però, credo ci sia ancora un divario importante: UTMB rimane l’evento che attrae più interesse da parte di sponsor, brand e atleti di punta».
Il suo sogno? Un organo indipendente e unico per tutte le gare che possa radunare davvero i migliori al mondo, senza vincoli nazionali, con la visibilità e il rispetto che meritano.
Prossima fermata: Hardrock. E magari anche La Réunion
Nel mondo dell’ultra trail, si parla sempre più spesso di un Monte Rushmore delle gare leggendarie: Western States, UTMB, Hardrock e Grand Raid de La Réunion. Tom ha già vinto le prime due.
Alla domanda su quale sarà la prossima, sorride e svela una notizia in anteprima.
«Ufficialmente? Fresh off the press: entrambe! È la prima volta che ne parlo con la stampa. Stasera apre la lottery per Hardrock e mi iscriverò subito: ho buone probabilità di entrare, quindi sto già pensando di trasferirmi in loco e prepararmi in quota, lavorando su quelle altitudini che saranno decisive in gara. Abbiamo già fatto diversi test quest’anno, so esattamente su quali aspetti devo concentrarmi. L’idea è quella di prendere un bel van, girare la zona e fare parecchi soft-rock, ovvero percorrere il tracciato a ritmo di fast-hiking per abituarmi a terreno e quota – un approccio simile a quello che ho seguito negli ultimi anni per UTMB.
Hardrock è una gara che desidero da tempo. È meno corribile di altre, forse meno adatta al mio stile, ma negli ultimi anni ho lavorato molto sulla camminata in salita e credo di avere buone possibilità. Anche La Réunion mi affascina: magari non è perfetta per le mie caratteristiche, ma è quel tipo di sfida che mi motiva e mi spinge ad allenarmi con determinazione per ottenere un buon risultato.
E poi, nel mezzo, mi piacerebbe anche difendere il titolo all’UTMB: sarebbe qualcosa di davvero speciale. Ma su quello, si vedrà».
Elhouisine Elazzaoui e Madalina Florea vincono le Golden Trail World Series
Con la vittoria di domenica 12 ottobre alla Grand Finale della Golden Trail World Series, ospitata in Trentino, sul percorso della Ledro Sky, il marocchino Elhousine Elazzaoui ha vinto per la seconda volta la classifica generale del circuito. Una stagione perfetta quella dell'atleta del team Nnormal, con mille punti e quattro vittorie (Zegama-Aizkorri, Broken Arrow Skyrace, Tepec Trail e Ledro Sky). Dietro di lui nella overall i keniani Patrick Kipngeno e Philemon Kiriago, entrambi del team Run2gether On Trail, con 953 e 892 punti. Non è stata una vittoria scontata quella di Elazzaoui: il percorso tecnico della gara (21 km, 1.700 m D+) ha visto per quasi tutto il tempo un altro keniano in testa, Paul Machoka dell'Atletica Saluzzo, superato da Elazzaoui al termine dell'ultima discesa. Ma Elazzaoui ha dovuto guardarsi da ritorno di Kipngeno, secondo nella generale e arrivato a 20 secondi. Primo italiano Daniel Pattis del team Brooks, nono nella overall e sesto in gara. Ottime prestazioni per gli atleti del Team Salomon Italia, con Isacco Costa, Simone Giolitti, Roberto Giacomotti, Alice Testini ed Elisa Presa, protagonisti di una stagione di costante crescita e competitività a livello internazionale.
Sabato è stata lotta dura anche nella gara femminile, vinta dalla statunitense del team Nike ACG Laureen Gregory, che ha superato la romena Madalina Florea (Team Scott) in discesa. Il podio finale ha visto la Gregory imporsi sulla Florea e sulla spagnola Sara Alonso del Team ASICS. Stesse protagoniste, ma a ruoli invertiti, nella classifica finale del circuito, con Florea a trionfare con 958 punti su Alonso (913) e Gregory (878). Prima italiana Alice Gaggi (Brooks) al nono posto.

Si chiude così una stagione intensa del circuito powered by Salomon che si conferma come riferimento internazionale del trail, con un montepremi di più di 300.000 euro. La Grand Finale ha rappresentato l’ultima tappa di una stagione intensa, articolata in otto gare regolari disputate nei cinque continenti, dalla Kobe Trail in Giappone alla Broken Arrow Skyrace negli Stati Uniti, passando per il Golfo dell’Isola Trail di Noli, in Liguria. Solo i migliori 30 uomini e 30 donne della classifica generale hanno potuto contendersi il titolo mondiale sulle creste trentine, dopo mesi di competizioni ad altissimo livello.
L'Italia ha ospitato due gare del circuito e per la seconda volta la finale. «La Grand Finale di Pieve di Ledro racchiude perfettamente lo spirito della Golden Trail World Series: competizione, rispetto per l’ambiente e valorizzazione del territorio. Portare in Italia un evento di questa portata è motivo di orgoglio per Salomon, perché ci permette di unire la passione per il trail running alla promozione di un contesto naturale e culturale unico. L’entusiasmo del pubblico e la qualità degli atleti confermano quanto la cultura del trail running stia crescendo, anche grazie a un circuito capace di raccontare storie autentiche e condividere esperienze straordinarie» ha detto Ilaria Cestonaro, Marketing Manager Salomon Italia, a conclusione dell'evento.

Lo zaino airbag che diventa anche respiratore
Lei si chiama Isabella Campana e oggi è una studentessa di Design del prodotto, della comunicazione e degli interni presso l’Università IUAV di Venezia. Durante la laurea triennale in Design del Prodotto Industriale presso l’Università di Bologna ha progettato un sistema airbag che, se industrializzato, potrebbe cambiare il modo di affrontare la sicurezza in valanga. L’idea è semplice: poter utilizzare l’aria usata per gonfiare il pallone dopo che si è aperto per respirare.

Il sistema è infatti dotato di due valvole di non ritorno, una necessaria per gonfiare l’airbag e l’altra collegata al tubo di respirazione: quest’ultima, consente all’aria di fluire solo quando l’utente inizia a inspirare, ottimizzandone il consumo, e impedisce alla CO2 espirata di rientrare nel sistema, garantendo aria pulita per la respirazione, grazie anche al filtro HEPA collegato al boccaglio. Nivor è in grado di gonfiare rapidamente l’airbag con aria compressa in pochi secondi, garantendo una risposta rapida in situazioni di emergenza, e ha una capacità di 170 litri d’aria, offrendo quindi un tempo aggiuntivo di respirazione fino a 28 minuti durante una sepoltura da valanga. Il sistema di gonfiaggio di Nivor è elettrico, alimentato con supercondensatori, ed è stato pensato per essere universale grazie ad agganci magnetici e fasce regolabili.


Nivor è tra i tre finalisti italiani del James Dyson Award, promosso dalla James Dyson Foundation, ente a scopo benefico dell’omonima azienda. L’obiettivo è quello di sfidare laureandi e neolaureati in ingegneria e design, in tutto il mondo, a progettare la soluzione a un problema. A oggi, il concorso ha premiato oltre 400 invenzioni e oltre il 70% dei vincitori globali delle scorse edizioni sta commercializzando le proprie invenzioni. Il vincitore internazionale verrà decretato il prossimo 5 novembre e riceverà un premio di 36.000 euro, mentre gli altri due finalisti riceveranno 6.000 euro, come i vincitori nazionali.
Novemila chilocalorie e sei ore di sonno: numeri e curiosità dell’ultima impresa di Kilian
Con l’arrivo sul Mount Rainer, nello Stato di Washington, la notte tra venerdì e sabato scorso Kilian Jornet ha chiuso il suo progetto States of Elevation. L’idea era semplice quanto ambiziosa: raggiungere tutti i Fourteeners (le vette di 14.000 piedi, che equivalgono a 4.267 metri) dei Lower 48 (gli Stati Uniti continentali, escluse Alaska e Hawaii, per un totale di 72 vette) con la sola forza umana, concatenandoli di corsa o con uno stile fast & light e in bici. A qualche giorno di distanza dalla fine dell’impresa iniziano a filtrare un po’ di dati interessanti e di curiosità. Rinviamo alla lettura dello schema finale di questo articolo le statistiche sulla prestazione, dalla distanza al dislivello totale, per concentrarsi su altre informazioni.

Corpo e performance
Il peso di Kilian è rimasto abbastanza stabile introno ai 55 chili, dopo essere sceso a 52 nella prima settimana. Nei primi giorni la sfida è stata trovare l’adattamento al clima particolarmente secco (che ha comportato fino a 5 chili di perdita di peso a causa della disidratazione) e all’esposizione ai raggi UV del Colorado. L’attività più lunga è stata di 390 km (in bici) per un totale di 15 ore. Il consumo medio è stato di 9.000 Kcal al giorno. L’alimentazione nella giornata tipo? Uno yogurt con frutti di bosco a colazione + una bustina di probiotici Lyvecap. Un pasto completo dopo aver terminato la tappa, composto da riso, patate e verdure. Durante l'attività: panini e alcuni prodotti Maurten. Le ore di sonno medie sono state 6 e 15 minuti per notte.

Materiali
Kilian ha usato due scarpe di Nnormal: Kjerag 02 e Tomir Gore-tex . Nell’abbigliamento la priorità è andata agli strati termici e anti-pioggia: Trail Wind, Trail Rain Jacket e Active Tight . Le bici? Trek Madone e Treck Checkpoint, esemplari con grafica customizzata. Di notte ha utilizzato una lampada frontale. Lo zaino sulle spalle pesava da un minimo di un chilo a sette chili e in un paio di occasioni ha usato i ramponcini (Tahoma-Rainier) o suole chiodate (Crestons e Shasta).
Logistica, team, animali
Al seguito ci sono state sempre due persone a rotazione, con un van. Tre i videomaker e 6 TB il peso del materiale video prodotto. Nick Danielson, il videomaker che è stato di più con Kilian, ha raggiunto 16 vette. Numerosi gli incontri con animali: quattro orsi, tre alci, numerose capre di montagna; avvistati alcuni mufloni, aquile calve e molti coyote. Un dato meteo: 15 dei 31 giorni totali sono stati di maltempo.
I numeri di un’impresa
- 72 vette oltre i 4.267 m (14.000 piedi) scalate in sei Stati degli Stati Uniti: Colorado, Arizona, Nevada, California, Oregon e Washington
- 31 giorni di attività - 488h52’07’’ ore in movimento
- 5.145 km percorsi con 123.045 m di dislivello positivo
- 80% in bicicletta / 20% a piedi, ma il 60% del tempo trascorso a piedi contro il 40% in bicicletta
- Il 50% delle vette scalate in compagnia: 27 atleti si sono uniti a Kilian per correre e pedalare in alcune parti del progetto
- Norman's 13 completato con il nuovo FKT non supportato (in attesa di registrazione ufficiale)

Photo © Nick Danielson
Kilian Jornet concatena i Fourteener della California e firma un nuovo FKT
Cinque giorni in bici, dal Colorado alla California. Una media di 282 km al giorno, 14 ore in sella, gambe e cuore puntati verso Ovest. Quando finalmente, alla fine della scorsa settimana, Kilian è arrivato al punto di partenza delle Norman’s 13, per mettere un altro tassello al puzzle del suo progetto States of Elevation (il concatenamento dei Fourteeners dei lower 48, nell'Ovest degli Stati Uniti) ad aspettarlo non c’era il riposo. Norman’s 13 è l'itinerario che unisce tredici cime sopra i 4.000 metri della California, due gruppi montuosi uniti da un tratto remoto del John Muir Trail, con oltre 100 miglia (160 km) di distanza, 12.000 metri di dislivello positivo e creste con ingaggio alpinistico. Granito, neve, vento, isolamento. È un viaggio dentro la montagna, ma anche dentro se stessi.
Kilian, come in altri tratti della sua impresa, è stato accompagnato da alcuni runner americani e volti noti della scena outdoor: Matt Zupan, detentore del FKT senza assistenza sul percorso del Norman's 13; Rod Farvard, da subito al suo fianco; poi Dan Patitucci e Kim Strom. Al Taboose Pass lo ha raggiunto Olivia Amber, fresca del suo personale FKT sulla stessa traversata, e nel tratto più tecnico dei Palisades è stato il climber Matt Cornell ad affiancarlo. Giorni interi senza incontrare anima viva: solo laghi ghiacciati, rocce e un cielo mutevole. Non sono mancate le tempeste di neve e un piede schiacciato da un masso. La notte più dura? La salita al Mount Sill, con il buio a rendere tutto ancora più pesante. Alla fine ne è venuto fuori un nuovo FKT (con assistenza): 56 ore, 11 minuti e 4 secondi (in attesa di conferma ufficiale).

Dopo l’impresa, una tappa a Bishop, dove finalmente Kilian si è concesso una doccia calda, una pizza e un letto vero. Ma il riposo è durato poco. Sabato mattina di nuovo in sella: direzione White Mountain, via cresta Ovest. È stato il suo Fourteener numero 70. La fatica si è fatta sentire, spingendolo a rallentare il ritmo.
Dopo aver raggiunto White Mountain, Kilian ha puntato verso Nord, trascorrendo due lunghe giornate in sella e attraversando Nevada e California, diretto dritto verso il Mount Shasta.Tra il 28 e il 29 settembre, ha percorso 626 chilometri (389 miglia) in poco meno di 30 ore di pedalata, con una media di quasi 200 miglia e 14-15 ore in sella ogni giorno, condividendo il primo giorno con Jason Hardrath.
Il 30 settembre, si è trovato sulla vetta del Mount Shasta, il Fourteener numero 71, affrontando quello che ha definito «uno dei tre venti più folli che abbia mai incontrato in montagna», con temperature percepite di -20 °C. La salita ha portato neve fresca e un buon promemoria a non abbassare la guardia, anche a questo punto avanzato del progetto. Ma non c’è stato tempo di fermarsi, appena lasciata la vetta alle spalle, Kilian è risalito in bici e ha ripreso a pedalare verso Nord, questa volta puntando all’Oregon e allo Stato di Washington.
Statistiche Generali
🏃🏻 Distanza (miglia / km): 2.738 / 4.406
🏔️ Cime oltre i 14.000 piedi: 71
⏱️ Attività: 441:38:19
📈 Dislivello positivo (piedi / metri): 376.200 / 114.682













