The players: Pier Luigi Mussa

«Un tempo a Lanzo, 500 metri di quota, nevicava a inizio stagione e quei 20, 30 centimetri rimanevano per tre mesi, ora fa al massimo una spruzzata che si scioglie subito». Pier Luigi Mussa, classe 1956, vive da sempre a Lanzo, anche quando faceva il pendolare tutti i giorni per lavorare a Torino, in un’azienda del mondo delle telecomunicazioni. E in montagna ci va da fine anni ‘70. «La quota neve è salita di almeno 500 metri, ma non è l’unico effetto del cambiamento del clima: l’estate una volta finiva con i primi temporali dopo Ferragosto, oggi va avanti anche fino a ottobre  e poi pioveva quasi tutti i pomeriggi, ora molto meno, ma quando arriva il temporale fa danni».

Tutte osservazioni frutto di tanti giorni passati sulle sue montagne e di una passione per la meteorologia. Una delle tante, perché Pier Luigi non ama annoiarsi e anche lo scialpinismo era all’inizio solo uno dei tanti hobby. Più un modo per mantenersi in allenamento che una vera e propria passione. «Per un po’ di anni ho fatto un po’ di tutto: deltaplano, tanta montagna e alpinismo, bici e mountain bike, sci di pista e snowboard. Lo scialpinismo era un altro modo per andare in montagna anche in inverno, le prime uscite le ho fatte con gli scarponi da pista nello zaino e gli sci normali, poi ho comprato la prima attrezzatura vera da scialpinismo». Poi smette di fare deltaplano e quel modo di andare in montagna in inverno diventa davvero una passione. «Ho anche fatto parte del Soccorso Alpino e ho partecipato a tanti interventi, soprattutto per escursionisti e fungaioli che si erano persi». 

In anni di escursioni Pier Luigi non si è mai trovato a tu per tu con la valanga. «Ripensandoci, qualche rischio l’ho corso, ma soprattutto da giovane, poi ho cominciato a studiare la neve e con la conoscenza e con l’esperienza ho adottato un atteggia- mento conservativo, la montagna è talmente grande per scegliere i posti più sicuri, se li conosci, e poi è importante soprattutto sapere uscire con le condizioni giuste». Ed ecco che si arriva al consumismo, quella voglia di macinare, di consumare metri e metri, di salire solo sulle vette più iconiche e vendibili sui social, di cambiare sempre meta e vallata. Mentre lo scialpinismo è tanto bello per quel senso di attesa, di profonda conoscenza dei luoghi, di studio e preparazione della gita giusta e nel posto giusto. E anche per la rinuncia. O per la ripetizione. «Incontro sempre più spesso scialpinisti che sono in valle per la prima volta e poi scappano via alla ricerca di altri posti oppure che vanno al Ciarm del Prete in pieno inverno perché lì bisogna esserci stati prima possibile e poi postano relazioni su una brutta sciata, ma le gite vanno fatte nel periodo giusto. Oggi se non scii oltre una certa quota o fai solo mille metri di dislivello non va bene». Posti giusti nei momenti giusti, e allora dove? «Per esempio nel vallone degli Ortetti che è proprio qui sopra: io amo soprattutto itinerari molto vari, dove il terreno è aspro e cambia continuamente e spesso sono posti che in estate sono più difficili da raggiungere, perché la montagna in inverno si trasforma. E poi se sei uno scialpinista, come dice la parola stessa, passi quasi dappertutto». Magari però dove non sono passate le orde da social... 

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The players: Ezio Sesia

«La prima gita scialpinistica documentata di Adolfo Kind è stata proprio qui in valle, a fine dicembre 1896 e anche la prima ascensione di alpinismo invernale del CAI, il 24 dicembre del 1874 all’Uja di Mondrone» mi dice Ezio Sesia, classe 1955, mentre guida verso Cornetti, nell’alta valle di Ala, la centrale delle tre Valli di Lanzo. Non è facile trovare qualche fazzoletto di neve dopo settimane di alta pressione e vento e anche oggi il cielo è blu intenso e solo le vette delle montagne e i valloni in ombra conservano un po’ di oro bianco. E per parlare di scialpinismo vogliamo andare in ambiente, se poi riusciremo anche a fare una breve pellata, meglio. «Lo faccio per voi, dopo anni di gite e ora che ho il tempo a disposizione esco solo se ci sono le condizioni per divertirmi, se ne vale la pena». E di uscite con le pelli Ezio ne ha fatte tante visto che, insieme a Pier Luigi Mussa, nostro compagno di gita, ha scritto per i tipi di Mulatero editore Scialpinismo nelle Valli di Lanzo. Originario della valle, di Mezzenile, Ezio ha vissuto 45 anni a Torino, dove faceva il bancario, per poi ritornare in valle quando ha ottenuto il trasferimento lavorativo in zona. «Per me il primo gennaio del 2000 non è stato solo il passaggio del secolo, ma l’inizio di una nuova vita» scherza ricordando quella decisione.

In montagna, con o senza sci, Ezio ci è sempre andato. «In quegli anni tutti i bambini mettevano un paio di sci, si sciava nei prati, scalinando per salire». Ma lo scialpinismo è arrivato in un altro modo e quello spirito delle origini è rimasto dentro Ezio. «Era il 1973, avevo 18 anni e con una compagnia di amici con i quali ci ritrovavamo durante le vacanze estive decidemmo di salire per andare a vedere come erano con la neve quei posti tanto belli in estate, naturalmente con gli sci in spalla per tutta la salita». Fu amore a prima vista, però solo per Ezio. «Ancora oggi ci frequentiamo e qualcuno mi dice che vuole iniziare, ma non so se mai lo faranno». Questo non vuol dire che Ezio in montagna ci vada da solo. «Qualche volta sì, se la neve non è il massimo faccio anche fondo escursionistico, ma l’anno scorso sono caduto stupidamente, praticamente da fermo, e mi sono rotto la spalla: comunque mando sempre un sms a un’amica dicendo dove vado e poi al rientro». Spesso il compagno di gita è Pier Luigi, come oggi, ma in valle anche altri condividono la passione. «Ci siamo conosciuti a un torneo estivo di pallone e, ritrovandoci dopo alcuni anni, abbiamo iniziato a fare scialpinismo insieme». La valle non è il confine dei sogni di Ezio: «Se si organizza una macchinata con gli amici, andiamo anche altrove, ma la maggior parte delle volte rimaniamo nelle Valli di Lanzo, dove dopo anni comunque riusciamo ancora a trovare alcune varianti o addirittura qualche gita nuova». Ripetere gli stessi itinerari non a tutti piace, non è sempre così per Ezio. «Ce ne sono talmente tanti che non capita spesso, ma alcuni grandi classici vale la pena di rifarli, io vi consiglio sicuramente la Punta Rossa di Sea, un bell’itinerario in ambiente aperto; quando ci sono le condizioni merita davvero». Appunto, quando ci sono le condizioni, e per ora non ci sono, così, dopo qualche fotografia, torniamo all’auto e togliamo gli scarponi. «Segnatevi questa data: 24 febbraio, quel giorno nevicherà perché Ezio va a fare la settimana bianca in Val Venosta e quando esce dalla valle arriva sempre la neve» dice sorridendo Pier Luigi.

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Chiude Powder Magazine

Anche per uscire di scena hanno scelto lo stile leggero e inconfondibile che ha attraversato come un filo rosso tutti i 49 anni della loro storia, con la foto in bianco e nero di una ragazza che sorride e guarda la neve che cade dal cielo. Un po' come Radiofreccia che chiude un minuto prima di compiere 18 anni. La notizia, prima diffusa dal passaparola di Instagram e anticipata in un interessante articolo di Steve Casimiro, a lungo anima della rivista e ora editore di Adventure Journal, è ufficiale: Powder Magazine cesserà le pubblicazioni (e di conseguenza anche l’aggiornamento del sito internet e dei canali social) a partire dal prossimo 20 novembre. La comunicazione è arrivata venerdì scorso con una email ai dipendenti da A360 Media LLC, il gruppo editoriale (editore anche di tabloid e testate generaliste ad alta tiratura) di cui fanno parte Bike, Surfer e Snowboarder, altre testate che verranno chiuse.

«Non sappiamo se e quando questo iato finirà - scrivono sul sito della rivista statunitense - Sappiamo, però, che abbiamo ancora da lavorare e due numeri della rivista da fare». Il 16 novembre uscirà l’ultimo Photo Annual, il marchio di fabbrica di Powder, dal quale sono passati tutti i grandi nomi della fotografia di sci fuoripista e che ha creato mode e stili.

Powder ha attraversato epoche, mode, crisi, mantenendo sempre uno stile originale e producendo contenuti di qualità, nonostante il passaggio di diverse proprietà. «Sì, abbiamo giocato molto. Ma abbiamo anche lavorato molto, e credo di poter parlare a nome di tanti di noi quando dico che quelle serate passate a lavorare fino a tardi sono state magiche. Stressanti, sì, ma allo stesso tempo eravamo nella nostra piccola bolla, una manciata di persone unite nel tentativo di creare qualcosa di speciale e a suo modo importante» ha scritto Steve Casimiro. La parabola della rivista si è incrociata più volte con quella delle grandi case editrici nordamericane con numeri, obiettivi e costi sempre più inconciliabili con il mondo della neve e degli sport outdoor dove sopravvivono - negli States come in Europa - gli editori indipendenti. La crisi portata dalla pandemia ha fatto da detonatore. Proprio negli stessi giorni sul sito di Backcountry Magazine, altra rivista di riferimento nordamericana e principale competitor di Powder, è bene in evidenza un editoriale nel quale la redazione al completo sottolinea come la buyer’s guide uscirà con i consueti standard di qualità ma 16 pagine in meno, tutte di pubblicità, e chiede di sostenere i piccoli editori indipendenti. Il direttore editoriale della casa editrice di Backcountry, Tyler Cohen, ha scritto un interessante articolo sulla chiusura di Powder. «Il monitoraggio regolare di Powder ha portato in parte al nuovo logo e allo stile di copertina di Backcountry, ridisegnato l'anno scorso; ci ha spinto a includere più storie in ogni numero; (...) Powder ha contribuito a plasmare Backcountry, ben oltre la direzione di Adam Howard, CEO di Height of Land (editore di Backcountry, ndr), con la consulenza di Steve Casimiro». «Per 43 anni, Powder ha fatto tutte queste cose e le ha fatte molto, molto bene. Ora il mondo dello sci sarà più povero» conclude Cohen.

«Non sappiamo cosa ne sarà di Powder, solo che la sua assenza per un certo periodo di tempo sarà pesante per chi di noi è rimasto affascinato dalle sue parole e dalle sue immagini lungo il viaggio di 49 anni - scrive Sierra Sfaher, editor in chief della rivista - Ci auguriamo che vi abbia offerto una casa; un luogo dove gli sciatori possano venire per l'umorismo, la riflessione, l'ispirazione, l'onestà, e un piccolo assaggio della gioia che sappiamo si può trovare solo, come hanno scritto i redattori che fondarono la rivista, nell'allontanarsi dalla folla verso un luogo dove non ci sono linee, non ci sono impianti, non ci sono recinti e altri sciatori. Solo neve».

Auguriamo alla redazione di Powder di riuscire a trovare una forma per riaffermare il suo spirito libero, perché, come hanno scritto Dave Moe, Jake Moe e Bruce Bailey sul primo editoriale della rivista, per noi powder significa libertà, con un'enfasi non su come esserlo, ma solo su come esserlo sempre di più.


Transamericana

Probabilmente per la prima volta Salomon TV abbandona il format del cortometraggio per un film di 75 minuti. Lo fa con uno straordinario tempismo perché il viaggio di corsa e a piedi di Rickey Gates dalla South Carolina alla California, Transamericana, è un pellegrinaggio alla scoperta di un Paese che Rickey si rende conto di non conoscere, soprattutto quel cuore degli States dove è radicato il successo di Donald Trump. E Rickey parte da Folly Beach il primo marzo del 2017, poco dopo quell’elezione, per scoprire non solo i luoghi, ma soprattutto le persone, per capire, per conoscere meglio se stesso.

Il primo tempismo, voluto, è quello di andare alla scoperta degli States più profondi con il più antico mezzo di locomozione dell’uomo, i piedi, nel momento in cui ci si interroga sull’esito delle prossime elezioni. Il secondo, ancora più potente e non voluto, è che Transamericana è tutto quello che ci manca ora: abbracci, dialoghi con sconosciuti o amici, senza timore, senza mascherina, senza diffidenza e distanza. «Sono partito pensando di essere più diverso che simile e sono tornato pensando di essere più simile che diverso» dice Gates. Ecco, in fondo il segreto di Transamericana è proprio questa sfilata di persone, parole, stili di vita che si parano davanti ai passi leggeri di Rickey. Dopo un’ora abbondante quello che ti rimane dentro è proprio il senso del viaggio, della corsa come mezzo, per scoprire, per cambiare, per spurgarci da tutte le schiavitù quotidiane, per essere pienamente presenti in quel momento e in quel luogo. Certo poi ci sono gli straordinari panorami del deserto dello Utah o delle Montagne Rocciose, ma passano quasi inosservati, perché c’è anche tanta pianura tutta uguale o foreste di robinie degli Appalacchi, ma soprattutto perché c’è l’America delle persone prima ancora che dei luoghi.

Le soggettive di Rickey inquadrano volti, case, auto, negozi. Un diario on the road fatto di up & down, di momenti belli e difficili, quando senti di avere dato tutto e il tuo fisico non risponde più, quando per attraversare il deserto ti ingegni prima con un caddie da golf e poi con un passeggino e un ombrellino per trasportare un po’ d’acqua. Quando capisci che non puoi correre di notte e dormire di giorno semplicemente perché fa troppo caldo anche per dormire e trovi la soluzione più equilibrata (no spoiler). Quando devi dormire fuori, hai solo un poncho che serve anche da tenda e nevica. I appreciate è la parola più utilizzata da Rickey, apprezzo. Apprezzo il vostro interesse per me, il vostro aiuto, anche solo spirituale. «Sono le persone più povere quello che sono pronte a darti di più» osserva Gates. Cinque mesi e 3.700 miglia in 75 minuti, da Folly Beach a Ocean Beach a San Francisco, con la delicata curiosità di Gates e la collaudata regia di Wandering Fever. Per trovare la risposta al perché andiamo raminghi con le scarpe da trail. Da vedere.


Dolomiti Half Marathon Experience

l risultato dell’equazione della bellezza è, su per giù, 21. Ci rifletto la sera, stanco e abbronzato, dopo avere provato in fila il percorso dell’Alpe di Siusi Half Marathon e della Dolomites Saslong Half Marathon. Perché dopo che hai messo i tuoi piedi uno davanti all’altro per due giorni, immerso nella natura incredibilmente bella e unica delle Dolomiti nel cuore di un’estate particolarmente assolata, dimentichi tutto, anche la distanza coperta. E, probabilmente, il cronometro. Oppure è proprio questa bellezza che ti fa volare ancora più veloce. Non lo so, me ne frego come Achille Lauro, perché le emozioni superano tutto e quasi non mi ero accorto che due gare che si dipanano a pochi chilometri di distanza misurano entrambe la fatidica distanza della mezza maratona. E forse è anche questo il segreto del successo dell’Alpe di Siusi e della Dolomites Saslong, che sono riservate, rispettivamente, a 600 e 700 runner, perché anche la grande bellezza, per rimanere tale, deve essere per molti, ma non per tutti.

E poi tutti le hanno a disposizione sempre, come noi in questa breve ma intensa vacanza di corsa. Perché l’equazione della bellezza è 21, se vogliamo metterla in numeri, se vogliamo considerare una distanza umana.
Ma sta soprattutto nei percorsi e nell’ambiente nel quale si snodano come dei serpenti. E nel quale rimangono sempre, ben segnati, da provare e coprire al proprio ritmo, in un solo colpo o in sezioni, fermandosi nei mille rifugi gourmet piuttosto che al rifornimento. Perché l’Alpe di Siusi e la Val Gardena sono un immenso parco giochi per il runner, con tanti altri percorsi oltre a quelli delle gare, per cambiare itinerario ogni giorno e ubriacarsi di bellezza.

© Giuseppe Ghedina

E perché quest’anno, a causa dell'emergenza Covid-19, le due gare non si sono disputae. Ma i sentieri saranno comunque lì, anche solo per allenarsi nel 2020 in vista dell’edizione 2021. «È bello correre qui perché, diciamolo, all’Alpe di Siusi Half Marathon vieni per fare il tempo e guardare la classifica dà sempre soddisfazione, ma vieni soprattutto per farti del bene, per correre nella natura e nei panorami incredibili dell’altopiano» mi dice Egon Zuggal, allenatore FIDAL di atletica, istruttore di functional fitness e di mountain bike mentre proviamo lo strappo nei pressi dell’hotel Icaro, dove c’è un tratto di sentiero abbastanza breve ma in costante e decisa pendenza fino all’arrivo della telecabina che sale da Ortisei, al Mont Seuc. Egon, insieme a Rudi Brunner, specializzato in sport di resistenza e diagnostica della performance, tecnico ortopedico e anche lui allenatore FIDAL, organizza l’Alpe di Siusi Training Camp, una settimana prima della gara, per allenarsi e migliorare la propria tecnica di corsa. Il Training Camp prevede la prova del percorso in due diverse sessioni, ma anche analisi ortopedica del piede, clinic di corsa, functional fitness, corsetta al chiaro di luna con cena in baita, seminari sulla nutrizione sportiva. La mezza dell’Alpe di Siusi, misurata dalla FIDAL per corrispondere alla fatidica distanza di 21,0975 km, ha un percorso abbastanza dolce, quasi sempre corribile e senza difficoltà tecniche. Il dislivello è di 600 metri e i primi tre chilometri sono su strada asfaltata, ma si lascia presto il nastro di bitume per sentieri e strade forestali. Proprio all’inizio c’è forse il tratto più tosto, quello che ti può subito tagliare le gambe, questa salita dell’Icaro, breve ma intensa. Poi si fila via leggeri con lo sguardo che corre verso il Sassolungo e il Sassopiatto, lo Sciliar, il Sella. L’Alpe di Siusi è un grande altopiano al centro delle Dolomiti, con pascoli e baite dalle pendenze dolci. Si parte da quota 1.842 metri e si superano di poco i 2.100 metri. «Dopo il Mont Seuc si scende ad anello verso il punto di partenza della salita e ci si dirige verso Wiednereck, al chilometro 10, per salire alla Baita Rosa Alpina, a 2.015 metri e all’hotel Punta d’Oro, a 2.049 metri». Egon non fa in tempo a descrivere questa parte del percorso, che corre sul versante opposto dell’Alpe e chiude un anello che disegna una farfalla insieme a quello del Monte Seuc, che saliamo a pestare con i nostri piedi le mulattiere e i pascoli. Dalla Punta d’Oro si prosegue verso il Panorama, il Laurin e si scende al punto di partenza a Compatsch. La vista, se possibile, è ancora più bella, più sconfinata. Lo sguardo corre anche a Nord, verso l’Austria. Il terreno è un docile sali-scendi, con una riga bianca disegnata tra i pascoli e le baite. Di tanto in tanto delle passerelle di legno galleggiano sui campi in fiore. E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Saliamo di prima mattina al Monte Pana. Il cielo è terso e l’aria frizzante. Non ero mai stato quassù, a 1.616 metri di quota. I prati lasciano subito il posto ai boschi e gli scogli del Sassolungo e Sassopiatto ti sovrastano. Abbiamo appuntamento con Manuela Perathoner all’hotel Cendevaves. Manuela è la presidentessa dei Gherdëina Runners, 70 tesserati con nomi illustri come quelli di Alex Oberbacher, Christian Insam e Georg Piazza, ma anche tanti runner che hanno fatto della corsa una ragione di vita, con obiettivi di cronometro diversi. Manuela presiede anche il comitato organizzatore della Dolomites Saslong Half Marathon powered by Scarpa, in pratica un’emanazione dei Gherdëina Runners. «Prima della Dolomites organizzavamo la Mountain Run, con partenza da Ortisei e salita fino al Monte Seceda, 15,5 chilometri e 1.200 metri di dislivello, è stata anche Campionato italiano di corsa in montagna, ma non è mai davvero decollata» mi dice mentre corricchia per riscaldarsi attorno al laghetto nel bosco. Così a un membro del consiglio direttivo dei Gherdëina è venuta l’idea di disegnare una corsa attorno al Sassolungo e al Sassopiatto. «Alla prima edizione abbiamo chiuso le iscrizioni due settimane prima, alla quota massima di 400 persone, l’anno scorso i 600 pettorali sono andati sold out» dice con il sorriso sulle labbra Manuela. Già, la Dolomites Saslong è solo al terzo anno di vita ma è diventata una grande classica in grado di attrarre tre volte più runner della precedente gara. Il perché lo scopriremo poco dopo, ma forse volgendo lo sguardo alle cime sopra la nostra testa potrebbe già arrivare una prima risposta. Però i nostri occhi vengono attratti da altro. Un gruppo di persone con maglietta, pantaloncini e scarpe da running sta facendo ripetute sugli scalini del trampolino del salto con gli sci. Sono Birgit e Christian Stuffer, i proprietari dell’hotel Cendevaves, alla partenza e arrivo della gara, anche loro tesserati con i Gherdëina Runners. Si tirano dietro una decina di ospiti dell’albergo. Christian ha un personal best di 2h35’42’ nella maratona di Amsterdam, Birgit di 3h01’44’’ in quella di Francoforte. Hanno messo la corsa al centro del loro stile di vita e organizzano vacanze e stage a ritmo di running, con allenatori e atleti, anche keniani, oltre al pacchetto speciale per la Dolomites Saslong, con pasti e colazioni ad hoc, massaggio, late check-in il giorno della gara (cendevaves.it).

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Non c’è tempo di fermarsi troppo a chiacchierare della nostra passione, ci aspettano i 21 chilometri di percorso. Da qui si sale al Rifugio Comici, a 2.153 metri, per poi correre in leggera discesa verso la Città dei Sassi, un dedalo di massi davvero suggestivo, e il Passo Sella. Dal Sella si risale per il rifugio Salei e per svalicare in direzione del Rifugio Friedrik August e correre sul versante più selvaggio, con lo sguardo che vola verso il Latemar e la Val di Fassa. Restano il Rifugio Pertini e il Sassopiatto prima della discesa nel bosco della Val Scura, che riporta al Monte Pana. In tutto sono 21 chilometri e 900 metri di dislivello positivo, con il punto più alto a quota 2.363 metri. Non c’è un metro di asfalto, per metà si corre su sentiero, per l’altra metà su trail ghiaiosi. Ma soprattutto si corre facendo il giro del Sassolungo e Sassopiatto, rispettivamente 3.181 e 2.969 metri di dolomia pura, nel cuore di uno dei Patrimoni Mondiali dell’UNESCO. In fin dei conti è una piccola Sella Ronda, ma più selvaggia e lontana dalle strade. «Da Monte Pana si sale costantemente e in modo abbastanza regolare fino al Comici, poi l’altro strappo, più breve ma secco, è dopo il Passo Sella» dice Manuela. Al Comici, dove ci fermiamo per una pausa, abbiamo appuntamento con Alex Oberbacher, skialper (ha vinto l’ultima Mountain Attack versione Tour), un titolo di campione del mondo under 23 di vertical e vice-campione nella skyrace oltre che vincitore della prima edizione della Dolomites Saslong. «È più corribile della Mountain Run, c’è subito una salita dura, proprio fino qui al Comici, che fa la prima selezione, poi si corre in quota, su saliscendi dove si può andare veloci e alla fine una discesa a capofitto, ma ormai i giochi sono fatti» dice Alex. Dopo uno spuntino rigenerante riprendiamo il percorso verso il Passo Sella. Attraversiamo la Città dei Sassi, saliamo e svalichiamo per il Friedrich August. Il passo è leggero, gli occhi rivolti verso l’alto. La mulattiera diventa un sentiero, poi single track. La piramide del Sassolungo che vedevamo dal Monte Pana è prima diventata una torre piatta, poi una lunga cresta, poi una cresta interrotta da una forcella. Ogni metro che percorri il panorama cambia. Il bosco e la discesa della Val Scura portano un po’ di refrigerio. E non ti accorgi che sono passate ore, 21 chilometri e 900 metri. Quando si riparte?

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RACE TIME

Saltata l’edizione 2020, la prossima Alpe di Siusi Half Marathon è in programma il 4 luglio 2021. L’edizione 2019 è stata vinta da Massimo Farcoz in 1h09’17’’ (su Markus Ploner e Khalid Jbari) e da Tinka Uphoff in 1h23’14’’ (davanti a Petra Pircher e Marion Huber). Info: running.seiseralm.it

La Dolomites Saslong Half Marathon powered by Scarpa è in calendario anche nel 2021 a inizio giugno, il 12. Tutti le iscrizioni del 2020 verranno tenute valide per il 2021. L’edizione 2019 è stata vinta da Stefano Gardener in 1h41’32’’ (davanti a Georg Piazza e Daniele Felicetti) e da Petra Pircher in 2h05’44’’ (su Nicol Guidolin e Manuela Marcolini). Info: saslong.run

NON SOLO GARE

Il Running Park Alpe di Siusi è costituito da 27 tracciati circolari con una lunghezza totale
di 240 chilometri. Otto corrono tra i 1.800 e i 2.300 metri, mentre altri tra i 900 e i 1.100 metri, attorno ai paesi di Castelrotto, Siusi, Fiè allo Sciliar e Tires al Catinaccio. La quota dell’Alpe di Siusi offre le condizioni ideali per mettere alla prova muscoli e abilità e migliorare la resistenza, forse anche per questo qui si allenano maratoneti e squadre nazionali di sci di fondo.

CORSE GOURMET

Sono davvero tanti i rifugi dove la buona cucina è di casa tra le Dolomiti. Ne segnaliamo tre tra i tantissimi degni di citazione. Se vi trovate in vacanza all’Alpe di Siusi, non proprio sul percorso della Half Marathon, ma non lontano, merita una visita la caratteristica Tschötsch Alm (tschoetscherhof.com), in zona Bullaccia. Si mangiano piatti della tradizione a chilometri zero e si beve il vino di produzione interna del maso zu Tschötsch. Vicino al percorso della gara, in zona Icaro, c’è un classico, la Baita Sanon (sanon.it), che offre taglieri e piatti tirolesi nella rustica stube e sulla grande terrazza tra i prati. Alla fine della prima salita della Dolomites Saslong si incontra invece il Rifugio Emilio Comici (rifugiocomici.com), uno dei grandi classici della ristorazione dolomitica. In inverno è il regno del pesce fresco, in estate menù completamente rivoluzionato, con carni, paste, funghi e affettati e grande attenzione a servizio e impiattamento.

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Nadir Maguet, il Mago trasformista

È solo di pochi giorni fa la notizia che Nadir Maguet ha abbassato il record di salita e discesa dal Gran Paradiso, che resisteva dal 1995. Siamo andati a trovare Nadir a casa sua giusto qualche giorno prima del lockdown. Ecco cosa ci ha raccontato in quell'occasione.

Lo chiamano test Bertone e, a modo suo, è un metodo infallibile per valutare lo stato di forma e le potenzialità degli atleti. Non è proprio un test scientifico di laboratorio, come per esempio quello di Cooper, ma negli anni ha dato i suoi verdetti. Consiste in un vertical di corsa dalla base della Val Sapin, appena fuori Courmayeur, al rifugio Bertone, sul Mont de la Saxe: 700 metri circa di dislivello. Non una gara ufficiale, ma una tradizione per gli atleti del Centro Sportivo Esercito di Courmayeur, da ripetere un paio di volte l’anno, cronometrati uno alla volta. E un tempo da battere, quello di Damiano Lenzi, che resiste dal 2012. Fino all’inizio di ottobre del 2019, quando Nadir Maguet ferma il cronometro su 22 minuti e 35 secondi, qualche secondo in meno di Lence e e una ventina davanti a Davide Magnini. Alla vigilia della finale delle Golden Trail Series, il circuito di running outdoor più ambito per le medio-corte distanze, un ottimo riscontro per l’atleta valdostano. E la conferma dell’ultima transizione del Mago, dallo scialpinismo al trail e allo skyrunning, dopo quella dal fondo al biathlon, con un passaggio fugace nel calcio. Nadir parte per il Nepal al secondo posto nella classifica del circuito, dietro a Kilian e davanti a Magnini. Guardacaso tre skialper e – sempre guardacaso – con un vantaggio nel test su uno dei suoi avversari.

Dopo due mesi di alta pressione il cielo si copre velocemente. Mentre tagliamo gli ampi tornanti che portano a Torgnon, nella valle del Cervino, iniziano a scendere i primi fiocchi. Google Maps indica di svoltare a sinistra su una ripida e stretta rampa, fino ad arrivare a un piccolo parcheggio. Forse la neve è la risposta dell’oracolo alla nostra domanda. In effetti siamo saliti fin quassù per chiedere al Mago se dobbiamo considerarlo uno scialpinista o uno skyrunner. Scendiamo dall’auto nel cuore di un grazioso borgo di pietra con i tetti in ardesia, i fiocchi si fanno più consistenti. «Ciao Nadir, siamo al parcheggio, dove dobbiamo venire?». «Nella casa bianca, aspetta che esco sulle scale così mi vedi». Nadir si sbraccia, insieme a lui c’è Buck, un bellissimo esemplare di lupo cecoslovacco. Saliamo le scale, entriamo nell’accogliente pied-à-terre che da qualche mese il Mago condivide con la sua Sharon. Legno in abbondanza e grandi finestroni, con la neve che cade là fuori. Il posto migliore per una chiacchierata sulla fatica, in inverno e in estate.

Nadir, allora, sei uno scialpinista o uno skyrunner? «Me lo chiedono in tanti adesso. Ma, come in tutte le cose, ci sono sempre delle novità. Ho iniziato con lo sci di fondo, poi ho scoperto il biathlon, diventando anche campione italiano Ragazzi. Ho provato, per un anno, pure il calcio e non andavo male: volevano farmi fare un provino per il Torino, ma non mi piaceva l’ambiente. Così grazie a Teto Stradelli, che era mio compagno di scuola e faceva già gare di skialp, ho provato sci e pelli e ho sfidato mio padre nel vertical notturno del paese: se l’avessi battuto mi avrebbe comprato l’attrezzatura, che per quell’occasione mi ero fatto prestare. Inutile dire come è andata e che grazie a Marco Camandona ho iniziato ad allenarmi con lo sci club Corrado Gex. Ricordo ancora quella volta al Trofeo Vetan quando mi ha insegnato i cambi di assetto sull’asfalto, pochi minuti prima del via. Poi dai vertical sono passato alle individual e in estate ho iniziato a fare prove di sola salita per allenarmi, infine la salita ha lasciato posto anche alle skyrace, perché sono molto simili a una gara di scialpinismo. E così siamo arrivati all’estate scorsa quando ho deciso di partecipare alle Golden Trail Series e di fare la mia prima gara di quasi quattro ore, a Chamonix. Un’altra novità».

In ogni sport hai dimostrato il tuo valore, a Fully nel 2016 hai vinto nell’anno in cui c’erano tutti i big, mettendoti dietro due mostri sacri come Zemmer e Kilian, al primo anno delle Golden Trail Series hai collezionato il secondo posto alla Marathon du Mont Blanc e alla Dolomyths di Canazei e la vittoria alla Ring of Steal, presentandoti al secondo posto alle finali, dietro a quel Kilian che hai avuto davanti anche alla skyrace dei Mondiali scozzesi, nel 2018. «Sì e quel test Bertone faceva ben sperare, ero in gran forma. Poi al raduno della nazionale di skialp mi sono preso un virus intestinale che mi ha debilitato. Sono partito per il Nepal già non al top, anche se poi la situazione è migliorata, però in gara ho capito che non era giornata e non riuscivo a tenere il ritmo di Kilian e Davide. Ho cercato almeno di portarla a termine, ma non ce l’ho fatta e mi è tornato quel virus intestinale; peccato, ho chiuso il circuito al quinto posto».

© Chiara Redaschi

Ai primi due posti sono arrivati due scialpinisti, al quinto tu, che senza quel maledetto virus saresti stato sul podio. Possiamo dire che lo skialp è allenante?

«Non ci avevo pensato, però in effetti se consideri anche quanto è forte Eyda nell’arrampicata o Lence sulla bici potrebbe essere uno spunto interessante, in effetti non saprei, bisognerebbe fare il gioco al contrario e vedere come vanno nello skialp gli atleti top nel trail e nello skyrunning».

Dunque non hai una risposta alla nostra domanda, allora mettiamola così, ti piace di più sciare o correre?

«Lo scialpinismo ha più obblighi perché faccio parte di un corpo militare, nella corsa è tutto ancora da inventare e in parte da scoprire. Il piacere è uguale, ogni sport ha la sua stagione e per come sono io non potrei fare la stessa cosa tutto l’anno. Andare sui ghiacciai in estate? Anche no, come correre in pieno inverno. Conosco le mie potenzialità sugli sci e ho ancora margini, ma credo di averne di più nello skyrunning. Più che altro su dieci gare di scialpinismo quelle dove sto veramente bene sono la metà, nella corsa diciamo otto su dieci. Non so ancora perché, devo lavorarci, forse dipende dall’allenamento, forse dal tipo stesso di movimento. Trovo che il running sia più dinamico, ci sia più leggerezza, mentre i movimenti dello skialp sono più lenti. Prendi per esempio il vertical: è tanto bello e armonioso con le scarpe da corsa quanto lento e goffo con sci e scarponi».

Le skyrace sono simili alle gare individual dello scialpinismo, sia come impostazione che come tempi, alla Marathon du Mont Blanc invece hai corso per la prima volta sulla distanza maratona e sei arrivato pure secondo. Come hai fatto?

«Era tutto nuovo per me, non sapevo come avrei reagito su una gara di quasi quattro ore invece delle abituali due o meno, così ho cercato di tenere un basso profilo, soprattutto nei primi 17 chilometri, quando è molto veloce, facendo un po’ l’elastico sui migliori per mantenere un’andatura abbastanza costante. Poi nella seconda parte, quando inizia la lunga salita finale, ho visto che ne avevo e ho fatto gara con Davide. I programmi erano questi e li ho rispettati».

Chi ti ha consigliato?

«La Marathon, come tutte le gare, l’ho preparata con Stephanie Jimenez, che segue la mia preparazione atletica. Con lei mi trovo molto bene e allena anche il marito, Fulvio Dapit, basta guardare i risultati… Ci siamo conosciuti in aereo andando alla The Rut, negli Stati Uniti, qualche anno fa. Prima mi seguiva un po’ Manni Reichegger ma poi, quando sono entrato anche io nell’Esercito e lui era ancora atleta, ho pensato di rivolgermi a Stephanie. Anche se stiamo lontani ci sentiamo tutti i giorni e ha accesso al mio account Movescount».

Dal Vertical alla maratona, il passo verso le ultra è breve…

«Non mi interessano, almeno per ora, almeno fino a quando avrò due stagioni, magari a fine carriera una UTMB o anche un Tor potrebbero starci, ma è un pensiero molto lontano».

Scialpinismo, trail e skyrunning sono tre mondi molto vicini, con fatica e dislivello al centro: sono più i punti in comune o le differenze?

«Più che in generale tra i tre sport, farei una distinzione tra le Golden Trail Series e il resto, soprattutto su come sono gestite e comunicate. Prendi per esempio la Coppa del Mondo di scialpinismo: si corre con poco pubblico e per gli atleti non c’è visibilità. Alle Golden Trail Series ti intervistano prima e dopo la gara, producono un video per ogni tappa dove fanno vedere i momenti più importanti con la voce dell’atleta a commentare, c’è un live streaming. E poi la formula della finale alla quale partecipano solo i primi dieci, portando anche un accompagnatore, ti fa vivere a stretto contatto con gli altri, fino alla gara c’è un bello spirito, quasi di vacanza, mentre nelle altre occasioni sei sempre solo».

Una risposta che tira un’altra domanda, che piega sta prendendo lo scialpinismo agonistico? Cosa pensi del sogno olimpico?

«Si è puntato tutto su format che siano spendibili per la televisione e lo spettacolo, come le sprint, che ci stanno. Però devono rimanere anche gare tecniche e fuoripista che sono l’essenza dello scialpinismo, invece in Coppa del Mondo ci sono sempre più tratti in pista e percorsi meno tecnici».

C’è qualcuno con cui hai legato di più alle Golden Trail Series e nel mondo dello scialpinismo?

«Alle Golden Trail Series, soprattutto alle finali, un po’ con tutti perché c’era davvero un bello spirito, è stata come una vacanza, un’occasione per condividere l’esperienza, anche con persone come Thibaut Baronian che viene dal mondo del trail e non conoscevo. Poi in gara ognuno ritorna avversario. Nello scialpinismo ho fatto coppia con tanti, ma quello con cui ho più feeling è Kikko Nicolini».

A guardare questa stagione sarebbe stato un bel giro di valzer, da Hermann alla Monterosa Skialp a Aymonod con cui avresti dovuto correre all’Altitoy fino a Eydallin che sarebbe stato il tuo compagno al Tour du Rutor…

«Con Hermann è stata dura e non abbiamo ancora gareggiato (questa intervista l’abbiamo fatta proprio qualche giorno prima della gara, l’unica delle tre che si è svolta, ndr). Mi sa che è l’ultima volta che faccio coppia con lui perché mi ha già subissato di domande (ride). Con Henri Aymonod mi trovo bene, però ogni tanto ci prendiamo in giro perché lui ama parlare e io invece sono abituato ad andare in montagna da solo e sono di poche parole, con Eyda ho uno dei ricordi più belli, il secondo posto al Tour du Rutor che è anche la gara con la quale sono più in sintonia per l’ambiente d’alta montagna e perché ha tante tappe ma non troppo lunghe».

Skyrace e individual sono la versione estiva e invernale di una filosofia simile, però ci sono gare più nervose, con continue salite e discese, magari corte, e altre con poche sezioni, una o due lunghe salite o discese. Quale preferisci?

«Sicuramente quelle regolari, come regolare è il mio ritmo, la gara estiva ideale sarebbe la Aosta Becca di Nona che riprende proprio quest’anno e che purtroppo non riuscirò a fare perché coincide con un’altra gara del mio calendario. Anche nello scialpinismo quando cambio assetto riprendo alla stessa velocità, con un ritmo regolare, guarda invece Magnini e Boscacci: loro uscendo dal cambio guadagnano subito margine e poi si stabilizzano».

Mentre siamo nel garage della casa di famiglia, dove c’è anche la ski room di Nadir, apre un cassetto e tira fuori tutti i pettorali. Ci sono quelli più recenti e i primi, insieme a qualche medaglia. In un angolo è appoggiato anche il trofeo della Transcavallo.

Se dovessi dire due gare estive e due invernali sopra a tutte?

«In inverno dico il terzo posto alla Pierra Menta con Boscacci e il secondo al Tour du Rutor con Eydallin, in estate in effetti ho fatto meno gare, potrei citare la vittoria a Fully e poi forse quella alla Ring of Steal o il secondo posto a Canazei, però mi piaceva molto anche la skyrace dei Mondiali giovanili di skyrunning al Gran Sasso, tecnica e in un bel paesaggio».

I materiali sono importanti, sia in inverno che d’estate, quanto sei maniaco in materia?

«Essendo pigro, sono attento ma non esageratamente. Gli sci me li preparo io quando mi alleno qui a casa, ho in dotazione due La Sportiva Gara Aero World Cup 70 più quello per le sprint e due scarponi Stratos Cube, uno per le gare e uno per gli allenamenti. Come attacco uso ATK, mentre in estate prevalentemente le Kaptiva, anche se per alcune gare più corribili come a Chamonix metto ai piedi le Helios. Non avevo mai riflettuto sull’importanza del peso delle scarpe da trail prima, ma alla fine 50 grammi di differenza su prodotti che ne pesano al massimo 300 sono più rilevanti di 50 grammi in uno scarpone in carbonio».

Non ti viene mai voglia di andare in montagna per il piacere di stare fuori, senza l’assillo dell’allenamento, di fare una bella sciata in compagnia o una passeggiata?

«Faccio scialpinismo per l’insieme del gesto atletico e la discesa non è una parte così importante per me e poi mi piace stare nella natura da solo, quando esco con gli sci o le scarpe da trail riesco davvero a staccare. Però in qualche lungo mi accompagna mio papà o Henri Aymonod. Vorrei andare oltre la competizione fine a se stessa, per questo ho iniziato ad arrampicare con regolarità per migliorare la parte alpinistica perché la prossima estate vorrei fare qualcosa in velocità e in quota, magari un concatenamento di cime. Potrebbe essere il giusto completamento dell’agonismo stesso».

Insomma, non sei uno sciatore, non sei un trail runner, cosa vorresti essere?

«Se fosse per me la guida di caccia».

Mentre finiamo di parlare fuori è già tutto bianco, la neve scende copiosa. L’oracolo continua a lanciare il suo messaggio. Ma forse non c’è una risposta, il Mago è tutto questo insieme, scialpinista, skyrunner, trail runner. Ogni sport che ha praticato ha regalato soddisfazioni, magari le avrebbe regalate anche il calcio. La risposta sta nel suo nome. Nadir in arabo significa prezioso, straordinario. Come chi eccelle in molto.

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© Chiara Redaschi

Cosa resterà di quei formidabili anni ‘90

È di questi giorni la notizia del record di Franco Collé sul Monte Rosa. Il suo non sarà probabilmente l'unico record di skyrunning di un anno senza gare e si inserisce in una storia gloriosa che nasce proprio con il record del 1988 di Valerio Bertoglio sullo stesso itinerario. Su Skialper 129 abbiamo ripercorso l'epopea dello skyrunning in quei favolosi anni '90 e per celebrare l'impresa di Franco ve la riproponiamo.

Nel 1988 Valerio Bertoglio è salito e sceso da Staffal, nella valle di Gressoney, alla vetta del Monte Rosa, in 5h29’33’’. L’anno dopo Marino Giacometti ha coperto il percorso Alagna-Punta Gnifetti andata e ritorno in 6h07’07’’. Valerio, Marino e i primi mountain runner, inconsapevolmente, hanno acceso la scintilla che avrebbe infuocato tutti gli anni ’90 e l’inizio del secolo, ma soprattutto hanno dato vita allo sport di velocità in montagna e, indirettamente, al mondo meno estremo del trail running, che li avrebbe poi fagocitati. Scrive il professor Giulio Sergio Roi, nel 1995 tra i fondatori della FSA (Federation for Sports at Altitude) nell’interessante libro Skyrunning, l’abc di chi corre in quota pubblicato da Correre: «La parola skyrunner è stata introdotta da Marino Giacometti all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, proprio per indicare quello che allora era chiamato mountain runner, che partendo da un paese del fondovalle tentava di raggiungere la vetta di una qualsiasi montagna, situata a una quota maggiore di 2.000 metri, lungo il percorso più breve e nel minor tempo possibile. La quota di 2.000 metri, che indica il limite inferiore della media quota, è stata arbitrariamente scelta come la quota al di sopra della quale gli effetti dell’altitudine cominciano a diventare importanti, poiché comincia a essere evidente la riduzione della massima potenza aerobica che penalizza le prestazioni di lunga durata e può già comparire il mal di montagna».

Tutte le intuizioni hanno bisogno di sognatori e visionari e anche lo skyrunning ha avuto i suoi, a partire da Marino Giacometti, dallo stesso Giulio Sergio Roi e da Enrico Frachey. Il primo è stato atleta e inventore di uno sport al quale ha dato regole e organizzazione attraverso la FSA e poi l’International Skyrunning Federation, il secondo, medico dello sport, ha posto le basi per studi sulle prestazioni in alta quota che ancora oggi fanno discutere. Frachey, amministratore delegato di Fila e grande appassionato di montagna, agli inizi degli anni ’90 aveva capito la potenza comunicativa dello sport di velocità in quota e incoraggiato Giacometti a organizzare la prima gara in altitudine. Perché le due parole chiave di un’epoca forse irripetibile sono proprio quota e velocità e sono alla base di tutta la filosofia fast & light che permea la nostra passione per la montagna. «Lo skyrunner è un atleta che fa della velocità un fattore di sicurezza» dice Giulio Sergio Roi. E lo fa in alto. Tutto il movimento dello skyrunning è un ingranaggio perfetto per lo spettacolo e per studiare la prestazione sportiva in altitudine. Per arrivare a intuirne i limiti estremi.

Il 28 luglio 1991 quattro atleti – Adriano Greco, Marino Giacometti, Angelo Todisco e Sergio Rozzi – partecipano alla prima edizione della salita al Monte Bianco da Courmayeur con ben 52 chilometri di sviluppo, vinta da Adriano Greco in 8h48’25’’. Al Monte Bianco si disputarono tre edizioni consecutive, fino al 1993, e la gara faceva parte del Fila Skyrunner Trophy. Il tempo migliore è quello del 1993 di Adriano Greco (7h06’31’’), poi nel 1994 il maltempo costrinse ad annullare la prova e non se ne fece più niente. Ma era scattata la scintilla. Dal 1992 al 1998 si organizza il Fila Skyrunning Trophy, poi diventato Skymarathon Trophy, Skymarathon Circuit e Skyrunning Circuit. È un’epopea fantastica con regole semplicissime: si parte dal fondovalle e si raggiungono le cime più famose delle Alpi, tutte sopra i 3.000 e molto spesso i 4.000 metri, rientrando a valle nel minor tempo possibile. Nel 1992 si sale sull’Adamello, sul Monte Rosa e sul Monte Bianco e sono 51 in totale gli atleti-alpinisti iscritti. Il Monte Rosa è la gara più longeva, disputata nel 1992 (anche se su percorso modificato causa maltempo), 1993, 1994 e 1996, poi dal 2002 al 2011 rinasce come Monte Rosa Sky Marathon, ma su un percorso diverso. Nel 1995 si inizia a correre anche sul Bretithorn occidentale e nel 1998 Cervinia ospita il primo Campionato Mondiale di Skyrunning che vede al via 46 atleti di 18 Paesi. La Skymarathon, vinta da Bruno Brunod, arriva proprio fin sul Breithorn Occidentale, a 4.165 metri.

Adriano Greco nel 1993 sul Monte Bianco ©Dario Ferro/FSA

L’idea di correre in alta quota esce dai confini alpini e si iniziano a disputare gare in Messico, in Kenya e in Tibet. In America si corre sull’Iztaccihuatl, fino a 5.286 metri. Nel 1996 la prima edizione è stata vinta da Ricardo Meija. Nel 1995 sul Mount Kenia (5.199 metri) si assiste all’avvincente duello tra quelli che saranno due degli indiscussi protagonisti di quegli anni: Fabio Meraldi e Matt Carpenter. La spunta il valtellinese in 5h03’22’’. Meraldi era stato anche protagonista di un episodio che ha dell’incredibile proprio in Messico. La gara del 1996 avrebbe infatti dovuto disputarsi sul vulcano Popocatépetl (5.465 m) ma il percorso fino alla vetta non era accessibile per motivi di sicurezza perché il vulcano era attivo. Fabio e Pep Ollé vollero comunque fare un giro esplorativo in vetta e furono arrestati al rientro perché le guardie del parco avevano visto le loro tracce sulla neve. Il viaggio dello skyrunning oltre i confini dell’Europa ha un significato ben preciso: sempre più in alto. Così si arriva al punto massimo dello studio della prestazione in quota, la Everest Skymarathon, corsa nel 1992, 1993, 1994, 1995, 1996 e 1998. La prima edizione della Everest Skymarathon raggiunge quota 5.050 metri, mentre le altre si svolgono su anelli con dislivelli inferiori ai 200 metri. La distanza è quella della tradizionale maratona, anche se solo quella del 1998 è stata certificata dall’Association of International Marathons and Distances Races. Quattro gare vengono disputate a quota 4.300 metri, una a 5.200 metri. A parte la prima, con 1.470 metri di dislivello positivo, vinta da Greco e Meraldi, le altre sono state vinte tutte da Matt Carpenter. «Carpenter è stato l’atleta, dal puro punto di vista della corsa, più forte che ho potuto studiare, mentre quando iniziavano le difficoltà, non essendo un vero skyrunner, emergevano altri» dice Sergio Giulio Roi. La miglior prestazione ufficiale su maratona a 4.300 metri è proprio quella di Matt Carpenter nel 1998 con 2h52’57’’, mentre, seppur non certificata, quella a 5.200 metri è sempre dell’americano in 3h22’25’’. Le maratone in quota hanno permesso la realizzazione del Peak Performance Project, un progetto di ricerca scientifica promosso dalla FSA. L’obiettivo era rispondere ad alcune domande: è pericoloso correre in quota? Danneggia cuore e cervello? Qual è il limite della prestazione in alta quota? «Il Peak Performance Project ha portato a numerose pubblicazioni scientifiche e si è scoperto che è possibile correre ininterrottamente per 42 chilometri sopra ai 5.000 metri e in un percorso pianeggiante non innevato è teoricamente possibile utilizzare la corsa come forma di locomozione fino a un’altitudine di 7.000 metri» dice Sergio Giulio Roi. Altre scoperte? Si può correre a 4’/km sopra i 4.000 metri, lo skyrunner sale a circa 1.200/1.500 metri di dislivello ora, anche di più nelle gare corte e scende fino a 3.000 metri/ora, non sono emerse patologie significative legate alla prestazione in quota e negli atleti che hanno corso fino a 5.000 metri non si sono mai riscontrati casi di mal di montagna.

«I dati raccolti sugli skyrunner che hanno partecipato a maratone disputare a livello del mare e in alta quota in Tibet, a 4.300 e 5.200 metri, indicano che in termini di prestazione gli atleti meno veloci sono più penalizzati in quota rispetto ai più veloci. Ad esempio il vincitore della maratona evidenzia a 4.300 metri di quota un peggioramento di velocità del 21 per cento rispetto al record personale a livello del mare, mentre l’ultimo classificato evidenzia un peggioramento di velocità circa doppio, del 42 per cento; queste caratteristiche sono dovute alla diversa capacità di sfruttare un’elevata percentuale della massima potenza aerobica, al diverso costo del lavoro dei muscoli respiratori in quota e solo in parte alle diverse caratteristiche dei terreni» dice Sergio Giulio Roi. Gli anni ’90 volgono al termine, ma non la voglia di exploit in alta quota, che tocca anche altri sport. Nel 1998 nasce lo SkySki du Mont Blanc, che si corre fino al 2002. È un raid di skyrunning, scialpinismo e alpinismo inventato da Romano Cugnetto per promuovere la preparazione sportiva e la velocità in montagna come concetti di sicurezza. Si corre da La Villette, vicino a Courmayeur, fino al Rifugio Torino, poi si mettono gli sci per toccare Col du Rochefort, Flambeau, d’Entrèves, Base de la Vierge, Col du Rognon e si raggiunge l’Aiguille du Midi con tecnica alpinistica. È una gara a squadre e la prima edizione la vincono Ettore Champretavy e Leonardo Follis che coprono i 30 chilometri e 3.500 metri di dislivello in 3h48’30’’. Già nel 1992 si era corsa la Skyraid Adamello che prevedeva bici, skyrunning e alpinismo, ma la massima espressione di questi raid  multisport è stata nel 2002, in occasione dell’anno internazionale delle montagne, con l’Alpine Skyraid da Courmayeur a Cortina d’Ampezzo. Le squadre di tre-quattro atleti dovevano percorrere 500 chilometri e 23.000 metri di dislivello (in otto tappe) utilizzando la bici o mountain bike fino a 2.000 metri di quota, fino ai 3.000 in assetto skyrunning e oltre con tecnica alpinistica o scialpinistica. Per la cronaca la vittoria andò al Team Vibram di Stephane Brosse, Bruno e Dennis Brunod, Jean Pellissier in 27h00’40’’ e al Team Fila di Gisella Bendotti, Arianna Follis, Gloriana Pellissier e Alexia Zuberer. La combinata tra skyrunning, sci e bici era diventata di moda già prima e nel 2000 è stata organiz- zata la prima Olimpiade d’alta quota, gli Skygames, sulla scia delle imprese skybike di Giacometti del 1993 al Monte Rosa e del 1997 al Monte Bianco, raggiunto in 23 ore da Genova unendo bici e skyrunning.

Poi piano piano si è scesi di quota, lo skyrunning ha dato origine ad attività meno tecniche e meno d’élite, si è diffuso il trail running e la corsa del cielo è rimasta un sogno per pochi eletti. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile grazie ai favolosi anni ’90. Sabato 23 giugno 2018 Franco Collé e William Boffelli hanno chiuso la salita e discesa da Alagna alla Capanna Margherita in 4h39’59’’ in quella che è stata la prima edizione moderna della gloriosa gara del Monte Rosa, rinata a coppie sulla distanza di 35 chilometri e 7.000 metri di dislivello totale. La Monterosa Skymarathon si è disputata anche nel 2019 e, al momento di andare in stampa, è ancora in calendario, ma rinviata a luglio e in data da destinarsi. Il Monterosa segna il ritorno dello skyrunning alle sue origini: sport d’elite, per pochi, oltre i 2.000 metri, che richiede progressione anche con i bastoncini, con tratti attrezzati o l’uso delle mani. E dei gran polmoni. Come quelli che servono alla Dolomyths, al Kima, alla Pikes Peak, al Sentiero 4 Luglio o al Uyn Vertical Courmayeur Mont Blanc. Perché lo skyrunning è sempre stato vivo. E il futuro ha un cuore antico.

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Matt Carpenter in Messico © Dario Ferro/FSA

Eric delle Montagne

All’inizio di marzo del 2001 una marea umana di uomini senza diritti partiti dal Chiapas entra a Città del Messico dopo avere attraversato 12 stati e percorso oltre 3.000 chilometri. È la grande marcia del subcomandante Marcos «per reclamare infine i diritti degli indios, umiliati per cinque secoli e violentati dal liberismo selvaggio che ha strappato loro l’ultima manciata di mais» come scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 26 febbraio 2001. Le centinaia di migliaia di persone avanzano lentamente, al ritmo della musica sparata a palla da un camion. Su quel camion ci sono i 99 Posse, band napoletana, ed Eric Girardini, venticinquenne di Lentiai, in provincia di Belluno. Festeggia gli anni proprio in quei giorni e fa partedelle oltre duecento tute bianche antiglobalizzazione italiane che assicurano il servizio d’ordine. «Ero l’unico ad avere dei cd e così mi sono ritrovato sul quel camion» dice oggi Eric seduto nella sua casa di Lamon, ai piedi del monte Coppolo, l’ultimo paese veneto prima di accedere alla valle del Primiero. Cosa ci faceva una Guida della Scuola delle Aquile di San Martino nel cuore della marcia zapatista a Città del Messico? La storia è un po’ lunga.

Lentiai, quota 261 metri sul livello del mare, alla fine degli anni Settanta è il paradigma dell’Italia pre-crisi e cambiamento climatico. Dietro casa ci sono le colline, d’inverno fa ancora freddo e la neve, oltre a cadere dal cielo, rimane a terra a lungo. I genitori di Eric gestiscono un piccolo supermercato e lavorano tutto il giorno. Così Eric e suo fratello Manuel stanno con Katia, la baby sitter. «Baby sitter, ma in realtà aveva qualche anno in più di noi ed era maestra dello sci club, in quegli anni si poteva, anche se non aveva il patentino» dice Eric. Le giornate invernali si trasformano in un piccolo paradiso. Il padre la mattina li accompagna in alto, al Pian di Coltura, dove c’era una rudimentale manovia, e loro sciano lì tutto il giorno. Il rientro fuoripista fino all’uscio di casa con gli sci, passando per il Colderù, dove abitava Massimo Braconi. «Massimo è di un’altra generazione, me lo ricordo, ma non ci siamo frequentati, lui era l’unico Maestro di sci con il patentino in paese». C’è anche lo sci club, il Lentiai, che durante le vacanze scolastiche riempie due corriere ogni giorno verso le piste di sci. E tra le case arrivava una gara di scialpinismo, proprio nella piazza centrale. «La neve c’era sempre, la portavano solo sugli ultimi metri, lungo la strada, ricordo che una volta vinse il mio Maestro del club, lo soprannominavamo cinghiale: non era fortissimo in salita, ma vinceva in discesa». Poi arriva la scuola,il liceo classico. Neanche il tempo di diventare maggiorenne e il temperamento ribelle di Eric lo porta lontanoda casa. «Sono scappato e sono andato a vivere con i ragazzi dei centri sociali, per un periodo avevamo due realtà autogestite in una cittadina piccola come Feltre. Dopo quel mese in Messico ho partecipato attivamente al G8 di Genova che è stato una batosta per tutti i movimenti, con una repressione mostruosa; così ho iniziato a riavvicinarmi ai miei genitori che avevano bisogno di aiuto in negozio e a ritornare in montagna per appagare quel bisogno di libertà così insito nella mia indole». L’approccio è abbastanza ribelle, d’altronde al DNA non si può mentire ma, come avviene a quei ragazzi che sbattono poco dopo aver preso la patente, distruggendo l’auto ma uscendone illesi, è proprio il suo trascorso ribelle ad averne fatto una delle Guide più affidabili tra la neve delle Dolomiti.

«Un giorno mi sono presentato in ufficio da Diego Dalla Rosa e gli ho detto che avrei voluto sciare con lui: mi ha risposto di fare il corso del CAI e l’ho fatto, presentandomi con un paio di Rossignol Bandit, tra i primissimi sci larghi: gli istruttori giustamente mi frenavano sempre in discesa!». Dopo le prime discese in solitaria (tra cui una in notturna del Monte Pavione terminata con tre ore di autostop a Imer alle tre di mattina con sci alla mano e scarponi ai piedi perché Arnaldo detto Napoli aveva rotto la coppa dell’olio della Citroen per accompagnarlo su per il Vallon de Aune ed era rimasto bloccato lassù e senza telefono) Diego accoglie Eric nel suo gruppo. Diego Dalla Rosa, classe 1952, da quelle parti (e non solo) è un’istituzione. Va forte sulla roccia e in discesasulla neve. Con Roberto De Bortoli, Aldo Bortolot e Maurizio Manolo Zanolla dà vita alle Formiche Rosse, arrampicatori funamboli contro il sistema. Ma è in discesa che Diego lascia tracce indelebili. Negli anni d’oro dei Valeruz e Vallençant è uno dei precursori del ripido tra le sue montagne, le Vette Feltrine e le Pale di San Martino, sua la prima e unica discesa in sci dalla vertiginosa parete Sud del Sass de Mur. «Diego ha fatto decine di prime discese, ma si sapoco, perché le ha fatte per lui, non per la gloria. Le Formiche Rosse venivano dal movimento studentesco degli anni ‘70, hanno rotto gli schemi dell’alpinismo, facevano parte di quella generazione ribelle dei Berhault ed Edlinger. Anche il nostro modo di andare in montagna era un po’ dissacratorio, almeno a me sembrava così; oltre a Diego ed altri c’era anche Hermann Crepaz, ancora oggi il mio socio preferito per le uscite in montagna, con un curriculum invidiabile di prime discese non ripetute, dalle Pale alle Vette Feltine. Eravamo tra i primi a usare gli sci larghi dalle nostre parti, ci guardavano come degli astronauti». Hermann è anche tra i fondatori del King of Dolomites e il sodalizio con Diego, Eric e gli altri amici ha una marcia in più nello stare insieme. «Siamo sempre stati così, nessuno di noi era un superfenomeno, ma come gruppo ci siamo fatti notare e poi, dopo le gite, nelle feste al bar aumentava l’ego di tutti. È il bello dello sci, quello stare insieme che in cordata non provi, perché ti muovi sempre da solo anche se sei legato a un’altra persona».

© Alice Russolo

Le gite scorrono veloci, le pendenze aumentano, ma scorre anche la vita, con i suoi eventi. Un giorno, durante un’escursione facile di fine stagione, una valanga travolge un compagno di avventura di Eric, Luca, sepolto appena fino allo zaino, ma ucciso dal peso della neve. Qualche tempo dopo tocca a Eric finire sotto la neve. «Ero sulla Marmolada, la neve mi ha trascinato per 700 metri, facendomi fare un salto di 50 metri: sono vivo per miracolo perché due scialpinisti – uno si chiama Salvatore di nome e di fatto, l’altro Ivan, non potrò mai scordarmelo – hanno visto i miei sci affiorare. Da quel giorno mi sono detto che avrei voluto diventare Guida alpina per acquisire maggior consapevolezza nel mio muovermi in montagna». Eric è testardo e quando si mette in testa una cosa la ottiene. Così passa subito il corso Aspiranti e ora quel ragazzo che si è trovato nel cuore della marcia zapatista è una Guida di San Martino.

Raccontato così sembra un romanzo, ma non è stata una passeggiata. «Ho deciso di vendere l’attività di famiglia, anche se me lo sconsigliavano tutti e i primi anni non sono stati facili, ho dovuto spingere, e poi venivo da un paese di collina dove le Guide non sapevano neanche cosa fossero e sono andato in una valle; ancora oggi c’è qualcuno che mi guarda con diffidenza perché sono forestiero, un ‘Talian. D’altronde San Martino di Castrozza e il Primiero hanno una lunga tradizione di isolamento. «La prima strada d’accesso dal Feltrino è stata costruita nel 1875, prima c’erano solo sentieri o mulattiere impervie, perché nel 1500 Feltre è stata distrutta dall’invasione austro-ungarica scesa dal Primiero e volutamente l’accesso alla valle è stato mantenuto così, per frenare eventuali truppe». Però San Martino è anche uno dei posti più incredibili per chi ama lo sci e la montagna. E le Pale, che hanno stregato anche una mente profondamente illuminata comequella di Dino Buzzati, sono montagne uniche al mondo. «Sono stupende per arrampicare e sciare, le amo particolarmente d’inverno anche se per il mio lavoro sono meno redditizie di altre località iper frequentate delle Dolomiti, ma mi piacciono proprio per questo… Amo anche il Lagorai, ma non ha la stessa verticalità che provi nelle Pale, per me la montagna è roccia e neve, soprattutto canali: ho sempre cercato l’estetica e tra le Pale mi sento appagato, mi piace pensare all’estate, quando arranco su quelle pietraie che ora solco veloce. Lo sci è il motivo per cui sono diventato Guida, prima scalavo di più, soprattutto in falesia, ma con il passare degli anni è sempre più dura portare avanti difficoltà se hai poco tempo». Il curriculum di Eric è di tutto rispetto, anche se non è un tipo che ama stare lì a snocciolarti le sue prime, non gli interessa. Forse perché, come Diego Dalla Rosa, lo fa per se stesso. «E poi da noi è difficile nello sci dire se è veramente la prima discesa, anche se sono sicuro che con Hermann e Diego ne abbiamo fatte molte, comunque possiamo dire di avere sciato belle linee con il nuove tra virgolette. Ai Vani Alti c’è forse il canale più estetico, simile all’Holzer, incassato e chiuso, esposto a Nord. Poi ricordo la Cima di Ramezza, sulle Vette Feltrine, la parete Nord del Colbricon italiano. Ah, dimenticavo, la Nord del Piz de Sagron, nelle Vette Feltrine, è stata forse il nostro apice. Probabilmente è una prima, ci sono solo notizie vaghe di una discesa di Mauro Rumez, ma non si sa con precisione se abbia sciato quella parete». C’è un aneddoto che fa capire che cosa rappresentano la salita e la discesa per Eric. Qualche anno fa, quando non era ancora Guida, ha sciato la Nord del Lyskamm con scarponi da discesa noleggiati ad Alagna, penso che il negoziante si ricordi ancora, non ci credeva e quando li ha riportati non ha voluto nulla, diciamo che è stato contento di rivederli. «Vado forte in salita, ho anche fatto qualche garetta dicorsa, però non m’interessa, meglio qualche etto di attrezzatura in più, ma l’obiettivo è la discesa». E va forte anche in discesa…

«Il mio terreno sono i canali, ma sono sempre stato più portato per la velocità che per le curve strette». Logico che anche l’attrezzatura che usa segua questo teorema. «Usavo Black Crows perché ho sciato qualche volta con Bruno Compagnet, da due anni sono passato ad Armada, grazie anche all’aiuto del mitico Macho di Prosport di Vicenza, un negoziante illuminato, uno che ci crede sempre e comunque, che mi ha dato una mano e sostiene diversi rider. Il mio set-up? Ne ho vari: lo sci da tutti i giorni è il Tracer 98, poi ho un 88 per le gite lunghe e la primavera, un ARV116 JJ e lo sci di Tof Henry, Declivity X. Son tutti belli, il 116 è sbananato e divertente nei boschi, il 98 va bene davvero dappertutto, il Declivity perfetto per il ripido ampio, diciamo più sul Monte Bianco o sulla Marmolada che dietro casa». Al piede mette Roxa, attacco Armada Shift o Ski Trab Tr2 e per l’abbigliamento c’è Salewa con cui ha sviluppato diversi progetti tra cui uno short film di 15 minuti sullo sci nelle Pale (youtube – salewaski -mountaineering). L’attrezzatura da sogno deve pur supportarli questi sogni.

«Quest’anno voglio andare in Francia a fare il Chourum des Olympiques, una discesa ripida che si infila in duegrotte, l’anno scorso mi sono preso una bella soddisfazione nel Vallon delle Scandole, di fianco alla Nord dell’Agner, 1.900 metri di discesa ripida ma non estrema, in condizioni super top, in una zona un po’ defilata delle Pale». E il futuro? «Nei primi anni di professione ho fatto molti viaggi e spedizioni, ora, con due figli e un terzo in arrivo, nel tempo che mi rimane in inverno mi obbligo ad andare a sciare con gli amici per riprendermi la mia passione, fuori stagione curo l’orto e i campi con mia moglie Daniela e mia suocera e cerco di rendermi autonomo dal punto di vista energetico». Tutto quello che coltiva, dai prelibati fagioli di Lamon agli ortaggi, basta per quasi un anno grazie al congelatore, la legna che raccoglie nei boschi scalda la casa. «È un impegno, richiede tempo, ma mi sono reso conto che più lavori, più spendi: per andare a lavorare spendi, se guadagni di più ti senti giustificato a spendere, così ti accorgi che rinunciando a qualcosa e dedicando più tempo a te stesso e alla famiglia, la qualità della vita aumenta, anche se non è un equilibrio facile da trovare. E poi lo faccio anche per i miei figli Pietro e Anna, perché si rendano conto dell’importanza della terra e della natura. Se stai in montagna e fai la stessa vita della città non ha senso». Già, la terra, quella stessa terra per la quale gli indios hanno percorso oltre 3.000 chilometri fino a Città del Messico. Tutto torna.

© Alice Russolo

Questo articolo è stato pubblicato su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui


Marco De Gasperi diventa brand manager Scarpa per il trail running

«La fiamma è ancora troppo accesa, non mi accontenterò di fare la mezz’oretta da pensionato, voglio ancora provare a togliermi delle soddisfazioni nel trail, soprattutto sulle distanze ultra». Partiamo dalla fine, rewind. Poco fa abbiamo terminato di parlare con Marco De Gasperi proprio mentre rientrava in auto da Asolo verso la sua Bormio. La notizia del Dega brand manager per il trail running in Scarpa era troppo ghiotta per relegarla a un semplice comunicato stampa. Perché Marco De Gasperi rappresenta per il movimento della corsa in natura quello che Kilian Jornet rappresenta per il fast and light in montagna. Il palmarès di Marco parla da solo: sei titoli di Campione del Mondo di Corsa in Montagna, una medaglia da Campione europeo, undici Coppe del Mondo, due titoli Europei di Skyrunning, senza dimenticare le imprese che l’hanno portato a realizzare dei record che non venivano infranti da oltre vent’anni. E una carriera - non ancora finita, a giudicare dal virgolettato che riportiamo sopra - che spazia dalle prime, eroiche, gare di skyrunning degli anni ‘90 alla corsa in montagna e all’ultra-trail. Non puoi liquidare con una velina l’arrivo di uno così dietro alla scrivania (si fa per dire) dove si decidono le strategie di uno dei marchi che hanno fatto la storia calzaturiera dell’Italia alpina.

I rumours erano già nell’aria da settimane, da quando De Gasperi aveva annunciato il suo addio ai Carabinieri, ma mancava l’ufficialità sul marchio e il ruolo. Si pensava soprattutto allo sviluppo dei prodotti. Invece non è così, o almeno non è solo così. «Mi occupo di prodotto, naturalmente, ma il mio ruolo va oltre, sono il referente per tutta l’area del trail running, dagli eventi, agli atleti, fino alle gare perché c’è l’idea forte di portare la tradizione e l’immagine di Scarpa, leader nell’hiking, nell’alpinismo, nell’arrampicata e nello scialpinismo, anche nel mondo della corsa in natura, partendo da prodotti già affermati per fare un ulteriore salto in avanti e consolidare la reputazione tra chi corre». Forse non è il momento più felice per iniziare una nuova avventura, ma tu sei abituato a stringere i denti… «Ti confesso che quando è iniziata l’emergenza ho pensato che un’azienda in questo momento così difficile per tutti avrebbe potuto dire ‘fermiamoci un attimo, aspettiamo’, invece in Scarpa non si sono fermati perché c’è una grande voglia di affermarsi come leader anche nel trail, perché è un passo che non si può più rinviare. E questo mi dà ancora più energie». È un lavoro che passa più per lo sviluppo dei prodotti o per l’immagine? «Passa da tutte le parti, lo dice il mio ruolo stesso. Partiamo da scarpe valide e dal grande know-how del marchio, poi dobbiamo creare un vero team partendo dagli ottimi atleti che già abbiamo, dobbiamo creare lo spirito di gruppo, perché gli atleti vanno aiutati; dobbiamo stringere accordi con gare importanti e vicine alla nostra idea di montagna e di trail». Quando parli di atleti hai già qualche idea per il futuro? «Credo che non ci sia un team che, al femminile, ha i punti ITRA del nostro: penso a Elisa (Desco, ndr), a Francesca Canepa, ma anche a Ilaria Veronese e a Silvia Rampazzo che ha fatto la storia del marchio nel trail e che in qualche modo vogliamo che rimanga legata a noi. Però vorrei anche fare crescere dei giovani, abbiamo già inserito Luca Del Pero e Lorenzo Beltrami, nei quali credo. Ci sono Daniel Jung e Gil Pintarelli, che sono forti, e a livello internazionale continueremo con Joe Grant e Hillary Gerardi, ma non ti nascondo che mi piacerebbe anche fare entrare qualche nome top a livello internazionale. Questa stagione, vista anche la situazione, servirà per creare lo spirito di gruppo e rodarci». La tua lunga esperienza cosa ti dice: dove sta andando il trail running? «C’è una fetta sempre più grande di principianti, che arrivano al trail dalla città o dalla corsa, non dalla montagna, e che cercano scarpe comode e sicure e ci sono aziende di altri mondi che credono sempre di più nel trail, questo è il trend più forte che vedo, però non va dimenticato l’appassionato che arriva dal nostro mondo, che è sempre più appassionato ed esigente».

Che ambiente hai trovato ad Asolo? «Un bel gruppo, giovane, con tanta voglia di emergere. Io ho portato la mia esperienza, che è soprattutto tecnica e sportiva, poi sono loro che hanno dato forma alle scarpe e credo che, un po’ perché il trail lo consente, un po’ perché è un campo dove c’è più libertà rispetto al grande heritage del marchio, abbiano dato ancora più sfogo alle loro doti creative». Dunque, quando vedremo le prime scarpe dove c’è anche il tuo zampino? «Già nella collezione primavera-estate 2021». Troverai il tempo di allenarti, visto che hai confessato che le scarpe al chiodo non hai intenzione di appenderle? «Spero di riuscire a togliermi delle soddisfazioni, perché non ho raggiunto ancora tutti i miei obiettivi, e poi stare all’interno del team mi può aiutare a essere un brand manager migliore». Allenatore in campo, per vincere. In bocca al lupo Marco.

Da sinistra, l'ad Bolzonello, il presidente Parisotto e De Gasperi

Great Himalaya Trail, 24 giorni che ti cambiano la vita

In questi giorni in cui abbiamo tutti un po' voglia di evadere e andare lontano riproponiamo l'articolo sul Great Himalaya Trail e l'impresa del runner sudafricano Ryan Sandes. Per non smettere mai di sognare

Dopo ventiquattro giorni, quattro ore e ventiquattro minuti oppure 1.504 chilometri o ancora 70.000 metri di dislivello positivo su e giù per i sentieri dell’Himalaya con i tuoi piedi impari due lezioni che ti aiuteranno a trovare la strada giusta per il resto della vita. «Dobbiamo apprezzare le cose semplici, ci affanniamo per avere sempre di più e non ci godiamo la nostra famiglia e quello che abbiamo: se sei felice potrai inseguire i tuoi sogni, però se vivi per inseguire i tuoi sogni ma sei infelice, non li realizzerai mai». La prima lezione sembra (ed è) un insegnamento buddista. «Sono stato in villaggi minuscoli, lontani da tutto e da tutti, con tanta povertà, eppure sono felici e ti aprono la porta alle undici di notte, nel buio immenso, ti preparano da mangiare e ti fanno dormire senza chiederti chi sei, mentre noi abbiamo perso il giusto punto di vista e per ritrovarlo non ci rimane altro che scappare dalla civiltà e dal bombardamento di informazioni e social media, camminare nella natura, correre per ritornare in noi stessi». I Beatles andarono in India per ritrovare la loro ispirazione. Il trail runner sudafricano Ryan Sandes, il primo uomo a vincere tutte e quattro le 4 Deserts race, l’uomo che ha vinto una gara ultra-trail in ognuno dei sette continenti, tra le quali anche la Leadville e la Western States, non è nuovo a imprese da record nella natura, eppure il lungo viaggio del Great Himalaya Trail, da un confine all’altro del Nepal, lo scorso marzo in compagnia dell’amico e compagno di tante avventure Ryno Griesel, lo ha fatto tornare a casa diverso. È un viaggio incredibile, dalle vette più alte del mondo alla giungla. Ma è anche un viaggio alla scoperta di se stessi. «È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita, in positivo. Penso che sia stata la tappa finale di un percorso, la cosa più grande che abbia mai fatto e sono molto soddisfatto, ma non la ripeterei».

Il Great Himalaya Trail non è un solo sentiero, ma la combinazione di vari itinerari sia nella parte montuosa del Nepal (GHT High Route) che in quella più popolata e ricoperta dalla giungla (GHT Cultural Route) e va da un confine all’altro del Paese, lungo la direttrice Ovest-Est. Per questo, sebbene Ryan e Ryno abbiano fatto segnare il FKT (fastest known time), non si può parlare di vero e proprio tempo record in quanto un crono di riferimento non esiste data la possibilità di alternative lungo il percorso e le varianti imposte dai tanti imprevisti. Quello seguito dai due sudafricani ripercorre fedelmente le orme del connazionale Andrew Porter dell’ottobre 2016 ma, per esempio, Lizzy Hawker, nel 2016, ha fatto segnare un tempo di riferimento lungo la parte in quota del GHT, tra le montagne. «Quello che volevamo non era un record a tutti i costi, ma un’avventura che unisse la bellezza delle vette più alte del mondo alla possibilità di conoscere la cultura e le città perché per me, che vengo da Città del Capo, trail running significa correre nella natura, ma non in montagna». Una lunga avventura… «Dopo la vittoria alla Western States 100 dello scorso anno cercavo proprio qualcosa del genere e l’Himalaya mi ha sempre attirato, però mi spaventava la lunghezza del percorso perché voglio anche continuare a partecipare alle gare ultra e devo avere il tempo di recuperare». Già, la lunghezza: muoversi a piedi per 24 giorni consecutivi, con una media di 16 ore di attività e poco tempo per dormire e ancora meno occasioni per farlo in un letto, è stato l’aspetto più duro del Great Himalaya Trail di Ryan. «Il ritmo era lento, più lento di quanto sono abituato, e anche questa è stata una sfida: ci sono stati giorni nei quali abbiamo camminato per 20 ore e altri per 12, notti passate nelle case dei nepalesi in villaggi isolati dal mondo e momenti nei quali ci fermavamo giusto una ventina di minuti ogni tanto per dormire sul sentiero o su qualche tavola di legno usata dai pastori, piuttosto che nei loro ripari di fortuna». Impossibile pensare di dormire all’addiaccio nella prima parte del percorso, in quota e in parte ancora innevata, più pratico farlo verso la fine, negli ultimi 300 chilometri, quando Ryan e Rino hanno camminato e corso nella giungla, con temperature che superavano i 30 gradi. Per trovare la motivazione in quei 25 lunghi giorni Ryan si è inventato degli obiettivi giornalieri, ragionando step by step, ma non è sempre stato facile.

©Red Bull Content Pool/Dean Leslie

L’altro aspetto che ha reso difficile il Great Himalaya Trail, soprattutto nella prima parte, è stato l’orientamento. Faceva freddo e il percorso era ancora in parte ricoperto dalla neve. «Ci siamo affidati al GPS, ma di tanto in tanto dovevamo fermarci dieci minuti per ritrovare la traccia; abbiamo calcolato che ogni giorni, in media, perdevamo fino a tre ore per orientarci e in una di queste pause Ryno si è procurato il congelamento di alcune dita della mano perché siamo saliti fino a 5.500 metri di quota con temperature di - 15 gradi e il vento che accentuava la sensazione di freddo».

Quella del cibo è stata la sfida nella sfida. Per scelta e per alleggerire gli zaini è stato deciso di fare tutto il Great Himalaya Trail procurandosi da mangiare lungo il percorso, come dei normali turisti: acquistandolo o facendosi ospitare dai locali. Solo in tre punti c’è stata la possibilità di cambiare gli zaini e i vestiti e nelle tasche trovava spazio qualche barretta, gel o lattina di Red Bull. «Alla fine il mio corpo mi diceva che non ne poteva più di quell’alimentazione e sono stato male un paio di giorni: i nostri pasti consistevano di frittata, riso e lenticchie quando avevamo la fortuna di essere ospiti, oppure di biscotti e cioccolato comprati alle bancarelle e non era proprio l’ideale durante una traversata di 1.500 chilometri».

La mattina del 19 marzo, a 40 chilometri da Patan, Griesel ha iniziato a soffrire di spasmi muscolari nella zona del torace ed è andato in iperventilazione. «Ho veramente temuto che da un momento all’altro cadesse a terra sul sentiero: aveva i battiti del cuore molto alti e la febbre» ricorda Ryan. Mai come in questo momento la fine dell’avventura è stata vicina. «Da una parte non avrei mai voluto che Ryno avesse dei problemi seri di salute, dall’altra so quanto ci teneva a portare a termine il Great Himalaya Trail e che il ritiro sarebbe stata la più brutta notizia per lui, è stato il momento più difficile per tutti». Ci sono mali fisici e mentali e i fantasmi hanno iniziato a popolare il cervello di Ryan. «Ho iniziato a pensare a mio figlio di 19 mesi e a come fosse cresciuto durante questi 24 lunghissimi giorni: quanto mi fossi perso!». Per non farsi mancare nulla, negli ultimi giorni Ryan si è anche imbattuto in una gang locale che, nella notte, li ha inseguiti tra le montagne, anche con le luci delle frontali spente, fino a quando i due non sono arrivati a una locale stazione della polizia. Questo ultimo contrattempo non ha impedito l’arrivo a Pashupatinagar, sul confine con l’India, alle prime luci dell’alba del 25 marzo.

Tre mesi dopo la grande avventura rimangono un centinaio di chilometri in più non preventivati, il messaggio di congratulazioni di Lizzy Hawker, tante energie, la velocità delle gambe ancora da recuperare. E la consapevolezza di avere vissuto 24 giorni che hanno cambiato le vite di Ryan e Ryno.

©Red Bull Content Pool/Dean Leslie

Il Great Himalaya Trail

Il Great Himalaya Trail (GHT) non è un vero e proprio sentiero ma una combinazione di itinerari. Quello seguito da Ryan Sandes e Ryno Griesel ha comportato la partenza da Hilsa, al confine con il Tibet, e l’arrivo a Pashupatingar, dove il Nepal confina con l’India, lungo la direttrice da Ovest a Est. Le stime prevedevano 1.400 chilometri e 70.000 metri di dislivello, ma alla fine la lunghezza totale è stata superiore di poco più di 100 chilometri. Questo percorso è quello seguito dal sudafricano Andrew Porter nell’ottobre 2006 e portato a termine in 28 giorni, 13 ore e 56 minuti. Ryan e Ryno si sono consultati a lungo con Andrew e sono passati da 12 precisi checkpoint che coincidevano con quelli di Porter. Cinque semplici regole hanno dato un senso all’impresa: autonomia nell’orientamento e nell’alimentazione, acquistando il cibo lungo il percorso o facendosi ospitare dai locali, nessun uso di sherpa e muli, pernottamenti all’aperto o nei lodge e nelle case per non appesantire lo zaino, utilizzo di una compagnia di trekking locale per cambiare gli zaini in tre occasioni e l’assistenza per i permessi. Il sito di riferimento per il Great Himalaya Trail, con tutte le informazioni utili per chi volesse percorrere anche solo una parte del GHT, è www.greathimalayatrail.com

I 12 checkpoint

  1. Hilsa
  2. Simikot - km 77
  3. Gamgadhi - km 150
  4. Jumla - km 193
  5. Juphal - km 280 o Dunai - km 290
  6. Chharka Bhot - km 380
  7. Kagbeni - km 444
  8. Thorang La Pass - km 463
  9. Larkya La Pass - km 561
  10. Jiri - km 928
  11. Tumlingtar - km 1.075
  12. Pashupatinagar - km 1.504

 

Gli altri record

  • Sean Burch (UK): 2010 - 49 giorni, 6 ore, 8 minuti (2.000 km - da Est a Ovest, combinazione dell’High e del Cultural GHT).
  • Lizzy Hawker (UK): 2016 - 42 giorni, 2017 - 35 giorni (circa 1.600 km - da Est a Ovest - prevalentemente sulla High GHT Route, evitando i tratti tecnici che richiedono passi di arrampicata).

 

I NUMERI

  • 70 km la lunghezza minima delle tappe giornaliere
  • 120 km la lunghezza massima percorsa al giorno
  • 500 m il dislivello minimo giornaliero
  • 000 m il dislivello massimo giornaliero
  • 124 palle di riso mangiate
  • 43 palle al curry
  • 300 barrette di cioccolato
  • 600 cookie
  • 46 donuts
  • 2 pizze
  • 24 lattine di Red Bull
  • 3 ore di sonno a notte in media
  • 2 le volte che Ryan e Ryno hanno potuto lavarsi i denti
  • 0 le docce fatte lungo il percorso
  • 24 giorni, 4 ore, 24 minuti il tempo fatto registrare da Ryan Sandes e Ryno Griesel

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 119, INFO QUI

©Red Bull Content Pool/Dean Leslie

Prova a prendermi

Questo pomeriggio alle 17 sul nostro account Instagram saremo in diretta con François Cazzanelli. Per ripassare l'argomento, ecco l'intervista pubblicata lo scorso agosto su Skialper. Ma da allora François non si è fermato...

Mentre camminiamo ai piedi del Cervino, su quei prati e quelle pietraie che in inverno vedono sfrecciare centinaia di migliaia di sciatori, François si ferma e si china. Raccoglie un pezzo di carta, poi uno di plastica, poi ancora il tappo di una bottiglia di vino. «Fai una fotografia alla mano con questi rifiuti? Ogni volta che salgo in montagna raccolgo quello che trovo e a fine stagione voglio fare un post con tutte le foto: si parla tanto di rifiuti e di inquinamento, ma se ognuno di noi iniziasse a raccogliere quello che trova, la montagna sarebbe più pulita». François Cazzanelli, classe 1990, è in quel momento della sua carriera alpinistica in cui succedono tante cose. L’ultimo anno è stato un susseguirsi di colpi di scena. Prima il record delle quattro creste del Cervino, a settembre, con Andreas Steindl: 16 ore e 4 minuti per polverizzare il tempo di 23 ore di Kammerlander – Wellig del 1992. Poi, un paio di settimane dopo, la nuova via Diretta allo Scudo sulla parete Sud del Cervino, aperta con Emrik Favre e Francesco Ratti. Un sogno iniziato dal padre, anche lui Guida alpina, e sul quale François metteva gli occhi dal 2012, alla ricerca di una soluzione nella parte più ripida. Poi a fine maggio la doppia ascesa sulla vetta del Denali, in Alaska, in una settimana, con la terza ripetizione italiana della difficile Cresta Cassin, in velocità: 26 ore e 45 minuti dal campo 4, 18 ore e 58 dalla terminale. Una linea che di solito viene chiusa in diversi giorni. In mezzo altre imprese che non fanno record, ma curriculum: il Mount Vinson, in Antartide, a gennaio; la traversata integrale estiva delle Grandes Murailles con Kilian Jornet in 11 ore; il tentativo di traversata invernale delle creste della Valtournenche, dal Theodulo alle Petites Murailles, passando per il Cervino. Ce n’è per gonfiarsi il petto, invece la ricetta Cazzanelli parte dal basso, dal rispetto e dall’umiltà.

 

IL CERVINO CI GUARDA, CHE COSA RAPPRESENTA PER FRANÇOIS CAZZANELLI?

«È la mia scuola di vita, la mia fonte d’ispirazione, mi ha formato: quello che ho imparato qui mi ha permesso di raggiungere le vette di tutto il mondo».

È UN SIMBOLO, UN PO’ COME L’EVEREST, DOVE SEI SALITO L’ANNO SCORSO. E, IN SCALA DIVERSA, PRESENTA GLI STESSI PROBLEMI DI AFFOLLAMENTO.

«Guarda, devo essere sincero, io questi problemi di affollamento e di sporcizia di cui si parla tutti i giorni, come pure le storie di morti appesi alle corde da anni, le ho trovate un po’ esagerate. Per quanto riguarda le file va però detto che l’anno scorso la finestra di tempo era stata più ampia. In vetta sono arrivato con l’astronauta Maurizio Cheli, con l’ossigeno perché dovevo garantire la sicurezza del cliente, poi qualche giorno dopo il Lhotse, con Marco Camandona, l’abbiamo raggiunto senza bombole e in stile alpino. Credo che non sia giusto criticare i nepalesi per il business dell’Everest. Sull’Everest per ogni cliente lavorano tre nepalesi, ciò significa permettere a tre famiglie di mangiare. Anche sul Cervino, fin dall’inizio, già nei sogni di Carrel, l’obiettivo era quello di aprire una via dove poter accompagnare i clienti, portando così ricchezza alla propria valle. Anche qui stiamo razionalizzando l’accesso, abbiamo ridotto i posti letto alla Capanna Carrel per migliorare la sicurezza e mantenere pulita e in ordine la nostra montagna. A differenza del Monte Bianco, nulla è vietato. Ripulendola ho trovato perfino un assorbente sotto i materassi che era lì da chissà quanto tempo. Se vogliamo criticare il sistema Everest, allora per essere coerenti dobbiamo togliere le corde fisse dal Cervino».

QUANTE VOLTE SEI STATO IN VETTA AL CERVINO?

«L’ultima ieri, e fanno 68. Una media di 11-13 a stagione, l’anno scorso 18 volte grazie al concatenamento delle quattro creste. Il numero è un valore relativo, quello che mi piace sottolineare è che ci sono salito da 15 vie diverse».

DAL CERVINO AL DENALI, L’ULTIMA STELLA SULLA TUA GIACCA. RACCONTACI COME È ANDATA E PERCHÉ SIETE SALITI DUE VOLTE IN VETTA.

«Le due salite in una settimana sono la ciliegina sulla torta, ma onestamente non ci contavo. Quando il 22 maggio siamo arrivati al campo 4, ci hanno comunicato che la finestra meteo favorevole sarebbe stata di sole 24 ore; a quel punto con Francesco Ratti abbiamo deciso di fare un giro di perlustrazione sulla West Rib per vedere l’attacco della Cassin. Poi, arrivati al colle, avevamo un mare di nubi sotto di noi e sopra il bel tempo, così siamo saliti fino in vetta, dopo 9 ore di scalata, alle otto di sera».

E LA CRESTA CASSIN?

«La salita vera e propria l’abbiamo fatta il 28 maggio, sempre con Francesco. Siamo partiti presto con Teto e Roger, poi loro hanno proseguito sulla West Rib. Siamo scesi per la Seattle Rump e in 4 ore e 20 minuti eravamo alla base della via. Dieci minuti per preparare il materiale e rifocillarci e poi via. Le condizioni al Japanese Couloir non erano delle migliori, c’era parecchio ghiaccio, ma siamo riusciti a cavarcela velocemente. La traccia delle due cordate davanti a noi ci ha aiutato parecchio e in poche ore siamo arrivati al ghiacciaio pensile. La prima rock band ci ha riservato un’arrampicata splendida, mai difficile e molto divertente. Arrivati in cima abbiamo superato le altre due cordate: una stretta di mano, un po’ di incoraggiamenti reciproci e poi su verso la seconda rock band. Abbiamo trovato agilmente il couloir nascosto e lo abbiamo superato. In cima a questo tratto, a circa 5.000 meri, ci siamo fermati a mangiare qualcosa. Il passaggio successivo era superare la terza rock band, ma è stato più difficile: per i successivi 400 metri avremmo dovuto tracciare la via con la neve alle ginocchia. La notte stava arrivando e abbiamo deciso di fermarci due ore a riposare e bere dentro la tendina monotelo. Alle due del mattino è venuta l’ora dell’attacco alla vetta. Faceva molto freddo, circa -36 con vento a 45 chilometri orari. Gli ultimi 700 metri sono stati difficilissimi. Stringendo i denti, finalmente alle 7 del mattino eravamo al sole e in vetta».

RIPENSANDO A QUEI GIORNI, QUAL È STATA LA CHIAVE DEL SUCCESSO?

«La strategia, la strategia di non rimanere per lunghi giorni nel gelo del campo 4, ma di attrezzarlo e poi tornare a valle, all’aeroporto, a quota 2.170 metri, dove la vita è più agevole e abbiamo potuto regalarci anche qualche comodità in più, dai grandi pannelli solari per alimentare l’attrezzatura alle pizze per festeggiare la prima salita in vetta».

LE PIZZE, CROCE E DELIZIA, SAPPIAMO CHE NE VAI GHIOTTO.

«È vero, in Alaska siamo diventati amici dei piloti e siamo riusciti a farcene portare quattro nei cartoni, poi le abbiamo scaldate su dei fogli di alluminio con il fornelletto, devo dire che non erano niente male».

COME AVETE DECISO LA STRATEGIA DI RIMANERE IL MENO POSSIBILE AL CAMPO 4?

«Me l’ha suggerita Andreas Steindl, compagno di avventura sulle quattro creste del Cervino, che era già stato al Denali. C’è una considerazione però che va oltre questa strategia: è stata possibile grazie alla nostra velocità. Mi spiego meglio: la prima volta, dall’aeroporto al campo 4, con pesanti zaini sulle spalle, ci abbiamo messo 8 ore e 45 minuti. Abbiamo dormito lì due notti e siamo rientrati a valle. Quando siamo saliti in vetta per la West Rib ci abbiamo impiegato 6 ore e 30 minuti e abbiamo dormito una sola notte al campo 4. Infine quando siamo saliti per la Cresta Cassin ci abbiamo impiegato solo 4 ore e 20 minuti. E sono 24 chilometri da 2.170 a 4.327 metri di quota».

LA VELOCITÀ È TUTTO?

«La velocità non è fine a se stessa, ma è una qualità. E in questo caso è stata una qualità vincente».

© Damiano Levati/Storyteller Labs

LA VELOCITÀ PRESUPPONE LA LEGGEREZZA, COSA AVETE USATO SULLA CRESTA CASSIN?

«Ramponi, piccozze, una corda da 35 metri, una serie di friend, una tenda monotelo, una bombola di gas, un fornello, due sacchi da bivacco, cibo e naturalmente abbigliamento imbottito in piuma».

PERCHÉ LA TUA CARRIERA ALPINISTICA È STRETTAMENTE LEGATA AL CONCETTO DI FAST & LIGHT?

«Forse perché arrivo dalle gare di scialpinismo. Così ho iniziato a fare delle gite e delle alpinistiche con gli amici e mi sarebbe piaciuto tornare da solo, in libertà, veloce e senza pensieri. È un alpinismo che mi appaga molto e mi fa sentire libero».

È UNA DOMANDA BANALE, MA IL CONCETTO DI VELOCITÀ È STRETTAMENTE LEGATO A QUELLO DI TEMPO. CHE COSA È PER FRANÇOIS CAZZANELLI IL TEMPO?

«Nonostante le polemiche sui record e la loro omologazione, credo che rimanga comunque un fattore immediatamente tangibile, anche nell’alpinismo dove ci sono altri aspetti da tenere in considerazione».

E IL RISCHIO?

«Il rischio c’è, in montagna come nella vita, ma credo che sia relativo. Relativo alla propria esperienza, allo stato di forma, alla tecnica, a tanti fattori».

LA VELOCITÀ È UN FATTORE DETERMINANTE, MA ANCHE L’ALLENAMENTO. IN UN POST HAI SCRITTO CHE LA CRESTA CASSIN È STATA POSSIBILE PERCHÉ VI SIETE PREPARATI METICOLOSAMENTE TUTTO L’INVERNO. COME TI ALLENI?

«Mi alleno semplicemente andando in montagna, in estate con roccia, corsa e mountain bike, in inverno con ghiaccio, alpinismo e soprattutto lo scialpinismo. Con mio cugino Stefano Stradelli mettiamo sempre in programma quattro-cinque gare, poi magari ne aggiungiamo altre se riusciamo. Quest’anno abbiamo fatto, tra le altre, la Pierra Menta e il Mezzalama. Però non ho un preparatore atletico e non ho fatto qualcosa di particolare questo inverno rispetto agli altri, vado molto a sensazione. Quello che volevo dire con quel post è che nulla arriva per caso. Dietro alle imprese c’è tanto studio della via, tanta preparazione fisica ma anche tanta attesa della finestra giusta. Come atleti e alpinisti abbiamo una grande responsabilità, i nostri exploit vanno spiegati, altrimenti in tanti, per imitazione, metteranno le scarpe da trail per andare in vetta al Cervino. Facendo la Guida vedo troppa improvvisazione, troppe persone impreparate per quello che stanno affrontando».

DOPO IL TANDEM CON MARCO CAMANDONA, IL TUO TALENT SCOUT NELLO SCIALPINISMO, SI È FORMATO QUELLO CON FRANCESCO RATTI…

«Con Francesco mi trovo molto bene in montagna abbiamo la stessa maniera di valutare i rischi e pericoli. Il tentativo di traversata delle creste della Valtournenche di questo inverno lo dimostra. Con Camandona ho un rapporto speciale, per me è come un secondo papà e mi ha insegnato molto. Con lui siamo stati al Churen Himal, al Kangchenjunga, all’Everest e al Lhotse e a settembre ripartirò per l’Himalaya».

RACCONTACI DI PIÙ DELLA TRAVERSATA INVERNALE DELLE CRESTE.

«A febbraio siamo partiti dal Theodulo con l’idea di attraversare il Furggen, il Cervino (salendo la via degli Strapiombi di Furggen), salire la Dent D’Hérens, le Grandes Murailles e le Petites Murailles. Sulle creste delle Murailles l’esposizione cambia continuamente e non c’erano le condizioni, diventava pericoloso e la stanchezza aumentava, abbiamo deciso di rinunciare: quelle montagne le abbiamo qui sopra casa e sarebbe stato stupido proseguire, bisogna anche sapere rinunciare».

E QUELLA ESTIVA CON KILIAN? COME È NATA?

«Mi ha chiamato lui, era in Valle d’Aosta. Ci conosciamo dai tempi delle gare e siamo entrambi amici di Mathéo Jaquemoud, lo siamo stati anche nei momenti difficili, quando Mathéo era in crisi e non andava. Sulle difficoltà alpinistiche andavamo bene, sulla corsa, soprattutto in discesa, qualche volta mi ha staccato. Alla fine però, quando avevo una gran sete, ho visto che anche lui iniziava a essere stanco e appena ha trovato una fontana si è messo a bere e a rinfrescarsi. Ci siamo trovati bene, mi piacerebbe fare ancora qualcosa questa estate».

COME È NATA L’IDEA DELLE QUATTRO CRESTE DEL CERVINO?

«In vetta, con Andreas ci incontriamo spesso alla croce del Cervino, così abbiamo unito i nostri progetti».

L’HIMALAYA, COME PER LO SCI RIPIDO, È LA PROSSIMA FRONTIERA DEL FAST & LIGHT?

«Credo che la storia dell’alpinismo sia fatta di corsi e ricorsi storici. Ci sono state le fasi di scoperta e poi le ripetizioni più veloci delle vie. È chiaro però che oggi il mix di preparazione ed evoluzione dei materiali consenta nuovi exploit e credo che in Himalaya ci siano tante possibilità».

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© Achille Mauri

New Gore-Tex Pro, 3 in 1

«Non esiste il brutto tempo, piuttosto abbigliamento inappropriato» ha detto Ranulph Fiennes, uno dei più grandi - se non il più grande - esploratori viventi. Non si può non essere d’accordo in un’epoca che ci propone il materiale e lo strato giusto per ogni attività e temperatura. Lo penso mentre, insieme a un selezionato gruppo di giornalisti provenienti da tutto il mondo, sto camminando nella neve profonda, con i ramponi ai piedi, sopra a Lake Louise, Alberta, Canada. Abbiamo addosso una giacca rossa che utilizza il nuovo Gore-Tex Pro, che sarà in vendita dall’autunno-inverno 2020. Il risultato finale, almeno con le condizioni meteo di oggi - nevischio, temperatura intorno agli zero gradi – non fa una grinza. La gestione dell’umidità lungo i 10 chilometri e 550 metri di dislivello ha funzionato, aiutata anche dalle pratiche zip di ventilazione sottomanica. Aprendole nei momenti più intensi della salita e poi richiudendole nelle pause o in discesa l’interno della giacca è asciutto. Fuori le goccioline scivolano via e l’acqua non passa. Ieri, esposti al vento forte della vetta del monte Ha Ling, abbiamo potuto constatare che la giacca è anche perfettamente sigillata e mette una barriera impenetrabile tra il corpo e il vento. Camminando, forzando il passo, ma anche facendo qualche passo di arrampicata, non sembra di avere addosso un guscio hard shell perché la libertà di movimento, soprattutto all’altezza delle spalle, è molto buona. Dopotutto sono le principali caratteristiche del nuovo Gore-Tex Pro, che propone tre diversi laminati: Gore-Tex Pro massima traspirabilità, Gore-Tex Pro stretch e Gore-Tex Pro massima resistenza. In pratica, a differenza del Gore-Tex Pro attualmente in commercio, che prevede un unico laminato, per i produttori sarà possibile combinare i tre prodotti nelle diverse aree delle giacche per ottenere parti più traspiranti, più resistenti all’abrasione o elastiche. «Se l’obiettivo è l’arrampicata, si potrebbero volere proprietà elastiche dietro a spalle e braccia, più robustezza ai gomiti e sopra le spalle, e la massima traspirabilità sul busto – dice Marc McKinnie, product specialist di Gore-Tex Pro. Per lo sci alpino, invece, la massima resistenza del laminato può avere la precedenza su traspirabilità ed elasticità».

A conti fatti una piccola rivoluzione. Il risultato finale, che dipende naturalmente anche dal design dei singoli gusci, da una intelligente scelta degli strati da indossare e che ci riserviamo di mettere alla prova più intensamente durante tutta la stagione, è lì, ma rappresenta il punto di arrivo di un percorso lungo. Davanti a me, in fila indiana, ci sono Tamara Lunger, Stefan Glowacz e Greg Hill. Per i lettori di Skialper non hanno bisogno di presentazioni. Rappresentano una selezione del meglio in termini di avventura ed esplorazione. Scalando, sciando o attraversando le desolate solitudini della Groenlandia e della Penisola di Baffin. Stefan ha provato tra i primi in condizioni estreme il nuovo Gore-Tex Pro proprio a Baffin. Un passato nell’arrampicata sportiva, oggi è la grande avventura la sua passione. Tamara si è spinta nei luoghi più freddi della terra e Greg per raggiungere e sciare le cime del Nord America deve ravanare per ore tra rovi e boschi per poi strisciarsi su rocce dure e appuntite. Ma quando il nuovo Gore-Tex Pro è arrivato a loro erano comunque uno degli ultimi – ma non meno importanti – ingranaggi della catena, anche se proprio dai loro input si è partiti per creare il nuovo laminato perché Gore-Tex Pro è pensato per utilizzatori di alto livello: atleti, professionisti, scialpinisti, alpinisti, su roccia e su ghiaccio.

© Bruno Long

Scienza del comfort. Si chiama così l’ombelico da cui nasce tutto. Esistono strumenti per misurare ogni aspetto di come un vestito fascia il nostro corpo e lo scalda. Ma la definizione più difficile è proprio quella del comfort stesso. «Il corpo umano percepisce solo la mancanza di comfort ed è da qui che in realtà si parte» dice Ray Davis che nella sede di Landenberg, in Pennsylvania, è il responsabile della divisione che all’interno di Gore-Tex si occupa di comfort science. Sono quattro i fattori che influenzano la mancanza di comfort, quello termico piscologico (la percezione del calore o meno), quello puramente piscologico, quello ergonomico e sensoriale. E per ogni categoria di prodotti e utilizzatori Ray Davis e i suoi uomini stanno cercando di trovare la giusta ricetta, per garantire comfort e prestazioni. Si testa in laboratorio, sulle persone, ma anche sui manichini. I test termici e non termici vengono effettuati in un’area di più di 300 metri quadrati. La rain tower può gestire temperature tra + 5° C e + 25° C con venti da 0,4 a 5 metri/secondo e fino a 150 mm/ora di pioggia. C’è anche un’area di 150 metri quadrati dove la temperatura può essere portata da – 50° C a + 50° C, con umidità relativa tra il 10% e il 95% e radiazioni solari simulate fino a 1.100 Watt/metro quadrato. Con i sensori si arriva a mappare il corpo e le singole parti per creare delle mappe termiche, ma i sensori misurano anche la pressione esercitata: meno ce n’è, più i movimenti sono liberi. La percezione di limitazione dei movimenti con il nuovo Gore-Tex Pro è stata ridotta in maniera significativa, con valori che sono passati da circa il 55% a poco più del 40%. Sulla nostra giacca le parti elastiche si concentrano sul retro, dietro le due spalle. Le parti più resistenti sono proprio sulle spalle e sule maniche. La resistenza del nuovo Gore-Tex Pro è stata testata anche con il temibile 5 finger scratch test che prevede che cinque puntali di metallo scorrano a lungo su e giù per misurare l’abrasione nel tempo.

Alla base del comfort termico ci sono sempre tre elementi: il corpo umano, l’abbigliamento e l’ambiente. Il corpo produce calore e umidità e si raffredda dopo l’esercizio fisico, soprattutto se sudato. Il resto lo fanno l’isolamento termico e la traspirabilità dei vestiti, la temperatura esterna, il sole, l’ombra. Per misurare la traspirabilità, oltre ai test sul campo, si utilizza un macchinario con una piastra calda (35° C) sulla quale viene steso il materiale e sopra c’è un flusso d’aria a 23° C con umidità relativa del 50%. Questo secondo la norma ASTM F1868, mentre per quella ISO 11092 tra la piastra e la membrana c’è un tessuto traspirante inumidito (che determina un’umidità relativa del 100%) e il flusso d’aria è a 35° C con umidità relativa del 40%. In questo secondo test Gore-Tex Pro massima traspirabilità è stato classificato con i migliori valori RET possibili, inferiori a 6 (estremamente traspirante), mentre gli altri due laminati Pro sono nel range appena sotto (tra 6 e 13, molto traspiranti).

© Stefan Głowacz

Sotto di noi le acque di Lake Louise sembrano quelle di una laguna blu. Il colore è il risultato delle microparticelle di polvere delle rocce del Mount Victoria trasportare dalle acque. Difficile non pensare che ogni nostra azione, oggi, può avere effetti su quelle acque simbolo della natura più pulita, che ogni gocciolina che scivola via dai gusci finirà lì. «I valori del rispetto dell’ambiente e delle condizioni di lavoro fanno parte del DNA di WL Gore & Associates da quando è stata fondata nel 1958 da Bill e Vieve Gore, ma è chiaro che non si può rimanere fermi e da una parte le ricerche scientifiche ci permettono di avere più risposte sull’effetto inquinante di prodotti e cicli, dall’altra il progresso aiuta a produrre materiali meno inquinanti» mi dice Bermard Kiehl, a capo del team che si occupa di sostenibilità in Gore. Tra le certificazioni Gore-Tex ci sono Bluesign (che assicura che i prodotti sono realizzati in modo sostenibile) e Oeko-Tex Standard 100 (che garantisce che i materiali non sono dannosi per la salute) e con la fine dello scorso mese tutti gli stabilimenti sono stati certificati ISO 14.001, ma le sfide per l’immediato futuro sono ambiziose. Molto ambiziose. Gore ha sottoposto i propri prodotti all’analisi del ciclo di vita (LCA – Life Cycle Assessment) per valutare gli effetti dalla culla alla tomba, dalle materie prime utilizzate, alla produzione, fino al fine vita. Nel 2018 sono stati introdotti dei prodotti con un trattamento DWR (durable water repellent, quello che fa scivolare via le goccioline dalla superficie dei gusci) senza PFC (composti perfluorati) di rilevanza ambientale che alcuni studi hanno dimostrato che non si degradano nell’ambiente e si accumulano negli organismi viventi. La sfida riguarda proprio le membrane e le tecnologie di prodotto per utilizzi intensi e professionisti sono ancora escluse perché in Gore non ritengono di avere trovato un’alternativa sufficientemente performante. «Su questo aspetto abbiamo negoziato a lungo i nostri obiettivi con il WWF – World Wildlife Found e ci siamo posti l’obiettivo di eliminare completamente i PFC di rilevanza ambientale entro il 2021-2023» dice Bernard Kiehl. Già con il nuovo Gore-Tex Pro sono stati raggiunti altri risultati dal punto di vista ambientale. La tintura in massa ha permesse di risparmiare l’utilizzo di acqua e ridurre le emissioni nell’ambiente prodotte dall’utilizzo di energia. Per ogni metro di Gore-Tex Pro massima traspirabilità e massima resistenza vengono risparmiati più di dieci litri di acqua per la superficie tessile e quasi tre per il rivestimento interno e rispettivamente di 71,7 e 20,5 chili le emissioni di CO2. «Il materiale alla base del Gore-Tex, ePTFE, invece, non è tossico, è molto stabile, non degrada nell’ambiente per diventare un PFC di rilevanza ambientale» conclude Kiehl. Se finisce nell’ambiente dunque ci rimane, ma non fa danni. Che sia questa la sfida successiva, una membrana non tossica e biodegradabile?

WL. Gore & Associates ha compensato le emissioni di CO 2 prodotte da tutti i voli diretti verso Banff, dove è stata presentato il nuovo Gore-Tex Pro, per un totale di 80.359 chili, con l’acquisto di certificati Atmosfair (atmosfair.de). I progetti sostenuti da Atmosfair con i proventi della compensazione di emissioni comprendono 31 cucine in Nigeria, un anno di fornitura elettrica da fonti rinnovabili per cento abitazioni in India e sei impianti a biogas per abitazioni in Kenia.

© Bruno Long