Camaleonte Markus Eder
Dopo la vittoria al Freeride World Tour è indubbiamente lo sciatore del momento. Skialper ha intervistato Markus Eder sul numero 110 (puoi ordinarlo qui), ecco cosa ci aveva detto.
«Non c’è un granché dietro a quello che facciamo e con queste parole inglesi proviamo un po’ a venderlo». Ha risposto così, come un consumato frequentatore di talk show, a una raffica di «slidare un half-pipe, jibbare, tricks, kickers, twin tip» sparatagli addosso da Gigi Marzullo su invito di Fabio Fazio alla trasmissione Che Fuori Tempo Che fa, su Rai Tre, a dicembre. E pensare che Markus Eder, il futuro del freeride e del freestyle, l’unico italiano nel gotha dei park e delle run nella powder, a dire il vero uno dei pochissimi in assoluto al top in entrambe le discipline (e nei powder movie), davanti a una telecamera e ai giornalisti non si trova tanto a suo agio. «Non ero molto tranquillo, avevo paura di fare qualche errore di italiano» ha confessato a freddo. È sempre lui, il ragazzino terribile che faceva gare di sci alpino e che voleva essere capo di se stesso, senza ricevere ordini da un allenatore, che ha scelto il freestyle a 14 anni perché gli piaceva saltare e aveva iniziato a non vincere più tra i pali. E lo stesso che, quando il manager Franz Perini gli ha proposto i primi contratti con gli sponsor, ha voluto parlare in inglese per capire meglio «cose per me molto importanti». Markus Eder, nato a Brunico, ma residente in Valle Aurina, classe 1990, è uno sciatore completo. Nel 2010 si presenta al Nine Knights, con i più forti freestyler del mondo, e vince Big Air & Best Jibber. L’anno dopo Franz Perini lo iscrive al Red Bull Line Catcher, con il gotha del freeride. Non ci crede, non capisce come possa andare a confrontarsi con i big del freeride, lui che arriva dai park e dalla neve dura. Alla fine arriva secondo. «Se ci penso, dico che rimane ancora la mia gara più grande di sempre». Intanto nel 2013 vince la tappa italiana del Freeride World Tour, a Courmayeur. Markus Eder ha fatto il viaggio di Candide Thovex, dal freestyle al freeride, ma anche quello di Kilian Jornet, dalla natura addomesticata delle gare al grande outdoor, quello per esempio dei film nei quali è protagonista sci ai piedi, come Ruin & Rose di MPS Films. Ha sdoganato parole come big mountain e backflip da Fazio come Kilian ha portato il trail e le imprese di Summits of my Life al grande pubblico. Markus è lo skier globale italiano, adulato da Red Bull, con l’inglese come lingua ufficiale sui suoi canali social e quasi il doppio dei follower di Jérémie Heitz su Instagram. Ed è sempre più interessato allo skialp…
Markus, cominciamo con il capire chi sei: un freestyler o un freerider?
«Un freeskier, il termine giusto per definire chi come me fa tutto: freestyle, freeride, scialpinismo».
Giusto, scialpinismo. Qualche tempo fa dicevi che l’andare piano non faceva per te e che dovere camminare tanto per raggiungere le discese non ti piaceva…
«Quando ero piccolo la fatica non mi piaceva, ora inizio ad apprezzarla sempre di più. Quest’anno ho fatto 5-6 gite con i miei genitori e naturalmente sono più lento di loro, perché ho sci larghi e scarponi da freeride, ma l’apprezzo sempre di più».
Il park e la neve fresca sono due cose diverse, se dovessi scegliere?
«Credo che, con le giuste condizioni, oggi non avrei dubbio: neve fresca».
Hai scelto di competere ad alto livello nel freestyle e nel freeride, non è sicuramente facile, perché?
«È vero, oggi c’è sempre più specializzazione: chi punta alle Olimpiadi lavora solo nei park, altri sulla neve fresca, io faccio tutto perché sono così, mi piace saltare nei park e farmi una bella run in neve fresca, magari anche una gita scialpinistica. E poi, a differenza di chi fa solo powder, sono molto flessibile e posso sempre allenarmi».
Che cosa ha portato il freestyle nel freeride? Si può dire che il livello fuoripista è salito grazie ai trick fatti nei park come è avvenuto nell’arrampicata sportiva con le palestre?
«Sì, mi sembra un paragone giusto, se provi centinaia di volte i salti nei park, quando magari fuori non ci sono le condizioni, metti le basi per salire di livello nel freeride, impari i trick che ti servono nella neve fresca e poi atterrare sul duro aiuta ad avere la giusta sensibilità per atterrare anche sul soffice della neve fresca».
Sembra difficile da dire, perché il livello è altissimo, ma qual è la prossima frontiera del freeride?
«Jérémie Heitz ha sicuramente ridefinito gli standard della velocità e del big mountain, però si pensa sempre che non ci sia più nulla di nuovo da inventare e invece ogni anno si vede qualcosa di importante. Sicuramente il mio stile è diverso da quello di Heitz, io vado più piano e vedo la montagna come un parco giochi».
Non credi che avere sciato tra i pali ti abbia dato la tecnica di base per salire di livello?
«È probabile, ma quando sei al top ogni gradino in più è sempre difficile, come perdere qualche centesimo tra i pali. Come nello sci alpino o nello scialpinismo, all’inizio della stagione ti senti in forma, ma non sai come andrai realmente, o come andranno gli altri».
Nel film, Ruin & Rose, hai sciato anche sulle dune del deserto, vero?
«Sì, in Namibia, ma non è stato affatto facile come pensavo. Abbiamo anche contattato un tedesco che vive là e detiene il record di velocità con gli sci sulla sabbia per avere dei consigli però, quando abbiamo trovato un salto che sulla neve sarebbe stato perfetto, mi sono impiantato proprio sul dente e per riuscire a saltare abbiamo dovuto provare e riprovare».
Sciare in un film e fare una gara è decisamente diverso…
«Sì, io poi sono competitivo e mi piace vincere, ma nei film trovi quel senso di libertà, puoi sciare tutta una montagna e non solo una linea, hai l’elicottero a tua disposizione…».
I film stanno diventando un terzo lavoro…
«Sì, quest’anno infatti farò una sola gara, la Red Bull Cold Rush, dove ci sono salti in neve fresca, freeride e alpinismo. Però mi piacerebbe provare a fare il circuito Freeride World Tour seriamente, non solo un paio di tappe come in passato, è il mio obiettivo per la prossima stagione».
Facebook o Instagram?
«Instagram, mi piace essere up to date e so subito cosa succede dall’altra parte del mondo, per esempio se ha nevicato in Canada».
Il freeride è un’attività con una componente di rischio che non può essere sottovalutata, come ti rapporti con il rischio di valanga?
«Non mi piace rischiare a caso, se faccio un trick o un salto particolare e so che posso cadere, voglio essere sicuro che non ci siano sassi. Quando filmiamo in Alaska cerchiamo di non fermarci nei piani ma di avere sempre vie di fuga per non essere inghiottiti dalle valanghe. Rischio sì, ma con un piano b, senza usare la testa non ha senso. Queste situazioni ti insegnano ad apprezzare la vita e capire cosa ti piace di più».
Come cambia il concetto di sicurezza quando sei da solo e quando giri un film?
«Molto, quando vado con un amico ci muoviamo rischiando il meno possibile, anche perché dobbiamo considerare che se succede qualcosa non è facile venire a recuperarci velocemente, con un team come quello di MPS Films cambia perché ci sono 10-12 persone, Guide alpine, elicottero».
Sei mai rimasto coinvolto in una valanga o hai vissuto un incidente da vicino?
«Fortunatamente no e spero che non mi succeda. Qualche volta, specialmente in Alaska, dove sai che non c’è nessuno sotto, quando le condizioni sono rischiose proviamo a fare partire le cornici, provocando delle piccole valanghe».
Il tuo programma prevede anche un allenamento nelle tecniche di autosoccorso?
«Ne faccio un paio all’anno, di solito uno al Freeride World Tour e quando giriamo i film, ma non sono sicuro che mi verrebbe tanto facile agire in una situazione di pericolo: tra la teoria e la realtà c’è tanto spazio ed emozione e adrenalina giocano brutti scherzi. Per questo dico sempre ai miei amici che si sentono sicuri quando hanno artva, pala e sonda di allenarsi a usarli, tanto. La gente, quando vede i miei film, pensa che sia matto, ma spesso quando si va a fare skialp da noi ci si muove più in pericolo».
Usi sistematicamente un airbag da valanga?
«Sempre quando giro i film, faccio backountry vicino agli impianti o nel Freeride World Tour, per lo scialpinismo ancora no perché è troppo pesante. Per fortuna non ho mai dovuto aprirlo».
Che messaggio lanceresti a chi come te passa dal park alla neve fresca?
«Oltre a quello di portare sempre con sé l’artva e tutta l’attrezzatura tradizionale da autosoccorso in valanga, di tornare indietro se non ci si sente al cento per cento sicuri, non è mai una decisione sbagliata».

Clare Gallagher, dal corallo alla CCC
Se sei sulla strada giusta, le porte si aprono; se sei su quella sbagliata, puoi aspettare, ma non si apriranno. Parola di Clare Gallagher, Boulder, Colorado. Probabilmente non erano tutte sbagliate le strade che ha percorso per buona parte dei primi 26 anni della sua vita. E sono tante. A 18 anni si è trasferita a Est, all’università di Princeton, dove ha iniziato a occuparsi di difesa dei coralli e ha seguito un corso di etica ambientale con Peter Singer, australiano, uno dei filosofi più influenti del mondo. Poi ha vissuto un paio di anni in Thailandia, prima insegnando l’inglese nei villaggi più poveri, poi impiegata in un programma di sensibilizzazione sulla difesa della vita marina. Ed ecco la prima strada sbarrata: le mancano gli amici, il Colorado, le montagne. Non è necessario essere una martire ai tropici per fare qualcosa per l’ambiente. Le porte si chiudono, mentre si aprono quelle della corsa.
«Ho sempre corso a scuola, ma facevo atletica o strada e, mentre alla high school ero bravina, all’università non andavo» dice Clare. Poi corre per caso un trail di 50 chilometri nel nord della Thailandia ed è subito amore. «Eravamo nella foresta e c’erano serpenti ovunque, era così selvaggio, mi è piaciuto subito». Torna a casa, nel 2015 fa un paio di gare e l’anno dopo vince subito la Leadville Trail 100 Mile, da quasi sconosciuta. Roba che ci sono atlete che ci tentano una vita senza successo. Le porte si aprono. La ragazza corre, forte. Però vuole provare a fare il medico e continua gli studi. Bastano poche settimane per capire che non è la sua strada. Le porte si richiudono. Lascia tutto per vivere di corsa. I risultati non mancano, la CCC del 2017 vinta con il record della gara dice qualcosa? E la Endurance Challenge - California Trail 50 Miles al secondo posto nel 2017? Le porte si riaprono, compresequelle del team La Sportiva, dove Clare è arrivata proprio quest’anno. «Avevo già usato le Helios, erano le mieLaSpo preferite, valide anche per correre su terreni duri, poi quest’anno ho provato di tutto, soprattutto le Mutant e ora ho trovato le mie nuove LaSpo preferite, le Bushido II, simili alle uno, protettive, ma morbide». Le porte del professionismo si aprono. «Sì, vivo della corsa, più o meno, diciamo che la mia unica preoccupazione è mangiare» scherza.
C’è una cosa che accomuna Clare e La Sportiva, entrambe hanno costruito i loro successi a partire dagli insuccessi. La casa di Ziano di Fiemmesu questa dinamica ha impostato la sua festa per i 90anni. Una scelta coraggiosa, come quella di Clare di abbandonare gli studi: «Quel fallimento mi ha dato tanta benzina per correre forte.» Corre forte, eppure Clairenon si definisce proprio una runner, piuttosto un’attivistaambientale e una runner. «Metto davanti la parola attivista, penso che viviamo sulla terra e dobbiamo fare di tutto per lasciarla migliore di come l’abbiamo trovata, dobbiamo restituire quello che ci ha dato e ancora di più come americani». Basta seguire i suoi accountsocial per capire che Clare ha fatto delle scelte radicalie la difesa dell’ambiente è al primo posto nella sua vita. Non mangia carne «perché è la prima e più facile sceltase sei ambientalista convinta e vuoi minimizzare la tua impronta ambientale, però poi mi sono accorta chesto anche meglio e corro più veloce». A proposito d’impronta, Clare compensa anche le emissioni prodotte dai suoi spostamenti in aereo. È stata anche a San Francisco dove con POW (Protect our Winters, un’associazioneche cerca di sensibilizzare sul climate change e gli effetti sull’inverno e la neve) ha partecipato a una grande marcia per invitare gli americani a votare per candidati che s’impegnano a difendere l’ambiente alle elezioni del mid term. «Il principale problema delle nostre società è proprio questo, che la gente non vota più perché pensa che sia inutile, invece bisogna votare per le persone giuste». Votare per le persone giuste e parlare con chi ci sta vicino, sensibilizzarlo dopo avere spiegato i problemi.
Il sogno però è riuscire a creare un movimento ambientalista anche tra i runner. «Io, Luke top, top3Nelson, Anton Krupicka, Joe Grant, Stephanie Violett, Dakota Jones siamo tra i più attivi e stiamo cercando di avvicinare quanti più runner a POW, vediamo cosa succederà nei prossimi anni, se funzionerà, per ora non ha senso creare un’altra associazione e disperdere gli sforzi». Protect our winters… dunque in inverno scii? «È il primo sport che ho praticato, poi tre anni fa ho iniziato a fare gare di scialpinismo, giusto per allenarmi, ho partecipato anche alla Grand Traverse, ma fa freddo, molto freddo e io sono freddolosa, anche quando corro». Però è meglio proteggere i nostri inverni, vero Clare?
Questo articolo è uscito sul numero 120 di Skialper, se vuoi acquistarlo vai qui

It’s running time
Correre in inverno. Per allenarsi, ma anche per il piacere di continuare a macinare chilometri e metri di dislivello quando la natura si ferma. Oppure per partecipare a qualche gara sulla neve o in ambiente invernale. Però, se d’estate è importante avere la giusta scarpa, d’inverno lo è ancora di più. Ecco perché abbiamo messo ai piedi di due specialiste alcuni modelli specifici. Scarpe per la neve e il freddo, ma anche semplicemente per una corsa in collina o a media quota, su terreni umidi o resi duri dal freddo. Per questo abbiamo deciso di dividere in due la vasta gamma delle calzature utilizzabili in inverno, creando una categoria delle super-specialistiche, cioè quelle scarpe con ghetta e proprietà termiche pensate per affrontare il bianco inverno. Per correre in un ambiente più fresco e umido, invece, ecco le versioni Gore-Tex dei modelli estivi. Due testatrici esperte in materia: Marta Poretti, che nel 2018 ha vinto l’Idita Sport, gara di 550 km tra i ghiacci dell’Alaska, con temperature che raggiungono anche i -35 gradi, e Melissa Paganelli, vincitrice dell’ultima Corsa Bianca e del Winter Trail Monte Prealba. A Marta l’onore (e l’onere) di provare le scarpe con ghetta, a Melissa quelle semplicemente in Gore-Tex. Per il primo test un campo prova d’eccezione: le insidiose pietraie sopra Cime Bianche Laghi, ai piedi del Cervino, rese viscide da un sottile strato di neve e dalla bufera. Per andare più a fondo, poi, ci siamo spinti su ampie chiazze di neve. Per la seconda prova, invece, ci siamo concentrati su un fondovalle molto umido.
GHETTA SÌ, GHETTA NO - Fatta la premessa, che vale in generale anche per le calzature estive, che ormai di scarpe brutte non ce ne sono più, abbiamo riscontrato importanti differenze d’impostazione tra i sette modelli provati. Le La Sportiva Uragano e le Salomon S/Lab XA Alpine 2 sono le più integralmente invernali, con morbida ghetta, come Uragano, o a stivaletto e doppia costruzione (con una normale scarpa da running interna) come le S/Lab XA Alpine 2, che non nasce come pura invernale ma per imprese fast & light in quota. Queste due soluzioni sono pensate per le condizioni più estreme, soprattutto con neve bagnata, la più insidiosa e umida, e quelle che garantiscono ma migliore termicità. «Sono modelli molto validi nei nostri climi, naturalmente per correre gare specifiche in Alaska o nel grande nord ci vogliono ancora più termicità e accorgimenti specifici e, a quelle temperature, può succedere che le ghette si bagnino e poi gelino, diventando rigide e a volte fastidiose» dice Marta Poretti. Ci sono invece soluzioni meno estreme, a metà del guado, come la La Sportiva Tempesta, che rappresentano un giusto compromesso tra protezione dagli elementi e libertà della caviglia. Inoltre la facilità e velocità d’accesso è migliore. In generale, correndo sulla neve, abbiamo riscontrato che non è sempre scontato che la soluzione con ghetta sia la più indicata. Anche una scarpa bassa in Gore-Tex, abbinata a una ghetta adeguata, se non si corre in neve fresca, può essere una valida scelta. Abbiamo inoltre inserito nel lotto dei modelli da neve la Scarpa Atom SL che è una via di mezzo tra un semplice modello in Gore-Tex e la Tempesta, con una specie di calzino basso a proteggere la caviglia dall’entrata di detriti, oltre all’utilizzo della membrana Gore-Tex. Si tratta di una soluzione che la casa indica in modo specifico per utilizzo invernale, anche se non ha particolari doti di termicità.

OPZIONE CHIODI - Premesso che su terreni duri o ghiacciati esiste sempre l’opzione ramponcino (sul mercato se ne trovano di diverse marche e categorie di prezzo), segnaliamo un plus non da poco delle scarpe La Sportiva: la possibilità di montare chiodi AT Grip con un apposito accessorio simile al cacciavite. L’operazione è abbastanza semplice e le zone dove inserirli sono segnalate sulle suole di Uragano e Tempesta. Un’operazione che richiede pochi minuti e non rovina le scarpe. I chiodi, infatti, posso essere tolti e rimessi. Il kit costa 49 euro ed è acquistabile nello shop on-line della casa di Ziano di Fiemme o nei negozi specializzati.
GORE-TEX - In inverno la prima richiesta che si fa a una scarpa è quella di tenere asciutti (e a una giusta temperatura) i piedi. La membrana Gore-Tex utilizzata, solitamente la Extended Comfort, è la più traspirante e leggera e i modelli sono risultati confortevoli dal punto di vista climatico, con il piede sempre al caldo ma mai troppo in un clima fresco. Buona anche la dinamica di marcia anche se bisogna tenere contro di un peso leggermente aumentato rispetto ai modelli estivi e una flessibilità minore, ma assolutamente accettabile. «Solitamente utilizzo scarpe in Gore-Tex quando devo uscire per allenarmi su terreni che so essere innevati o molto umidi e nella stagione invernale, in queste condizioni, le differenze sono minime e comunque inferiori ai vantaggi» dice Melissa Paganelli. I modelli senza ghetta, naturalmente, se utilizzati in acqua e ad alta velocità, lasciano entrare qualche schizzo dall’alto. Ma nell’utilizzo medio invernale vanno più che bene (e potrebbero essere un’opzione anche per le mezze stagioni) e al limite si può sempre usare una ghetta.

BENVENUTO INVERNO - In conclusione… non ci sono scuse per non andare a correre in inverno, il mercato propone la scelta di prodotti più vasta di sempre, per tutte le esigenze. Anche la categoria più specialistica delle integraliche solo qualche anno fa era occupata dalla sola La Sportiva Crossover GTX (ora disponibile nella versione 2.0), è ormai sufficientemente ampia (e comprende anche la Scarpa Spin Pro OD, con ghetta in OutDry, che purtroppo non abbiamo potuto provare, e la Dynafit Transalper U GTX, disponibile solo in versione maschile/unisex). L’importante è sapere che utilizzo prevalente si farà della scarpa invernale e orientarsi verso modelli più o meno specifici.

INTEGRALI
Salomon S/Lab XA Alpine 2
Grazie alla doppia costruzione, dentro è molto simile (se non uguale) alla S/Lab Sense e il fit e le sensazioni si avvicinano. È risultata quella con migliore termicità. L’accesso è abbastanza facile e nella corsa non impaccia, sembrando un unico corpo, anche se le sensazioni sono abbastanza diverse da un modello estivo. È reattiva e secca e la suola ha la climbing zone in punta.
Peso: 375 gr
Prezzo: 250 euro
Drop: 6 mm
Suola: Premium Wet Traction Contagrip
La Sportiva Uragano GTX
Protezione totale e libertà dei movimenti. Non entra nulla, la termicità è buona e le doti dinamiche anche. Un po’ difficoltoso l’accesso, ma poi quando sei dentro la vestibilità è valida. Ben studiata anche la flessibilità, grazie alla Gore Flex Construction, sostanzialmente simile a quella di modelli come la Mutant. Mescola pensata per il grip su superfici morbide, per il duro c’è l’opzione chiodi AT Grip.
Peso: 350 gr
Prezzo: 189 euro
Drop: 10 mm
Suola: FriXion Blue
La Sportiva Tempesta GTX
Condivide con Uragano lo stesso chassis e la suola. Però non ha la ghetta ma linguetta e collo rialzati. È risultata un ottimo compromesso tra le semplici scarpe in Gore-Tex e le integrali. Per situazioni non estreme, versatile. Per il resto vale quando scritto di Uragano.
Peso: 300 gr (340 gr uomo)
Prezzo: 169 euro
Drop: 10 mm
Suola: FriXion Blue
Scarpa Atom SL GTX
La più leggera del lotto, una vera invernale per il grip, risultato il migliore. Non per la termicità e la protezione della esigua calzetta che la rende indicata per utilizzatori di livello, alla ricerca di una scarpa performante e veloce e per climi/nevi non estreme. E per correre veloce…
Peso: 290 gr
Prezzo: 169 euro
Drop: 4 mm
Suola: Megagrip
GORE-TEX
Dynafit Trailbreaker GTX
La versione in Gore-Tex della scarpa con la caratteristica suola a S firmata Pomoca (che si comporta bene). Termicità e traspirazione indicate per un utilizzo invernale non estremo, tanta protezione dietro, sensazione di drop e più sensibilità davanti. E una buona scelta per utenti di livello intermedio alla ricerca della protezione e di una scarpa versatile, anche per camminate veloci.
Peso: 250 gr (290 gr uomo)
Prezzo: 160 euro
Drop: 10 mm
Suola: Pomoca Alpine TB
New Balance KOM GTX
La novità 2018 New Balance per le ultra-distanze in versione Gore-Tex. Calda e traspirante il giusto per un utilizzo invernale non estremo, protettiva, ha buone doti dinamiche e un discreto grip, che la rendono una allround (per terreni e utilizzatori) no problem. L’impostazione iniziale è rigida e sostenitiva, ma dopo qualche chilometro ‘si fa’ e diventa molto comoda senza perdere il sostegno.
Peso: n.d.
Prezzo: 140 euro
Drop: 8 mm
Suola: Vibram Megagrip
Mizuno Wave Mujin GTX
Il grande classico della casa giapponese tradisce l’origine stradistica del marchio, con un’impostazione molto comoda, che non va a discapito della protezione, che è valida, anche da sotto grazie al rock plate. Lo spazio ampio davanti la indica anche per percorrenze lunghe con clima fresco grazie a una discreta termicità.
Peso: 320 gr (375 gr uomo)
Prezzo: 155 euro
Drop: 12 mm
Suola: Michelin
Scott Kinabalu Power GTX
L’ultima versione della best seller di casa Scott nella versione con tallone rinforzato, che sostiene di più. Rispetto ai precedenti modelli Kinabalu, concede qualcosa di più a comfort e ammortizzazione, ma rimane un modello ‘cattivo’ e veloce. La versione in Gore-Tex non tradisce le attese per qualche corsa bagnata in climi freschi.
Peso: 350 gr (390 gr uomo)
Prezzo: 179 euro
Drop: 8 mm
Suola: Scott, anche per bagnato
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 120, uscito a gennaio 2018. Se non vuoi perderti nessuna delle storie di Skialper e riceverlo direttamente a casa tua puoi abbonarti qui.
Kilian, ecco come si superano 24.000 metri di dislivello in 24 ore
C’è qualcosa di fuori dall’ordinario, come sempre nelle imprese di Kilian Jornet, anche nell’ultima, vale a dire i 23.486 metri di dislivello superato in 24 ore con gli sci ai piedi nei giorni scorsi, nella località sciistica di Tusten, in Norvegia. È naturalmente straordinario quello che ha fatto, ma questo è scontato. L’impresa non era annunciata e sembra che anche nell’entourage Salomon il progetto fosse conosciuto solo a pochi livelli. Quello che ogni volta riesce a sorprenderti è che a poche ore dal record siamo bombardati da una miriade di dati e curiosità. Tanto spirito libero, geniale e creativo, sui monti, tanto meticoloso nel registrare tutto, ma soprattutto nel comunicarlo. È anche per questo che è uno dei pochi personaggi della scena outdoor ad avere un ufficio stampa personale e oltre 800.000 follower su Facebook e poco meno su Instagram. Ma la straordinarietà sta nell’ordinarietà di quello che scrive… Un preciso diario di 24 ore da paura, dalla partenza da casa al riposo del fine settimana, con il puntiglio del dettaglio e della curiosità e anche tanta semplicità, oserei direi umiltà, una dote rara ai nostri tempi. Kilian per primo, e subito, chiarisce che il suo non ha la pretesa di essere un record perché non esiste uno standard uniforme nelle imprese (simili) di chi l’ha preceduto: cambiano quota, percorsi, pendenze. Insomma, un po’ tutto. Vale però la pena di ricordare che solo qualche mese fa Lars Erik Skjervheim si era fermato a 20.993 metri… E allora vediamoli questi numeri.

PERCORSO - Partenza a quota 116 metri, pendenze prima del 12%, poi del 26,22%, poi, dopo i primi 316 metri di dislivello, si andava fuoripista con pendenze anche del 30% e tratti corti in piano. Arrivo a 673 metri. All’inizio c’era (poca) neve fresca, quindi ha dovuto ance batter traccia. In totale due giri, uno lungo da 4,4 km e 550 m di dislivello e uno da 3,6 e 428 metri. 23.486 metri e 200,4 km percorsi, dati leggermente corretti rispetto a quello di Strava utilizzando topografia dettagliata.
RITMO - Nelle prime 6 ore Kilian ha dovuto badare soprattutto a conservare le forze e non andare troppo veloce, una media di 1.100 m/h, calcolando anche i tempi di discesa e i cambi pelle. Di notte, dopo sette ore, ha scelto l’anello corto. Da 8.000 a 13.000 metri il ritmo passa a 1.000 m/h, da 13.000 a 16.000 scende a 900 e il sonno si fa sentire, in due giri, quando il timer segna 16 ore, arriva a 820 e 802 metri. Si ferma 10 minuti, sale a 900 metri e poi scende a 828, si ferma ancora, 12 minuti. Le ultime 4 ore sono al ritmo di 950 metri e alla fine la media sarà 978,6 m/h, con un massimo di 1.222 e minimo di 802. Tolta la discesa e i cambi pelle, la media è di 1.065 m/h. Vale a dire il 64,1% della Vo2 max e dei suoi più veloci 1.000 metri, 36 minuti. Uno standard simile ad altre imprese 24 ore (58,5% nel record della mezza maratona e 68% in quello ciclistico).
CALORIE - Obiettivo di 250 ora, dati finali 5.500-6.000. Cosa ha mangiato? Gel e jellies, però anche tanta pizza, un po’ di pasta, un caffè, una cioccolata…
MOTIVAZIONE - Si è rivelata fondamentale, soprattutto la notte, la compagnia. Poi tanti piccoli obiettivi a corto e massimo medio termine: ‘arrivare alla fine del tratto più ripido’, ‘mi mancano due giuri per raggiungere i 20.000 metri’. La massima visualizzazione è stata relativa alle sei ore successive, non di più.
RIPOSO - Doccia, qualche snack, poi una cena con riso, verdura, insalata, pane e formaggio, nove ore di sonno, il giorno dopo 30 minuti di bici… Da lunedì la solita routine. Muscoli stanchi, ma niente di più, qualche fastidio ai piedi, passato velocemente.
MATERIALI - Sci Salomon Minim con attacchi e scarponi Gignoux. Ne aveva più paia, ma non ha mai fatto cambio. Pelli Pomoca Race Pro / Grip.
E poi? E poi la velocità massima in discesa è stata di 115 km, per 9 ore c’è stata luce e per 15 buio, 20h,02’41’’ in salita e 3h22’44’’ in discesa. Dimenticavamo, il suo GOS Suunto era in modalità ‘best’ e alla fine aveva ancora il 10% di carica.

Seven Wild Trails, l'ultima sfida di Christophe Le Saux
Conoscerlo, lo conoscono tutti nell'ambiente del trail running il francese Christophe Le Saux, non fosse altro che per la sua chioma bionda riccioluta. Christophe è un vero e proprio globetrotter: «in Francia passo qualche settimana all'anno, se devi spedirmi qualcosa non saprei dirti dove, forse a Chamonix». Ora si è inventato una nuova impresa: una traversata autogestita in sette diversi Paesi e cinque continenti, un'avventura nella natura alla ricerca del fastest known time. Si chiama Seven Wild Trails e Christophe vorrebbe anche raccogliere fondi per portare con sé due persone diversamente abili in Marocco e Italia, ultima tappa del progetto, oltre che per finanziare le traversate. Un progetto che è iniziato nel 2018 e terminerà a settembre del 2019. Le prime quattro imprese sono state portate a termine, si tratta della traversata dell'Islanda (350 km no stop), del Tour della Cordillera Huayhuash in Sud America (130 km, 8.000 m D+), del Sunshine Coast Trail in Canada (180 km, 7.000 m D+), del tour degli Annapurna (220 km, 8.000 m D+). Da aprile parte la seconda parte del progetto: Atlante marocchino (240 km, 10.000 m D+), Nuova Zelanda (110 km, 6.000 m D+) e infine l'Italia con il percorso (più o meno) del Tor des Géants in autonomia (330 km, 24.000 m D+, a settembre). Per ogni impresa è stato prodotto un piccolo video, come quello dell'Annapurna chiuso nel tempo record di 48 ore e 29 minuti.
DAL BOROTALCO ALL'ESERCITO - La storia di Le Saux è molto particolare. Da bambino ha rischiato di morire a causa di un borotalco contaminato con materiale tossico. Però gli effetti collaterali hanno rallentato la crescita di Christophe, che è uno dei trail runner più piccoli come corporatura. Da giovane poi Le Saux si è arruolato come infermiere nei corpi speciali dell'esercito francese. Tante le missioni sui campi di battaglia... «Neppure i miei sapevano dove ero». Forse proprio queste due esperienze lo hanno temprato per le sue imprese o forse come reazione agli anni passati nell'esercito ha iniziato a correre nella natura in giro per il mondo. «Sì, è proprio così, se tornassi indietro non lo rifarei» mi dice. Hai mai ucciso qualcuno? «Quando sei in azione spari, tanto, e scappi. Non lo so». Corri Christophe, corri veloce.
Patagonia: 10 milioni alle associazioni ambientaliste grazie agli sgravi fiscali voluti da Trump
Dieci milioni di dollari. Soldi risparmiati grazie agli sgravi fiscali voluti dal presidente statunitense Donald Trump e non inseriti alla voce utili o investiti nell’azienda, ma donati alle associazioni ambientaliste. Quello che si dice… coerenza. È questo l’annuncio dei giorni scorsi del marchio californiano Patagonia, pioniere della difesa ambientale e della prodizione sostenibile di articoli sportivi. I dieci milioni di dollari, che verranno devoluti durante le vacanze di Natale, si aggiungono all’uno per cento dei profitti che l’azienda di Ventura devolve da anni a favore di alcune associazioni e cause ambientaliste. «Sulla base dell'irresponsabile taglio alle tasse del governo americano, Patagonia dovrà meno al fisco, 10 milioni in meno - ha dichiarato Rose Marcario, CEO e presidente di Patagonia, sul suo account Linkedin - Invece di rimettere questi soldi nel nostro business, rispondiamo restituendo 10 milioni all'ambiente. Il nostro pianeta-casa ne ha bisogno più di noi. Le tasse proteggono i più vulnerabili della nostra società le nostre terre pubbliche e altre risorse che danno la vita e nonostante questo, l'amministrazione di Donald Trump ha avviato un taglio alle tasse per le imprese che minacciano questi servizi a scapito del nostro pianeta».
Cara Chacon, vice-presidente social & environmental responsibility di Patagonia, in un’intervista rilasciata a Skialper nel dicembre 2017, aveva dichiarato che «crescere è importante per un’azienda, ma vogliamo che sia una crescita naturale e soprattutto senza aumentare la nostra impronta ambientale, vogliamo che sia una crescita trasparente e che i consumatori sappiano tutto su di noi». Il messaggio lanciato da Patagonia mina le fondamenta della società consumistica (in passato, in occasione del black friday, l’azienda ha anche acquistato una pagina pubblicitaria nella quale invitava a non acquistare i propri piumini perché il primo passo per non inquinare è fare durare di più i prodotti) e guarda al futuro con fiducia. «Non bisogna uscire con l’idea di andare a fare shopping spensierato, bisogna informarsi su cosa fanno le aziende per l’ambiente e per aiutare i lavoratori, specialmente nei Paesi in via di sviluppo - aggiungeva Chacon - Ognuno di noi ha un grande potere ed è per questo che, nonostante l’uscita degli Stati Uniti dagli accordi di Parigi, sono fiduciosa per il futuro: i consumatori non permetteranno alle aziende americane di fare passi indietro sulle tematiche ambientali e i marchi preferiranno continuare ad avere politiche ambientali in linea con quanto fatto fino a oggi, anche per una questione di immagine».

UTMB, un marchio sempre più globale
Che i coniugi Poletti abbiano il fiuto giusto nel mondo del trail non lo si scopre oggi. Gli ultimi decenni di storia della corsa in natura sono lì a dimostrarlo. Ora che la gara di Chamonix è diventata evento globale però la nuova sfida sembra essere quella di esportare il sistema UTMB. Si è iniziato con la UTMB cinese nel 2018, Gaoligong, e ora in calendario ci sono altri due eventi: Oman by UTMB, al via il prossimo 29 novembre, e Ushuaia by UTMB, in programma il prossimo 5 aprile. Poi si ripartirà in autunno con Oman by UTMB e nella primavera del 2020 con Gaoligong. Il brand UTMB (a proposito, gli organizzatori di Chamonix hanno registrato anche il termine ultra-trail) è un marchio che funziona se si pensa che alla prima edizione della gara in Oman (137 km) sono iscritti 450 runner da 56 Paesi. Fare parte delle gare international dell’UTMB comporta dei benefit: i punti ITRA guadagnati valgono tre anni invece di due e si hanno il doppio delle possibilità nell’estrazione dei posti UTMB o ancora hanno il posto garantito se avevano già tentato di partecipare l’anno precedente.
BIG AL VIA - Intanto alla gara di settimana prossima parteciperanno anche lo statunitense Jason Schlarb, lo svizzero Diego Pazos, il lituano Gediminas Grinius, la statunitense Meredith Edwrards. Da segnalare anche tre donne local al via: Budor Al Salhi,Nadhira AlHarthi e Hamida Al Jabri. Si corre nello spettacolare massiccio Jebel Akhdar, fino a una quota 2.200 metri.
Il Vertikal di Punta Martìn diventa una special edition per gli amputati
«Genova quest’anno è stata travolta da una tragedia che ci ha lasciato in silenzio per molto tempo. Ha subito un’amputazione gigantesca che l’ha divisa, quasi come la vecchia Berlino, in Ovest ed Est. Il Martìn è sempre stato, nelle persone che lo rappresentano e lo animano, semplice, sensibile, puro, ma anche lungimirante e soprattutto innovatore. Lo scorso anno, mentre stavamo tracciando la linea perfetta verso la vetta, abbiamo avuto un’idea: creare una Vertikal Experience for the amputees - special edition. Poi il succedersi degli eventi ci ha fatto prendere la decisione che quest’anno il nostro Vertikal sarà dedicato solo a persone amputate che vorranno mettersi alla prova calpestando il sentiero della Direttissima». A scrivere è Alessio Alfier, presidente del comitato organizzatore del Vertikal di Punta Martìn, tradizionale appuntamento di fine stagione in Liguria, giunto alla settima edizione. Dunque la scalata di 4,73 km x 897 m D+ del prossimo 17 novembre sarà una special edition interamente dedicata ai concorrenti amputati. Una prima che trasforma il piccolo villaggio di Acquasanta, nell’entroterra genovese, nell’ombelico del mondo agonistico e solidale. Le adesioni sono già tante se si considera la particolarità dell’evento, con oltre una decina di partecipanti sicuri, capitanati da Moreno Pesce, ormai un veterano delle gare vertical. Tra gli iscritti ci sono storie di speranza e riscatto, come quelle della francese Fabienne Sava Pelosse, che ha subito l’amputazione tibiale 14 anni fa e ha un solo polmone. Fabienne ha partecipato anche al Tot Dret 2018. Oppure la storia di Alberto Braghieri che, dopo avere chiuso l’ultima maratona in 2h56’ è stato costretto a 16 interventi o quella di Paolo Bertello, che ha perso la gamba a causa di un incidente stradale. Sono solo alcuni esempi di come i limiti siano più mentali che fisici (parole di Massimo Coda, un altro iscritto). La partenza è prevista alle 11 di sabato 17 novembre, con arrivo in vetta entro le 15 e party finale alle 18 in paese. Un’occasione da non mancare! www.vertikalpuntamartin.it
La corsa all’oro del trail running
La prima edizione delle Golden Trail Series non è passata inosservata. Premi importanti, controlli anti-doping intensivi e altre formule innovative hanno caratterizzato il circuito voluto da Salomon e da Greg Vollet, la mente dietro alle strategie agonistiche del marchio di Annecy, per permettere agli atleti top di confrontarsi nelle stesse gare, evitando la frammentazione. Il concetto di base che ha portato alla nascita delle Golden Trail Series è che la moltiplicazione di gare e circuiti diminuisce interesse e appeal dello sport. Ecco perché nel calendario, oltre alla finale neozelandese, c’etano cinque gare mitiche come Zegama, Sierre-Zinal, Marathon du Mont Blanc, Ring of Steall e Pikes Peak. Gare che, in alcuni casi, fanno parte anche di altri circuiti. Ora in prospettiva 2019 ci sono diverse novità e, in un’interessante intervista al sito del quotidiano sportivo francese L’Equipe, Vollet ha svelato alcuni retroscena dell’organizzazione. L’idea delle GTS nasce nel 2014 e vede coinvolti i principali marchi produttori di scarpe ma «malgrado diverse riunioni e sotto la pressione di alcune grandi organizzazioni, le altre marche si sono ritirate dalla discussione, hanno avuto paura di non essere abbastanza visibili in un circuito organizzato dalla nostra organizzazione» dice Vollet all’Equipe.
UNA NUOVA GARA - Tra le novità della prossima stagione l’ingresso di una nuova gara (si parla dell’italiana Dolomyths) e la ricerca di un title sponsor extra-settore, in modo che «le altre marche non abbiano paura a inviare i loro migliori atleti». La questione dei premi e quella del doping sono centrali nell’organizzazione del circuito. Mille euro per i primi cinque di ogni gara e 5.000 per i primi dieci della classifica generale, ma anche un viaggio per due persone per andare a correre la finale in Sud Africa sono dati che avvicinano il trail al professionismo e il montepremi è stato ripartito in modo uguale tra uomini e donne.
NON VALGONO LE AUTORIZZAZIONI A FINI TERAPEUTICI - Per quanto riguarda il doping l’idea di Vollet è di controllare sistematicamente i primi dieci del ranking generale un mese prima di ogni corsa e 24 ore prima mentre i primi tre (che diventeranno cinque dalla prossima edizione) della classifica di gara a ogni evento. «In caso di valori anomali impediamo la partenza per motivi di salute perché ne GTS né ITRA hanno potere sanzionatorio, anche se la federazione trasmette le analisi alla WADA che potrà decidere di dare seguito». GTS inoltre, a differenza delle gare ufficiali delle federazioni, non ammette le autorizzazioni d’uso di medicinali a fini terapeutici. «Troppi atleti giocano con le autorizzazioni per doparsi, se un atleta è malato e può beneficiare di un’autorizzazione, pensiamo che sia meglio che rimanga a casa». Infine comunicazione degli eventi sempre in primo piano. Trasmissione live quasi integrale sui canali social già quest’anno anche con l’utilizzo di mountain bike elettriche, ma per l’anno prossimo si pensa a un salto di qualità, trovando un accordo con una catena televisiva europea per la produzione delle immagini. Nell’ambiente si parla della televisione svizzera.
Zabardast, arriva in Italia il film di sci girato nelle zone più remote del Pakistan
Un giorno Thomas Delfino, sfogliando distrattamente libri in una libreria, s’imbatte in Le più belle montagne del mondo e rimane ipnotizzato da una cima pakistana. Un pendio troppo bello per essere vero. Da quel momento diventa la sua ossessione. La vetta in questione è la torre nord Biacherani in una delle zone più remote del Paese. E l’obiettivo diventa organizzare una spedizione di freerider e cercare di sciarla. Nasce così Zabardast, il film di 54 minuti prodotto da Picture Organic Clothing, il marchio francese di abbigliamento eco, e Almo Film. Diretto da Jêrome Tanon, Zabardast sta riscuotendo molto successo oltralpe e verrà proiettato in diverse location italiane a partire da metà novembre (vedi elenco alla fine di questo articolo).
https://youtu.be/rBvsaIBsVJY

LA TRAMA - Girato in 4k in primavera, il film vede la partecipazione degli skier Léo Taillefer e Thomas Delfino e dello snowboarder Zak Mills. È a tutti gli effetti il diario di un’incredibile avventura freeride in una delle zone più remote del pianeta, che ha comportato un loop di 150 chilometri in autosufficienza, con slitte cariche di cibo liofilizzato, pannelli solari e tende. «Ho pensato il film come un diario collettivo e per questo ho chiesto ai protagonisti di scrivere ogni giorno una pagina di testo e il risultato finale è la trasposizione di questo viaggio, anche intimo, di ognuno di loro» ha detto il regista. Il viaggio è durato cinque settimane e ha comportato la partenza dal villaggio di Askole e la traversata del selvaggio ghiacciaio Nobande Sobande. Fino a qui la crew ha potuto contare sull’aiuto dei portatori Balti, poi tre settimane in totale autosufficienza. Superato lo Skam La Pass, a quota 5.660 metri, la spedizione ha raggiunto il ghiacciaio Sim Gang e lo Snow Lake Basin, uno dei luoghi più belli del mondo. Il rientro è avvenuto lungo il ghiacciaio Biafo. Zabardast non è solo sci, ma è anche un viaggio verso Islamabad con treni, improbabili motociclette, cavalli, un viaggio fatto di tanti incontri. Nel team, oltre agli sciatori, anche Helias Millerioux, Guida alpina di Chamonix con all’attivo oltre 15 spedizioni, e l’alpinista Yannick Graziani, con diversi 8.000 in curriculum.


CURIOSITÀ - Il regista Jêrome Tanon ha perso 10 chili ed era reduce da un infortunio ai legamenti crociati. I progetti iniziali hanno dovuto adeguarsi alle difficoltà tecniche incontrate e la tecnica di ripresa si è adeguata. Tanon ha voluto ispirarsi al capolavoro di Terrence Malick La sottile linea rossa, un film di guerra del 1998. «Zabardast offre l’atmosfera poetica di un film di guerra e anche le musiche, composte da Jonathan Saguez, sono simili a quelle utilizzate nei movie di guerra». Le riprese sono state effettuate da Pierre Fréchou & Julien Nadiras.


LE PROIEZIONI
Per informazioni sulle prime due serate: info@boardcore.it
Per informazioni sulle altre serate, nell’ambito del festival Montagna in Scena: www.montagnainscena.com
Bergamo - Giovedì 15 novembre
Cinema Conca Verde
Aosta - Martedì 20 novembre
Cittadella dei Giovani
Milano - Lunedi 10 dicembre
20.30-23.30 (apertura porte 20.00)
Cinema Orfeo - Viale Coni Zugna, 50
Torino - Martedì 11 dicembre
20.30-23.30 (apertura porte 20.00)
Ambrosio Cinecafè - Corso Vittorio Emanuele II, 52
Bologna - Mercoledì 12 dicembre
20.30-23.30 (apertura porte 20.00)
Cinema Teatro Antoniano - Via Guido Guinizelli 3
Firenze - Martedì 18 dicembre
20.30-23.30 (apertura porte 20.00)
Cinema La Compagnia - Via Camillo Cavour, 50/R
Roma - Mercoledì 19 dicembre
20.30-23.30 (apertura porte 20.00)
Teatro Orione - Via Tortona, 7
Presentata l'Alta Via delle Dolomiti Bellunesi
Quando nel 1994 Teddy Soppelsa ideò il percorso della Transparco, che attraversava tutto il Parco Nazionale delle Dolomiti Bellunesi, non immaginava probabilmente che quel percorso sarebbe diventato un’alta via alla stregua dei più famosi percorsi in quota dei Monti Pallidi. Sono passati 28 anni, in mezzo c’è stata anche l’interessante esperienza del trekking guidato organizzato nel 1996 da Mountain Wilderness («C’è gente che si è conosciuta in quella occasione e si frequenta ancora oggi» dicono gli uomini del Parco Nazionale), ma oggi quel sogno è diventato realtà: da Forno di Zoldo a Feltre, 108 km e 6.000 metri di dislivello. Ma soprattutto una settimana di cammino in luoghi così vicini alla città eppure così lontani e selvaggi. L’occasione per un piccolo assaggio di questa interessante realtà presentata in anteprima da Skialper con un ampio servizio sul numero 119 di agosto 2018, è stata la conferenza stampa di lancio del percorso, organizzata ieri al Rifugio Bruno Boz, a quota 1.700 metri, ai piedi delle suggestive Torri di Neva.

È SOLO L’INIZIO - Il progetto dell’Alta Via delle Dolomiti Bellunesi è appena partito e, oltre alla segnaletica (che unisce sentieri già esistenti e non ha previsto nuovi cartelli ma targhette da inserire su quelli già esistenti), ha visto la realizzazione di un dettagliato sito Internet e in futuro anche la realizzazione di una serie di servizi (pass/voucher per i rifugi per evitare di doversi portare dietro troppi soldi, servizio navette nelle valli). Per lanciare il progetto e promuoverlo è stata prodotta una mole enorme di materiale percorrendo due volte l’itinerario: 3.400 immagini, 10 interviste, video-clip, tracce gps. Interviset perché camminare qui vuol dire anche incontrare la gente che queste terre alte le vive, dal pastore diciassettenne ai rifugisti. I canali social (Facebook e Instagram: @altaviadolomitibellunesi) cominciano a funzionare e il breve video promozionale pubblicato sul sito ha fatto in pichi giorni oltre 40.000 contatti.

LO SPIRITO - Le Dolomiti Bellunesi non sono certo luoghi da rifugio cinque stelle e turismo alpino di massa, si cammina in paesaggi molto selvaggi, con le aquile sulla testa e i mufloni a fare compagnia, si dorme in vecchie casere trasformate in piccoli rifugi dove al rifugista si dà del tu e non ci si trasforma in un numero. Lo spirito dell’iniziativa, che nasce dall’incontro tra un gruppo di giovani, il Parco e le locali sezioni del CAI, capitanate da quella di Feltre, è proprio quello di promuovere l’itinerario in Italia e all’estero ma anche di educare e di veicolarlo al giusto pubblico. Sul sito verrà attivato anche un libro di vetta dove si potranno inserire i propri commenti e il progetto avrà una durata minima di tre anni.

PARTNER - Fondamentale è stato il supporto di tre marchi outdoor: AKU, Ferrino e Karpos, che hanno sostenuto l’iniziativa e la promuoveranno attraverso i loro canali social. Considerando le piccole dimensioni dei rifugi, Ferrino ha portato la sua esperienza nella consulenza ai posti tappa che propongono anche la possibilità di dormire in tenda usufruendo degli altri servizi.
www.altaviadolomitibellunesi.it
Kaptiva di nome e di fatto
Il nome è già una dichiarazione d’intenti: Kaptiva. Ed è la più attesa (Bushido II permettendo) tra le nuove scarpe da mountain running La Sportiva per la primavera-estate 2019. La più attesa perché va a occupare una casella che era libera e sarà esattamente al centro dell’offerta della casa di Ziano a partire dall’anno prossimo. Calzata normale, per piedi medi, medio-lunghe distanze, è proprio sopra alla Bushido II e sotto alla Ultra Raptor e alla Unika per calzata e distanze. Insomma, una versatile per coprire la fetta più interessante del mercato, quella dove c’è fermento negli ultimi anni. Non facciamo i nomi delle competitor, ma se avete letto la nostra Outdoor Guide vi renderete contro che la concorrenza è ampia e che qui si gioca il futuro del mountain running. Scarpe versatili, ben ammortizzate, leggere e veloci, pensate per accontentare il runner di medio alto livello, ma ben apprezzate anche dai top, magari fino a distanze un po’ più lunghe rispetto a quelle per le quali sono concepite. Siamo curiosi di metterla ai piedi durante i test della prossima Outdoor Guide, ma intanto l’abbiamo fatta calzare per una prova in anteprima a Michele Tavernaro, atleta del Team La Sportiva. Il terreno del nostro test sono stati sentieri e single track di Passo Rolle, curiosamente proprio quell’enorme parco avventura naturale dove il patron de La Sportiva, Lorenzo Delladio, avrebbe voluto creare un vero e proprio Outdoor Paradise, con percorsi segnalati per trail running, skialp e tanto altro. Un campo prove valido, con continue salite e discese che spezzano il ritmo e terreno grassoe umido, molto temuto dalle suole. Michele poi ha continuato a usare le Kaptiva nei suoi allenamenti dei giorni successivi. «È un compromesso molto interessante tra leggerezza e protezione, è un modello per correre a ritmi alti, il piede rimane sempre leggero, però allo stesso tempo il piede è a prova di urto e anche la sensibilità da sotto, molto buona, non è mai fastidiosa». Per atleti top dunque, che vogliono sempre leggere il terreno e andare veloci, ma anche per il medio livello, che potrà avere ai piedi una cattivama allo stesso tempo protettiva. «Se dovessi posizionarla, la metterei senza dubbio tra le scarpe prestazionali e per atleti di buon livello, non ho dubbi, però il cushioning è sempre valido, non è secca come altre scarpe simili, è sicuramente un modello da gara, direi per skyrace e, per i top, anche fino alle skymarathon». Ci sono altri due aspetti che hanno ben impressionato Michele. «Ho apprezzato particolarmente il collarino che sostituisce la linguetta, che avvolge sempre bene la caviglia e previene l’entrata di brecciolino o sassi, soprattutto su terreni accidentati e poi un plauso va fatto alla suola, è difficile trovare tanta versatilità». Michele ha infatti provato Kaptiva a lungo anche dopo il nostro test, impegnandola su roccia asciutta e bagnata, fango, erba: «Va bene ovunque, difficile trovare dei punti deboli o terreni meno adatti» la sua conclusione. Kaptiva fino in fondo!

La Sportiva Kaptiva
Peso: 280 gr
Drop: 6 mm
Tomaia: mesh stabilizzante anti-deformazione + rinforzi senza cuciture
Intersuola: EVA a compressione e inserti in TPU stabilizzanti e antitorsionali + inserto rock guard in EVA bi-denistà
Suola: FriXion White con Impact Brake System e tasselli predisposti per il montaggio dei chiodi AT Grip Spike per la corsa invernale













