Kilian, ecco come si superano 24.000 metri di dislivello in 24 ore

C’è qualcosa di fuori dall’ordinario, come sempre nelle imprese di Kilian Jornet, anche nell’ultima, vale a dire i 23.486 metri di dislivello superato in 24 ore con gli sci ai piedi nei giorni scorsi, nella località sciistica di Tusten, in Norvegia. È naturalmente straordinario quello che ha fatto, ma questo è scontato. L’impresa non era annunciata e sembra che anche nell’entourage Salomon il progetto fosse conosciuto solo a pochi livelli. Quello che ogni volta riesce a sorprenderti è che a poche ore dal record siamo bombardati da una miriade di dati e curiosità. Tanto spirito libero, geniale e creativo, sui monti, tanto meticoloso nel registrare tutto, ma soprattutto nel comunicarlo. È anche per questo che è uno dei pochi personaggi della scena outdoor ad avere un ufficio stampa personale e oltre 800.000 follower su Facebook e poco meno su Instagram. Ma la straordinarietà sta nell’ordinarietà di quello che scrive… Un preciso diario di 24 ore da paura, dalla partenza da casa al riposo del fine settimana, con il puntiglio del dettaglio e della curiosità e anche tanta semplicità, oserei direi umiltà, una dote rara ai nostri tempi. Kilian per primo, e subito, chiarisce che il suo non ha la pretesa di essere un record perché non esiste uno standard uniforme nelle imprese (simili) di chi l’ha preceduto: cambiano quota, percorsi, pendenze. Insomma, un po’ tutto. Vale però la pena di ricordare che solo qualche mese fa Lars Erik Skjervheim si era fermato a 20.993 metri… E allora vediamoli questi numeri.

©Matti Bernitz/Lymbus

PERCORSO - Partenza a quota 116 metri, pendenze prima del 12%, poi del 26,22%, poi, dopo i primi 316 metri di dislivello, si andava fuoripista con pendenze anche del 30% e tratti corti in piano. Arrivo a 673 metri. All’inizio c’era (poca) neve fresca, quindi ha dovuto ance batter traccia. In totale due giri, uno lungo da 4,4 km e 550 m di dislivello e uno da 3,6 e 428 metri. 23.486 metri e 200,4 km percorsi, dati leggermente corretti rispetto a quello di Strava utilizzando topografia dettagliata.

RITMO - Nelle prime 6 ore Kilian ha dovuto badare soprattutto a conservare le forze e non andare troppo veloce, una media di 1.100 m/h, calcolando anche i tempi di discesa e i cambi pelle. Di notte, dopo sette ore, ha scelto l’anello corto. Da 8.000 a 13.000 metri il ritmo passa a 1.000 m/h, da 13.000 a 16.000 scende a 900 e il sonno si fa sentire, in due giri, quando il timer segna 16 ore, arriva a 820 e 802 metri. Si ferma 10 minuti, sale a 900 metri e poi scende a 828, si ferma ancora, 12 minuti. Le ultime 4 ore sono al ritmo di 950 metri e alla fine la media sarà 978,6 m/h, con un massimo di 1.222 e minimo di 802. Tolta la discesa e i cambi pelle, la media è di 1.065 m/h. Vale a dire il 64,1% della Vo2 max e dei suoi più veloci 1.000 metri, 36 minuti. Uno standard simile ad altre imprese 24 ore (58,5% nel record della mezza maratona e 68% in quello ciclistico).

CALORIE - Obiettivo di 250 ora, dati finali 5.500-6.000. Cosa ha mangiato? Gel e jellies, però anche tanta pizza, un po’ di pasta, un caffè, una cioccolata…

MOTIVAZIONE - Si è rivelata fondamentale, soprattutto la notte, la compagnia. Poi tanti piccoli obiettivi a corto e massimo medio termine: ‘arrivare alla fine del tratto più ripido’, ‘mi mancano due giuri per raggiungere i 20.000 metri’. La massima visualizzazione è stata relativa alle sei ore successive, non di più.

RIPOSO - Doccia, qualche snack, poi una cena con riso, verdura, insalata, pane e formaggio, nove ore di sonno, il giorno dopo 30 minuti di bici… Da lunedì la solita routine. Muscoli stanchi, ma niente di più, qualche fastidio ai piedi, passato velocemente.

MATERIALI - Sci Salomon Minim con attacchi e scarponi Gignoux. Ne aveva più paia, ma non ha mai fatto cambio. Pelli Pomoca Race Pro / Grip.

E poi? E poi la velocità massima in discesa è stata di 115 km, per 9 ore c’è stata luce e per 15 buio, 20h,02’41’’ in salita e 3h22’44’’ in discesa. Dimenticavamo, il suo GOS Suunto era in modalità ‘best’ e alla fine aveva ancora il 10% di carica.

©Matti Bernitz/Lymbus

Seven Wild Trails, l'ultima sfida di Christophe Le Saux

Conoscerlo, lo conoscono tutti nell'ambiente del trail running il francese Christophe Le Saux, non fosse altro che per la sua chioma bionda riccioluta. Christophe è un vero e proprio globetrotter: «in Francia passo qualche settimana all'anno, se devi spedirmi qualcosa non saprei dirti dove, forse a Chamonix». Ora si è inventato una nuova impresa: una traversata autogestita in sette diversi Paesi e cinque continenti, un'avventura nella natura alla ricerca del fastest known time. Si chiama Seven Wild Trails e Christophe vorrebbe anche raccogliere fondi per portare con sé due persone diversamente abili in Marocco e Italia, ultima tappa del progetto, oltre che per finanziare le traversate. Un progetto che è iniziato nel 2018 e terminerà a settembre del 2019. Le prime quattro imprese sono state portate a termine, si tratta della traversata dell'Islanda (350 km no stop), del Tour della Cordillera Huayhuash in Sud America (130 km, 8.000 m D+), del Sunshine Coast Trail in Canada (180 km, 7.000 m D+), del tour degli Annapurna (220 km, 8.000 m D+). Da aprile parte la seconda parte del progetto: Atlante marocchino (240 km, 10.000 m D+), Nuova Zelanda (110 km, 6.000 m D+) e infine l'Italia con il percorso (più o meno) del Tor des Géants in autonomia (330 km, 24.000 m D+, a settembre). Per ogni impresa è stato prodotto un piccolo video, come quello dell'Annapurna chiuso nel tempo record di 48 ore e 29 minuti.

DAL BOROTALCO ALL'ESERCITO - La storia di Le Saux è molto particolare. Da bambino ha rischiato di morire a causa di un borotalco contaminato con materiale tossico. Però gli effetti collaterali hanno rallentato la crescita di Christophe, che è uno dei trail runner più piccoli come corporatura. Da giovane poi Le Saux si è arruolato come infermiere nei corpi speciali dell'esercito francese. Tante le missioni sui campi di battaglia... «Neppure i miei sapevano dove ero». Forse proprio queste due esperienze lo hanno temprato per le sue imprese o forse come reazione agli anni passati nell'esercito ha iniziato a correre nella natura in giro per il mondo. «Sì, è proprio così, se tornassi indietro non lo rifarei» mi dice. Hai mai ucciso qualcuno? «Quando sei in azione spari, tanto, e scappi. Non lo so». Corri Christophe, corri veloce.

 

 

 


Patagonia: 10 milioni alle associazioni ambientaliste grazie agli sgravi fiscali voluti da Trump

Dieci milioni di dollari. Soldi risparmiati grazie agli sgravi fiscali voluti dal presidente statunitense Donald Trump e non inseriti alla voce utili o investiti nell’azienda, ma donati alle associazioni ambientaliste. Quello che si dice… coerenza. È questo l’annuncio dei giorni scorsi del marchio californiano Patagonia, pioniere della difesa ambientale e della prodizione sostenibile di articoli sportivi. I dieci milioni di dollari, che verranno devoluti durante le vacanze di Natale, si aggiungono all’uno per cento dei profitti che l’azienda di Ventura devolve da anni a favore di alcune associazioni e cause ambientaliste. «Sulla base dell'irresponsabile taglio alle tasse del governo americano, Patagonia dovrà meno al fisco, 10 milioni in meno - ha dichiarato Rose Marcario, CEO e presidente di Patagonia, sul suo account Linkedin - Invece di rimettere questi soldi nel nostro business, rispondiamo restituendo 10 milioni all'ambiente. Il nostro pianeta-casa ne ha bisogno più di noi. Le tasse proteggono i più vulnerabili della nostra società le nostre terre pubbliche e altre risorse che danno la vita e nonostante questo, l'amministrazione di Donald Trump ha avviato un taglio alle tasse per le imprese che minacciano questi servizi a scapito del nostro pianeta».

Cara Chacon, vice-presidente social & environmental responsibility di Patagonia, in un’intervista rilasciata a Skialper nel dicembre 2017, aveva dichiarato che «crescere è importante per un’azienda, ma vogliamo che sia una crescita naturale e soprattutto senza aumentare la nostra impronta ambientale, vogliamo che sia una crescita trasparente e che i consumatori sappiano tutto su di noi». Il messaggio lanciato da Patagonia mina le fondamenta della società consumistica (in passato, in occasione del black friday, l’azienda ha anche acquistato una pagina pubblicitaria nella quale invitava a non acquistare i propri piumini perché il primo passo per non inquinare è fare durare di più i prodotti) e guarda al futuro con fiducia. «Non bisogna uscire con l’idea di andare a fare shopping spensierato, bisogna informarsi su cosa fanno le aziende per l’ambiente e per aiutare i lavoratori, specialmente nei Paesi in via di sviluppo - aggiungeva Chacon - Ognuno di noi ha un grande potere ed è per questo che, nonostante l’uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi, sono fiduciosa per il futuro: i consumatori non permetteranno alle aziende americane di fare passi indietro sulle tematiche ambientali e i marchi preferiranno continuare ad avere politiche ambientali in linea con quanto fatto fino a oggi, anche per una questione di immagine».

Rose Marcario, presidente e CEO di Patagonia

UTMB, un marchio sempre più globale

Che i coniugi Poletti abbiano il fiuto giusto nel mondo del trail non lo si scopre oggi. Gli ultimi decenni di storia della corsa in natura sono lì a dimostrarlo. Ora che la gara di Chamonix è diventata evento globale però la nuova sfida sembra essere quella di esportare il sistema UTMB. Si è iniziato con la UTMB cinese nel 2018, Gaoligong, e ora in calendario ci sono altri due eventi: Oman by UTMB, al via il prossimo 29 novembre, e Ushuaia by UTMB, in programma il prossimo 5 aprile. Poi si ripartirà in autunno con Oman by UTMB e nella primavera del 2020 con Gaoligong. Il brand UTMB (a proposito, gli organizzatori di Chamonix hanno registrato anche il termine ultra-trail) è un marchio che funziona se si pensa che alla prima edizione della gara in Oman (137 km) sono iscritti 450 runner da 56 Paesi. Fare parte delle gare international dell’UTMB comporta dei benefit: i punti ITRA guadagnati valgono tre anni invece di due e si hanno il doppio delle possibilità nell’estrazione dei posti UTMB o ancora hanno il posto garantito se avevano già tentato di partecipare l’anno precedente.

BIG AL VIA - Intanto alla gara di settimana prossima parteciperanno anche lo statunitense Jason Schlarb, lo svizzero Diego Pazos, il lituano Gediminas Grinius, la statunitense Meredith Edwrards. Da segnalare anche tre donne local al via: Budor Al Salhi,Nadhira AlHarthi e Hamida Al Jabri. Si corre nello spettacolare massiccio Jebel Akhdar, fino a una quota 2.200 metri.


Il Vertikal di Punta Martìn diventa una special edition per gli amputati

«Genova quest’anno è stata travolta da una tragedia che ci ha lasciato in silenzio per molto tempo. Ha subito un’amputazione gigantesca che l’ha divisa, quasi come la vecchia Berlino, in Ovest ed Est. Il Martìn è sempre stato, nelle persone che lo rappresentano e lo animano, semplice, sensibile, puro, ma anche lungimirante e soprattutto innovatore. Lo scorso anno, mentre stavamo tracciando la linea perfetta verso la vetta, abbiamo avuto un’idea: creare una Vertikal Experience for the amputees - special edition. Poi il succedersi degli eventi ci ha fatto prendere la decisione che quest’anno il nostro Vertikal sarà dedicato solo a persone amputate che vorranno mettersi alla prova calpestando il sentiero della Direttissima». A scrivere è Alessio Alfier, presidente del comitato organizzatore del Vertikal di Punta Martìn, tradizionale appuntamento di fine stagione in Liguria, giunto alla settima edizione. Dunque la scalata di 4,73 km x 897 m D+ del prossimo 17 novembre sarà una special edition interamente dedicata ai concorrenti amputati. Una prima che trasforma il piccolo villaggio di Acquasanta, nell’entroterra genovese, nell’ombelico del mondo agonistico e solidale. Le adesioni sono già tante se si considera la particolarità dell’evento, con oltre una decina di partecipanti sicuri, capitanati da Moreno Pesce, ormai un veterano delle gare vertical. Tra gli iscritti ci sono storie di speranza e riscatto, come quelle della francese Fabienne Sava Pelosse, che ha subito l’amputazione tibiale 14 anni fa e ha un solo polmone. Fabienne ha partecipato anche al Tot Dret 2018. Oppure la storia di Alberto Braghieri che, dopo avere chiuso l’ultima maratona in 2h56’ è stato costretto a 16 interventi o quella di Paolo Bertello, che ha perso la gamba a causa di un incidente stradale. Sono solo alcuni esempi di come i limiti siano più mentali che fisici (parole di Massimo Coda, un altro iscritto). La partenza è prevista alle 11 di sabato 17 novembre, con arrivo in vetta entro le 15 e party finale alle 18 in paese. Un’occasione da non mancare! www.vertikalpuntamartin.it

 

 

 


La corsa all’oro del trail running

La prima edizione delle Golden Trail Series non è passata inosservata. Premi importanti, controlli anti-doping intensivi e altre formule innovative hanno caratterizzato il circuito voluto da Salomon e da Greg Vollet, la mente dietro alle strategie agonistiche del marchio di Annecy, per permettere agli atleti top di confrontarsi nelle stesse gare, evitando la frammentazione. Il concetto di base che ha portato alla nascita delle Golden Trail Series è che la moltiplicazione di gare e circuiti diminuisce interesse e appeal dello sport. Ecco perché nel calendario, oltre alla finale neozelandese, c’etano cinque gare mitiche come Zegama, Sierre-Zinal, Marathon du Mont Blanc, Ring of Steall e Pikes Peak. Gare che, in alcuni casi, fanno parte anche di altri circuiti. Ora in prospettiva 2019 ci sono diverse novità e, in un’interessante intervista al sito del quotidiano sportivo francese L’Equipe, Vollet ha svelato alcuni retroscena dell’organizzazione. L’idea delle GTS nasce nel 2014 e vede coinvolti i principali marchi produttori di scarpe ma «malgrado diverse riunioni e sotto la pressione di alcune grandi organizzazioni, le altre marche si sono ritirate dalla discussione, hanno avuto paura di non essere abbastanza visibili in un circuito organizzato dalla nostra organizzazione» dice Vollet all’Equipe.

UNA NUOVA GARA - Tra le novità della prossima stagione l’ingresso di una nuova gara (si parla dell’italiana Dolomyths) e la ricerca di un title sponsor extra-settore, in modo che «le altre marche non abbiano paura a inviare i loro migliori atleti». La questione dei premi e quella del doping sono centrali nell’organizzazione del circuito. Mille euro per i primi cinque di ogni gara e 5.000 per i primi dieci della classifica generale, ma anche un viaggio per due persone per andare a correre la finale in Sud Africa sono dati che avvicinano il trail al professionismo e il montepremi è stato ripartito in modo uguale tra uomini e donne.

NON VALGONO LE AUTORIZZAZIONI A FINI TERAPEUTICI - Per quanto riguarda il doping l’idea di Vollet è di controllare sistematicamente i primi dieci del ranking generale un mese prima di ogni corsa e 24 ore prima mentre i primi tre (che diventeranno cinque dalla prossima edizione) della classifica di gara a ogni evento. «In caso di valori anomali impediamo la partenza per motivi di salute perché ne GTS né ITRA hanno potere sanzionatorio, anche se la federazione trasmette le analisi alla WADA che potrà decidere di dare seguito». GTS inoltre, a differenza delle gare ufficiali delle federazioni, non ammette le autorizzazioni d’uso di medicinali a fini terapeutici. «Troppi atleti giocano con le autorizzazioni per doparsi, se un atleta è malato e può beneficiare di un’autorizzazione, pensiamo che sia meglio che rimanga a casa». Infine comunicazione degli eventi sempre in primo piano. Trasmissione live quasi integrale sui canali social già quest’anno anche con l’utilizzo di mountain bike elettriche, ma per l’anno prossimo si pensa a un salto di qualità, trovando un accordo con una catena televisiva europea per la produzione delle immagini. Nell’ambiente si parla della televisione svizzera.


Zabardast, arriva in Italia il film di sci girato nelle zone più remote del Pakistan

Un giorno Thomas Delfino, sfogliando distrattamente libri in una libreria, s’imbatte in Le più belle montagne del mondo e rimane ipnotizzato da una cima pakistana. Un pendio troppo bello per essere vero. Da quel momento diventa la sua ossessione. La vetta in questione è la torre nord Biacherani in una delle zone più remote del Paese. E l’obiettivo diventa organizzare una spedizione di freerider e cercare di sciarla. Nasce così Zabardast, il film di 54 minuti prodotto da Picture Organic Clothing, il marchio francese di abbigliamento eco, e Almo Film. Diretto da Jêrome Tanon, Zabardast sta riscuotendo molto successo oltralpe e verrà proiettato in diverse location italiane a partire da metà novembre (vedi elenco alla fine di questo articolo).

https://youtu.be/rBvsaIBsVJY

LA TRAMA - Girato in 4k in primavera, il film vede la partecipazione degli skier Léo Taillefer e Thomas Delfino e dello snowboarder Zak Mills. È a tutti gli effetti il diario di un’incredibile avventura freeride in una delle zone più remote del pianeta, che ha comportato un loop di 150 chilometri in autosufficienza, con slitte cariche di cibo liofilizzato, pannelli solari e tende. «Ho pensato il film come un diario collettivo e per questo ho chiesto ai protagonisti di scrivere ogni giorno una pagina di testo e il risultato finale è la trasposizione di questo viaggio, anche intimo, di ognuno di loro» ha detto il regista. Il viaggio è durato cinque settimane e ha comportato la partenza dal villaggio di Askole e la traversata del selvaggio ghiacciaio Nobande Sobande. Fino a qui la crew ha potuto contare sull’aiuto dei portatori Balti, poi tre settimane in totale autosufficienza. Superato lo Skam La Pass, a quota 5.660 metri, la spedizione ha raggiunto il ghiacciaio Sim Gang e lo Snow Lake Basin, uno dei luoghi più belli del mondo. Il rientro è avvenuto lungo il ghiacciaio Biafo. Zabardast non è solo sci, ma è anche un viaggio verso Islamabad con treni, improbabili motociclette, cavalli, un viaggio fatto di tanti incontri. Nel team, oltre agli sciatori, anche Helias Millerioux, Guida alpina di Chamonix con all’attivo oltre 15 spedizioni, e l’alpinista Yannick Graziani, con diversi 8.000 in curriculum.

CURIOSITÀ - Il regista Jêrome Tanon ha perso 10 chili ed era reduce da un infortunio ai legamenti crociati. I progetti iniziali hanno dovuto adeguarsi alle difficoltà tecniche incontrate e la tecnica di ripresa si è adeguata. Tanon ha voluto ispirarsi al capolavoro di Terrence Malick La sottile linea rossa, un film di guerra del 1998. «Zabardast offre l’atmosfera poetica di un film di guerra e anche le musiche, composte da Jonathan Saguez, sono simili a quelle utilizzate nei movie di guerra». Le riprese sono state effettuate da Pierre Fréchou & Julien Nadiras.

la crew
il regista

 

LE PROIEZIONI

Per informazioni sulle prime due serate: info@boardcore.it

 Per informazioni sulle altre serate, nell’ambito del festival Montagna in Scena: www.montagnainscena.com

 

Bergamo - Giovedì 15 novembre

Cinema Conca Verde

 

Aosta - Martedì 20 novembre

Cittadella dei Giovani

 

Milano - Lunedi 10 dicembre

20.30-23.30 (apertura porte 20.00)

Cinema Orfeo - Viale Coni Zugna, 50

 

Torino - Martedì 11 dicembre

20.30-23.30 (apertura porte 20.00)

Ambrosio Cinecafè  - Corso Vittorio Emanuele II, 52

 

Bologna - Mercoledì 12 dicembre

20.30-23.30 (apertura porte 20.00)

Cinema Teatro Antoniano - Via Guido Guinizelli 3

 

Firenze - Martedì 18 dicembre

20.30-23.30 (apertura porte 20.00)

Cinema La Compagnia - Via Camillo Cavour, 50/R

 

Roma - Mercoledì 19 dicembre

20.30-23.30 (apertura porte 20.00)

Teatro Orione - Via Tortona, 7

 

 


Presentata l'Alta Via delle Dolomiti Bellunesi

Quando nel 1994 Teddy Soppelsa ideò il percorso della Transparco, che attraversava tutto il Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, non immaginava probabilmente che quel percorso sarebbe diventato un’alta via alla stregua dei più famosi percorsi in quota dei Monti Pallidi. Sono passati 28 anni, in mezzo c’è stata anche l’interessante esperienza del trekking guidato organizzato nel 1996 da Mountain Wilderness («C’è gente che si è conosciuta in quella occasione e si frequenta ancora oggi» dicono gli uomini del Parco Nazionale), ma oggi quel sogno è diventato realtà: da Forno di Zoldo a Feltre, 108 km e 6.000 metri di dislivello. Ma soprattutto una settimana di cammino in luoghi così vicini alla città eppure così lontani e selvaggi. L’occasione per un piccolo assaggio di questa interessante realtà presentata in anteprima da Skialper con un ampio servizio sul numero 119 di agosto 2018, è stata la conferenza stampa di lancio del percorso, organizzata ieri al Rifugio Bruno Boz, a quota 1.700 metri, ai piedi delle suggestive Torri di Neva.

Il Sass de Mura

È SOLO L’INIZIO - Il progetto dell’Alta Via delle Dolomiti Bellunesi è appena partito e, oltre alla segnaletica (che unisce sentieri già esistenti e non ha previsto nuovi cartelli ma targhette da inserire su quelli già esistenti), ha visto la realizzazione di un dettagliato sito Internet e in futuro anche la realizzazione di una serie di servizi (pass/voucher per i rifugi per evitare di doversi portare dietro troppi soldi, servizio navette nelle valli). Per lanciare il progetto e promuoverlo è stata prodotta una mole enorme di materiale percorrendo due volte l’itinerario: 3.400 immagini, 10 interviste, video-clip, tracce gps. Interviset perché camminare qui vuol dire anche incontrare la gente che queste terre alte le vive, dal pastore diciassettenne ai rifugisti. I canali social (Facebook e Instagram: @altaviadolomitibellunesi) cominciano a funzionare e il breve video promozionale pubblicato sul sito ha fatto in pichi giorni oltre 40.000 contatti.

un cippo del pacifico confine tra la Repubblica di Venezia e il Tirolo

LO SPIRITO - Le Dolomiti Bellunesi non sono certo luoghi da rifugio cinque stelle e turismo alpino di massa, si cammina in paesaggi molto selvaggi, con le aquile sulla testa e i mufloni a fare compagnia, si dorme in vecchie casere trasformate in piccoli rifugi dove al rifugista si dà del tu e non ci si trasforma in un numero. Lo spirito dell’iniziativa, che nasce dall’incontro tra un gruppo di giovani, il Parco e le locali sezioni del CAI, capitanate da quella di Feltre, è proprio quello di promuovere l’itinerario in Italia e all’estero ma anche di educare e di veicolarlo al giusto pubblico. Sul sito verrà attivato anche un libro di vetta dove si potranno inserire i propri commenti e il progetto avrà una durata minima di tre anni.

il rifugio Bruno Boz

PARTNER - Fondamentale è stato il supporto di tre marchi outdoor: AKU, Ferrino e Karpos, che hanno sostenuto l’iniziativa e la promuoveranno attraverso i loro canali social. Considerando le piccole dimensioni dei rifugi, Ferrino ha portato la sua esperienza nella consulenza ai posti tappa che propongono anche la possibilità di dormire in tenda usufruendo degli altri servizi.

www.altaviadolomitibellunesi.it


Kaptiva di nome e di fatto

Il nome è già una dichiarazione d’intenti: Kaptiva. Ed è la più attesa (Bushido II permettendo) tra le nuove scarpe da mountain running La Sportiva per la primavera-estate 2019. La più attesa perché va a occupare una casella che era libera e sarà esattamente al centro dell’offerta della casa di Ziano a partire dall’anno prossimo. Calzata normale, per piedi medi, medio-lunghe distanze, è proprio sopra alla Bushido II e sotto alla Ultra Raptor e alla Unika per calzata e distanze. Insomma, una versatile per coprire la fetta più interessante del mercato, quella dove c’è fermento negli ultimi anni. Non facciamo i nomi delle competitor, ma se avete letto la nostra Outdoor Guide vi renderete contro che la concorrenza è ampia e che qui si gioca il futuro del mountain running. Scarpe versatili, ben ammortizzate, leggere e veloci, pensate per accontentare il runner di medio alto livello, ma ben apprezzate anche dai top, magari fino a distanze un po’ più lunghe rispetto a quelle per le quali sono concepite. Siamo curiosi di metterla ai piedi durante i test della prossima Outdoor Guide, ma intanto l’abbiamo fatta calzare per una prova in anteprima a Michele Tavernaro, atleta del Team La Sportiva. Il terreno del nostro test sono stati sentieri e single track di Passo Rolle, curiosamente proprio quell’enorme parco avventura naturale dove il patron de La Sportiva, Lorenzo Delladio, avrebbe voluto creare un vero e proprio Outdoor Paradise, con percorsi segnalati per trail running, skialp e tanto altro. Un campo prove valido, con continue salite e discese che spezzano il ritmo e terreno grassoe umido, molto temuto dalle suole. Michele poi ha continuato a usare le Kaptiva nei suoi allenamenti dei giorni successivi. «È un compromesso molto interessante tra leggerezza e protezione, è un modello per correre a ritmi alti, il piede rimane sempre leggero, però allo stesso tempo il piede è a prova di urto e anche la sensibilità da sotto, molto buona, non è mai fastidiosa». Per atleti top dunque, che vogliono sempre leggere il terreno e andare veloci, ma anche per il medio livello, che potrà avere ai piedi una cattivama allo stesso tempo protettiva. «Se dovessi posizionarla, la metterei senza dubbio tra le scarpe prestazionali e per atleti di buon livello, non ho dubbi, però il cushioning è sempre valido, non è secca come altre scarpe simili, è sicuramente un modello da gara, direi per skyrace e, per i top, anche fino alle skymarathon». Ci sono altri due aspetti che hanno ben impressionato Michele. «Ho apprezzato particolarmente il collarino che sostituisce la linguetta, che avvolge sempre bene la caviglia e previene l’entrata di brecciolino o sassi, soprattutto su terreni accidentati e poi un plauso va fatto alla suola, è difficile trovare tanta versatilità». Michele ha infatti provato Kaptiva a lungo anche dopo il nostro test, impegnandola su roccia asciutta e bagnata, fango, erba: «Va bene ovunque, difficile trovare dei punti deboli o terreni meno adatti» la sua conclusione. Kaptiva fino in fondo!

©Alice Russolo

La Sportiva Kaptiva

Peso: 280 gr
Drop: 6 mm
Tomaia: mesh stabilizzante anti-deformazione + rinforzi senza cuciture
Intersuola: EVA a compressione e inserti in TPU stabilizzanti e antitorsionali + inserto rock guard in EVA bi-denistà
Suola: FriXion White con Impact Brake System e tasselli predisposti per il montaggio dei chiodi AT Grip Spike per la corsa invernale

©Alice Russolo

Se gli africani vincono anche le skyrace...

I successi africani di oggi alla Zacup, sia nella classifica maschile che in quella femminile, uniti al terzo posto del keniota Kiyaka e allo strapotere dell'Africa ai Mondiali di corsa in montagna, segnano un passaggio importante nella storia di questo sport. Se ugandesi, ruandesi e kenioti si sono presi da anni lo scettro in una displciplina molto atletica e competitiva ma meno tecnica come la corsa in montagna (però i cinque gradini del podio su sei di oggi sono comunque un risultato  impressionante), si è sempre pensato che i trail più tecnici, in particolare le skyrace, fossero rimaste le uniche gare della corsa dove gli europei potessero ancora dire la loro. Il doppio successo di Simukeka e Niyirora alla Zacup deve fare riflettere perché ottenuto in una vera sky, con passaggi tecnici e catene. Tempo fa Marco De Gasperi portò un giovane atleta messicano a correre qui, non conoscendo la reale tecnicità del percorso, e ne rimase sorpreso. I messicani sono sicuramente più arrampicatori di ruandesi e kenioti...

SEGNALE DA NON TRASCURARE - L'evoluzione tecnica degli atleti e delle atlete africane segna un passo avanti, proprio nel giorno in cui a Berlino un altro africano fa crollare il record del mondo nella maratona e sposta sempre più il limite verso la barriera delle due ore. Naturalmente la nostra è una osservazione che non può basarsi su dati scientifici: come per le vittorie delle donne, non abbiamo la riprova che il parterre degli avversari fosse il meglio possibile, anche se - basta guardare la classifica - era di assoluto livello. Rimane il fatto che i record di De Gasperi e Desco non sono stati battuti, seppur quello maschile per poco, e questo incrina in parte il teorema, anche se si entra in un terreno minato fatto di condizioni meteo, temperatura e alte variabili che non rendono perfettamente sovrapponibili i tempi registrati in occasioni diverse. Se poi aggiungiamo che nel 2014 l'eritreo Petro Mamu ha battuto Kilian alla Limone Skyrace, diventa evidente che, quanto più gli africani si avvicineranno alle sky, quanto meno spazio rimarrà per gli europei.

GAP TECNICO - Con oggi il processo di riduzione del gap tecnico entra nella fase due. «Sul tecnico eravamo alla pari, e questa è stata una sorpresa perché pensavo di avere un minimo di vantaggio, ma appena c'era un tratto più corribile scappavano via» ha detto Daniel Antonioli, che conosce le Grigne come le sue tasche ma oggi ha dovuto accontentarsi del secondo posto, che vale comunque il titolo italiano. Rimane il fatto che  la tendenza è chiara. E che la Valetudo continua a scoprire nuovi talenti, dagli africani ai romeni. E la Valetudo è italiana. Fra qualche anno rimarrà l'unico tricolore nelle classifiche delle skyrace? Ovviamente è una provocazione, ma...


Stefano Ruzza, l'uomo del sette

Il sette, lo si sa sa, è un numero magico. E lo è ancora di più per Stefano Ruzza, Team Vibram, autore di una incredibile gara all’UTMB che gli ha regalato un settimo (appunto) posto, miglior risultato italiano di sempre dopo quelli di Olmo. Dico sette perché anche alla Diagonale des Focus del 2014 Ruzza si era classificato in quella posizione, regalandosi una prestazione da incorniciare. «È vero, anche ai Campionati Europei della Trans d’Havet ero arrivato settimo» scherza Stefano mentre sta preparando le valigie per gli Stati Uniti. Negli Stai Uniti Ruzza era già stato anche in primavera, gareggiando in qualche trail locale e alla UROC.

Stefano, ma cosa vai a fare così spesso negli States?

«La mia fidanzata lavora lì, a Baltimora, per questo ora mi faccio un mesetto da quelle parti».

Sette è un numero magico, ma non hai provato ad arrivare sesto?

«Certo, in salita vedevo Evarts davanti, a pochi minuti, prima dell’ultima salita ho spinto molto, ma sono arrivato esausto e ho pensato a difendermi».

Hai scritto che questa volta hai fatto tesoro degli errori del passato nell’allenamento, pre-gara e gestione della competizione, puoi spiegarci meglio cosa intendi?

«Tanti piccoli dettagli, nell’allenamento, nell’alimentazione in gara. Nel 2016 ero andato fortissimo all’inizio, ero sugli stessi tempi di quest’anno, poi ho avuto problemi di alimentazione ed ero un po’ stanco mentalmente, mi ero allenato troppo. Questa volta sono arrivata fresco, convinto di soffrire per 24 ore, perfettamente in forma nonostante l’infortunio della primavera, come alla Diagonale des Focus».

Che infortunio hai subito?

«Sublussazione del cuboide, poi correndoci sopra si sono infiammati peroni e tibiale anteriore, per due mesi ho corso praticamente con una sola gamba. Ho fatto tantissima bici e corso giusto per mantenere il gesto, ma sui sentieri mi sono ritrovato subito a mio agio». 

Commenti sulla gara?

«Mi ero preparato una tabella di marcia che ho rispettato quasi al minuto, ho fatto la mia gara, su me stesso e non su altri, come Thévenard ed è risultata vincente. Certo lui ha un ritmo costante, incredibile, è proprio fatto per queste gare».

Dicci la verità, aspiravi a una top ten?

«Onestamente sì, due anni fa ero sui tempi di Zanchi e Ornati, poi ho avuto qualche problema».

Il momento più bello?

«A Trient. Arrivavo da Champex, dove ero dodicesimo e rassegnato a non entrare nella top ten, poi al ristoro c’erano tutti i ragazzi del team Vibram, un tifo pazzesco, meglio che al traguardo, all’uscita ho superato il mio compagno di squadra Xavi Dominguez, prima avevo superato Zach Miller, lì ho capito che stava andando bene».

Che idea ti sei fatto dei ritiri?

«Anche l’anno scorso ha piovuto e fatto freddo, ma quest’anno ho visto gente molto più provata, poi credo che molti dei top siano stati svuotati dalla battaglia all’inizio».

Che scarpa hai usato?

«Hoka One One Speedgoat 2»

Solo una?

«Sì e non ho neppure mai cambiato la maglia, un po’ per scaramanzia, un po’ perché mi sentivo veramente bene e non volevo perdere tempo».

Se andrai sempre più spesso negli States, c’è il rischio che il primo americano a vincere l’UTMB sia tu…

«Ma dai… godiamoci questo settimo posto che non ho ancora metabolizzato, è già molto». 


L’UTMB degli anti-eroi

C’è qualcosa che rende davvero magica l’edizione 2018 dell’UTMB, a mio parere la più bella degli ultimi anni insieme a quella del 2013. È stata ricchissima di colpi di scena e non si può certo dire che i favoriti, diciamo i favoritissimi, abbiano vinto. La notte si è pian piano mangiata tutti quelli che avevano i maggiori auspici del pronostico e ha partorito storie e sogni degni di essere raccontati, quelli di Francesca, Xavier, Stefano e Katia, tre anti-eroi che hanno saputo imporsi, ognuno a modo suo, proprio nell’anno in cui all’UTMB sono arrivati i premi in denaro.

CANEPA - La vittoria di Francesca Canepa, a 46 anni, è di quelle che entrano di diritto nella storia dell’ultra trail. Quando l’abbiamo vista spuntare tutta coperta, giacca lunga e pantaloni lunghi, sulla linea del via, masticando qualcosa (un Buondì, dirà poi...), aveva la faccia da ‘dura’. La sua vera faccia, quella della rabbia, della determinazione, della voglia di ‘mordere’. Quella faccia che le aveva regalato tante soddisfazioni in passato (tra le quali un secondo posto nell’edizione ‘mutilata’ dell’UTMB 2012) e che era stata coperta da una maschera dopo la ben nota vicenda del Tor. Anni difficili - comunque la si voglia pensare sull’affaire - che hanno svuotato Francesca. Però, da lottatrice quale è, non si è mai arresa. Altri, altre, avrebbero gettato la spugna quando i risultati non arrivavano più. Questa vittoria, ottenuta con la strategia e la calma dei forti, partendo tranquilla, seguendo la propria andatura e la tabella di marcia, aumentando il ritmo con il passare dei chilometri e mangiandosi le avversarie una per volta, vale moltissimo. Ed è la più bella storia italiana a Chamonix insieme a quelle di Marco Olmo. Bisogna ammetterlo, in tanti, noi giornalisti per primi, avevamo dato Francesca per finita da tempo, e ci siamo sbagliati. Chapeau.

l'arrivo di Francesca Canepa ©Martina Valmassoi

THÉVENARD - Sfida Kilian-Walmsley? Hernando? No, zitto zitto è arrivato lui, il folletto del Jura, quello che se lo vedi camminare nelle strade di Chamonix ha un’andatura supinatoria che non si può guardare. Quello che pochi mesi fa alla Hardrock 100 stava stravincendo ed è stato squalificato per avere inavvertitamente bevuto un goccio d’acqua pochi chilometri dopo il ristoro, fatto che all’UTMB sarebbe stato sanzionato con qualche oretta di penalità. Il suo score ai piedi del Monte Bianco è impressionante. Ha vinto al primo colpo tutte le gare, dalla CCC alla TDS e ora si porta a casa anche la terza UTMB, eguagliando Kilian e D’Haene. La sola altra apparizione da queste parti, l’anno scorso, gli è valsa il quarto posto… Unico.

Xavier Thévenard ©UTMB/Zoom

FORI - Un quarto, due quinti e un settimo posto. Sì vabbé, ci sarebbe anche un ventinovesimo posto alla prima partecipazione, ma possiamo considerarlo un errore di gioventù. Katia Fori, professione direttrice di banca, a Chamonix è a suo agio. E questa volta ci ha fatti sognare conducendo per buona parte e tenendo testa a Chaverot & co o alle americane. Una bella storia di sport, di passione, di fatica, di forza di volontà e soprattutto di testa. Inimitabile.

Katia Fori ©Martina Valmassoi

RUZZA - Anni e anni ad aspettare questa benedetta top ten, dopo i successi di Olmo e quel decimo posto di Massimo Tagliaferri, poi nel 2016 arriva il nono posto di Giulio Ornati. Poi… arriva Stefano Ruzza, Team Vibram, da Busto Arsizio, uno che non ama le mezze misure, o dà tutto quello che ha o salta. Il settimo posto alla Diagonale des Fous era stato il suo capolavoro, ma questo è ben più importante. È sempre stato uno dei più promettenti ultra-trailer italiani, ora ha definitivamente raggiunto la maturità. Capolavoro.

Stefano Ruzza ©Christophe Angot/Vibram