Nico Valsesia, from zero to...

From zero to. Nico Valsesia ha chiuso un’altra delle sue traversate dal mare alle nevi eterne, da Genova fino alla Capanna Margherita, sul Monte Rosa, tutto d’un fiato, utilizzando come unici mezzi una bici da strada e gli sci per quanto riguarda la parte su neve. Partito lo scorso 7 aprile dalla città ligure, è arrivato a lambire i 4.554 metri della Capanna dopo 14 ore e 31 minuti. Duecentoquaranta chilometri sulle due ruote e 20 sugli sci, 4.554 metri di dislivello totale, di cui 3.169 con le pelli e dopo aver già percorso tutta la prima parte, con la bici, che lo ha portato fino a Gressoney-La-Trinité. Valsesia non è nuovo a questo tipo di imprese: da oltre 20 anni colleziona record mondiali di ascesa no-stop che lo porteranno - spera già il prossimo anno - a coronare il sogno From zero to Everest. Per ora nel suo carnet figurano le vette dell’Elbrus, dell’Aconcagua e del Kilimangiaro, oltre al test del Monte Bianco.

©Morgan Bertacca
©Morgan Bertacca

Ho conosciuto Nico un paio di mesi fa in occasione di una conferenza stampa: Valsesia infatti è diventato ambassador di Scott e le biciclette della casa svizzera lo accompagneranno durante i suoi viaggi per tutto il 2018. Pieno di entusiasmo e con la parlantina facile, non è stato difficile iniziare una conversazione. Papà tre volte, si divide tra i viaggi e il negozio di bike che gestisce da una ventina d’anni, insieme al fratello, a Borgomanero. Basta parlarci cinque minuti per capire che, in realtà, i record sono solo espedienti. In altre parole la scusa per viaggiare, vedere, conoscere, sperimentare, imparare. Non è un caso che i video realizzati al termine di ogni ascesa siano per la maggior parte focalizzati sul territorio, la cultura e le persone incontrate. Poco spazio viene, volutamente, concesso alla prestazione sportiva. «Non sono un atleta - ci tiene a sottolineare - . Forse lo ero quando facevo gare di sci e quando nutrivo il sogno di diventare un campione dello sport bianco. Alla fine sono diventato maestro di sci e anni addietro per qualche tempo ho anche insegnato un po’, ma non era la mia vita e neppure la mia vocazione».

©Luca Fontana

E poi? E poi sono venuti i viaggi, le avventure, che gradualmente si sono trasformati anche in un lavoro. «Dopo diversi anni di esperienza, soprattutto in Sud America, ho iniziato a organizzare viaggi-avventura ai quali partecipavano gruppi di persone. Era un po’ come dare agli altri la possibilità di vivere, con un discreto margine di sicurezza e in maniera organizzata, quanto io avevo già sperimentato». Mezzo principe per gli spostamenti, inizialmente, era la bicicletta. «Ho sempre amato le due ruote e ho fatto anche diverse gare, per divertirmi e senza obiettivi di classifica. Nonostante ciò ho collezionato anche diversi buoni piazzamenti. La corsa è venuta quasi per caso circa una decina di anni fa. Ero infortunato a una spalla e, non potendo distendere il braccio e tenere ben saldo il manubrio della bici, ho pensato di provare a correre. Partendo già da una buona base, dopo un mese di allenamento ho partecipato alle Porte di Pietra sulla distanza di 70 chilometri qualificandomi, con grande sorpresa di tutti e anche mia, quinto assoluto».

©Luca Fontana
©Luca Fontana

A questo punto mettere insieme bici, corsa e sci è venuto quasi naturale. E le imprese endurance From zero to sono proprio questo. Semplicemente e meravigliosamente l’unione di tre passioni (o due, dove non si possono indossare gli sci), un modo diverso per vivere un ambiente. Il curriculum sportivo di Nico è davvero impressionante e viene quasi spontaneo chiedersi se i figli siano propensi a seguire le orme del papà. «I due maschi, 16 e 14 anni, sono fisicamente molto prestanti, anche se praticano altri sport. Questa estate, terminata la scuola, andranno in Marocco, ospiti da un caro amico, e faranno gli sherpa. Come padre voglio lanciare questo messaggio: vivete esperienze diverse e poi, un giorno, starà a voi scegliere che direzione dare alla vostra vita». Direzione, appunto, e quella verso l’Everest? Il progetto, molto ambizioso, dovrebbe realizzarsi ad aprile-maggio del 2019. Nico partirà da Calcutta per raggiungere in bici Rongbuk (1.500 km fino a quota 5.300 metri), da qua inizierà la parte davvero faticosa: l’ascesa dalla parete nord, accompagnato da uno sherpa. From zero to…

©Luca Fontana

 

 

 

 


Chamonix Wild, la traversata di Jacquemoud e Bruchez

È il tema principale del numero di Skialper in edicola: le traversate. Ed ecco che ogni giorno arriva la notizia di una nuova idea che rientra nella categoria. L’ultima la segnala Mathéo Jacquemoud che in questi giorni ha chiuso il progetto ‘Chamonix Wild’ in compagnia di Vivian Bruchez: dal Mond Dolent all’Aiguille de Boinassay, sul massiccio del Monte Bianco, alla ricerca di angoli selvaggi e unendo sci ripido e alpinismo.

«L’avventura forse è la capacità dell’essere umano di trasformare i sogni in realtà» scrive Jacquemoud in un post sul suo account Instagram a commento di Chamonix Wild. I due hanno raggiunto il Mont Dolent dall'Arête Gallet e sciato il versante Ovest, Il Triolet dal versante Est e sciato il versante Ovest, il versante sud del Petit Triolet, sciato la Pointe Isabelle. A seguire: versante Est dell'Aiguille de Rochefort e sua traversata, versante Sud del Dente del Gigante, Kufner al Mont Maudit con uscita sul Monte Bianco, che è stata sciato sul versante Ovest e infine la discesa della Nord di Bionassay. Cinque giorni intensi, con notti al Bivacco Fiorio, Périades, al Rifugio Torino e al Goûter.
Tra i commenti anche quello di Kilian: «Enorme les gars!!!».

©Instagram Mathéo Jacquemoud

Ski Trans Alt Tirol

«Ho realizzato che la linea ideale correva giusto lungo il confine di quello che fino al secolo scorso era il Tirolo Asburgico, ovvero la regione più meridionale dell’immenso impero Austro-Ungarico. I primi ordinamenti che sanciscono l’estensione del territorio tirolese dal Lago di Garda fino alla zona montuosa del Kaisergebirge risalgono agli inizi del 1500: da quel tempo lontano, i confini del Tirolo storico rimasero pressoché invariati fino al termine della prima guerra mondiale, quando le province di Trento e Bolzano vennero annesse al Regno d’Italia». Ecco l’idea per una grande traversata all’insegna dello skialp di scoperta al centro di un grande reportage con le foto di Matteo Pavana che Skialper pubblica in esclusiva sul numero 118 di giugno-luglio.

Controluce sul Lago di Garda ©Marco Maganzini
panorami dolomitici ©Alessandro Beber

I NUMERI - «Non volevo dare alcuna connotazione politica dell’iniziativa, ma questo collegamento dettato al contempo dalla geomorfologia e dalla storia mi è sembrato avere quasi un valore di messaggio universale, ovvero quello delle montagne come spazio d’unione, piuttosto che elemento di separazione come spesso si vorrebbe far credere» scrive Alessandro Beber. Le tappe in programma erano sette, per un totale di 21 giornate sugli sci su uno sviluppo di poco inferiore ai 400 chilometri. Lunghezza media delle tappe superiore ai 20 chilometri e dislivello tipo di 1.300 metri. Partenza in grande stile e dai connotati simbolici: direttamente con gli sci in spalla dal centro storico di Riva del Garda, un tempo estremo avamposto sud-occidentale della Mitteleuropa, e poi barca a vela per navigare sul ‘fiordo’ del Garda fino a Malcesine, dove la funivia del Monte Baldo ha portato Alessandro & co in quota, permettendo di calzare gli sci in direzione Monte Altissimo di Nago.

Powder in Lagorai ©Matteo Pavana
Lagorai @Matteo Pavana

ITINERARIO - Sulla strada il Monte Bondone, il selvaggio Lagorai, le Dolomiti, con anche la Val Mezdì, le Vedrette di Ries, Picco dei Tre Signori, Großer Geiger e GroßVenediger, prima di scendere fino a Matrei e quindi a Lienz. «Col senno di poi, direi che meglio di così non poteva andare: al di là delle 14 giornate di bel tempo sulle 21 totali e delle ottime condizioni d’innevamento, la traversata è stata letteralmente al di sopra delle aspettative, e questo soprattutto grazie al fattore umano, ovvero la passione che tutti i partecipanti hanno messo in questa piccola grande sfida» conclude Beber.

Salendo verso un valico del selvaggio Lagorai ©Matteo Pavana

La Glacier Haute Route in versione estiva

«Dove altro potrebbero portarmi le scarpe da trail?» si domanda Kim Strom al termine dell’articolo sulla Glacier Haute Route che pubblichiamo sul numero 118 di Skialper, già disponibile nell’edicola digitale del sito e in distribuzione a giorni nelle migliori edicole italiane. Stiamo parlando della famosa Haute Route Chamonix-Zermatt, ma questa volta non co sci e pelli ma con scarpe da trail running e, naturalmente, attrezzatura di sicurezza per il ghiacciaio. Un articolo scritto dalla giornalista tedesca e corredato dalle stupende e molto scenografiche fotografie di Dan Patitucci/Patitucciphoto, una delle tante storie di traversare che pubblichiamo su Skialper di giugno-luglio.

GHIACCIAI CHE SCOMPAIONO - La storia scritta da Kim Strom, oltre che un reportage sull’itinerario simbolo dello skialp itinerante d’alta quota in versione estiva e fast & light, è un invito a riflettere sul tema del climate change e dell’inesorabile scioglimento dei ghiacciai. Con Kim e Dan, infatti, nell’estate 2017 sull’alta via c’era anche Pascal Egli che, oltre a essere uno dei più fortu skyrunner in circolazione, è anche dottorando in glaciologia. A titolo d’esempio, uno dei ghiacciai attraversati, lungo quasi otto chilometri e con uno spessore massimo di 260 metri, si sta sciogliendo a una velocità allarmante di dieci centimetri al giorno, in estate. Pascal Egli ha anche contribuito a installare una delle centrali di monitoraggio che i tre incontrano lungo il percorso.

PANORAMI UNICI AL MONDO - In quattro giorni, con tappe da 13 a 26 km e dislivelli positivo compresi tra i 1.000 e 2.000 metri, sono stati coperti 88 km attraversando non solo ghiacciai, ma panorami unici, con lo sguardo che scorre dal Monte Bianco fino al Cervino e dormendo ai rifugi Chanrion e Bertol. «Gli ultimi 20 chilometri sulla morena rocciosa e lungo un sentiero bellissimo ci portano a Zermatt. Il calore e la polvere salgono dalla terra, una sensazione così diversa da quella che abbiamo provato muovendoci su ghiaccio e roccia – scrive Kim Strom -. Acceleriamo come quando finisci una qualsiasi corsa, una qualsiasi gara, ma questa volta è diverso: un misto di sollievo, gratitudine e orgoglio riempie i nostri animi. Ci siamo mossi veloci in un ambiente naturale che definirei enorme, potente e terribile allo stesso tempo».


La nuova sfida di Moreno Pesce

Quasi non ci crede di far parte del progetto: Moreno Pesce lo abbiamo visto da Fully ai Vertical Up sino alla Duerocche, adesso lo troviamo testimonial e parte attiva dell’Oxygen Natural Emotion Project. Ma chi meglio di lui, che porta all’estremo il fisico, salendo in montagna con una protesi a una gamba può essere tester migliore? Altra domanda, ma cos’è l’O.N.E. Project? Capire, studiare e monitorare, come, attraverso le giuste tecniche respiratorie, prima e durante l’attività in montagna, si sono possono velocizzare i tempi di acclimatazione e al tempo stesso contrastare il mal di montagna. Insomma accrescere più rapidamente il benessere in alta quota e al tempo stesso avere una soluzione ‘pratica’ quando si sta male. Il programma di sperimentazione in vetta partirà in Italia sul Monte Rosa tra fine luglio e inizio agosto, proseguirà sull’Aconcagua dal a gennaio nel 2019 e si concluderà sull’Everest a maggio sempre nel prossimo anno. In realtà è già iniziato da tempo, ‘a casa’, con la conoscenza diretta di queste pratiche di respirazione da parte di ‘Fish’.
Un progetto che si avvale del sostegno dell'Università di Ferrara, dell'Istituto di Fisiologia Clinica del CNR di Pisa, dell'Università della Valle d’Aosta ed è patrocinato dell'ASI Sport Italia, coordinato da Alberto Oro istruttore della scuola di apnea vicentina.


I rifugi della Valle Stura fanno squadra, con lo ‘zampino’ di due conoscenze dello ski-alp

Se quest’estate andate in Valle Stura, nei rifugi della Valle Stura, troverete due volti noti nel mondo dello ski-alp: Katia Tomatis e Oscar Angeloni. Katy è di casa lì, è la sua valle e ormai da anni gestisce (con il marito Andrea, il papà Beppe e aggiungiamoci anche la cagnolina Neve) il Rifugio Malinvern nel vallone di Rio Freddo sopra Vinadio, Oscar dal Bellunese è arrivato nel Cuneese, insieme a Valentina, e da quest’anno si occupa del Rifugio Becchi Rossi a Ferrere.
Ma la novità è un’altra. Tutti i rifugisti della Valle Stura hanno fatto squadra, una collaborazione stretta per lanciare la valle. Hanno creato un logo, sono presenti come ‘Rifugi Valle Stura’ sui canali social, hanno (come si dice) fatto sistema per la promozione del territorio, mettendo insieme le loro professionalità, le loro idee e i loro progetti. Non sempre scontato in montagna. E allora vediamoli tutti i ‘Rifugi Valle Stura’: l’Olmo Bianco a Bergemolo, il San Gioachino a Sant’Anna di Vinadio, il Laus ai Bagni di Vinadio, il Dahu a San Bernolfo, il Migliorero sopra Bagni di Vinadio, il Prati del Vallone a Pontebernardo, il Rifugio della Pace al Colle della Maddalena, il Carbonetto nel Vallone dell’Arma e il Paraloup nella borgata sopra Rittana.Info www.rifugivallestura.it


Eric Hjorleifson, Il visionario

I manuali di comunicazione dicono che la creatività consiste nel prendere due idee già esistenti e combinarle insieme per crearne una nuova. Eric Hjorleifson, negli anni, si è macchiato più volte di questo reato: ha rubato gli attrezzi agli scialpinisti e ha cominciato a usarli da freerider: nel 2010, quando iniziarono a girare i primi video di un canadese che saltava con gli attacchini, la gente non pensava che fosse possibile. Poi, poco alla volta, ci siamo arrivati tutti: il freeride e lo scialpinismo erano in fondo la stessa pratica, con proporzioni variabili di salita e di discesa. Federico Ravassard sul numero di Skialper di aprile-maggio ha intervistato il visionario inventore degli scarponi Dynafit Hoji.

©Federico Ravassard

PRIMA DI HOJI - Prima di arrivare al nuovo scarpone, e prima ancora anche del Dynafit Vulcan, Hoji smontò e riassemblò altri scarponi per capire cosa gli servisse: lo scafo era quello dei Titan; le leve erano state smontate da tre calzature diverse; il linguettone, rubato da dei Dalbello Krypton e tenuto su da uno snodo preso dai Garmon Adrenaline; la membrana che gli stava sotto, concessa dallo sponsor Arc’teryx; per irrigidire il tutto, il gambetto era stato laminato con una piastra Head da pista. Tutto molto bello, ma probabilmente vi starete chiedendo a quale scopo fare tutto questo pasticcio. La risposta sta nello stile di sciata di Hoji: linee brevi ma tecniche, sequenze di pillow nelle quali bisogna controllare la posizione del corpo tra un salto e l’altro e sfruttare i piedi per dare direzione agli sci. Linee che sono accessibili perlopiù con le pelli, perché sono nel bosco e un elicottero sarebbe a dir poco eccessivo. Linee nelle quali confluisce tutto il suo background: l’infanzia tra i pali in pista, l’adolescenza trascorsa nei primissimi snowpark sotto il mentoring degli assi della New Canadian Air Force, gli anni passati a fare big mountain filmando per grandi case di produzione. E, per finire, i metri di dislivello macinati in salita. Poco alla volta, anche altri atleti hanno seguito il suo esempio e oggi i freeskier - che sono prima di tutto atleti fatti e finiti - che sanno girare trick da park dopo essersi guadagnati una linea di salti con le pelli, non sono pochi.

IL FUTURO - «Negli ultimi 15 anni il mondo dello sci è cambiato enormemente: twin tips, rocker davanti e dietro, attacchini, scarponi sempre più performanti… Per quello che riguarda gli sci, mi viene difficile pensare a qualcosa di migliore, perché con quelli attuali mi ci trovo davvero bene e non saprei su cosa lavorare, specialmente per le prestazioni nella powder. Si può sempre migliorare, ma bisogna capire in che modo. Qualche anno fa c’erano in giro fat davvero grossi, over 130 millimetri, che sono poi passati di moda: è stato fisiologico sbilanciarsi da un estremo all’altro, prima di trovare gli equilibri attuali. Oppure il twin-tip, che una volta era d’obbligo, mentre adesso ci si limita a un rocker in coda, molto più funzionale. Banalmente, è più pratico nelle inversioni in salita e anche per caricare gli sci nelle rastrelliere in funivia. Adesso ci sono un bel po’ di assi che vanno bene e, grosso modo, le geometrie di questi ultimi sono molto simili tra loro».

©Federico Ravassard

Contro vento

Le Eolie non sono una destinazione così scontata per una rivista come Skialper. Eppure sul numero di aprile-maggio ne parliamo. Lo fa Ruggero Bontempi con una chiave di lettura diversa perché le Eolie, oltre che una delle destinazioni marine più di moda, sono anche un incredibile terreno di gioco per chi ha voglia di scoprirle a piedi, in versione trekking. Magari unendo le suggestioni di una natura forte a quelle cinematografiche perché le isole del vento sono state il set di alcuni famosi film, a partire da Il Postino.

©Alfredo Croce/Pillow Lab

GREATEST ITALIAN TREKS - Le Eolie in versione trekking fanno parte di una serie di proposte insolite selezionate da Skialper in collaborazione con Ferrino. Tra le escursioni delle quali parliamo quelle al Cratere della Fossa di Vulcano, alle Cave di Caolino e Terme di San Calogero a Lipari o al Monte Fossa delle Felci di Salina. Non mancano la salita al cratere di Stromboli o passeggiate nelle selvagge Alicudi e Filicudi, dove c’è la più piccola scuola d’Europa, con una maestra e tre alunni.

©Alfredo Croce/Pillow Lab

LA SCIARA DEL FUOCO - Sul vulcano di Stromboli qualcuno ha anche messo gli sci. Giorgio Daidola è stato uno dei primi a farlo negli anni Settanta. «Ai tempi si poteva fare tutto, ma è stata una delle volte che ho avuto più paura in vita mia, perché a intervalli di 13-14 minuti c’era un’esplosione e veniva giù di tutto» ricorda Daidola. «Avevo bivaccato in vetta, scendendo all’alba e cercando di terminare la discesa in quello stretto lasso di tempo tra un’esplosione e l’altra, ma quando sono arrivato nella parte bassa non sapevo più dove scendere perché era pieno di grandi pietre». Quella sciata da Daidola è la sciara sul versante occidentale del vulcano, mentre ce ne sono altre più sabbiose sull’altro versante.

Giorgio Daidola sulla sciara del fuoco

Crans-Montana Rando Parc

«Un’idea che è nell’aria già da quattro, cinque anni. Il popolo degli scialpinisti, che ora è composto anche da quelli che risalgono le piste, è sempre più numeroso. Lasciarli su pista diventava quindi pericoloso, sia per loro sia per gli sciatori. Dare sanzioni a chi risale, non piaceva. Perché escluderli? E allora ecco l’idea, che piano piano e grazie all’aiuto di tutti ha preso forma». A parlare è Nicolas, marito della campionessa di scialpinismo svizzera Sèverine Pont-Combe. Sono loro i genitori del nuovo Rando Parc di Crans-Montana, in Svizzera: 40 chilometri di itinerari per lo skialp segnalati, controllati e divisi per difficoltà. con 8.000 metri di dislivello e a pochi passi dagli impianti della stupenda località svizzera. Ne parliamo su Skialper di aprile-maggio nell’articolo di Tatiana Bertera con le foto di Stefano Jeantet.

©Stefano Jeantet

I NUMERI - Quindici itinerari poco distanti dalle piste, su oltre di 40 chilometri di sentieri, con un dislivello positivo di 8.000 metri. Sono queste le dimensioni del gigantesco trekking park inaugurato questo inverno e voluto dall’intero comprensorio, con la preziosa collaborazione di Nicolas e Séverine. Perché se in un posto ci vivi, se lo ami, vorresti che lo amassero anche gli altri e soprattutto vorresti che fosse valorizzato al meglio. Beh, qui a Crans-Montana hanno saputo farlo. Turismo intelligente, turismo per tutti, non solo per i pistaioli; a me piace chiamarlo così.

©Stefano Jeantet

COME FUNZIONA - I percorsi scialpinistici, rappresentati su un cartellone a poca distanza dall’ingresso della funivia, sono ben segnalati. Ognuno di essi ha un numero, una scala di difficoltà, lunghezza e dislivello. Sbagliare è praticamente impossibile. Sono segnati con frecce e cartelli… qui l’ordine è proprio svizzero! La traccia c’è, ma è quella fatta dal primo che è salito dopo la più recente nevicata. Quando fiocca, la traccia si cancella, come in ambiente, ma i cartelli rimangono. Il primo che si alza la mattina e mette le pelli sotto gli sci, batte anche per tutti gli altri.

Séverine Pont-Combe ©Stefano Jeantet
©Stefano Jeantet

BIG uP & Down, siamo tutti figli dello stesso dio

«Scordatevi tutina e cronometro, la parola d’ordine è tranquille. 'Ci vediamo domani alle 9, anche 9.30 tranquille’, ‘vuoi fare un’uscita tranquille fuoripista?'. La vera performance è finire tutta la tartiflette che ti hanno messo nel piatto. Benvenuti alla BIG uP & Down. Siamo a Les Arcs, Savoia, patria di un po’ di tutto, dal KL al freeride, al turismo internazionale. Inizio febbraio». Inizia così l'articolo di Luca Giaccone su Skialper di aprile-maggio che è andato come nostro inviato a curiosare tra le simpatiche gare e gli altrettanto simpatici partecipanti di questo raduno francese di tutte le anime dello sci fuoripista con pelli.  

©Marc Daviet

COME FUNZIONA - Hai un paio di pelli e un attacchino perché un po’ bisogna salire con le tue gambe? Sei dei nostri, ma non importa quanto pesi o quanto sia largo sotto il piede il tuo sci, oppure ancora se la tutina da gara non ce l’hai: tutti insieme appassionatamente. E se pelli e attacchino non ce l’hai, tranquille, te li danno loro. Loro sono la Community Touring Club, la comunità creata da Gino Decisier e Guillaume Desmurs che mette insieme Kilian Jornet e Cédric Pugin, Mathéo Jacquemoud ed Enak Gavaggio, Laetitia Roux e l’ex campionessa di skicross Meryll Boulangeat. Skialper e freerider: alla francese i freerando. Tre gare che gare vere e proprie non sono, nel senso che l’importante è esserci, non vincere. Ed esserci, però, non vuol dire appartenere a una comunità chiusa, anzi. Lo spirito è completamente diverso, è quello di allargare i numeri dei freerando. Tre giorni dove nel village puoi provare gratuitamente tutto il materiale che vuoi, che tu sia già skialper, freerider e sciatore. Nessuna distinzione. Abbiamo visto ragazzi con la divisa dell’Equipe de France di sci mettere in un angolo un gigante da gara per provare un bel 100 sotto il piede...

©Marc Daviet

TOP E GENTE COMUNE - Alla BIG uP & Down abbiamo incontrato Mathéo Jacquemoud, Laetitia Roux e Rancho, tutti insieme per divertirsi, una volta tano senza cronometro. E poi... è assolutamente da vedere la gara dell'ultimo giorno, con un format veramente simpatico. Per saperne di più basta leggere Skialper in edicola!

©Marc Daviet

 


C'era una volta il West

«A fine febbraio ho deciso di curarmi. La meta del mio rehab era una valle nell’Ovest, dove il freeride esiste da più di vent’anni e non è stato inventato ieri da un marketing manager di una multinazionale, dove lo sci libero non lo si pratica, lo si vive in tutti i suoi eccessi e i sacrifici che ti richiede. Dove tra l’essere e l’apparire si sceglie lo sciare, e se la neve è bella magari al lavoro ci si va un’altra volta, pazienza se il conto in banca a fine mese piange. Così sono andato a disintossicarmi a Gressoney da Zeo e i suoi amici, alla Baitella». Inizia così l’articolo di Federico Ravassard su Gressoney pubblicato sul numero di aprile-maggio di Skialper, disponibile nelle migliori edicole e nell’edicola digitale di Skialper.

la parete con le dediche dei freerider passati dalla Baitella ©Federico Ravassard

LA BAITELLA - La storia della Baitella è legata strettamente a quella di Zeo, che a Ondro Lommato, la frazione nella quale si trova, ci arrivò nel 1994. All’epoca frequentatore dell’ambiente dei centri sociali, il milanese Zeo si innamorò del posto e assieme agli amici cominciò poco alla volta a trasformarla in una specie di casa comune, dove trascorrere l’inverno e ospitare chi passava di qua per sciare. E ne sono passati tanti… Chris Bentchetler, Sean e Callum Pettit, Eric Pollard, la troupe di DPS che ha girato il cortometraggio Reverie. Giusto per citarne alcuni.

©Federico Ravassard

ALLE ORIGINI DEL FREERIDE – Oggi non c’è azienda, non c’è product manager che non parli di freeride, free è diventato una moda ma da queste parti il freeride è sempre esistito perché «lo sci libero non lo si pratica, lo si vive in tutti i suoi eccessi e i sacrifici che ti richiede … tra l’essere e l’apparire si sceglie lo sciare, e se la neve è bella magari al lavoro ci si va un’altra volta, pazienza se il conto in banca a fine mese piange».

una Malfatta... ben fatta ©Federico Ravassard

STORIE FREE – Durante il suo rehab Federico ha avuto modo di incontrare tante persone che hanno fatto di Gressoney la loro palestra freeride, da Andrea Gallo, uno dei primi e più forti arrampicatori italiani, all’eterogenea tribù che lo ha accompagnato al lago del Labiet o alla Malfatta, dal Camicia a Francio. Sedici pagine tutte da leggere e soprattutto da guardare perché sono anche e soprattutto pagine ricche di stupende fotografie. Una cura di rehab per tutti!

Andrea Gallo ©Federico Ravassard
©Federico Ravassard

Determinazione Magnini

Classe 1997, skialper di professione, veste la maglia azzurra di corsa in montagna, è conteso dalle aziende, studia all’Università di Trento, guarda caso in ingegneria dei materiali… E, come se non bastasse, dà una mano anche nel negozio di articoli sportivi di famiglia. Davide Magnini, secondo molti, è l’erede designato di Kilian Jornet. Sarà il tempo a dirlo, ma sicuramente quello che si vede ora è una grande determinazione: idee chiare e una testa che nello sport può fare la differenza. Lo scorso gennaio abbiamo messo le pelli per una gita sui monti sopra Vermiglio, in Trentino, con l’alpino. Un’intervista ‘on the snow’ che pubblichiamo sul numero di aprile-maggio di Skialper. Ecco una piccola anticipazione dell’articolo di Luca Giaccione con le fotografie di Alice Russolo.

Davide con le tante medaglie vinte ©Alice Russolo

SKIALPER O RUNNER? - «Finora sono riuscito a gestire due stagioni agonistiche, in estate e in inverno, solo perché da Junior finisci prima le gare, c’è meno dislivello, puoi organizzarti al meglio, sei più libero di testa. Ci sono tanti ski-alper che hanno le potenzialità per tutto, come per esempio Michele Boscacci, però io sono più uno skialper. Quando è arrivata la chiamata in azzurro nella corsa in montagna era impossibile dire di no, ma la prima convocazione in Nazionale mi è arrivata nello scialpinismo, anche se forse un po’ per caso. E poi nell’Esercito sono stato arruolato come scialpinista».

SOCIAL? - «C’è un fans club che mi segue, ma non sono il re di Arêches come Bon Mardion. In fondo va bene così. Anche perché sono piuttosto riservato. Dovrei cambiare un po’, lo so. Ormai bisogna essere social, bisogna raccontare al mondo tutto. Io sono molto attivo nel mio quotidiano, ma tante volte mi sembra di essere ripetitivo, che dire a tutti, sempre, ogni cosa non possa interessare granché».

BIO - Davide Magnini è nato a Vermiglio il 31 agosto 1997. Nel 2015 è stato arruolato nel Centro Sportivo Esercito. Tante le vittorie a livello Juniores, su tutte la Coppa del Mondo overall e le medaglie d’oro nell’individuale e nel vertical ai Mondiali 2017. Nell’estivo in bacheca il titolo italiano Promesse nella corsa in montagna, la vittoria al vertical Trentapassi, il secondo posto alla Dolomites Sky Race.

Magnini con le pelli sopra il passo del Tonale ©Alice Russolo