Il lato B di La Grave
«La mia fantasia del parco giochi dietro casa si è materializzata quando mi sono sposato e abbiamo costruito il nostro nido a Ventelon. Appena dietro le mura c’è una montagna con pendii erbosi frequentata solo dal bestiame, dai cervi, dalle volpi... e dagli altri backyardigan*. Il nostro lato soleggiato della valle è perfetto per far crescere l’aglio in primavera, fornisce l'energia solare ideale e in inverno permette comunque di mettere gli sci e toglierli in giardino appena qualche centimetro di neve ricopre l’erba. Qui gli elementi hanno rimodellato il mio ego. Fuori dal bosco i venti costanti creano onde di neve simili ai pipe dei park. Questo spirito ha alimentato la sciata interiore e influenzato lo stile e le aspirazioni. Ho iniziato a non avere più bisogno di sciare tutti i giorni perché stavo eliminando ciò che volevo dimenticare andando a sciare. L'immobilità fertilizzava la sensibilità verso la natura e la qualità delle sessioni di sci».
A scrivere è Ptor Spricenieks, canadese di origine lituana che ha messo su casa a Ventelon, nei pressi di La Grave. Su Skialper 133 di dicembre-gennaio Ptor parla del lato B di La Grave, lontano dalla telecabina e poco frequentato. Quel lato B dove è andato spesso a sciare con Mathieu Bonnetbleu, ski bum e pastore con 300 pecore Merinos, «portandoci dietro patate locali, formaggio, pane e bottiglie di vino al posto dei noodle o del ramen confezionati». E dove ha anche organizzato un mistery trip nel quale i partecipanti sapevano solo che avrebbero sciato con due Guide, ma non il luogo. Nel lato B Ptor ha sciato anche con Joe Vallone e giocato con Glen Plake.
«Glen è l'incarnazione di un bambino adulto sugli sci e insieme a Joe Vallone quel giorno scivolava con naturalezza e il sorriso sulle labbra. L’esposizione con ingaggio su un terreno intricato e impegnativo è tanto più gratificante e rende lo sci migliore quando c'è la giusta attitudine e un rischio accettabile per il gruppo. È stato rassicurante sciare con un mentore che è l'antitesi del moderno freerider, con il bambino cresciuto che mostra la strada ai più piccoli con quella semplicità e capacità di divertirsi a ogni livello dello sci, lasciando da parte la competitività e l'ego».
*Serie televisiva che in Italia è stata nominata Gli Zonzoli, ma la traduzione letterale di backyard è giardino dietro casa o, volendo, cortile.
Lettera dalla Nuova Zelanda
«Con 12 ski field, la regione di Canterbury ha più posti per sciare di tutte le altre. Molti di questi ski field sono in realtà dei club field gestiti in maniera comunitaria e no profit, il che significa che sono delle specie di comunità sciistiche socialiste. Nei club field non troverete molte piste battute, né seggiovie, qui gli impianti di risalita sono manovie in stile anni '40, un modo semplice, terrificante ed efficace per salire in montagna. L’assenza di discoteche nel raggio di 100 chilometri fa sì che la scelta migliore per l'après-ski sia quella di pernottare in uno dei lodge dei club field e bere quello che vi siete portati, oppure andare in un pub di campagna ad ascoltare le storie di caccia di contadini dall'aspetto rude o a guardare una partita di rugby (in Nuova Zelanda una vera e propria religione) in TV».
A scrivere la lettera dalla Nuova Zelanda su Skialper 132 di ottobre-novembre è Joe Harrison, che racconta questa simpatica formula di ski resort e tutte le sue implicazioni, ma anche delle possibilità di scialpinismo in rifugi sperduti nella natura selvaggia e anche dell’imprevedibilità del meteo a quelle latitudini: «Gli inverni kiwi possono essere più imprevedibili dei tweet di Donald Trump. Alcune bufere fanno diventare bianca l'intera Isola del Sud, ma altri inverni vi vedranno sciare un sacco sul tussock (erba di montagna). La cosa buona è che se la brutta neve vi butta giù, potrete sempre abbandonare gli sci e dirigervi verso uno dei tanti surf break lungo la East Coast: l'acqua sarà gelida ma non c’è niente che una calda muta, una hot steak pie (piatto nazionale) e un flat white coffe (il cappuccino local) non possano risolvere».
Steve House. L’alpinismo come arte. E allenamento
4.100 metri di parete. Cinque viti da ghiaccio, nove chiodi, sei nut, tre friend, 50 metri di corda dinamica. Sei giorni di salita, due di discesa. I numeri sono freddi e sterili, ma se si è in grado di leggerli raccontano tantissimo anche da soli. Quando nel 2005 Steve House e Vince Anderson hanno scalato la parete Rupal sul Nanga Parbat, l’impresa è risuonata come uno sparo nell’ambiente alpinistico a causa della purezza dello stile, oltre che per l’audacia. Aprire una via del genere in stile alpino, scalando veloci e leggeri, richiede tantissima dedizione. Richiede però anche una forma fisica di ottimo livello, per riuscire a scalare tutte quelle ore (scriverei giorni, ma si perderebbe il senso di continuità dello sforzo) rimanendo lucidi ed efficienti.
L’alpinismo, da fuori ma anche da dentro, è visto come un’avventura, come un’attività che mette in gioco la testa delle persone. Questo è vero, ed è quello che lo differenzia da uno sport agonistico di resistenza, per quanto duro e lungo sia quest’ultimo: durante una salita come quella di House e Anderson non ci si può ritirare all’improvviso (anche scendere vuol dire comunque fare alpinismo ed essere impegnati in modo non dissimile dalla salita) e lo sforzo, più che un esprimere al meglio le potenzialità dei muscoli, diventa un raschiare il fondo del barile del proprio corpo, cercando di sopravvivere. Questo ha messo troppo spesso in secondo piano le capacità atletiche di alcuni alpinisti. Se un profano, guardando un video di Steck che scala una grande parete Nord in circa due ore, pensa che folle!, un alpinista, osservando lo stesso filmato, dovrebbe chiedersi:
come si è allenato per essere così veloce?
Ciò succede di rado perché gli alpinisti, professionisti inclusi, raramente si allenano con criterio. Forse perché la scalata è una pratica che si sceglie per anarchia, per contrasto agli sport e alle attività regolamentate, ma spesso gli alpinisti non seguono un metodo specifico, strutturato per le loro esigenze. La maggior parte si limita a cercare di scalare il più possibile e magari correre o andare in bici, meglio se forte. Non è un modo produttivo per impiegare il tempo. Anzi, alla lunga può essere la causa del ristagno delle prestazioni che colpisce la gran parte degli appassionati.
Dopo il brutto incidente che ha avuto mentre scalava sul Monte Temple nel 2010, House ha dedicato molte delle sue energie a trasmettere le competenze accumulate durante la lunga carriera, con un occhio soprattutto verso le nuove generazioni di alpinisti, americani e non. Il suo libro Allenarsi per un nuovo alpinismo (appena pubblicato dalla nostra casa editrice) va in questa direzione, evidenziando gli errori e le soluzioni nell’allenamento che lo hanno portato a essere uno degli alpinisti di punta degli ultimi anni. Le tecniche e i principi di base non sono nuovi e sono ben spiegati da Johnston, allenatore della Nazionale di fondo statunitense. A Steve è toccato il compito di adattarli all’alpinismo e testarli. Cosa intendono per nuovo alpinismo e per chi è pensato questo manuale? L’alpinismo di cui parlano è quello fast & light, chiamato anche nudi di notte dai francofoni: scalare il più velocemente possibile, portandosi dietro una quantità minima di materiale. Le salite considerate come buoni traguardi per un alpinista medio, per loro sono solo elementi nei quali allenarsi. Per dare un’idea: il primissimo test proposto per valutare la propria forma fisica è una scalata slegati, con scarponi e zaino pari al 20 per cento del proprio peso corporeo, su una via di 300 metri di III. Non estremo, d’accordo, ma neppure qualcosa che consiglierei a un principiante. Questo libro è allora destinato solo ai futuri Steck? No, le norme contenute sono perfette per capire come funzionano il fisico e la mente d’ogni scalatore. Sta poi al singolo adattarle alle proprie esigenze (diamine, siete alpinisti: l’ultima cosa che dovete fare è seguire alla lettera delle norme, imparate e createvi il vostro mondo!). Se però volete puntare a vincere un Piolet d’Or e a essere la nuova speranza bianca dell’alpinismo, come ironica- mente era chiamato House da ragazzo, qui ci sono i consigli che vi spiegheranno come poterlo fare.
Parlando di libri, è interessante e impossibile non fare il confronto con uno dei mentori di House: Mark Twight. Come Twight, anche Steve è partito dalla narrativa, anche se direttamente da un libro autobiografico (mentre Twight aveva iniziato sulle riviste, con articoli poi raccolti nel celebre Kiss or Kill, confessioni di un Serial Climber) per approdare poi a un manuale tecnico. Le analogie sono evidenti, ma se nello stile narrativo House seguiva in modo più educato la linea del predeces- sore (risultando meno dirompente), con Allenarsi è uscito dalla scia e ha realizzato un lavoro che è innovativo.
Il manuale di Twight era un non-manuale, in cui sconsigliava ricette brevi e dava vari consigli e spunti - alcuni veramente estremi - più per tracciare una linea di pensiero, o per rompere un pensiero precedente, che per insegnare davvero a scalare le montagne. House, grazie anche alla collaborazione con un allenatore professionista, ci fa vedere qual è stata la sua routine per diventare un alpinista di punta e cosa si deve compiere per fare altrettanto, in modo semplice ma preciso. Non si troverà altro che allenamento, se non una piccola parte sull’alimentazione e sulla fisiologia in quota. Nessun nodo, nessun consiglio sull’attrezzatura e il vestiario. Solo come impiegare nel modo più intelligente il proprio tempo per preparare al meglio il fisico a essere devastato in alta quota.
Buona lettura e buone scalate.
Partiamo con una domanda di attualità: hai avuto difficolta ad allenarti in questo periodo? E le persone che alleni?
«Sono veramente fortunato: vivo in una piccola città di montagna, è stato facile continuare a correre e fare scialpinismo. Ho scelto di non fare nessuna scalata tecnica per evitare di prendere rischi durante il periodo del Covid-19. Per gli atleti che alleno è stato un po’ diverso. Una ragazza a Città del Messico vive in un appartamento di 60 metri quadrati e non poteva uscire. Fortunatamente si è potuta allenare sulle scale del suo palazzo di cinque piani. Un altro è pilota di aerei con base a Hong Kong e ha continuato a lavorare durante la pandemia. Quando atterrava in una nuova città doveva andare direttamente in hotel e non poteva lasciare la stanza dell’albergo per tutto il tempo, da 48 fino a 72 ore. Si è dovuto allenare quindi in camera, con tanti esercizi a terra o step su e giù dalle sedie».
Quando hai deciso di diventare un alpinista professionista? E quali sacrifici hai dovuto compiere?
«Io non ho deciso di essere un alpinista professionista. Infatti, in senso stretto, lo sono stato solo per i pochi anni in cui non ho realmente lavorato. L’idea di essere un arrampicatore di professione mi ha sempre fatto sentire a disagio. Penso che sia necessario creare qualcosa di utile nel mondo e non vedo come un alpinista possa creare niente oltre ai propri risultati. Per questo motivo ho sempre lavorato. Prima come Guida alpina, poi come autore e adesso come allenatore e imprenditore, aiutando gli atleti di sport di montagna ad allenarsi con le migliori conoscenze e pratiche».
Hai iniziato a scalare in Slovenia, con persone di una cultura differente dalla tua. Questo ha influenzato il tuo alpinismo?
«Mi ha aperto tante finestre. Una delle cose più interessanti è che mi ha mostrato una comunità di alpinisti. Negli Stati Uniti gli arrampicatori sono geograficamente isolati e le comunità sono veramente lontane le une dalle altre. Ci sono gruppi nei principali centri, Yosemite, Boulder, Teton, ma, soprat- tutto prima di internet, raramente si parlavano e interagivano. La cultura alpinistica in Slovenia invece è altamente integrata: gli alpinisti sono molto connessi e spesso parlano, socializzano e, ovviamente, scalano insieme; ed esternamente (la cosa più interessante per me) è integrata con la cultura generale slovena. Negli Stati Uniti l’arrampicata è un’attività molto marginale. Qualcosa da gente pazza. Qui se non puoi diventare ricco e famoso facendo qualcosa, la società di massa non vede come possa valere la pena farlo. Qui pericoloso è fare le scale senza usare il corrimano. In Slovenia l’alpinismo e lo sci sono visti come cose molto normali, se non nobili. E le montagne sono parte della cultura generale. Penso che a un italiano cresciuto sulle Alpi tutto questo sembri normale. L’ufficio delle Guide alpine è spesso di fronte alla chiesa nella piazza centrale: Guide e religione sono le due principali istituzioni del paese. In Slovenia ho visto cosa può essere una vera cultura della montagna. Ancora oggi i miei concittadini non hanno capito me o come mai passi così tanto tempo in montagna. Non hanno idea che per un gruppo di persone io sia famoso. Sono completamente anonimo».
Cosa intendi per stile alpino?
«In parole povere: fiducia in se stessi. Prendi l’attrezzatura minima necessaria, il tuo corpo e il tuo spirito. Questi sono gli unici strumenti necessari per fare le cose più incredibili».
Scalando su grandi pareti la velocità contribuisce ancora alla sicurezza
o il limite è stato raggiunto?
«La velocità contribuirà sempre alla sicurezza. Pensa per esempio al parlare in italiano. Se io provo a dire qualche parola, devo parlare veramente piano. Tu puoi parlare veloce. Ma se provi a parlare ancora più veloce, alla fine inciamperai, pronuncerai male alcune parole e non sarai più in grado di comunicare il tuo messaggio. Man mano che gli scalatori diventano più abili, diventano più fluenti a velocità più elevate. I limiti sono solo nelle nostre menti».
Perché gli alpinisti scrivono così tanti libri? È una tradizione del passato (i pionieri scrivevano delle loro imprese usando come modello le relazioni scientifiche) o è un modo per comunicare rimanendo isolati?
«Bella domanda! Ma non so la risposta».
Qual è l’obiettivo dei tuoi manuali?
«Semplicemente condividere quello che Kilian Jornet, Scott Johnston e io abbiamo imparato nel corso di decenni di allenamento e di prestazioni elevate. Vogliamo che il pubblico disponga di una fonte affidabile di informazioni sull’allenamento per gli sport di montagna».
C’è differenza tra l’allenamento di un alpinista e quello di un atleta olimpionico?
«Non c’è differenza, tutti i corpi lavorano alla stessa maniera. La differenza sta nel come le persone affrontano il loro percorso di allena- mento personale».
Le tue salite, o quelle di Steck, hanno dimostrato cosa può fare un alpinista grazie a un allenamento olimpionico. Hai notato molte differenze nel modo di allenarsi degli arrampicatori nel corso della tua carriera?
«Sì, ora tante persone si allenano in modo più intelligente. Quando ho iniziato nel 2000 ero il solo alpinista che si allenava come un atleta profes- sionista. E quando ho incontrato Ueli per la prima volta, nel 2005, aveva appena iniziato il suo percorso di allenamento ed eravamo gli unici».
Ci sono altri alpinisti che stanno seguendo il vostro metodo di allenamento?
«Scott Johnston è l’allenatore dell’alpinista tedesco David Goettler da circa quattro anni. Abbiamo anche lavorato con Alex Honnold, con la campionessa del mondo di freeski (2017) Lorraine Huber, i membri del team The North Face Global Anna Pfaff e Andres Marin e con un paio dei migliori ultra-runner americani: Luke Nelson
e Mike Foote».
Vi aspettavate tutto questo interesse verso il primo libro da parte di non alpinisti?
«No. Siamo rimasti completamente sconcertati da chi stava acquistando Training for the New Alpinism: quando Kilian Jornet lo ha pubblicato sul suo account Instagram e ha detto che si sarebbe divertito a leggerlo, abbiamo visto tutti i commenti di altri corridori e sciatori che lo avevano letto. Allora abbiamo capito!».
Il libro ha venduto molto, ma principalmente a non alpinisti. Saranno lo scialpinismo o le corse in montagna a formare il corpo dei futuri conquistatori dell’inutile?
«Non lo so. Le montagne sono un luogo in cui tutti sono liberi di esprimersi come vogliono, quindi spetta alle generazioni future trovare la propria ispirazione».
Con l’incremento dell’intensità degli allenamenti si arriverà a un punto in cui - come gli atleti professionisti - anche gli alpinisti avranno solo una breve carriera in cui potersi esprimere al 100 per cento? È compatibile questo con le condizioni variabili delle montagne?
«Poiché l’alpinismo non è competitivo, la durata della carriera di un alpinista è molto più lunga rispetto, per esempio, al ciclismo. Penso che 20 anni ad alto livello siano possibili per un arrampica- tore, anche se solo 5-10 di questi saranno al culmine assoluto. Alla fine parliamo di fisiologia e noi non possiamo battere il tempo».
Scrivi che l’alpinismo è 80 per cento testa e 20 per cento fisico. Bisogna allenare anche la mente, dunque? O è impossibile?
«Allenare il corpo è anche allenare la testa. Le persone spesso non colgono questa connessione nel libro, quindi è un mio errore come autore che non l’ho chiarito meglio. Allenarsi richiede un’enorme quantità di disciplina ed è molto difficile da fare mentalmente. Le due cose procedono sempre insieme».
Hai scritto che ti sei allenato per 15 anni per scalare la parete Rupal. Quanti di questi seguendo il metodo illustrato nel libro?
«Ho iniziato con il mio primo allenatore nell’autunno del 2000 e ho cominciato ad allenarmi con Scott Johnston nella primavera del 2001. Mi sono allenato con lui fino al mio incidente nel 2010».
Hai scelto di scalare con una persona che non si stava allenando come te, giusto?
«Vince e io siamo cari amici dal 1994. Si era allenato. Non come me, ma lo conoscevo bene e sapevo che era all’altezza della scalata e un perfetto partner».
Senza un allenamento specifico eri abbastanza in forma per aprire nuove vie di misto estreme e per scalare non stop per 60 ore sul Denali. Questo metodo serve solo per migliorare super-alpinisti o per scalare a 8.000 metri o può essere utile per tutti?
«Ne parliamo molto nei nostri libri: certo, le persone possono raggiungere una forma fisica abbastanza elevata semplicemente arrampicando molto e facendo esercizi casuali (l’esercizio non progressivo non è uguale all’allenamento). Questo era in effetti tutto ciò che chiunque ha fatto prima del 2000 o giù di lì. Inoltre arrampicare è uno sport di alta abilità, quindi bisogna scalare molto per sviluppare le abilità necessarie, per non parlare della capacità di valutazione e dell’esperienza».
In alcune tue salite hai cercato quasi una relazione mistica con i compagni di cordata, in altre hai detto di essere stato ispirato più dal tuo ego. Queste cose coesistono o a volte è necessario scalare con qualcuno per le sue abilità e non per la sua personalità?
«Ogni salita è diversa e cambiamo mentre procediamo attraverso la vita e l’arrampicata».
A volte definisci l’alpinismo come un’arte. Però l’alpinismo non mira a comunicare qualcosa agli altri: si scalano le montagne solo per se stessi. Non è un controsenso?
«Io credo che comunichi qualcosa agli altri. Molto, nel caso di alcune salite. Pensa a tutti i grandi libri di alpinismo. Ma ciò che è più importante, secondo me, è quello che viene comunicato a te stesso. Gli alpinisti hanno questo meccanismo di riscontro incredibil- mente unico e ricco verso se stessi. Quando arrampico, imparo qualcosa su di me, sul mio immediato stato emotivo, fisico e metafisico. Può essere transitorio, non permanente, ma molta grande arte lo è: danza, musica dal vivo...».
Il lavoro di allenatore con il progetto Uphill Athlete e il dover essere comunicativo (fare video, curare i social, rispondere a lunghe interviste) hanno cambiato la tua routine?
«È la mia professione, sono impegnato a tempo pieno per quattro giorni a settimana e per parte degli altri tre».
Quando ho intervistato Steck (Skialper n.101) parlava di come gli alpinisti fossero ancora molto lontani dal limite. Per esempio, ipotizzava l’arrivo di un alpinista in grado di unire le capacità atletiche di Kilian con le sue capacità tecniche. Tu cosa ne pensi?
«Concordo in pieno con questa affermazione».
Per finire: hai ancora la scritta Bonatti is God (Bonatti è Dio, ndr) sull’auto?
«No».
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 130
Lettere dai 4.000
Capitolo 1 / Silvestro, la Guida
Mentre scrivo queste riflessioni sono a Courmayeur, è il 26 di giugno e sono trascorsi 45 giorni da quando sono partito con il mio compagno Gabriele Carrara e abbiamo salito la Barre des Écrins. Lo scopo del nostro viaggio era traversare tutti gli 82 quattromila delle Alpi e per farlo avevo calcolato di impiegarci circa 40 giorni. Volevo sapere se in 33 giorni effettivi, con condizioni e meteo favorevole, fosse possibile salire tutte le vette più alte delle Alpi. Per prepararmi ad affrontare questo viaggio ho programmato e portato a termine delle gite che concatenassero, possibilmente con il minimo sforzo, più cime in uniche giornate di scalata. L’incognita era capire se queste tappe fossero state studiate bene e se il mio fisico avrebbe retto. La programmazione del viaggio è stata di per sé un motivo di divertimento e apprendimento. È proprio vero che i viaggi si vivono tre volte: in sogno, nel momento in cui sei lì e nel ricordo. Ad oggi posso dire di essere molto contento perché dopo la prima settimana, quando mi sentivo stanco, ora che sto rientrando da Courmayeur dopo tre giorni passati su e giù per il monte Bianco mi sento riposato. Il mio fisico ha risposto perfettamente agli sforzi a cui l’ho sottoposto e mi stanco molto meno in montagna. Le condizioni meteo di questa primavera sono state pessime, tanto da costringerci a fermarci per ben 18 giorni. Però, essendo riusciti a fare quello che abbiamo fatto con questo meteo, credo di potere affermare che non mi sbagliavo: in 40 giorni alpinisti con il nostro allenamento avrebbero davvero potuto completare senza eccessive difficoltà la salita degli 82 quattromila delle Alpi. Grazie alla nostra sfida ci siamo confrontati con gli altri alpinisti che in passato si sono imbarcati in questo progetto. A differenza di loro abbiamo scelto una stagione ibrida, né estate, né inverno.
In primavera ci siamo mossi tantissimo con gli sci, affrontando il pericolo della neve non ancora assestata e scoprendo che in questa stagione la maggior parte dei rifugi e degli impianti di risalita sono chiusi. L’altra scelta alla base del nostro progetto è stata quella di spostarci in furgone, in compagnia di Werby. Siamo partiti in quattro: io, Gabriele, Tiziano e suo padre. Non abbiamo avuto nessun appoggio logistico, altro aspetto che ci ha distinto rispetto a chi ci ha preceduto. Con il nostro allenamento un avvicinamento di 1.500 metri di dislivello con successivo riposo può essere una passeggiata defaticante, ma quando le funivie erano aperte le abbiamo prese, per ottimizzare i tempi e per rendere i percorsi meno noiosi. In totale le abbiamo utilizzate in cinque occasioni e in due i trenini, quello dello Jungfraujoch nell’Oberland e uno a Chamonix, rientrando dal rifugio Couvercle. In 27 giorni abbiamo fatto 200 ore di attività in montagna. Quando ci si espone così tanto, dei piccoli rischi ci sono sempre e siamo stati fortunati perché non è successo niente e non abbiamo neppure avuto acciacchi fisici rilevanti. Come per il concatenamento delle Ande nel 2018, per ogni cima scalata ho scattato una foto georeferenziata. Sicuramente in una settimana di bel tempo salirò anche le 15 cime che ci rimangono, ma non ora, non ho la giusta motivazione per continuare. Per completarle mi piacerebbe puntare più sulla qualità, per esempio salendo in giornata l’integrale di Peuterey, come ha fatto il mio socio Gabriele, accoppiando la salita di Blanche e Grand Pilier d’Angle. Infine mi piacerebbe portare con me sull’ultima cima, che potrebbe essere lo Zinalrothorn, la mia ragazza per regalare a lei il suo primo quattromila e a me una doppia soddisfazione. Arrivederci, a presto!
Silvestro Franchini
Capitolo 2 / Gabriele, il Berghem
Sono un ragazzo normalissimo, si fa per dire. Ho un fratello gemello e altri due più piccoli. Finito il periodo travagliato delle superiori, ho iniziato a lavorare stagionalmente nei rifugi, passando dal Tosa Pedrotti nelle Dolomiti di Brenta, al Torino e al Monzino sul Monte Bianco. Non basterebbero le parole per spiegare la mia passione per la montagna e ora ho finito il corso Aspiranti Guide alpine del Collegio Lombardia. Credo molto nella forza della natura e della montagna come motivo di salvezza e viaggio dentro di sé. Ritengo l’alpinismo una forma di sano egoismo necessario a conoscere se stessi. I silenzi che questi ambienti ci regalano e gli attimi di solitudine ci permettono di arrivare a un equilibrio interiore. Il nostro è stato un viaggio nato per caso da un messaggio che Silvestro mi aveva mandato più di un mese prima della nostra partenza e che io non avevo visualizzato.
Ci siamo incontrati e lui si era già organizzato, a me non è rimasto che aggregarmi; volevo conoscere parte dell’arco alpino e avevo bisogno di ritrovare un po’ di pace dopo un periodo non facile, pace che i ritmi della società sicuramente non mi avevano aiutato a trovare. Questo viaggio mi ha regalato una bella amicizia e la realizzazione di un grande sogno: attraversare in stile alpino la cresta integrale della Peuterey in giornata, partendo e tornando dal campeggio La Sorgente in Val Veny. Avendo lavorato al Rifugio Torino e al Monzino la vedevo tutte le mattine e la traversata è sempre stata un sogno nel cassetto da realizzare. Su questa affascinante e affilata linea si sono spese e si spendono un sacco di parole, spesso inutili. Sarebbe sufficiente stare in silenzio, chiudere gli occhi per iniziare a sognare il tragitto, facendo il primo passo verso di lei. Per me è stato così.
L’ho osservata e le sono girato attorno parecchi anni, sono serviti altrettanti giorni di ravanate e delusioni lontano da lei per potermi sentire pronto ad affrontarla nel mio stile: in autonomia, in velocità e in compagnia dell’amico Marco Farina. In questa salita non sono stato accompagnato dal mio compagno Silvestro perché per motivi di lavoro era impegnato. Non è una salita qualunque e per affrontarla come volevo era neces- sario un buon feeling, che ho trovato fin da subito con il mio socio. Mi piace pensare che non sia solo una cresta, ma la cresta. Mi piace credere che rappresenti il legame tra la terra e il cielo, tra la realtà e il sogno e quel giorno ero lì a camminare nel mio sogno più grande, accarezzando il cielo, in compagnia di un amico. È stato magico condividere con Marco questo momento. È stato bello fare il giro dei quattromila con Silvestro.
Sembrerà strano ma ho imparato di più dalle 13 cime che abbiamo saltato piuttosto che dalle 69 che abbiamo raggiunto e che si sono concesse. Porterò sempre con me l’insegnamento di saper rinunciare umilmente di fronte alla forza della natura, consapevoli che è la montagna che si concede. A noi non resta che attendere e nel dubbio allenarci. I dettagli del viaggio li ho lasciati raccontare a Silvestro, Guida alpina di Madonna di Campiglio, che in montagna ci è nato e ci vive e sicuramente ha molta più esperienza di me. Io adesso porterò Werby al mare a cercare una bella furgonetta: se la merita. Grazie Alpi, grazie soci! Adesso è ora di aprire gli occhi e pensare a qualcos’altro. Ah! Grazie Werby, sei una roccia. Grazie a tutte le persone che in questi anni ho incontrato e che con la loro umiltà, determinazione e lealtà mi hanno indicato la strada. Sono stati due mesi alla Grande Grimpe.
Gabriele Carrara
Capitolo 3 / Diario: 45 giorni in cresta
di Gabriele Carrara
13 maggio / La prima tappa ci fa capire subito che non sarà per nulla facile: la visibilità scarsa e il vento che soffia forte, abbinati alla neve caduta al suolo nei giorni precedenti, diventano una combo molto pericolosa. Per fortuna, grazie anche all’aiuto del GPS, arriviamo in cima, direttamente con gli sci, prima al Dôme de Neige des Écrins (4.015 m), dove il papà di Tiziano ci aspetta, poi alla Barre des Écrins (4.101 m). Le condizioni sono tutto tranne che facili a causa del verglas. Ambiente selvaggio, montagna vera.
14 maggio / Siamo in direzione del Grand Combin, il vento non molla nemmeno oggi, anzi, sembra voler spingere ancor di più; nella parte alta raffiche a 70 km/h ci fanno perdere un po’ l’orientamento, ma saliamo tre cime: il Combin de Valsorey (4.184 m) dalla Parete Nord-Ovest per poi proseguire verso il Grand Combin de Grafeneire (4.314 m). Purtroppo saliamo anche la cimetta in parte, convinti che sia il Combin de la Tsessette (4.141 m), invece due giorni più tardi ci accorgeremo che è l’Aiguille de Croissaint, sempre un quattromila che però non fa parte degli 82.
Giornata resa molto fredda dal vento e direi anche abbastanza lunga, visto lo sviluppo e il dislivello. Ci toccherà tornare in futuro per una buona gita scialpinistica, del resto sarà una motivazione in più, anche se questo posto di motivazioni per tornarci ne ha ben più di una: magnifico.
15 maggio / Prima giornata quasi rilassante alla Dent D’Hérens (4.171 m). Se si esclude la passeggiata lungo il lago, abbastanza frustrante da fare con gli sci in spalla, si rivelerà una delle mete top, sciisticamente parlando.
16 maggio / Siamo a Pont in Valsavarenche, verso il Gran Paradiso (4.061 m). Niente piani da spingere, poco portage degli sci, in pratica un vertical. Giornata quasi relax se non fosse per la malsana idea di ripartire subito verso Campo Moro, ai piedi del Bernina.
17 maggio / Meteo orribile, nebbia da nausea, neve tutto tranne che bella: Piz Bernina (4.049 m), il GPS funziona davvero, ma a me si rompe lo scarpone. È l’ultima cima fatta insieme a Tiziano e suo papà, per me e Silvestro sarà ancora lunga.
22 maggio / Saliti il giorno prima al bivacco, dopo la pausa per
il maltempo e condizioni pericolose, ripartiamo dal Weissmies (4.023 m). Sempre tanta neve, anzi, più di prima, e far traccia con queste condizioni inizia a pesare anche di testa: per fortuna abbiamo gli sci ai piedi. Poi il Lagginhorn (4.010 m), salito dalla cresta, questa volta a piedi, e affondare fino al ginocchio non è un caso. Nel pomeriggio prendiamo la funivia a Saas-Fee e saliamo a dormire alla Britannia Hütte.
23 maggio / Giornata da incorniciare. Le prime tracce che incontriamo sul nostro viaggio: che goduria non sfondare, ma non durerà molto... La discesa con i nostri sci stretti è da panico, neve cartone. Saliamo così lo Strahlhorn (4.190 m), poi il Rimpfischhorn (4.199 m) e per finire il dislivello positivo di giornata puntiamo diretti dalla west face dell’Allalinhorn (4.027 m). Sarebbe top anche da sciare in discesa, peccato che Werby sia dalla parte opposta e allora arriviamo con gli sci ai piedi, sul cosiddetto firn remol, fino a Saas-Fee: discesa altrettanto da sogno.
24 maggio / Altra gita da sogno per ogni scialpinista, se poi si riesce
a trovare anche la powder, beh allora il Bishorn (4.153 m) è una delle gite scialpinistiche più belle dell’arco alpino. Poca fatica, massima resa.
27 maggio / Siamo già al rifugio Couvercle, dove siamo saliti il giorno prima. Ci aspetta una giornatona, la prima un po’ più tecnica. Avvicinamento alle cime con gli sci, ma poi li lasciamo alla base e proseguiamo con picca e ramponi. Saliamo e scendiamo Les Droites (4.000 m), riscendiamo, traversiamo con gli sci e infine li lasciamo alla base del Couloir Whymper, da dove scenderemo a piedi. Saliamo in sequenza l’Aiguille du Jardin (4.035 m), Grande Rocheuse (4.102 m) e Aiguille Verte (4.122 m) per poi scendere a valle e prendere il trenino di Montenvers e raggiungere Chamonix. In cresta troviamo tanta neve, condizioni più che invernali e... appena il sole scalda meglio, togliersi dai pendii! Una volta a Chamonix basta la sfida a chi mangia il panino più grosso e una sola birra per collassare tra le lamiere di Werby e svegliarsi il giorno dopo sotto l’ennesima pioggia primaverile.
30 maggio / Il meteo oggi ci grazia. Le condizioni sarebbero
da powder day con un palettone sotto i piedi, altro che scarponi
e ramponi sulla Dent Blanche. Ieri il GPS è stato utile: tre ore per arrivare al bivacco della Dent Blanche nella nebbia, bufera con visibilità a 10 metri: uno schifo. Oggi 20 metri di kevlar, qualche moschettone e cordino, ramponi, due piccozze e via a fare la king of ravanage del nostro viaggio. Se la salita è impegnativa, la discesa sarà abbastanza da panico. Saliamo dalla cresta della via normale fino alla Dent Blanche (4.357 m): panorama tra i più belli di tutte le Alpi. Non scendiamo dalla cresta, da dove siamo saliti, perché le parti più ripide dove abbiamo dovuto scalicchiare risulterebbero troppo laboriose per calarci e non abbiamo molto materiale a disposizione. Scendiamo dalla parete Ovest. In certi punti c’è neve fino al bacino, per fortuna fa freddo, il pendio è stabile e, recuperati gli sci, ci godiamo le discese polverose con ampi curvoni verso Ferpècle e, con la solita oretta di portage degli sci sullo zaino, rientriamo da Werby.
31 maggio / Siamo a Zermatt da ieri pomeriggio e questa mattina prendiamo la funivia del piccolo Cervino. La tecnica è sempre la stessa: sci dove si può e ravanage dove gli attrezzi rimangono sulle spalle. Partiamo dal Breithorn Occidentale (4.165 m), per poi proseguire sempre sul filo di cresta dove, tolte le normali sulle cime classiche, di tracciato non c’è nulla e così testa bassa e tritare. Passiamo dal Breithorn Centrale (4.160 m), Breithorn Orientale (4.141 m), Gemello del Breithorn (4.106 m), Roccia Nera (4.075 m), Polluce (4.092 m), Castore (4.228 m), punta Felik (4.087 m), Lyskamm Occidentale (4.481 m), Lyskamm Est (4.527 m) per arrivare verso pomeriggio-sera alla Capanna Gnifetti.
1 giugno / Partiamo presto perché di neve ce n’è ancora parecchia
ed è meglio muoversi nelle ore meno calde. Si comincia dalla Punta Giordani (4.046 m), proseguendo per la Piramide Vincent (4.215 m), Corno Nero (4.322 m), Ludwigshöhe (4.342 m), Punta Parrot (4.436 m), Punta Gnifetti (4.554 m). Sembra davvero una collezione di figurine vista la facilità nel percorrerle, ma per fortuna dalla Punta Zumstein (4.563 m) alla Grenzgipfel (4.618 m) e Punta Dufour (4.634 m) cambia il terreno, che diventa più tecnico e, dovendo batter traccia, la motivazione risale. L’ultima cima di giornata è la Nordend (4.612 m) che dobbiamo salire dal pendio Nord-Ovest perché i crepacci sulla via normale sono troppo aperti e alcune Guide ci hanno detto che son tornate indietro. Ora non ci resta che goderci un’altra sciata, almeno fin dove si riesce.
3 giugno / Inizia davvero a fare caldo, ieri siamo saliti in bivacco, oggi alle tre di mattina siamo già in marcia verso il Weisshorn (4.506 m), uno dei quattromila più classici ed estetici delle Alpi. Di notte non c’è più rigelo, lo zero termico è sopra i 4.000 metri
e dobbiamo muoverci senza sci, si fa una gran fatica. Serve solo pazienza, di certo non si può pensare di essere veloci, ma allo stesso tempo anticipare le ore di sole, muovendosi di notte, è l’unica opzione. Basta dire che alle otto di mattina, tornando verso valle,
la neve è già marcia e a quote intorno ai 4.000 si sprofonda fino
al bacino. Il pomeriggio siamo dall’altra parte del versante e con
la funivia arriviamo alla stazione intermedia del Piccolo Cervino
per dormire e dirigerci il giorno dopo verso la Gran Becca.
4 giugno / La notte ha piovigginato e il cielo nuvoloso non ha indurito la neve, un calvario fino al rifugio Hörnli. Si sprofonda su una crosta che, a forza di battermi negli stinchi, fa male. Il rifugio è ancora chiuso, allora entriamo nel locale invernale dove io cerco di riprendermi un attimo, oggi sto davvero male. Per fortuna la cresta dell’Hörnli è ben pulita e in poco raggiungiamo la cima del Cervino (4.478 m). Il nostro progetto inizia a prendere forma, da qui riusciamo a identificare gran parte delle cime salite, dal Monte Rosa, alle vette sopra Zermatt, il Combin, la Dent d’Heréns, il Weisshorn, lo Zinalrothorn e l’Obergabelhorn, dove tenteremo di salire domani mattina.
5 giugno / Rinunciamo all’ Obergabelhorn per condizioni davvero troppo pericolose:
sempre più caldo e ancora troppa neve. Più lontano si vede il Monte Bianco, là ci sono le gite che mi hanno dato la motivazione in tutto il nostro viaggio e presto sarà il loro momento.
17 giugno / Riprendiamo il viaggio lasciando Werby a Fiesch e prendendo il trenino rosso, che in cinque ore tra attesa e viaggio
ci porta allo Jungfraujoch. Centosettanta euro a testa di biglietto:
a questo giro le cime da salire hanno un sapore più costoso. Si passa da Grindelwald. Saranno le nostre ultime cime con gli sci d’alpi- nismo, una volta scesi dal trenino si sale prima la Jungfrau (4.158 m) e poi il Mönch (4.105 m). Se gli altri giorni, tolte le due giornate al Monte Rosa e quella a Zermatt, dovevamo tracciare e non abbiamo incontrato nessuno, qui di gente ce n’è anche troppa.
18 giugno / A mezzanotte suona la sveglia, la luna è quasi piena, tutto stellato, il top. Dal rifugio Mönch mettiamo gli sci verso valle
e su questi immensi ghiacciai per ben 10 minuti non facciamo nemmeno mezza curva; ci lasciamo trasportare dai nostri sci su lievi pendenze, solo il rumore delle solette che sfregano sulla neve dura e i giochi di ombre che la luna crea, non un filo di vento. Arrivati all’attacco della prima salita, iniziamo a togliere metri positivi a una giornata abbastanza lunga: prima il Gross Grünhorn (4.044 m), Hinter Fiescherhorn (4.025 m), Gross Fieschhorn (4.049 m) e infine l’ultima lunga salita al Finsteraarhorn (4.274 m), altra cima bellis- sima. Non ci resta che andare verso il Concordia, altri 200 metri di salita fino al colle e poi più di 100 metri di dislivello su scale di ferro per raggiungere il rifugio, il calvario finale.
19 giugno / La nostra ultima cima con gli sci cerchiamo di godercela al meglio, è l’Aletschhorn (4.195 m). Gita bellissima e rientro fino
a Fiesch veramente lungo. Sopra il paese prendiamo la funivia che
ci riporta in valle. Se sulle Alpi esiste un paradiso dello scialpinismo, è proprio qui, nell’Oberland Bernese!
23 giugno / Messi gli sci in cantina, siamo finalmente al Monte Bianco. Dal rifugio Monzino, per me il più bello che abbia mai visto, saliamo verso Eccles con l’idea di scalare il Pilier d’Angle e l’Aguille Blanche. Le condizioni sono le solite, si sprofonda, fa caldo anche se, come dice qualcuno in montagna, di caldo non è mai morto nessuno. Il nostro caldo è riferito solo alle condizioni ottimali per muoversi in alta montagna, quindi bisogna variare il programma. Passare sotto il pilone è da follli. Anticipiamo parte della gita del giorno seguente e saliamo al Col Émile Rey per poi salire il Monte Brouillard (4.068 m) e Punta Baretti (4.006 m).
Torniamo infine al bivacco Eccles dove passeremo il resto della giornata a dormire, mangiare e bere, cercando di immagazzinare più energie possibili in previsione dei tre giorni successivi.
24 giugno / Direzione Monte Bianco, la cima più alta del nostro viaggio, e per arrivarci facciamo la cresta del Brouillard passando dal Picco Luigi Amedeo (4.470 m), poi Mont Blanc de Courmayeur (4.765 m) e vetta (4.807 m). Sembra di essere sulle strade dello Stelvio nella stagione di punta, dove di ciclisti ne salgono veramente tanti; uguale, una processione che una volta giunti al Dôme du Goûter (4.306 m) abbandoniamo per dirigerci verso l’Aiguille de Bionnassay (4.052 m). Da qui scendiamo dal rifugio Gonella, verso il Miage.
25 giugno / Siamo sulla cresta più arrampicatoria dei quattromila delle Alpi, l’Arête du Diable: giornata super, granito eccellente, voglia di scalare a bomba e senza accorgercene saliamo in successione Corne du Diable (4.064 m), Pointe Chaubert (4.074 m), Pointe Médiane (4.097 m), Pointe Carmen (4.109 m), L’isolée (4.114 m) e Mont Blanc du Tacul (4.248 m). Qui lasciamo gli zaini e, un po’ veloci, sicuramente più leggeri, procediamo verso il Mont Maudit (4.468 m). Rientriamo poi al rifugio Torino, dove eravamo già saliti il pomeriggio prima con la funivia Skyway.
26 giugno / Ultimo giornatone in compagnia di Silvestro, prima della pausa per impegni lavorativi. A mezzanotte suona la sveglia e, dopo una colazione doc al rifugio Torino, ci dirigiamo verso la prima cima di giornata: Dente del Gigante (4.014 m), proseguendo poi per l’Aiguille de Rochefort (4.001 m) e Dôme de Rochefort (4.015 m). Alle prime luci dell’alba siamo in zona bivacco Canzio, dove saliamo punta Young, poi verso la Punta Margherita (4.065 m), Punta Elena (4.045 m), Punta Croz (4.110 m), Punta Whymper (4.184 m) e per finire la Punta Walker (4.208 m). La discesa è un calvario, eppure non sono ancora le dieci di mattina: neve granita, si sfonda fino al bacino. È impensabile riuscire a sfruttare le giornate a pieno e una volta arrivati in Val Ferret ci fermiamo
e decidiamo che le prossime cime per ora rimangono lì. Consapevoli
di averci provato e di aver imparato tanto, portandoci a casa una bella amicizia ed emozioni che rimarranno per sempre.
Postfazione / Due ragazzi e un furgone
Siete passati dal vento gelido della Barre des Écrins al caldo torrido del Monte Rosa; dalla polvere della Dent Blanche alle creste in condizioni perfette dell’Arête du Diable; dalla selvaggia cresta delle Brouillard al sovraffollamento della cima del Monte Bianco; dalla neve alla roccia, dalle creste ai sentieri, in una primavera strana con le condizioni che vi dicevano di non partire, ma il vostro spirito vi ha spinto a provarci. Vi siete avventurati in luoghi in cui non eravate mai stati, là dove si sono scritte le pagine storiche dell’alpinismo di ricerca. Alla fine ne è nata una bella amicizia oltre che la conoscenza di tutto questo territorio (l’arco alpino e i suoi quattromila) che tanto ci ha dato e tanto continua a toglierci. Avete percorso il tragitto a bordo di Werby, il nostro compagno di avventure: un furgone Volkswagen targato alfa whisky ormai più che maggiorenne, che vanta oltre 300.000 chilometri in giro per l’Italia, dalle Alpi alle coste della Sardegna, sempre con lo stesso spirito randagio. Sono stati 46 giorni di azione e allo stesso tempo di attesa, immersi nella natura più selvaggia delle Alpi, lontani dal turismo dell’alta stagione, lontani dalle comodità che la società ci propone.
Le tappe si sono rivelate più difficili del previsto; il vostro obiettivo non è mai stato un record, ma prendervi il giusto tempo per legare come persone e vivere i momenti con le loro emozioni. Il dover spesso battere traccia, l’aver incontrato poche persone,
il periodo primaverile vi hanno fatto un grosso regalo, quello di potervi sentire parte di questo ambiente misterioso, dove il vento che accarezza le creste sembra narrare le storie di chi prima di voi ha percorso lo stesso tragitto alla ricerca di se stesso. È stato un viaggio all’insegna dell’avventura e della ricerca, legati alla natura
e ai suoi ritmi, alle sue scelte e opportunità. Vi siete fatti ispirare da chi in passato ha avuto il coraggio di avventurarsi in questi luoghi, da chi ha saputo coltivare e condividere le idee e le emozioni di un viaggio così. Avete passato otto notti in rifugio, sette in bivacco e le restanti con il vostro terzo compagno di viaggio, Werby. Si potrebbe anche definirla un’avventura dall’alba al tramonto, sicuramente non facile da gestire.
Ricordo una notte. Eravate ormai alla fine del viaggio, la montagna aveva deciso così. Erano le 4,15 del mattino e vi vedevo dalla finestra della mia camera del Rifugio Torino. Alle prime luci dell’alba si scorgeva la sagoma del Dente del Gigante e le lucine, in prossimità del DÔme du Rochefort, muoversi a fil di cielo in direzione delle Grandes Jorasses. Un altro giorno, esattamente il quarto dalla vostra partenza, tu Gabriele eri felice di essere partito e anche Werby sembrava esserlo. Arrivati in Valgrisenche il clacson ha iniziato a suonare all’impaz- zata. Ricordo ancora la tua voce quando mi hai chiamato per dirmi che avevi tagliato i fili perché non smetteva di suonare. Non ne voleva sapere di tacere. Era un po’ come tu in quel momento: felice di essere in viaggio, alla ricerca di nuove emozioni, alla ricerca della tranquillità. È stato magico condividere tutto questo con voi, passando le notti insonni leggendo i pochi messaggi che mi mandavate. È stato emozionante farmi vivere la vostra avventura. Non sarei mai stato
in grado, ma amo questi luoghi e li osservo tutti i giorni con tanta passione e stupore.
Sono sicuro che i tempi non ve li ricorderete e tanto meno il numero di birrette bevute – troppe per contarle – ma sono certo che rammenterete per sempre chi si mangiava il panino più grande una volta rientrati dalla gita. Come quel giorno che siete arrivati al rifugio Couvercle dopo aver attraversato le Droites, l’Aiguille du Jardin, Grande Rocheuse e Aiguille Verte in giornata, passando dagli sci per tracciare la via nelle neve fresca, agli scarponi per percorrere le creste. Il rifugista vi ha riempito di orgoglio con quella frase c’est pas possible, incredulo della vostra prestazione. È forse da qui, fratello, che è iniziato il tuo vero viaggio alla conquista di quella pace e serenità che sembrava tanto difficile da raggiungere ma che con la tua determinazione sei riuscito a guadagnare. Era il tuo momento e hai saputo sfruttarlo; l’impossibile stava diventando possibile.
Nessuno vi ha obbligato a partire, nessuno vi ha detto di fare questo giro. Avete dimostrato che quello che conta sono i sacrifici fatti negli anni e di averli fatti divertendovi, senza mai perdere la passione per questi luoghi. Forse è questa la cosa che più di tutto vi ha unito. La vostra passione si legge negli occhi e nelle parole, in un periodo in cui i tempi e le prestazioni da record sembrano essere l’unica cosa importante. Siete stati due montanari romantici. Perché se i record sono fatti per essere battuti, le emozioni sono per sempre. Ho amato il vostro stile leggero e veloce. Ho ammirato il vostro incedere oltre la soglia di questi ambienti misteriosi e fragili, cercando di lasciarli incontaminati e senza traccia. Ormai si trovano bivacchi in condizioni vergognose, gente irrispettosa dell’ambiente che li ospita, così maestoso ma allo stesso tempo fragile. Ognuno di noi, nel proprio piccolo, può fare qualcosa ed essere di grande aiuto nella salvaguardia di questi fantastici luoghi. Grazie Silvi per aver condiviso con il mio gemello questo viaggio. Grazie gemello per aver condiviso con me queste emozioni che rimarranno per sempre. Queste non ce le batte nessuno.
Francesco Carrara
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 126
Il privilegio della libertà
Viviamo una vita programmata fin nei minimi dettagli, invece il bello è partire alla scoperta, solo con la propria voglia di fare sport nella natura, che sia camminare o correre. È lo spirito che permea un po’ tutto Skialper 131 di agosto-settembre. Lo abbiamo anche scritto in copertina: non abbiamo seguito il sentiero, ma la nostra voglia di scoprire. Ed è quello che scrive Emelie Forsberg in un capitolo tratto dal libro Correre, vivere, pubblicato dalla nostra casa editrice. Ecco perché quel capitolo lo abbiamo riproposto all’interno di Skialper 131. «Lasciare i sentieri è eccitante. E lo è ancora di più cambiare itinerario seguendo il proprioistinto. La sensazione che hai quando raggiungi la cima è unica» scrive Emelie.
È proprio questo il privilegio della libertà. Un privilegio che inconsciamente abbiamo sempre avuto, ma questa strana estate ce lo ha fatto riscoprire. Per farvi venire voglia di comprare Skialper 131 e il meraviglioso libro di Emelie, ma anche per aiutarvi a uscire con le scarpe da trail e il giusto spirito, condividiamo anche sul nostro sito il contributo della trail runner svedese.
Nella High Coast della Svezia, dove sono cresciuta, la natura è selvaggia. I boschi sono secolari e invitano al gioco, con i loro grandi alberi, i licheni sulle rocce e un terreno caotico dove vedi appena cosa c’è sotto i piedi quando esci dal sentiero. Le spiagge di ciottoli sono lunghe, con grandi e piccole rocce che si tuffano nel mare. Qui mi diverto a giocare, a trovare la strada più veloce e le spiagge sembrano non finire mai.
Sono uscita a correre con un’amica nella parte meridionale della High Coast. È la prima volta che viene da queste parti e anche per me le spiagge di ciottoli, grandiose rocce e le fitte foreste sembrano nuove, nonostante le conosca bene. Stiamo correndo lungo un sentiero, di tanto in tanto parliamo, in altri momenti ci concentriamo sulla corsa e lasciamo fluire i nostri pensieri, come è giusto che sia quando stai fuori più ore. Sulla via del rientro vediamo una piccola cima interessante perché le rocce formano un plateau sulla parte alta. Vogliamo andarci e questo significa che staremo fuori ben più tempo di quanto previsto, ma rimanere sul sentiero e perdere la nostra avventura è impossibile. Man mano che ci addentriamo nel bosco il muschio ricopre completamente il terreno ed è necessario essere concentrati al massimo. Piano piano corriamo da un lato all’altro. A volte è più veloce la mia amica, a volte sono io a scegliere il percorso più rapido. Siamo concentrate e la collina che vedevamo lontano ora è alla nostra portata.
Lasciare i sentieri è eccitante. E lo è ancora di più cambiare itinerario seguendo il proprio istinto. La sensazione che hai quando raggiungi la cima è unica. E noi l’abbiamo raggiunta! Abbiamo scelto questo itinerario perché sembrava così intrigante, non perché dovevamo o era programmato. È stato fantastico anche se niente di più di una deviazione dal percorso. Lasciare spazio alla curiosità, ai propri desideri pervivere una nuova esperienza: non abbiamo seguito il sentiero ma la nostra voglia di scoprire. La curiosità ha un posto importante nella mia vita, è la benzina. Non sempre però vado avanti, magari trovo un nuovo itinerario e mi piace, ma se il terreno è troppo difficile torno indietro. La cosa più importante è provarci. A volte quando corri è necessario inseguire i tuoi pensieri e cercare nuove idee. Solo chi agisce con il cuore riesce a lasciarsi andare e seguire il suo istinto. Così trova nuove prospettive, prova esperienze sconosciute e cresce.
A volte ho paura di perdere per strada il lato più giocoso di me nel tentativo di diventare la migliore runner o scialpinista. Poi però mi basta pensare a uno dei tanti bei ricordi, per esempio quello del Grand Teton National Park, negli Stati Uniti, per tranquillizzarmi.
Stavo correndo con Kilian, il mio compagno di misfatti. Avevamo guardato le mappe e vi- sto una montagna un po’ più in là, ma senza nessun sentiero, che finiva presso un grande lago. La montagna saliva proprio oltre lo specchio d’acqua, dall’altra parte. Così abbiamo deciso di correre nel bosco, ma ci siamo trovati ingolfati in un terreno stile giungla e quattro chilometri hanno richiesto ben tre ore. Ma wow, è stato fantastico! Volevamo salire sul Mount Marcon, che pochi hanno salito. Arrivare in vetta è stato veloce: la nostra curiosità e il sollievo che abbiamo provato a non dovere correre saltando su e giù dai rami e cespugli hanno reso tutto un bel gioco. Al ritorno abbiamo deciso di nuotare. Abbiamo avvolto i nostri smartphone nelle magliette e le abbiamo arrotolate attorno alla testa. Non possiamo certo dire di essere dei provetti nuotatori, Kilian sembrava quasi un cane. Abbiamo riso a crepapelle, ma è stata un’impresa faticosa e impegnativa. Con inostri turbanti abbiamo continuato a nuotare con calma e due chilometri sono sembrati lunghi come l’andata in quel bosco stile giungla. Se esiterò a lasciare la strada programmata, ricordi come questo mi aiuteranno a decidere di cambiare sentiero.
Andrea Prandi e Simone Eydallin, anatomia di un record
Lontani da linee di partenze e arrivi, pettorali e classifiche. Sarà ricordata così l’estate 2020 che ha visto l’annullamento della maggior parte delle gare in calendario a causa dell’emergenza sanitaria. Gli appassionati di sport endurance hanno però continuato ad allenarsi e a mettersi alla prova, alzando l’asticella sempre di più nel tentativo di migliorarsi, raggiungere nuovi obiettivi e, perché no, anche nuovi record. Ne abbiamo parlato, dando spazio alla cronaca dei record, su skialper.it. Tra i fastest known time uno di quelli che ha fatto parlare di più è firmato da Andrea Prandi e Robert Antonioli alle 13 cime, in Valfurva, mentre, tra le imprese curiose, il nuovo record del mondo di Everesting di corsa di Simone Eydallin. Abbiamo fatto quattro chiacchiere con i due atleti Dynafit per conoscere più nei dettagli le imprese.
Mai mollare
Ventidue anni, grinta e forza da vendere e tante vittorie portate a casa, la più grande poco più di un anno fa, sconfiggendo il tumore che lo aveva colpito al sistema immunitario. Andrea però non si è mai abbattuto. La determinazione, la passione per lo sport e l’amore per la montagna lo hanno aiutato anche in quell’occasione, dandogli la forza di andare avanti e di continuare a sperare per poi superare il buio e vincere una delle battaglie più difficili. Nel mese di maggio 2019, a distanza di nemmeno due mesi dal suo ultimo ciclo di chemioterapia, Andrea ha ricominciato a gareggiare e allenarsi fino a quando il 12 luglio scorso, nella sua Valfurva, l’atleta Dynafit ha realizzato l’ennesimo suo sogno, percorrendo l’anello delle 13 cime in sole 6h52’56’’. Un tracciato lungo oltre 37 chilometri con 4.000 metri di dislivello, percorso in coppia con il compagno Robert Antonioli. «Durante il periodo di lockdown mi è venuta voglia di mettermi in gioco, facendo qualcosa qui sulle montagne di casa e così ho pensato al giro delle 13 cime - racconta Andrea - Ho deciso di farlo con Robert, oltre che per il rapporto di amicizia che ci lega, per l’esperienza alpinistica e per la conoscenza che ha di questo ambiente. Nei punti più tecnici mi sono completamente affidato a lui». Un tempo strepitoso il loro, abbassato di quasi un’ora rispetto a quello che la settimana precedente aveva visto il sigillo della coppia Pintarelli-Boffelli. «Le condizioni erano praticamente perfette, la neve era dura e tutto è filato liscio. Ma non abbiamo dato nulla per scontato fino alle fine, in imprese come queste basta un piccolo imprevisto per far saltare tutto. Sull’ultima discesa ho avuto i crampi ma la testa alla fine l’ha avuta vinta e ha prevalso sul dolore e la fatica». Mai mollare, insomma. «No, mai mollare è ciò che si sente di suggerire Andrea a chi sta vivendo momenti difficili. Anche durante i cicli di chemioterapia non ho mai smesso di uscire di casa per qualche passeggiata sui miei sentieri, anche se ero letteralmente uno straccio. Lo sport, la montagna e l’aria aperta sono stati fondamentali. Per smaltire i farmaci e lo stress, per liberare la mente e per continuare a crederci, sempre».
L’Everest dietro casa
Ci sono sogni irrealizzabili, si sa, ma a volte è difficile arrendersi di fronte all’idea di non poter concretizzare qualcosa a cui tanto si tiene ed è allora che si trovano soluzioni. È quello che fatto Simone Eydallin che, da sempre innamorato dalla maestosità dell’Everest, ha trovato un modo tutto suo per scalarlo. «Sono un grandissimo fan dell’Everest - racconta Simone - Sono sempre stato affascinato da questa montagna ma so che probabilmente non lo scalerò mai, non sono da me queste imprese così alpinistiche. Volevo però togliermi lo sfizio di simulare una scalata percorrendo, di corsa, il dislivello di 8.848 metri e così ho pensato alla sfida dell’Everesting. Quando ho iniziato a progettare il tutto non avevo nemmeno preso in considerazione l’idea del record ma poi, verso metà giugno, ho provato a fare un po’ di dislivello per vedere come stavo dal punto di vista fisico e psicologico. È stato solo allora che, dopo aver fatto due calcoli, mi sono reso conto che stavo bene e che avrei potuto provare a battere il record. E così è stato. Proprio pochi giorni fa è arrivata l’omologazione del mio nuovo record di Everesting nella specialità della corsa». Lo scorso martedì 14 luglio, a Sauze d’Oulx, Simone ha risalito per ben 12 volte e mezza una pista di sci di 715 metri di dislivello, lunga 3,3 chilometri e con una pendenza media del 24%, ed è sceso su un percorso parallelo in bici. Il tutto con il tempo pazzesco di 10h01'. Un’impresa difficile, sia dal punto di vista psicologico che fisico e che lungo il percorso ha richiesto l’assistenza, tra ristori, assistenza e lepri, di un team di circa una decina di persone. «A livello fisico non ho avuto grosse difficoltà, il problema è stata la testa - confida Simone - Arrivando da gare corte, lo sforzo mentale in imprese come queste è completamente diverso. Fino al sesto giro è andato tutto bene, ero super gasato, ma dopo l’ottavo ho avuto un vero e proprio crollo psicologico. Per fortuna che dopo il nono giro è arrivata mia moglie Emily e sul percorso si è radunata ancora più gente, ad aiutare e a tifare e tutto è tornato come prima». Raggiunto un obiettivo (o una vetta, è il caso di dirlo) è già ora di guardare ai prossimi. «Mi aspettano ancora qualche giorno di recupero, con allenamenti blandi in bici, alimentazioni sana e tanto riposo, ma poi devo preparami per la prossima impresa, in programma a fine estate, sul Rocciamelone, proprio lì dove ho partecipato per la prima volta in vita mia a una gara di corsa in montagna e dove mi sono innamorato di questo fantastico sport».
Le novità Ortovox per l’estate 2021
Con la linea Dry Series, Ortovox presenta la sua prima collezione di zaini resistenti a ogni condizione meteorologica. La nuova giacca e i nuovi pantaloni Westalpen 3L completano la collezione dedicata all’alpinismo su neve e ghiaccio lanciata nell’estate del 2020. Oltre a queste novità, per l’estate 2021 Ortovox punta su articoli già collaudati. Il 75 % della collezione, infatti, sarà costituito da modelli presentati sul mercato per l’anno in corso.
Zaini
La prima linea di zaini meteo-resistenti di Ortovox, dedicata al trekking ad alta quota, all’alpinismo su neve e ghiaccio e all’arrampicata, è impermeabile e non necessita di una cover antipioggia aggiuntiva. Inoltre è completamente priva di PFC. Tre sono i modelli della linea Dry Series, ciascuno con un sistema dorsale dalla lunghezza regolare o ridotta: Peak 40/38S Dry, Traverse 30/28S Dry e Trad 30/28S Dry. Tutti e tre combinano funzionalità e comfort grazie a una struttura studiata ad hoc, dettagli tecnici e comodi sistemi dorsali che permettono la migliore distribuzione del carico. Il materiale esterno e le cuciture termosaldate ad alta frequenza sono impermeabili. Il sottile strato esterno in PU e il rivestimento interno in TPU rendono lo zaino assolutamente impermeabile senza bisogno di un ulteriore trattamento DWR, garantendo completa protezione dell’equipaggiamento stivato nello zaino.
Westalpen 3L
Un sistema adatto a ogni condizione. Con le novità dell’estate 2021, Ortovox completa la collezione dedicata all’alpinismo ad alta quota e alle uscite di trekking più impegnative, aggiungendo un outfit hardshell robusto, tecnico e altamente funzionale: la giacca e i pantaloni Westalpen 3L. La nuova combinazione a tre strati fa parte del sistema Westalpen che si suddivide in hardshell, softshell e un ultimo strato isolante. Grazie al taglio delle maniche e del busto, la giacca antivento e impermeabile con membrana Dermizax NX garantisce la massima libertà di movimento. Ciò significa che è possibile portare le braccia oltre la testa senza alcuna difficoltà anche quando s’indossano l’imbragatura e lo zaino. Le tasche frontali e le cerniere sono studiate per essere facili da utilizzare in ogni momento. Il cappuccio lascia spazio di movimento, è regolabile sia in orizzontale che in verticale ed è compatibile con il casco. Inoltre è possibile regolare l’ampiezza delle maniche e degli orli. Il colletto foderato in lana Merino è più alto dei comuni colletti. Queste caratteristiche rendono la giacca adatta ad affrontare anche le condizioni più avverse. I nuovi pantaloni tecnici sono robusti e adatti per un uso sia estivo che invernale. L’innovativa regolazione della larghezza dell’orlo delle gambe ne aumenta la praticità. Le due possibilità di regolazione interna permettono ai pantaloni di adattarsi rapidamente alla larghezza dello scarpone da sci o, laddove sia necessario indossare i ramponi, agli scarponcini da montagna. Il sistema Quick-Gaiter integrato rende superfluo l’uso delle ghette e il paralamine in Cordura e Dyneema assicura la massima resistenza all’abrasione.
Alex Txikon, l'alpinismo è immediatezza
«La vita media oscilla intorno ai 33.000 giorni, se dipendesse da me passerei la maggior parte del tempo di questo viaggio tra le montagne. Se ci fermiamo un attimo a pensare, ci sono molte cose importanti. Però solo due sono essenziali: la vita e il tempo. Ed è proprio in questi momenti che guardo indietro e vedo un bambino che gioca e sale sulla bici e, sorpreso e inquieto, mi domando: come è passato tutto così velocemente, vero?».
Alex Txikon ha preso sul serio questa sua affermazione, anche nei mesi scorsi quando si è allenato in Antartide prima di partire per l'Himalaya. Risultato? Road to Himalayas: partenza dal Cile a bordo di una barca a vela il 14 dicembre per andare a scalare ed esplorare nelle isole Shetland Meridionali, attraversando il burrascoso Canale di Drake. Poi, all’inizio di gennaio, con solo due giorni di riposo, subito in Nepal per scalare l’Ama Dablam e tentare l’Everest.
L’alpinista basco non è uno che ama rimanere fermo e il suo curriculum alla soglia dei 40 anno lo dimostra. E va in Himalaya quasi tuti gli inverni: «gli Ottomila invernali continuano a essere un luogo nel quale mi trovo a mio agio, mi piace lottare con le condizioni meteorologiche, mi piace soprattutto la montagna, perché è completamente diversa e non c’è l’affollamento degli altri mesi dell’anno». Su Skialper 130 di giugno-luglio Alex ci ha raccontato l’ultima spedizione, i suoi progetti, i suoi ricordi più belli, ha parlato di droni e di igloo, di bici, di moto, di rischio: «I limiti, la paura, il rischio li stabilisci tu stesso. La paura, il limite e il rischio sono i compagni della prudenza: più paura, più prudenza. Al contrario di quanto si pensi».
Appuntamento su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.
Estefania Troguet: «Voglio essere me stessa anche a 8.000 metri»
E poi, quasi all’improvviso, il Nanga Parbat. La nona montagna più alta della Terra, con i suoi 8.126 metri di altezza, si lascia raggiungere nel punto più alto ed esposto portando nella storia della disciplina un nuovo nome. Quello di Estefania Troguet che lo scorso luglio ha conquistato il massiccio montuoso del Kashmir senza l’aiuto dell’ossigeno e quasi senza dirlo a nessuno, sussurrandolo appena. Ma, come succede in montagna, una parola detta da una cima diventa un’eco che si diffonde e amplifica. Così a soli 27 anni l’alpinista andorrana si è ritrovata a essere una donna da spedizioni, una di quelle che annoverano tra i propri numeri anche quello a quattro cifre che fa la differenza nel mondo dell’alpinismo: un ottomila. Lei che fino a qualche tempo prima era solo una ragazza appassionata di montagna, una sportiva, un’atleta. Ma prima di tutto una Maestra di sci nata e cresciuta ad Andorra, micro-stato dell’Europa sud-occidentale, situato nei Pirenei, tra la Francia e la Spagna, circondato dalle montagne. Quando nasci tra le cime, in un certo modo, è come se la tua strada fosse in parte segnata. Perché la gente di montagna è come quella di mare: quando hai a che fare con questi elementi della natura così incredibili, forti e insieme immensi, crei fin da subito un qualcosa che non si può spiegare esattamente.
Li vedi fuori, ma li senti dentro, come una sorta di malinconia permanente, di desiderio costante, di attrazione potente.
Chi sa cogliere questi segnali ne va alla ricerca. Stefy è una di queste persone. «Non so spiegare bene cosa e quando sia successo, so solo che è successo. Ho guardato le montagne e ho detto voglio andare là in alto. Avevo 20 anni. Mio padre è un Maestro di sci e io sono nata con gli sci ai piedi, ho gareggiato e sono diventata Maestra a mia volta e per me la montagna era solo quella invernale. Non sono mai stata un’appassionata di outdoor. Poi un giorno mio cugino mi ha chiesto se volevo andare in cima al Montserrat, ovvero la montagna più alta della Catalogna, e io ho accettato, un po’ come una sorta di prova. Il feeling che ho provato era così bello che non ho più smesso. Ho cominciato a viaggiare per il mondo, sono diventata anche Guida alpina di media montagna. Ho messo il mio corpo alla prova diverse volte e lui ha reagito bene in quota. La montagna mi ha insegnato più cose su di me che qualsiasi scuola e così ho cominciato: trekking, arrampicata, alpinismo. È arrivato tutto insieme». Inaspettato, come un colpo di fulmine che ti mette sottosopra lo stomaco, così è stato vederla lassù. Lei, colorata e piena di gioia, con le labbra rosso fuoco anche in montagna per non rinunciare alla femminilità che porta con orgoglio. Tocco di rossetto sulle labbra a rimarcare che la montagna è un posto per tutti e tutte, nonostante per secoli l’accesso alle donne sia stato considerato un tabù. Ma i pregiudizi nascono nella testa, prima che nella realtà. «Quando andavo in montagna e mi vedevano con il rossetto sulle labbra, mi dicevano: non puoi scalare, dove vai?. Mi sottovalutavano solo perché mi concedevo di essere me stessa. Figurarsi quando sono partita per il Nanga Parbat. Tutti credevano che non ce l’avrei fatta. E questo a lungo andare mette dei dubbi anche alla persona più sicura di sé. Già non sapevo come avrebbe reagito il mio corpo, visto che era la prima volta che mi confrontavo con quelle quote, non ero sicura nemmeno io di riuscirci, però ci credevo, molto più di quanto non facessero gli altri. Poi lassù ho visto che il mio corpo reagiva bene, mi sono sentita forte come non mai e questo mi ha impresso qualcosa dentro di indelebile».
La montagna crea dipendenza, inutile girarci attorno. La giovane andorrana comincia a essere impaziente, agitata. I soldi degli sponsor sono finiti eppure c’è ancora così tanto da fare. Così la bella e forte alpinista vende la macchina regalatale dal padre, una Fiat Abarth 500, compagna di mille avventure, per regalarsene una sola di avventura: a settembre Estefania parte ancora, questa volta per il Nepal, a raggiungere la vetta del Manaslu, anche questa volta senza ossigeno. Un’avventura difficile, dove non sono mancati momenti duri non solo per il fisico, ma anche per la mente. E non parliamo solo di fatica e paura, ma in un certo modo anche un po’ di distacco da quel genere di alpinismo così commerciale. Nonostante ciò, l’atleta dal rossetto rosso ha conquistato un altro Ottomila. Di ritorno dal Nepal Estefania ha cominciato ad allenarsi di nuovo, questa volta ancora più duramente perché ora sa cosa vuol dire raggiungere un ottomila, sa cosa serve al suo corpo e lo tiene costantemente in allenamento. «Mi sto dedicando a tempo pieno al mio essere atleta, lo posso dire con orgoglio. Questo significa fare dei sacrifici, tra cui, per esempio, rinunciare al lavoro di Maestra di sci. Purtroppo gli orari sono inconciliabili con gli allenamenti e avevo bisogno di concentrarmi bene. Ora lavoro con i brand che credono in me e che mi accompagneranno nella prossima avventura, come Ferrino. Purtroppo non ho più macchine da vendere (ride) e devo aspettare di raccogliere consensi per la mia prossima spedizione perché mi piacerebbe molto raggiungere un altro ottomila». Nel suo allenamento la Troguet combina il running per allenare la parte cardio, il climbing per prendere maggiore confidenza con la roccia, lo skialp, circuiti di potenza e un po’ di pesistica. Poco yoga e meditazione ancora, anche se è nei suoi prossimi obiettivi visto che nei buoni propositi del 2020 ha messo quello di cercare un po’ di calma, aspetto questo che le appartiene solo quando è in montagna. «La maggior parte del tempo mi alleno da sola, anche se mi piace quando qualche amico viene con me perché in fondo la condivisione è la base della vita. È vero che la montagna è in un certo senso un aspetto egoistico, ma dall’altra parte un compagno di cordata è fondamentale per assicurarti la vita. È sempre questione di equilibrio tra i due aspetti, sulla roccia e in città allo stesso modo».
Estefania non ha cambiato la sua vita da quando è diventata una piccola celebrità, ma sicuramente il suo esempio ha cambiato quella di qualcun altro. Attiva sui social media, la sua pagina Instagram è volata in poco tempo da pochi seguaci a più di 30.000 follower nel mondo, tra cui molte donne. «La cosa bella dei social media è che ti connettono con il resto del mondo e avvicinano le persone, anche se solo virtualmente. Ho ricevuto molti messaggi di supporto e mi sento di poter dire di far parte di una community di donne che vanno in montagna e che non hanno nulla da invidiare agli uomini per quanto riguarda forza e tenacia. Siamo molto forti ed è importante che ce lo ricordiamo. Il mio rossetto sarà sempre con me, simbolo ormai di questa provocazione che lancio alle ragazze che come me hanno il coraggio di mettersi alla prova».
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 128
Scialpinismo in falesia
Ho imparato che nella vita non bisogna dare nulla per scontato. Ho imparato che la bellezza è spesso relativa e che dipende dagli occhi con cui guarda lo spettatore. Ho imparato che se un posto è famoso per una cosa non è detto che non possa essere apprezzato per altri motivi. Ho imparato che ci sono alcuni luoghi con un’energia particolare, e non c’è stagione che tenga, la loro forza la sprigionano sempre. Ho anche imparato che è bello andare un pochino controcorrente, e quindi perché non andare in un posto totalmente lontano dai primi pensieri e dalle mete che istintivamente vengono in mente pensando allo scialpinismo?
Céüse. C’è chi dice che sia la falesia più bella del mondo; c’è chi dice che sia la falesia più bella di Francia. Noi pensiamo che sia La Falesia. Ho letto che in cima, o forse meglio dire sopra, ai suoi bellissimi quanto duri tiri, c’è un altipiano. Sciabile. Il punto più alto, il Pic de Céüse, si trova a 2.016 metri. Pensando a Céüse, credo che la maggior parte di noi chiudendo gli occhi se la immagini così: una imponente scogliera a forma di ferro di cavallo in cima a un promontorio che aspetta solo di essere arrampicata. Un luogo silenzioso, tanto famoso quanto selvaggio. Un luogo in cui i tramonti sono belli da far paura, soprattutto quando si è ancora appesi sul tiro, baciati dagli ultimi raggi di sole.
Siamo abituati a vederla dal basso, ad arrivare ai suoi piedi dopo un’ora di cammino.
Ma cambiamo le carte in tavola. Arriviamoci dall’alto, vediamo cosa c’è sopra e se la magia del posto vale anche per l’altro versante. Ogni aspettativa è stata più che rispettata. Alla partenza della stazione sciistica abbandonata ci sono degli scialpinisti. Tutti francesi, Marco e io siamo gli unici non local. Scarichiamo l’attrezzatura dalla macchina, convinti di fare un giro ad anello tutt’intorno al suo perimetro, di circa 13 chilometri. Poi ci ragioniamo qualche secondo in più, la giornata è splendida, tutti hanno le pelli ai piedi e d’impulso decidiamo di cambiare i piani, così mettiamo nello zaino anche corda, imbrago e rinvii, che non si sa mai. Nel settore Un Point sur l’Infini c’è una ferrata che porta alla base della falesia.
Il paesaggio è spettacolare e ci siamo solo noi e un branco di camosci. Abbiamo optato per il percorso più lungo, nonché più panoramico, e siamo fuori dalle tracce battute dai local. Passiamo sopra ai vari settori, alcuni riconoscibili anche dall’alto, La Cascade, Biographie, Demi Lune, un Point sul l’Infini, dove ci caliamo. C’è neve fino alla base della falesia ma al sole e contro la roccia la temperatura è perfetta per scalare. Giusto il tempo di fare qualche tiro e torniamo sull’altipiano per goderci il tramonto da un altro punto di vista e questa volta non appesi alla parete ma facendo qualche curva. Il tramonto è affascinante. Anche dall’alto. Sci invece di corda, ski-lift in contro luce e quel silenzio assordante che non fa altro che enfatizzare e confermare la bellezza di questo posto. Ho imparato che nella vita non bisogna dare nulla per scontato. E spero di ricordarmelo sempre.
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WESC 1991
«Iniziò entrando nel canale con curve saltate decise e pulite, con la neve che si sollevava accanto a lui. Gestiva gli sci con una precisione estrema, in coordinazione perfetta con il movimento delle braccia e dei bastoncini. Dove la maggior parte degli sciatori faceva una curva soltanto, derapando, Coombs ne faceva tre. Non attendeva, non aveva dubbi o esitazioni. Era come un torero nell’arena che invece di un animale teneva a bada un’intera montagna. Si spostò poi a sinistra, uscendo dal canale principale e superando la parte più esposta, costellata di rocce. Una caduta qui sarebbe stata fatale. Se cadi, muori. Il tempo rallentò nella sua mente. Ogni roccia gli si avvicinava al rallentatore, permettendogli di girargli attorno con precisione, senza mai fermarsi».
Questo brano è tratto dal libro Sulle tracce di Coomba di Robert Cocuzzo. Siamo al WESC, il primo Mondiale di sci estremo, in Alaska, nel 1991. Uno sconosciuto di nome Doug Coombs arriva a sfidare tutti i più forti sciatori di ripido dell'epoca. E sbaraglia la concorrenza su pendii dove ci sono stati anche ruzzoloni epici come quello di Garrett Bartelt con 17 capovolte.
https://youtu.be/2o8_61pHLzQ
Su Skialper 129 di aprile-maggio pubblichiamo un ampio articolo sulle performance di Coomba al primo WESC, con le fotografie dell'epoca del fotografo Wade McKoy. Se vuoi riceverlo direttamente a casa tua puoi sempre abbonarti.
Se vuoi conoscere l'incredibile storia di Doug Coombs, puoi comprare il libro pubblicato dalla nostra casa editrice.
Le Mascherine di Elleerre
Elleerre, il marchio di Alzano Lombardo che produce materiale promozionale e sponsorizza alcuni importanti atleti del mondo outdoor, si trova nell’epicentro del contagio Covid-19 nella Bergamasca. Qualche settimana fa, insieme a Grande Grimpe, ha iniziato a produrre mascherine riutilizzabili in poliestere da donare al Comune di Nembro. Ora, alla luce delle numerose richieste ricevute, ha iniziato a riconvertire la produzione per rendere disponibile questo prodotto a coloro che ne avessero bisogno e devolverà al Comune di Nembro 0,50 euro per ogni articolo venduto. Le mascherine filtranti riutilizzabili sono in tessuto non tessuto (TNT) 100% poliestere, realizzate con doppio strato e lavabili in lavatrice a 40°. Non sono un dispositivo medico né un DPI. Info qui.