Sabato si aprono i Mondiali in Svizzera. Ecco gli azzurri in gara

Anche per lo ski-alp è tempo di medaglie iridate: sabato a Villars-sur-Ollon ci sarà la cerimonia d’apertura del campionati del mondo. Una rassegna forse più importante del solito quella svizzera di quest’anno, visto che sugli stessi tracciati il prossimo anno ci sarà il debutto dello sci alpinismo ai Giochi Olimpici, quelli giovanili di Losanna 2020.
Sabato la cerimonia d'apertura, domenica subito la prima gara, sprint con partenza alle 9, si prosegue lunedì con l’individuale giovani, martedì è tempo dell’individuale assoluta, mercoledì pomeriggio (con start alle 16) il vertical. Giovedì giornata di riposo, venerdì la team race, sabato spazio alle staffette.

ITALIA - 28 gli atleti azzurri in gara: a livello senior al via Robert Antonioli, Michele Boscacci, Matteo Eydallin, Damiano Lenzi, Nadir Maguet e Federico Nicolini e la sola Alba De Silvestro. A livello Espoir Henri Aymonod, Nicolò Canclini, Davide Magnini, Giulia Compagnoni, Mara Martini, Giulia Murada e Ilaria Veronese. Nel team Junior Daniele Corazza, Fabien e Sebastien Guichardaz, Giovanni Rossi, Samantha Bertolina e Valeria Pasquazzo, in quello Cadetti Rocco Baldini, Riccardo Boscacci, Simone Murada, Marco Salvadori, Luca Tomasoni, Silvia Berra, Noemi Gianola e Nicole Valli.


Sulle tracce di Coomba

Considerato tra i pionieri dello sci ripido d’oltreoceano, Doug Coombs ha lasciato un’eredità che va ben oltre le prime discese, l’audacia delle linee scelte, la ricerca dell’adrenalina, i molti trionfi (ha anche vinto il primo Campionato del Mondo di Sci Ripido a Valdez, in Alaska, nel 1991). Tra le pagine del libro Sulle tracce di Coomba colpisce il suo aspetto umano, l’energia contagiosa, l’amore per lo sci e per la famiglia, il suo infaticabile lavoro di Guida. «Non faccio niente di impossibile. Rendo possibile quello che gli altri pensano non lo sia» amava ripetere. Una giornata passata con lui ti poteva cambiare la vita, il suo interesse era farti migliorare, vivere al meglio ogni esperienza e, soprattutto, farti divertire. Un visionario, un personaggio che ha fatto scuola a Jackson Hole e ha plasmato il concetto di sci ripido ed heliski in Alaska, portando poi il suo gusto per la vita a La Grave, dove perì tragicamente il 3 aprile 2006, cercando di aiutare l'amico Chad VanderHam. A La Grave, dove la montagna è sempre pronta a farti capire chi comanda, trovò amici sinceri e un ambiente autentico.

Sulle tracce di Coomba, il libro che fa parte della collana Lamine di Mulatero Editore, scritto da Robert Cocuzzo, va alla scoperta di una figura leggendaria, un sognatore che ha fatto della sua umanità e della sua passione sfrenata per lo sci uno stile di vita. Abbiamo intervistato l'autore.

Non hai mai conosciuto Doug Coombs, eppure sei riuscito a completare una biografia molto ricca e completa, dove traspaiono tutte le sue emozioni e il personaggio di Doug si apprezza nella sua interezza. Che cosa ha attirato la tua attenzione alla vita di Doug Coombs fino a spingerti a scrivere un libro su di lui?

«Prima di tutto mi sembrava una sorta di eroe ideale. Ero cresciuto guardando i suoi video che lo ritraevano sfrecciare nella neve soffice lungo discese mozzafiato: mi sembrava una storia degna di essere narrata. Ma solo quando ho saputo che avevamo varie cose in comune - crescere nella stessa zona e nello stesso ambiente, effettuare le prime discese sulla medesima collina, Nashoba Valley nel Massachusetts – ho capito che potevo essere io l’autore di quel libro. Si può dire che sia stata la sua storia a trovare me in un momento in cui ero pronto a scriverla».

C’era una sorta di connessione tra i vostri mondi?

«Io sciavo all’incirca due settimane all’anno e ogni tanto calzavo gli sci per andare nelle vicinanze: i nostri mondi non erano di certo gli stessi. Ero comunque curioso di capire le circostanze che diedero il via alla sua carriera, le motivazioni dietro al suo personaggio. Ho cercato così di ricalcare i suoi passi, chiedendomi dove sarei potuto arrivare, e questo mi ha dato la motivazione per scrivere un libro».

Per chi l’hai scritto? Per te stesso o per gli altri?

«Scrivere un libro è un viaggio che ti porta alla scoperta di emozioni anche nascoste. Mi sono reso conto ben presto, però, che il mio lavoro era per David Coombs, il figlio di Doug, che aveva due anni quando il padre è morto. Le persone si rivolgevano sempre a David con parole di elogio ed entusiasmo nei confronti del padre, ma lui non poteva capire a fondo, non poteva avere ricordi tangibili. Con questo libro ho cercato di delineare la figura di Doug mettendo in luce tutte le sue sfaccettature».

Perché hai voluto seguire le orme di Doug al punto di recarti nei posti dove aveva vissuto?

«Nel tentativo di ricreare il personaggio di Doug, ho capito che conversazioni telefoniche o messaggi scambiati con chi l’aveva conosciuto non potevano essere abbastanza per capire a fondo la sua personalità. Dovevo mettermi nei suoi panni, sciare le sue linee, assaporare l’atmosfera che aveva vissuto e conoscere le persone che avevano condiviso il suo cammino».

E tu? Che ruolo hai nel libro?

«Beh, all’inizio non volevo includere tutte le parti che mi riguardano, perché non mi sembravano appropriate; in seguito ho capito che seguendo la sua storia sono riuscito a creare una sorta di testamento dell’impatto che ha avuto sullo sport, sulle persone incontrate, dando ai lettori la possibilità di entrare a far parte del suo mondo e apprezzarlo di più. Aggiungere le mie impressioni avrebbe fornito un mezzo per identificarsi ancora di più con il personaggio».

Sei molto onesto con le tue emozioni, rivelando paure, ansie, gioie. Avevi qualche timore sulla reazione dei lettori nei tuoi confronti?

«Sì, molti. Non tanto dei sentimenti di paura o delusione che avevo messo a nudo, o del mostrare che in certe occasioni ero decisamente fuori forma: più che altro non volevo dare l’impressione di essere come i grandi sciatori di cui si parlava nel libro, né di far parte di questa vicenda quasi eroica. In fondo, ero solamente lì per raccontare una storia. Temevo anche la reazione della famiglia di Doug, in particolare di sua moglie Emily: avrebbero potuto chiedermi il perché della mia presenza nel libro. Alla fine, cosa c’entravo io con la vita di Doug Coombs? Non l’avevo nemmeno mai incontrato».

La famiglia invece lo ha giudicato molto interessante.

«Sì. Quando il libro è stato pubblicato, si era già creato un buon rapporto tra la famiglia di Doug e me, e a loro è piaciuto molto il mio modo di raccontare la storia, creando un parallelo tra me e Doug, dando un’altra chiave di lettura del grande personaggio che aveva riempito le loro vite».

Nel tentativo di ricalcare i passi di Doug, sei andato dappertutto, prima a Jackson Hole, poi a Valdez in Alaska e infine a La Grave. Ti sei mai trovato a un punto morto? Che cosa ti spingeva ad andare avanti in questo progetto nei momenti di sconforto?

«Scrivere un libro può incutere timore ed essere scoraggiante. Durante i tre anni che mi sono serviti per completare il progetto, c’è stato un momento in cui non avevo un editore, avevo già investito tempo e denaro in quest’idea e non mi sembrava di arrivare a nessuna conclusione. Sarei dovuto ancora andare in Alaska e poi in Francia e tutta questa strada da percorrere mi spaventava non poco. Uno scrittore ha sempre momenti di dubbio o incertezza e io ne ho avuti non pochi; continuavo a dubitare del fatto che quello che stavo scrivendo valesse veramente qualcosa».

Ci sono stati anche momenti oscuri, quando è stato complicato trovare informazioni utili?

«Sì, ad esempio le circostanze della sua morte. Mi sono ritrovato a parlare con persone che non volevano assolutamente rivivere momenti così tragici. Guadagnarsi la fiducia di individui che ti hanno appena incontrato, riuscire a farli parlare di eventi che li hanno segnati così profondamente, non è stato per niente facile».

Sei tornato nei luoghi che avevi frequentato durante il progetto del libro?

«Non sono tornato a Valdez e nemmeno a La Grave. C’era questa idea di andare a La Grave per l’anniversario della morte di Doug, cosa che poi non è successa. La Grave sarà sempre un luogo molto importante nella mia vita per l'ospitalità ricevuta, l’umanità delle persone, le sensazioni provate. Avrei quasi paura a tornarci e rovinare quella che è stata un’esperienza davvero speciale. C’era anche l’idea di creare un documentario sul libro e sarei dovuto tornare a La Grave per ripetere gli eventi descritti, ma poi non se n’è fatto niente e so che le sensazioni non avrebbero potuto essere le stesse. La magia, l’energia di Valdez e La Grave sono state tali che non mi viene nemmeno voglia di ritornarci. Si tratta anche di luoghi molti pericolosi e avrei paura a sciare di nuovo quelle linee».

In termini di attrezzatura e di approccio degli sciatori, che differenze hai notato tra gli Stati Uniti e l’Europa?

«Per quanto riguarda l’attrezzatura, a Jackson Hole, ad esempio, non vedresti mai nessuno sciare con un imbrago, chiodi da ghiaccio o una corda nello zaino, cosa invece molto frequente, direi essenziale, a La Grave. La cultura europea in luoghi come La Grave è molto meno incentrata sull’ego del singolo sciatore. A Jackson Hole il testosterone si tocca quasi con mano, c’è sempre una sorta di gara per dimostrare chi è il miglior sciatore; a La Grave sono tutti ottimi sciatori, non ci sono competizioni, tutti conoscono i propri livelli e lasciano che la sciata parli per loro. Certo, entrare a far parte delle cerchie ristrette di La Grave, guadagnare la loro fiducia e integrarsi non è stato molto semplice. Direi comunque che in Europa c’è uno spirito particolare che non trovi negli Stati Uniti».

È stato questo uno dei motivi che spinse Doug a trasferirsi lì?

«Sì, credo proprio di sì. Doug era un personaggio molto noto a Jackson Hole, mentre a La Grave poteva essere se stesso e godersi una vita molto più autentica. Lì lo sci è allo stato puro, non ci sono pisteur, corde, segnali o indicazioni che delimitano una zona di pericolo. Sta a te giudicare se una linea è in condizione e se è possibile sciarla».

L’aspetto umano traspare molto chiaramente nel libro, andando ben oltre gli exploit di sci ripido ed estremo e creando un interesse per la persona di Doug, non solo per il favoloso sciatore. Un’umanità che traspare nelle circostanze dalla sua morte, nel fatto che, come guida, era interessato a darti una bella esperienza, non solo a portare i clienti in giro e guadagnarsi da vivere.

«La magia nella vita di Doug non riguardava solo il suo essere uno sciatore fenomenale. Aveva un’energia contagiosa, un ottimismo incondizionato, avrebbe illuminato qualsiasi stanza nella quale entrava e lo sguardo delle persone che ho incontrato risplendeva quando parlavano di lui. Il suo modo di essere aveva un impatto sulla vita degli altri».

Una storia di vita quindi.

«Sì, questa biografia racconta la vita di uno sciatore, ma potrebbe essere applicata a una qualsiasi altra sfera umana. Il libro non si focalizza solo sul mondo dello sci estremo, ma vuole toccare gli eventi attorno all’esistenza di una figura così carismatica, morta facendo quello che amava di più, aiutando un amico in pericolo. Una vera e propria esplorazione nel potere dello spirito umano: lo sci è stato una sorta di scenario per poi esplorare la vita affascinante di Doug».

È con questo spirito che è stata creata la Doug Coombs Foundation. Ce ne parli?

«Sì, sua moglie Emily ha creato la fondazione nel 2012 e da allora ospita circa duecento bambini a stagione. L’idea è di insegnare ai ragazzi di famiglie non abbienti a sciare, dando l’opportunità di eccellere in un ambiente, con la speranza che portino la fiducia e la sicurezza acquisita anche in altri campi. Lo sci è solo una scusa, un trampolino di lancio per poi dare il massimo in altre sfere».

DOUG COOMBS - Nato a Boston nel 1957 e cresciuto a Bedford, nel Massachusetts, è stato un pioniere dello sci ripido prima negli Stati Uniti (Tetons, Chugach) e poi in Europa. Un grave incidente a 16 anni non ferma la sua passione per le discese e nel 1991 vince il primo World Ski Extreme Championship a Valdez, Alaska, spiazzando la giuria per l’audacia delle linee scelte. Insieme alla moglie Emily fonda la Valdez Heli-Ski Guides nel 1993, poi gli Steep Skiing Camps a Jackson Hole che porta successivamente a La Grave. La sua sciata veloce e sinuosa, unendo potenza, controllo e grazia, era ineguagliabile. Amava dire che «il miglior sciatore è quello che si diverte di più» e viveva la sua vita con passione ed energia. È morto il 3 aprile 2006 mentre cercava di aiutare un amico caduto da un dirupo, Chad VanderHam.

COME ACQUISTARE IL LIBRO - Sulle tracce di Coomba (Mulatero Editore, 264 pagine, 19 euro) è in vendita nelle migliori librerie oppure si può ordinare online a questo link.

©Ace Kvale


Snow Leopard Day: raccolti oltre 16.000 euro per salvare il leopardo delle nevi

Undici diversi paesi, uno stesso weekend per raccogliere metri di dislivello (tradotti in centesimi di euro donati allo Snow Leopard Trust) a tutela del leopardo delle nevi, animale che Dynafit ha scelto come simbolo del proprio marchio. Quest’anno sono stati 1.141 gli scialpinisti che hanno risposto all’appello dell’azienda per lo Snow Leopard Day. In Germania, Austria, Italia, Polonia, Grecia, Bulgaria, Slovenia, USA e Slovacchia, pelli sotto gli sci e ascesa su percorsi prestabiliti sabato 2 marzo. In Francia e Svizzera l’evento si è invece tenuto il 3 marzo.

NUMERI - In media ogni atleta ha percorso 1.400 metri di dislivello, il record è stato raggiunto da Stephan Hugenschmidt in Svizzera che ha raccolto la cifra incredibile di 8.003 metri di dislivello. Grande orgoglio per la tappa italiana di Misurina, in provincia di Belluno, che ha visto la partecipazione di quasi 70 scialpinisti per 50.920 metri di dislivello raccolti, anche grazie alla personale sfida del Dynafit Trail Hero Marc Slanzi, che ha percorso per ben sei volte il tracciato da Misurina alla Forcella della Neve, accumulando da solo 4.500 metri di dislivello.  Alla fine del weekend le varie località hanno permesso di raccogliere 1.604.138 metri di dislivello, che corrispondono a una donazione di 16.042 euro. La cifra raggiunta sarà utilizzata dall’organizzazione no-profit Snow Leopard Trust per censire per la prima volta la popolazione mondiale del leopardo delle nevi. Per i ricercatori è essenziale sapere con precisione il numero di esemplari superstiti e in quali paesi si trovino. Solo grazie a questi dati sarà possibile in futuro tutelare il leopardo delle nevi, impedendo interventi sul suo habitat naturale.

SNOW LEOPARD TRUST - Dal 1981 l‘organizzazione Snow Leopard Trust con sede a Seattle è attiva nella tutela degli esemplari superstiti del leopardo delle nevi e svolge ricerche su questo felino a rischio di estinzione. L’habitat del leopardo delle nevi si riduce sempre più. Gli studi stimano che attualmente esistano 3.500 esemplari allo stato brado, che vivono una minaccia sempre crescente a causa del bracconaggio, dei cambiamenti climatici e della decimazione del loro habitat. L’organizzazione porta avanti progetti in Cina, India, Kirgisistan, Mongolia e in Pakistan, compiendo ricerche su questi animali a rischio di estinzione e ripristinandone l’habitat, in collaborazione con la popolazione delle regioni montane.


Contrabbandieri di emozioni

Ha ragione Giorgio Daidola, il vero scialpinista è un viaggiatore errante. Usa gli sci non solo come mezzo di trasporto, ma pure come strumento di conoscenza del mondo e di se stesso. Li utilizza per raggiungere luoghi inaccessibili attraversando deserti bianchi, come bene ci ha insegnato Michel Parmentier; per salire montagne che sono solo tappe di un percorso fuori e dentro di sé. Un percorso che, a volte, ha come obiettivo l’orizzonte, per vedere ciò che c’è dopo e ciò che c’è dentro. Non per niente sciare è un po’ come vivere: consente di lasciare una traccia che non è indelebile, ma che identifica in modo univoco chi l’ha disegnata, così vincolata come è alla sua sensibilità, alla sua capacità tecnica, all’attrezzatura utilizzata, persino allo stato d’animo e alle emozioni del momento. E le traversate - meglio di ogni altra attività scialpinistica - permettono di rendersi conto di tutto questo, seguendo le tracce di chi le ha percorse per primo ed entrando in sintonia con la sua sensibilità, pur vivendo ogni volta un’esperienza nuova; assecondando le proprie emozioni, entrando fra le pieghe delle montagne, penetrando in punta di piedi in un mondo che, seppure già percorso, come la neve, cambia a ogni ora, a ogni folata di vento.

Per vivere queste emozioni non è sempre necessario partire per più giorni da casa e andare in capo al mondo. A volte è possibile trovare ciò che si cerca anche dietro l’angolo. Io ho avuto la fortuna di condividere un breve viaggio alla portata di qualsiasi scialpinista allenato a pochi passi da casa, sulle nostre Alpi, in giornata, da Isolaccia di Valdidentro a Livigno, lungo le tracce dei contrabbandieri e dietro alle code di Giacomo Meneghello. Lui è un fotografo che vive a Sondalo e che, collaborando con la Ski Trab, ha avuto l’idea di creare un’alta via scialpinistica tra Bormio e Livigno, tracciando due percorsi. Uno, più logico e diretto, parte da Isolaccia e uno, più difficile e tortuoso, prende il via da Oga, quest’ultimo in verità già in parte sperimentato da alcuni scialpinisti locali che fanno capo sempre alla Ski Trab. Noi, a causa del rischio valanghe, abbiamo affrontato il tracciato meno pericoloso, ma anche più lineare. Ventuno chilometri per circa 1.900 metri di dislivello positivo. Un tracciato senza particolari difficoltà tecniche che, partendo dalla Valdidentro, concatena in modo logico diverse convalli esistenti tra Bormio e Livigno. Convalli in un recente passato utilizzate dai contrabbandieri per far transitare le merci dal porto franco di Livigno all’Italia. Lo abbiamo fatto il lunedì di Pasquetta in una giornata splendidamente serena dopo il maltempo della settimanaprecedente che aveva portato quasi un metro di neve fresca, ma anche numerosi accumuli da vento suipendii maggiormente esposti.

Partenza alle 6,30 da Sant’Antonio di Scianno, pochi chilometri sopra Isolaccia, nel comune di Valdidentro, a quota 1.650 metri. Lasciata l’auto in un piccolo spiazzo, abbiamo iniziato a risalire verso il Monte Resaccio dapprima facendo traccia in un rado bosco di abeti e poi su distese innevate in cui s’intuivano alpeggi semisepolti dalla neve in un universo fiabesco al risveglio. Giacomo Meneghello davanti, noi dietro. Una decina di scialpinisti in tutto per l’occasione: alcuni ragazzi di Cantù guidati da Marco Colombo di Ski Trab, il forte altoatesino Alex Kheim con la moglie parmigiana Anna e io. Si sono poi aggiunti in Val Vezzola alcuni appassionati livignaschi e di Semogo tra cui la nota atleta polacca di scialpinismo Anna Tybor. Ci aspettavano già in quota, essendo partiti più avanti, da Li Arnoga. Un ripido pendio, la larga cresta ed eccoci in vetta al Monte Resaccio. Siamo a quota 2.717 metri. Il panorama a 360 gradi toglie il fiato; Cima Piazzi ci ammalia controllando ogni nostro passo dall’alto della sua bellezza e severità. In fondo, a sinistra, riconosco il Pizzo Palù, dietro l’Ortles con la sua corona di cime del bacino dei Forni.

Anna Tybor, reduce da una brillante prestazione al Tour du Rutor, mi fa da Cicerone illustrandomi il nome di valli e convalli. Livignasca d’adozione, mi dice di non poter più fare a meno di queste montagne. Il tempo di spellare e giù, verso il bianco più bianco. Versante nord: farina intonsa, sciatona. Gli Ski Trab Maestro che l’azienda bormina mi ha dato da testare per l’occasione non mi fanno rimpiangere sci più larghi. Ricamiamo un lenzuolo intonso consapevoli di essere dei privilegiati. Consapevoli di poter ancora una volta sperimentare che è vero che gli sci sono sciancrati per meglio adattarsi alla forma rotonda del mondo; per meglio consentirci d’accarezzarlo con le nostre curve. Si attraversa un universo incantato senza alcuna traccia, se non quella di qualche camoscio. Dalla Val Vezzola transitiamo in Val Trela. Procediamo ora in leggera salita sotto un sole abbacinante. È metà mattina. Le montagne si scrollano di dosso ciò che non riescono più a trattenere. Sentiamo rombo di scariche. La tigre bianca oggi è sveglia, in agguato su molti pendii, nascosta sotto il nuovo strato di neve. Ma il nostro percorso è mansueto. Giacomo lo ha scelto apposta preferendolo a quello più rischioso che transita in Val Viola e che potrebbe essere affrontato al ritorno in un ipotetico viaggio ad anello di due giorni. Saliamo pendii non impegnativi al Monte Rocca (2.814 m), classica scialpinistica della zona. Lo rimontiamo da est, non - come di consueto - da nord-ovest.

Dalla vetta si apre sotto di noi la Valle di Tre Palle. Firn e neve trasformata per una sciata da ricordare, con Giacomo che si sdoppia nel ruolo di guida e fotografo. Malghe che emergono qua e là, stalle, cavalli. Un presepe che lascia segni indelebili nell’anima dell’escursionista-viaggiatore. Attraversiamo una strada asfaltata in località Trepalle (quota 1.918) e di nuovo rimettiamo le pelli. Ora si sale verso il Monte Crapene (2.430 m). Ancora pendii dolci, neve trasformata. Qualche escursionista con le ciaspole. L’ambiente si fa meno isolato, gli impianti e le piste del carosello sciistico compaiono dall'altra parte della valle. Dalla cima del Crapene appare Livigno, giù in fondo. Dall’alto sembra davvero esteso e con il suo vestito migliore, quello tutto bianco, sembra una perla tra una conchiglia di cime.

Inanellando curve sul firn, scendiamo così fino al capolinea del nostro viaggio, firmando altri magnifici pendii con le lamine. Le nostre tracce saranno già scomparse, cancellate dal sole o dal vento. Non sarà invece cancellata l’idea di Giacomo d’ideare questo percorso che consente di collegare al ritmo delle pelli questi due paesi, Bormio e Livigno, divisi dalla cresta delle Alpi, ma uniti in una splendida cavalcata. Percorrendola noi, contrabbandieri d’emozioni, siamo andati alla ricerca del senso del viaggio con gli sci, solcando valli e salendo montagne dolci come la panna montata. Come sempre alla ricerca della curva perfetta. Come sempre trovando alla fine noi stessi.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 118 di Skialper di giugno 2018. Se vuoi acquistare l'arretrato clicca qui, se vuoi abbonarti a Skialper qui.

©Giacomo Meneghello

Va' Sentiero, rinasce il Sentiero Italia

Una camminata di 6.880 km alla scoperta delle terre alte italiane, che inizia il primo maggio. Va’ Sentiero è un viaggio lungo il filo rosso più lungo del mondo: il Sentiero Italia. Un’avventura lunga un anno, per scoprire le montagne e le loro genti, promuovendo le unicità di quei luoghi attraverso la rete e i social. Questo il sogno dei tre fondatori di Va’ Sentiero (iniziativa della quale abbiamo parlato su Skialper 121 si sicembre 2018), Yuri Basilicò, Sara Furlanetto e Giacomo Riccobono. Innamorati delle montagne italiane e dei tesori che custodiscono, i ragazzi hanno appena lanciato una campagna di crowdfunding per dare vita alla spedizione, dal basso.

Il Sentiero Italia attraversa tutte le catene montuose italiane, toccando tutte le 20 regioni (dal Friuli-Venezia Giulia alla Sardegna) e oltre 350 borghi montani. Realizzato negli anni Novanta grazie all’Ass. Sentiero Italia e al Club Alpino Italiano, nel corso degli anni successivi il sentiero è stato dimenticato. Ma nel gennaio 2018 il Club Alpino Italiano ne ha annunciato il restauro integrale e, grazie all’immenso lavoro di centinaia di volontari CAI, il S.I. verrà riapeto nella primavera 2019. «Grazie al nostro viaggio, vogliamo far conoscere il Sentiero Italia soprattutto ai nostri coetanei, in tutto il mondo, e dare voce alle terre alte, luoghi meravigliosi eppure spesso dimenticati, spopolati, abbandonati a se stessi. Yuri, Sara e Giacomo percorreranno l’intero Sentiero Italia a piedi. La loro non è un’impresa sportiva, quanto un’iniziativa sociale, basata sull’idea di condivisione: racconteranno infatti l’avventura attraverso la rete e i social.

La caratteristica più importante di Va’ Sentiero è l’inclusività del viaggio. La condivisione sarà infatti anche fisica, oltre che digitale: Va’ Sentiero è un’esperienza collettiva, aperta a chiunque voglia aggiungersi alla spedizione (anche solo per una tappa), dando volto e voce alla narrazione, diventando così un ambasciatore di Va’ Sentiero. Inoltre, lungo il viaggio di Va’ Sentiero verranno organizzati degli eventi in quota: appoggiandosi ad alcuni rifugi di montagna, verranno realizzate delle performance artistiche all’interno di una tenda geodetica messa a disposizione dallo sponsor Ferrino, cui seguirà l’osservazione astronomica della volta celeste, in compagnia di un divulgatore scientifico.

Per trovare i fondi necessari alla lunghissima spedizione è stata aperta una campagna pubblica di crowdfunding sulla piattaforma Indiegogo al link: igg.me/at/vasentiero

L’obiettivo è di raccogliere almeno 25.000 euro, che saranno utilizzati per coprire le spese del team dei primi sette mesi di viaggio. Tra le ricompense che ogni donatore otterrà come premio per il proprio contributo, tra cui l’opportunità di ricevere in anteprima il percorso e il calendario di Va’ Sentiero per iscriversi alle tappe della spedizione e di adottare una tappa del viaggio, dandole il proprio nome.


Pierre Tardivel, l'evoluzione di un mito

L'appuntamento è fissato per il primo pomeriggio, il viaggio scorre rapido attraverso la Valle d'Aosta, il tunnel del Monte Bianco e poi tra gli autovelox e i limiti delle autostrade francesi verso Annecy. Abbiamo anche il tempo di constatare che negli autogrill francesi panini e gelati vengono conservati alla stessa temperatura. Con Federico in auto, dopo aver parlato delle ultime arrampicate, il discorso vira - per ovvie questioni di politica aziendale - rapidamente sullo sci. Anzi sugli sci del mito che stiamo per incontrare. «Ha usato per anni quel modello lì, poi ha cambiato, è passato a modelli rockerati. Sì, però per le robe serie tornava sempre a quelli, poi adesso snow, comunque gli chiediamo tutto».

E fu così... L'indirizzo è quello giusto, il navigatore non mente, le colline morbide di Annecy circondano una zona residenziale con casette unifamiliari basse, ciascuna con il suo giardino. Ci avviciniamo al cancello che riporta il numero civico indicato: un uomo sta sistemando dei rami in fondo al giardino. Ci vede, ci fa un cenno. Entriamo. Stringiamo la mano a Pierre Tardivel. Non nascondiamo un po' di emozione che svanisce quando, oltrepassando la soglia casa, ci si trova di fronte a un arredamento decisamente informale: libri e scaffali occupano le pareti, due divani dai cuscini multicolore abbracciano un tavolino con diversi oggetti sopra. Qualche armadio che porta con sé qualcosa di orientale, una sala luminosa che dà direttamente sul giardino. Sul tavolo da pranzo circolare una gabbia con uno dei membri della famiglia: un coniglio. Anche un cane e un gatto decisamente in carne ci fanno capire che la passione per gli animali è di casa dai Tardivel, per lo meno al pari dello sci!

Quella che avevamo immaginato come un'intervista con una traccia ben definita, si trasforma fin dalle prime battute in un'allegra chiacchierata con il Piero! Spero che Pierre non si offenda se mi prendo questa licenza. Chiamarlo Piero trovo che renda la cosa molto confidenziale. 

«Hai visto cosa ha di nuovo sceso il Piero?». 

«Grande il Piero, sempre avanti!». 

E se ci pensate, quante volte tra gli appassionati di sci ripido, guardando una foto o una parete orlata di seracchi, magari appartenente al massiccio del Bianco, alla domanda da chi fosse stata scesa avete sentito rispondere Il Piero!. Proprio lui. Sempre lui. Come un amico più grande di cui hai sempre sentito parlare! Dunque che il Piero non sia un tipo convenzionale lo capiamo nei primi trenta secondi: quando scopre che uno di noi due è il fotografo, gli si illuminano gli occhi di quella curiosità genuina tipica delle persone eclettiche e inizia a tempestarci di domande tecniche sugli obiettivi, sui corpi macchina. E non certo per capire quali siano gli strumenti migliori da utilizzare durante le discese o per immortalare momenti di sci appesi a qualche pendio a 50°. Il Piero infatti ha una grande passione che coltiva parallelamente allo sci: l'avifauna alpina e la fotografia faunistica! Un po' stupiti, lo incalziamo.

Ci incuriosisce molto scoprire che sei un grande appassionato di animali nel loro ambiente naturale! Da dove arriva questa passione?

«Sono 30 anni che faccio foto, soprattutto alle varie specie della fauna alpina nel loro ambiente. Adoro prendere immagini degli animali di grossa taglia e di uccelli. Basta appena uscire da Annecy, diverse volte mi è persino capitato di fare foto a cerbiatti direttamente dalla finestra del salotto. Sono bellissimi. E poi gli uccelli, solo nel mio giardino ne ho potuti individuare una cinquantina di varietà. Sono un appassionato della natura e fotografare gli animali è stimolante. Incontrarli per caso e cogliere l'attimo giusto… (mima un gesto quasi da vera e propria caccia fotografica, ndr). Il problema sono le dimensioni dell'attrezzatura, di solito metto la mia macchina con un buon obiettivo in una sacca che tengo davanti sul petto e mi permette di muovermi sia in salita sia in discesa anche quando scio. Sì, perché lo scialpinismo è un'attività ideale per fare fotografie. In salita uno tiene il giusto ritmo e si ha tempo per guardarsi intorno e scattare. Poi invece in discesa si scia». (ride) 

©Federico Ravassard

E foto di sci? 

«Anche sciando faccio un sacco di foto ai miei compagni, ne ho pochissime invece dove ci sono io perché gli altri ne scattano meno. Mi piace tanto fotografare, ma nelle discese ripide spesso utilizzo una compatta che è più comoda: la tengo sullo spallaccio fissata con un laccetto al collo e... zan, quando passa il compagno, scatto veloce! Mi sono accorto che utilizzando un obiettivo grandangolare da 24 mm e fotografando in un canale a 50° si riesce a inquadrare l'orizzonte. È più bello!».

Mi sembra che ti piaccia molto vivere ad Annecy , perché non Chamonix, più vicino al Bianco?

«No, non mi piacerebbe vivere a Chamonix, è più caotica e molto più cara rispetto a qui. E poi Annecy ha molti più servizi ed è meglio collegata. Ci sono più scuole e università per le mie figlie». 

Riesci a lavorare come Guida alpina anche qui?

«In realtà come Guida lavoro poco. Lavoro piuttosto come intermediario nell'editoria di montagna. Per esercitare come Guida dovresti fare eliski, spedizioni, oppure due o tre Vallée Blanche alla settimana. Sinceramente non mi piace. È bello anche arrampicare, ma non come sciare». 

Quindi preferisci sciare, ma sei nato alpinista o sciatore?

«Essendo Guida ho scalato e scalo e non mi dispiace. Ma scalare è fatica, dolore a volte, devi sempre forzare per ottenere risultati e andare forte. Lo sci è diverso, è più fluido, meno forzato, un'attività più dolce. Sciare mi è sempre piaciuto. La mia famiglia in montagna faceva al massimo delle escursioni. A sciare mi ci portava la scuola. Ma già a 10-11 anni mi piaceva più andare in fuoripista che su percorsi battuti. E poi non serve forza, si fa tutto ‘plus en douceur’, l'ho sempre preferito. Con i materiali di oggi è facile diventare un buono sciatore, è molto più difficile essere un buono scalatore».

Negli ultimi anni il livello si è molto alzato, complici materiali sempre migliori e più facili da utilizzare. Però forse troppo spesso ottimi sciatori si cimentano in discese anche molto impegnative, trascurando forse un po' troppo la componente alpinistica che lo sci di pente raide richiede. Quanto è importante?

«È indubbiamente importante, specie per gestire situazioni come creare delle soste, fare delle calate e altre manovre di corda in sicurezza. E poi se sei solo uno sciatore e non provi piacere anche durante le risalite delle pareti... insomma magari sali una parete per quattro ore, se non ti piace questa parte la giornata diventa lunga (ride!). Discorso diverso per le valanghe, anche con 40 anni di esperienza il rischio non è mai completamente eliminabile purtroppo. Bisogna fare attenzione a scegliere le giuste condizioni, sapere aspettare. Con la neve dura il rischio valanghe è minore ma, appunto, la neve è dura».

Lo sci ripido è diventato una moda negli ultimi anni. Come in arrampicata e alpinismo esistono vie di salita e percorsi più o meno difficili: è giusto pensare che sia così anche nello skialp?

«Sì, esistono pendii e montagne più o meno difficili, certo. Per esempio la scala Volopress mette tutto insieme sotto un'unica valutazione di difficoltà che mi vede d'accordo. In effetti il ripido è un'attività che è diventata di moda, ma a volte chi la pratica non è pronto come si è potuto vedere dal gran numero di incidenti di questo tipo della scorsa stagione. Anche la PGHM (il Soccorso Alpino francese, ndr) non è contenta di ciò. Non vorrei che poi alla fine come soluzione si arrivasse a vietare delle discese come la nord-est delle Courtes».

©Federico Ravassard

Lo sci estremo, per quanto ti riguarda, è qualcosa di diverso? 

«Se ci riflettiamo, l'estremo lo si ha quando si cerca e si raggiunge il limite. E il limite lo cerchi per esempio nelle gare di freeride, ti confronti con un cronometro e cerchi il limite. Infatti a volte cadono: arrivare al limite cercando la velocità. Nello sci di pente raide che ho fatto e faccio, non si cerca il limite. La caduta è da evitare assolutamente. Per quanto mi riguarda ho sempre cercato di muovermi con un margine di sicurezza, magari facendo una curva in meno se non me la sentivo. Non ho mai voluto raggiungere il limite ma il maggior piacere che mi poteva offrire una discesa ripida. È un'attività molto psicologica, è tutto nella testa, come diceva Stefano De Benedetti».

È la possibilità che dà lo sci dI pente raide di ampliare esponenzialmente il proprio terreno di gioco che ti affascina di questa disciplina?

«No, è proprio la ricerca della pendenza che mi piace. È cercare di prendere confidenza con le proprie paure e gestire l'incertezza che restituisce il ripido».

Allora come vedi la tendenza degli ultimi anni di scendere certe pareti in modo superfluido e a grande velocità? (Gli si illuminano letteralmente gli occhi, ndr)

«Ah, poter sciare come Jérémie Heitz e al tempo stesso mantenere un margine di sicurezza, sarebbe un sogno! Anche con curve meno filanti, andando leggermente più piano, ma con quella fluidità. Per me lo sci è diventato cercare la perfezione del gesto su pendii adatti allo sci. Non mi interessano più quelle discese molto tecniche dove fai una curva, derapi metri perché non c'è spazio, fai un'altra curva e poi una doppia. Lo sci è saper attendere il bon jour per avere le condizioni per poter scendere nel modo più fluido possibile un bel pendio. Se le condizioni non ci sono, aspetterò, magari degli anni. Certe discese fatte trovando tratti ghiacciati che obbligano magari a doppie o a non sciare integralmente diventano un esercizio d'alpinismo. Cosa che non rappresenta la mia idea di sciare. Per me è più importante la natura, cercare di capirla e prendere del piacere giocando con essa, come per la fotografia degli animali selvatici».

Lo sci per te è ricerca di fluidità, abbiamo capito bene?

«Sì, è la ricerca di quella sensazione di fluidità che ha sempre influenzato il mio modo di andare sulla neve, specie con i materiali di adesso. Il freeride ha portato molto allo sci in questo senso».

Questa tua ricerca della fluidità passa senza dubbio anche per l'evoluzione dei materiali. A fine anni ottanta e novanta si usavano sci molto stretti, poi verso i primi anni duemila utilizzavi i mitici Dynastar 8800 e le successive evoluzioni che erano 89 mm al centro. Parliamo del tuo sci preferito?

«In quegli anni gli sci erano molto stretti, fare le curve era più forzato, più brusco. Con i nuovi materiali è diventato tutto più armonioso, più morbido. Ho usato molto gli 8800, è vero, ma quelli con cui mi sono trovato meglio sono stati i Dynastar Cham 97. Non troppo lunghi, avevano una maneggevolezza incredibile e poi col rocker erano facilissimi da sciare, non restituivano sorprese e avevano una buona rigidezza torsionale che per tenere sul duro è la cosa più importante. Intorno ai 95-97 mm secondo me c’è il compromesso ideale».

Ti confesso che ci hai spiazzato… come sei arrivato allo snowboard?

«È stato naturale cercando un modo per ottenere maggiore fluidità. Lo snowboard per uno sciatore come me non è stato immediato. Ho iniziato nel 2014, in principio lo trovavo contraddittorio, devi sempre accompagnare il movimento, molto più che con gli sci. Ma una volta che uno impara è assai meno faticoso. E poi adesso ci sono le splitboard. Ho deciso di fare il salto verso lo snowboard quando si è perfezionato questo tipo di materiale». 

Un punto di vista molto surf questa ricerca del gesto fluido e più armonioso possibile. Che materiale usi adesso? 

«Sì, mi piace e pratico quando posso anche il surf da onda infatti. Sulla neve utilizzo una splitboard Plume. Ma il vero problema è cercare la combinazione perfetta attacchi-scarponi. Uso uno scarpone SB di Pierre Gignoux e trovo che sia il compromesso perfetto che mi garantisce un'ottima risposta nelle sezioni in backside, anche su nevi difficili. Ovvio, lo snowboard patisce un po' le nevi dure, infatti ci sono pochi video di ripido su nevi dure. Però hai anche due picche e in front su tratti ghiacciati è meglio. Le cose cambiano se ci sono tratti di dry…».

Come sono stati gli inizi? Erano davvero così mitici quegli anni da un punto di vista delle precipitazioni nevose? 

«Una volta gli inverni erano davvero diversi, nevicava sul serio. Si poteva sciare nove mesi l'anno, da novembre a luglio. Tra il 1978 e il 1980 ho iniziato a fare ski de randonnée. Fino al 1988 sono stato a tutti gli effetti un amatore. Poi fino al 1995 sono stato sostenuto dagli sponsor. Era mia moglie Kathy a organizzare tutto e a gestire i rapporti con le aziende. All'inizio essere pagato per compiere delle prime discese sempre più difficili è stata una motivazione, ho smesso di lavorare in banca e mi ci sono dedicato a tempo pieno. La ricerca della prima era sia un discorso di ego che di soldi. Poi mi sono accorto che questa impostazione stava influenzando anche le mie scelte e ho continuato la mia attività solo per piacere».

Scorrendo la lista delle tue discese, mi piacerebbe saperne di più su alcune, per esempio spesso mi capita di sciare nel Massif des Écrins dove nel 1997 hai ripetuto il Couloir Gravelotte sulla parete nord-est della Meije.

«Sì la Meije, purtroppo l'unico che è riuscito a sciarlo tutto quel canale, a proposito di cambiamenti delle condizioni nevose negli anni, è stato Patrick Vallençant alla fine degli anni '70, in occasione della prima discesa. Quando sono andato io in basso c'era già un tratto di 50 metri insuperabile con gli sci, così per evitare di fare doppie sono risalito e ho sceso il Corridor».

Un'altra discesa che mi ha molto colpito è quella del '95 sul versante Italiano del Triolet. Che caratteristiche aveva?

«Il problema di questa discesa è che ci vuole un grande innevamento per poter collegare tutte le parti, poi certo, è ripida!».

Una data mitica: 10 luglio 1988? Ne parliamo? Il Grand Pilier d'Angle: un posto surreale e pericoloso.

«Nello stesso giorno, con l'elicottero però, ho concatenato la parete sud-est del Col de la Brenva e la parete nord del Grand Pilier d'Angle. Era dopo una perturbazione di una settimana, forse il secondo giorno di bello. Sul versante italiano del Monte Bianco c'era un innevamento incredibile, tutto bianco. Tutto. La Brenva l'ho scesa presto e la neve, essendo luglio, si era già trasformata: l’ho trovata quasi dura, specie in alto. Poi sono stato depositato nuovamente sulla cima del Bianco, ho sceso la cresta di Peuterey per fare infine una parte di cresta del Grand Pilier d'Angle a piedi e scendere la parete nord. Qui ho trovato soprattutto ‘poudre tassée’, tranne nell'attraversamento sopra al seracco. La neve, decisamente dura, era un po' verglassata, poi una parte in doppia sul salto centrale e i pendii del tratto basso. Dall'elicottero avevamo monitorato i seracchi della Poire, non erano particolarmente brutti o fratturati, però lì sotto ho allungato le curve... È un versante bellissimo, sul quale mi piacerebbe sciare ancora, fortunati quelli che possono averlo sotto gli occhi tutti i giorni».

Hai mai avuto paura di una discesa, magari una parete che hai deciso di non scendere perché ti incuteva timore?

«Certo! Il Nant Blanc sulla Verte».

Però lo hai sceso e ci sei andato ben due volte!

«Sì, ma mi ci sono voluti ben venti anni per andare a provare! Non mi sentivo pronto, lo reputavo troppo difficile per me. Poi l’ho sciato: il Nant Blanc racchiude una serie di problemi tecnici e di pendenza notevoli. Non abbiamo fatto le doppie della parte centrale, ma abbiamo cercato, con una traversata, di collegare i due nevai. Nell'arco delle due volte ho sciato tutte la varie sezioni dalla cima, ma non concatenandole in un'unica discesa. E poi oggi il problema potrebbe diventare il risalto alla base. Invece ci sono delle discese che, paradossalmente, miglioreranno con lo scioglimento dei ghiacciai, speriamo!».

Ultima domanda, soli o in compagnia?

«In compagnia c'è condivisione. È più bello!»

Grazie Piero, un mito.

Classe 1963, Pierre Tardivel vive con la moglie Kathy e le loro due figlie nei pressi di Annecy che preferisce nettamente alla più blasonata Chamonix: troppo caotica, cara e con meno servizi per condurre una vita normale in armonia con la natura. Guida alpina, sciatore estremo dal curriculum impressionante, intermediario nell'editoria di montagna, motociclista e surfista, rappresenta un punto di riferimento per tutto il movimento degli sciatori di pente raide che sognano di ripercorrere alcune sue discese mitiche ancora oggi irripetute, come la parete nord del Gran Pilier d'Angle. 

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 114 di Skialper. Se non vuoi perderti nessuna delle storie di Skialper e riceverlo direttamente a casa tua puoi abbonarti qui.

©Federico Ravassard

Kilian, la strategia alimentare per fare 23.846 metri di dislivello in 24 ore

È passata qualche settimana dall’impresa di Kilian Jornet che ha percorso 23.486 m di dislivello in 24 ore con sci e pelli. Il catalano ha curato nei minimi dettagli ogni particolare e anche l’alimentazione ha avuto la sua parte. Abbiamo chiesto un parere sulla sua strategia a Elena Casiraghi, PhD - esperta in nutrizione e integrazione sportiva dell’Equipe Enervit. Ecco cosa ci ha detto.

«Il talento è un dono. Ma non è tutto. Per migliorare la prestazione sportiva serve allenarsi con costanza e metodo. L’allenamento infatti è indispensabile a creare adattamenti nell’organismo via via crescenti, a spingere i propri limiti più in là. Per uno sportivo effettuare test funzionali nei periodi di preparazione è essenziale: permette di conoscere le capacità acquisite attraverso l’allenamento e tarare al meglio le future sessioni. Kilian Jornet questo lo sa bene. È così che l’8 febbraio 2019 ha completato un test per conoscere la massima capacità di elevazione altimetrica a cui il suo organismo era in grado di spingersi e la sua capacità di resistere alla fatica. Ha curato ogni dettaglio che, se pur marginale, potesse concorrere al risultato. Abbigliamento, strumentazione da polso, materiale tecnico e nutrizione. Niente ha lasciato al caso. Alimenti a base di carboidrati sono stati assunti nei momenti di pausa tra le varie prove. Anche la palatabilità, infatti, è un fattore che può incidere sulla prestazione. La caffeina sotto forma di caffè è stata utile per attivare il sistema nervoso centrale e quindi vincere l’addormentamento nelle ore notturne. Acqua e minerali sono poi stati assunti costantemente. Allenarsi e competere in stato di disidratazione, infatti, è rischioso: diminuisce i riflessi, gli adattamenti agli stimoli di allenamento e aumenta il rischio di infortuni e la velocità di svuotamento delle riserve di glicogeno. Per i momenti di maggior sforzo, Kilian ha assunto energetici considerando i tempi ottimali di assorbimento intestinale e integrando con costanza carboidrati ogni trenta minuti. Terminato il test ha mantenuto elevata l’attenzione celebrando l’importanza della fase del recupero. Per non influire in maniera negativa sulla successiva sessione è fondamentale curare la reidratazione, la rigenerazione muscolare e il recupero delle riserve di glicogeno sin dal primo momento in cui l’organismo ne offre possibilità. È vantaggioso assumere nella prima fase del recupero miscele in polvere da diluire in acqua. L’efficacia del tuo prossimo allenamento parte da qui».

Ricapitoliamo come si è nutrito e idratato Kilian nella 24 ore:

  • La strategia prevedeva di assumere 250 cal/ora
  • Primo gel dopo un’ora e poi ogni 30 minuti, da 100 a 230 cal
  • Dopo 10h35’ 1 fetta di pizza
  • Nelle successive 4 ore cibo normale
  • Ancora gel tra le 14 e le 17 ore
  • Break di 10’ con una fetta di pizza e patate
  • Altri gel ogni 30’ per 2h30’
  • Dopo 19h48’ altro break di 10’ con caffè caldo/cioccolata e pasta
  • Nelle ultime 4 ore 10 gr di cioccolato ogni 30’
  • Acqua o acqua con sciroppo di mirtilli, circa 1 litro ogni 3 ore, con piccoli sorsi ogni 15’

In totale 5.500-6.000 calorie

 


Il 2 marzo torna lo Snow Leopard Day

Anche quest’anno Dynafit chiama a raccolta tutti gli appassionati di scialpinismo con l’obiettivo di accumulare metri di dislivello a tutela del leopardo delle nevi. Il marchio, che ha scelto questo animale come simbolo del proprio logo, sostiene da vari anni la Snow Leopard Trust, la più importante e storica associazione che si impegna quotidianamente nello studio del leopardo delle nevi e nella tutela del suo habitat, in costante riduzione e sotto continuo attacco da parte dell’uomo. Ogni metro di dislivello raccolto durante le varie tappe dello Snow Leopard Day verrà commutato in una donazione di un centesimo di euro. Lo scorso anno Dynafit ha potuto versare ben 11.000 euro, grazie alla raccolta totale di più di un milione di metri di dislivello.

LA TAPPA ITALIANA -Il progetto farà tappa sabato 2 marzo in Italia a Misurina, in provincia di Belluno, con il supporto dei punti vendita Salewa Store Longarone, ma anche delle Guide Alpine Tre Cime di Lavaredo. I partecipanti alla giornata avranno a disposizione 7 ore, dalle 9 alle 16, per compiere il maggior dislivello possibile. La partenza del percorso di risalita è situata nei pressi del Ristorante Alla Baita, a Misurina. Sarà possibile muoversi su un tracciato segnalato dall’organizzazione con cartelli informativi in maniera autonoma, ma per chi è alle prime armi o ha voglia di una pellata in compagnia le Guide Alpine Tre Cime di Lavaredo saranno felici di accompagnare gli scialpinisti fino alla cima Forcella della Neve: partenza per i gruppi organizzati alle 9 o alle 12 davanti al Ristorante Alla Baita. La partecipazione prevede l’iscrizione al momento del via e il versamento di un’offerta di 10 euro, che dà diritto a un pranzo presso il Ristorante alla Baita e la possibilità di skitest di attrezzatura Dynafit della stagione in corso, anche se, per far fronte a ogni evenienza, è consigliato portare il proprio equipaggiamento.

I ricavati dell’edizione 2019 dello Snow Leopard Day andranno a finanziare il primo censimento mondiale della popolazione dei leopardi delle nevi, una procedura essenziale per i ricercatori, perché solo disponendo di dati esatti sarà possibile in futuro tutelare questo raro felino e impedire interventi nel suo habitat naturale.

LO SNOW LEOPARD TRUST -Dal 1981 l‘organizzazione Snow Leopard Trust, con sede a Seattle, è attivo nella tutela degli esemplari superstiti del leopardo delle nevi e svolge ricerche su questo felino a rischio di estinzione. L’habitat del leopardo delle nevi si riduce sempre più. Gli studi stimano che attualmente esistano 3.500 esemplari allo stato brado, che vivono una minaccia sempre crescente a causa del bracconaggio, dei cambiamenti climatici e della decimazione del loro habitat. L’organizzazione porta avanti progetti in Cina, India, Kirgisistan, Mongolia e in Pakistan, compiendo ricerche su questi animali a rischio di estinzione e ripristinandone l’habitat, in collaborazione con la popolazione delle regioni montane.

Per maggiori informazioni


Emozioni in Rosa

Qualcuno l’ha definita la gara più bella del mondo. Il fatto è che non fa parte né de La Grande Course, né della Coppa del Mondo, ma del più incredibile santuario alpino che Madre Natura ha voluto regalarci. Si scrive Rosa Ski Raid, si legge stupore. Quello di ritrovarsi a combattere contro il tempo ai piedi della più himalayana delle pareti alpine, la est del Rosa, sopra Macugnaga: oltre 2.700 metri a strapiombo, proprio sopra la testa di chi gareggia. Dal Belvedere, 1.914 metri, alla Cima Dufour, 4.638 metri, ne corrono esattamente 2.724 di metri. Un paesaggio di vera alta montagna, da batticuore anche se non si corre per le prime posizioni. Macugnaga non è terra di scialpinismo facile. Troppo ripidi i versanti, le grandi classiche hanno bisogno di pendii dove si possa trovare il ritmo. Oppure - quelli bravi - affrontano il Canale Marinelli, quando la via di salita non è il più facile elicottero. La data del 2019 è il 17 marzo. Con una speranza «Quella di poter finalmente - aggiunge Fabio Iacchini, direttore del percorso - mettere in piedi la gara sul percorso che ci siamo immaginati da sempre. Per tanti motivi, la sicurezza in primis, non siamo ancora riusciti ad arrivare fino al Colletto di Pizzo Bianco, a quasi 3.000 metri, per poi affrontare la lunga, spettacolare discesa di quasi 1.600 metri di dislivello fino in paese. Di solito si deve affrontare con una Guida alpina se non la si conosce bene, ma messa in sicurezza è davvero da adrenalina pura». Arrivo con gli sci o a piedi confermatissimo nel cuore di Macugnaga perché il Rosa Ski Raid è davvero la gara del paese, sentita e amata da tutti.

PERCORSO EFFIMERO - Il Rosa Ski Raid rispecchia in pieno il genius loci. Si sarebbe potuto salire al Passo Moro, ancora più in quota, e magari tracciare un saliscendi sul ghiacciaio, tra Italia e Svizzera. Ma sarebbe stato troppo banale. Si sarebbe potuto disegnare una gara con partenza e arrivo dallo stesso posto, invece si arriva più in basso di dove si parte. Si sarebbe potuto pensare prima alle caratteristiche tecniche e poi al panorama. Invece il grandioso spettacolo della natura non toglie pathos a un percorso nervoso, che ti tiene sempre sull’attenti. Macugnaga è terra di fondisti ma anche di tradizioni scialpinistiche. Le tutine si sono sfidate nel 1995 e nel 2004 nei Campionati italiani degli Alpini. Ma la tradizione del Rosa Ski Raid è insignificante: si corre solo dal 2015. Tre anni che valgono venti anni. Sono pochi i percorsi così particolari, così unici. Non è il Mezzalama, non è il Tour du Rutor, non vuole neanche esserlo. Ma è una gara da sogno. È un po’ come il ghiacciaio, sempre in movimento, mai uguale da un anno all’altro. Oppure come il lago effimero che si formò proprio sul ghiacciaio del Belvedere e per mesi tenne con il fiato sospeso tutta Macugnaga, minacciata da una valanga d’acqua. Il bello del percorso del Rosa Ski Raid è proprio questo, che si muove su un terreno di alta montagna, al cospetto di pendii ripidi e canaloni, di ghiacciai. E non è mai uguale all’anno prima. Esiste naturalmente una mappa, ma bisogna sempre aspettarsi sorprese. Però il bello del Rosa Ski Raid è che dal Belvedere, con un binocolo, puoi praticamente vedere tutta la gara. Un’altra piccola chicca per una gara da sogno.

IL FAN CLUB DEL LENCE - Eravamo 150 amici al bar. Potrebbe essere questo il titolo di un articolo sul Damiano Lenzi Fan Club. Tanti infatti sono i tesserati del sodalizio che sostiene il Lence in giro per l’Italia e spesso per il mondo. Ed è proprio da questo gruppo che nasce l’idea e la volontà di una gara di scialpinismo a Macugnaga. «La passione che abbiamo dentro, l’ammirazione per le imprese sportive di Damiano, ci ha fatto venire voglia di rimboccarci le maniche e inventarci una gara particolare» dice Aldo De Gaudenzi. Aldo è presidente del Fan Club oltre che del comitato organizzatore della gara. «Poco importa, siamo sempre gli stessi, Roberto Olzer è presidente dello sci club Valle Anzasca e io vice e lui è presidente insieme a me del comitato». Sempre gli stessi. Oltre a Olzer, c’è Fabio Iacchini, direttore del percorso e vecchia conoscenza dei lettori di Skialper. Un gruppo affiatato ma in realtà ben più ampio. «Ci ritroviamo tutto l’anno, ogni venti giorni circa, la sera, magari in taverna, è un’occasione per stare insieme e divertirci, ma il lavoro non manca… Ognuno rinuncia a qualcosa e ritaglia un po' di tempo tra gli impegni lavorativi e la famiglia. Però vengono in tanti a darci una mano e poi voglio fare crescere i giovani, voglio che prendano in mano loro l’organizzazione» conclude De Gaudenzi. Ma il percorso di gara chi l’ha inventato? «È un lavoro d’equipe, siamo saliti più volte io, Fabio, Roberto, anche Damiano». Proprio così, dalla condivisione nascono le cose migliori, come il Lence Fan Club e… il Rosa Ski Raid!

PAROLA A DAMIANO… - Damiano Lenzi e il Rosa Ski Raid sono legati a doppio filo. Anche se oggi l’alpino abita nel Cuneese, viene spesso in valle per allenarsi e da queste parti ha molti amici, essendo originario di Ceppo Morelli, non lontano da Macugnaga. «All'inizio era solo un fan club, poi sono riuscito ad avvicinare tutti questi amici allo scialpinismo ed è nata anche la gara e questa per me è la più grande soddisfazione» dice il Lence. «Correre a casa è sempre particolare, forse hai più pressione perché ci sono tante persone che conosci che vengono a vedertie a fare il tifo per te - aggiunge Damiano». Quando gli chiediamo quanto c’è del suo zampino nel percorso, ci risponde con molta franchezza: «Bisogna dire le cose come stanno, ancora non siamo riusciti a fare l’itinerario che abbiamo in mente perché le condizioni non lo hanno consentito, ma se solo facesse una stagione normale…». Ci hai messo l’acquolina in bocca, cosa bolle in pentola? «Qualche bella cima, senza andare troppo lontani, il Pizzo Bianco, con il Chiovenda, sarebbe uno spettacolo: mille metri di canale con la polvere fino ad aprile perché esposto a nord!» Ci crediamo.

E A MATTEO - E Matteo Eydallin cosa pensa del Rosa Ski Raid? «Gara bella, gara lunga, anche un po’ su ghiacciaio e spazi aperti, che va bene anche per preparare la Patrouille e prove simili in quota. E poi sicuramente lo scenario del Monte Rosa offre mille possibilità per lo scialpinismo».

www.rosaskiraid.it

Le immagini di questo articolo, realizzate da Stefano Jeantet, si riferiscono a una perlustrazione lungo il percorso con gli organizzatori.


Raha Moharrak oltre gli ostacoli della società

«È nato tutto per caso, davvero, niente di pianificato». Raha Moharrak racconta con estrema naturalezza l’impresa datata 18 maggio 2013, quando raggiunse la vetta dell’Everest segnando un momento storico non solo per lei, ma per tutte le donne arabe: a 25 anni, infatti, Raha è stata la più giovane donna araba e la prima saudita a toccare i mitici 8.848 metri. «Mentre affrontavo la salita non avevo assolutamente idea di questi primati - confida Raha - solo quando ho portato a termine la scalata me l’hanno detto. E penso sia stata una fortuna non avere tutta quella pressione addosso, anche se ovviamente l’ho avvertita dopo». Nata a Gedda, Raha Moharrak, laureata in Visual Communication presso l’American University di Sharjah e art director pubblicitario, ammette di essere un po’ la pecora nera della famiglia con la voglia di affrontare sempre nuove sfide. Una voglia che si materializza nel 2011 con un progetto assolutamente fuori dal comune per una ragazza dell’Arabia Saudita: salire il Kilimangiaro. Un azzardo, una vera e propria sfida, non solo fisica, ma anche culturale: grande appassionata di sport e avvicinatasi all’alpinismo, per Raha uno dei più grandi ostacoli non è stato infatti l’allenamento necessario per affrontare la montagna africana, bensì lo sforzo per far accettare alla propria famiglia e alla società nella quale vive la sua idea di vita. «Il mio spirito ribelle però ha avuto la meglio, così sono salita sul Kilimangiaro... e il resto è storia». Una storia fatta di una passione per le cime che cresceva di pari passo con la sua esperienza: «Non avrei mai immaginato che l’alpinismo potesse trasformarsi in una parte così importante della mia vita - ammette Raha - ma ormai è parte di me, di ciò che sono». E il curriculum alpinistico lo conferma: dopo essere salita sul Kilimangiaro (5.895 metri) nel 2011, l’alpinista saudita raggiunge, l’anno successivo, i 5.642 metri del Monte Elbrus (Catena del Caucaso) prima di affrontare l’anno più impegnativo, il 2013, quando inanella ben quattro delle Seven Summits, cioè l’Aconcagua, sulle Ande Argentine, 6.962 metri; l’Everest, 8.848 metri; il Massiccio Vinson (4.892 metri) in Antartide e il Monte Kosciuszko, in Australia, 2.228 metri. Dopo una pausa di quattro anni, Raha scala anche il Monte Denali - McKinley (6.190 metri), in Alaska, la vetta che le permette di entrare nella storia come la donna saudita che ha conquistato tutte le Seven Summits. La prossima sfida? «Una nuova scalata, ma questa volta dentro di me, con il libro che sto scrivendo».

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 121, uscito a gennaio 2018. Se non vuoi perderti nessuna delle storie di Skialper e riceverlo direttamente a casa tua puoi abbonarti qui.


Kilian giù dal Troll Wall

È online da ieri sulla Salomon TV il documentario sulla prima discesa con gli sci della ripida Fiva Route in Norvegia, che Kilian ha completato un anno fa, nel febbraio 2018. La Fiva Route è a Trolltind, dove si trova il Troll Wall. «Il tracciato che percorre la Fiva ha attirato la mia attenzione sin da quando mi sono trasferito in Norvegia, ma mi ci sono voluti più di due anni per trovare il giorno perfetto per tentare la discesa» ha detto Jornet. Il Troll Wall (Trollveggen in norvegese) ha una pendenza costante tra i 55 e 60 gradi e per anni è stato tra gli obiettivi di molti sciatori e alpinisti.

Kilian ha iniziato a pensare all’impresa due anni fa, quando si è trasferito nella zona. Da allora, ha passato ore a studiare il percorso, esaminandolo e aspettando le condizioni ottimali per tentare una prima discesa sugli sci. Le nevicate dello scorso anno hanno fornito il momento ideale. «Il 17 febbraio 2018 sono andato a ispezionare il percorso. Ho capito subito che le condizioni erano molto favorevoli. Nello sci ripido le condizioni non sono mai perfette, quindi mi sono reso conto che dovevo provare. È stata un'esperienza molto interessante, ma impegnativa. Il tratto superiore è forse il più complicato, sono i 200 metri più verticali che abbia mai sciato. Poi c’è un canale piuttosto stretto di 400 metri e 100 metri di tratto più sciabile, ma molto ghiacciato e ripido. È un percorso molto esposto dove ti devi completamente concentrare».


It’s running time

Correre in inverno. Per allenarsi, ma anche per il piacere di continuare a macinare chilometri e metri di dislivello quando la natura si ferma. Oppure per partecipare a qualche gara sulla neve o in ambiente invernale. Però, se d’estate è importante avere la giusta scarpa, d’inverno lo è ancora di più. Ecco perché abbiamo messo ai piedi di due specialiste alcuni modelli specifici. Scarpe per la neve e il freddo, ma anche semplicemente per una corsa in collina o a media quota, su terreni umidi o resi duri dal freddo. Per questo abbiamo deciso di dividere in due la vasta gamma delle calzature utilizzabili in inverno, creando una categoria delle super-specialistiche, cioè quelle scarpe con ghetta e proprietà termiche pensate per affrontare il bianco inverno. Per correre in un ambiente più fresco e umido, invece, ecco le versioni Gore-Tex dei modelli estivi. Due testatrici esperte in materia: Marta Poretti, che nel 2018 ha vinto l’Idita Sport, gara di 550 km tra i ghiacci dell’Alaska, con temperature che raggiungono anche i -35 gradi, e Melissa Paganelli, vincitrice dell’ultima Corsa Bianca e del Winter Trail Monte Prealba. A Marta l’onore (e l’onere) di provare le scarpe con ghetta, a Melissa quelle semplicemente in Gore-Tex. Per il primo test un campo prova d’eccezione: le insidiose pietraie sopra Cime Bianche Laghi, ai piedi del Cervino, rese viscide da un sottile strato di neve e dalla bufera. Per andare più a fondo, poi, ci siamo spinti su ampie chiazze di neve. Per la seconda prova, invece, ci siamo concentrati su un fondovalle molto umido.

GHETTA SÌ, GHETTA NO - Fatta la premessa, che vale in generale anche per le calzature estive, che ormai di scarpe brutte non ce ne sono più, abbiamo riscontrato importanti differenze d’impostazione tra i sette modelli provati. Le La Sportiva Uragano e le Salomon S/Lab XA Alpine 2 sono le più integralmente invernali, con morbida ghetta, come Uragano, o a stivaletto e doppia costruzione (con una normale scarpa da running interna) come le S/Lab XA Alpine 2, che non nasce come pura invernale ma per imprese fast & light in quota. Queste due soluzioni sono pensate per le condizioni più estreme, soprattutto con neve bagnata, la più insidiosa e umida, e quelle che garantiscono ma migliore termicità. «Sono modelli molto validi nei nostri climi, naturalmente per correre gare specifiche in Alaska o nel grande nord ci vogliono ancora più termicità e accorgimenti specifici e, a quelle temperature, può succedere che le ghette si bagnino e poi gelino, diventando rigide e a volte fastidiose» dice Marta Poretti. Ci sono invece soluzioni meno estreme, a metà del guado, come la La Sportiva Tempesta, che rappresentano un giusto compromesso tra protezione dagli elementi e libertà della caviglia. Inoltre la facilità e velocità d’accesso è migliore. In generale, correndo sulla neve, abbiamo riscontrato che non è sempre scontato che la soluzione con ghetta sia la più indicata. Anche una scarpa bassa in Gore-Tex, abbinata a una ghetta adeguata, se non si corre in neve fresca, può essere una valida scelta. Abbiamo inoltre inserito nel lotto dei modelli da neve la Scarpa Atom SL che è una via di mezzo tra un semplice modello in Gore-Tex e la Tempesta, con una specie di calzino basso a proteggere la caviglia dall’entrata di detriti, oltre all’utilizzo della membrana Gore-Tex. Si tratta di una soluzione che la casa indica in modo specifico per utilizzo invernale, anche se non ha particolari doti di termicità.

©Stefano Jeantet

OPZIONE CHIODI - Premesso che su terreni duri o ghiacciati esiste sempre l’opzione ramponcino (sul mercato se ne trovano di diverse marche e categorie di prezzo), segnaliamo un plus non da poco delle scarpe La Sportiva: la possibilità di montare chiodi AT Grip con un apposito accessorio simile al cacciavite. L’operazione è abbastanza semplice e le zone dove inserirli sono segnalate sulle suole di Uragano e Tempesta. Un’operazione che richiede pochi minuti e non rovina le scarpe. I chiodi, infatti, posso essere tolti e rimessi. Il kit costa 49 euro ed è acquistabile nello shop on-line della casa di Ziano di Fiemme o nei negozi specializzati.

GORE-TEX - In inverno la prima richiesta che si fa a una scarpa è quella di tenere asciutti (e a una giusta temperatura) i piedi. La membrana Gore-Tex utilizzata, solitamente la Extended Comfort, è la più traspirante e leggera e i modelli sono risultati confortevoli dal punto di vista climatico, con il piede sempre al caldo ma mai troppo in un clima fresco. Buona anche la dinamica di marcia anche se bisogna tenere contro di un peso leggermente aumentato rispetto ai modelli estivi e una flessibilità minore, ma assolutamente accettabile. «Solitamente utilizzo scarpe in Gore-Tex quando devo uscire per allenarmi su terreni che so essere innevati o molto umidi e nella stagione invernale, in queste condizioni, le differenze sono minime e comunque inferiori ai vantaggi» dice Melissa Paganelli. I modelli senza ghetta, naturalmente, se utilizzati in acqua e ad alta velocità, lasciano entrare qualche schizzo dall’alto. Ma nell’utilizzo medio invernale vanno più che bene (e potrebbero essere un’opzione anche per le mezze stagioni) e al limite si può sempre usare una ghetta.

©Achille Mauri

BENVENUTO INVERNO - In conclusione… non ci sono scuse per non andare a correre in inverno, il mercato propone la scelta di prodotti più vasta di sempre, per tutte le esigenze. Anche la categoria più specialistica delle integraliche solo qualche anno fa era occupata dalla sola La Sportiva Crossover GTX (ora disponibile nella versione 2.0), è ormai sufficientemente ampia (e comprende anche la Scarpa Spin Pro OD, con ghetta in OutDry, che purtroppo non abbiamo potuto provare, e la Dynafit Transalper U GTX, disponibile solo in versione maschile/unisex). L’importante è sapere che utilizzo prevalente si farà della scarpa invernale e orientarsi verso modelli più o meno specifici.

©Stefano Jeantet

INTEGRALI

Salomon S/Lab XA Alpine 2

Grazie alla doppia costruzione, dentro è molto simile (se non uguale) alla S/Lab Sense e il fit e le sensazioni si avvicinano. È risultata quella con migliore termicità. L’accesso è abbastanza facile e nella corsa non impaccia, sembrando un unico corpo, anche se le sensazioni sono abbastanza diverse da un modello estivo. È reattiva e secca e la suola ha la climbing zone in punta.

Peso: 375 gr
Prezzo: 250 euro
Drop: 6 mm
Suola: Premium Wet Traction Contagrip

La Sportiva Uragano GTX

Protezione totale e libertà dei movimenti. Non entra nulla, la termicità è buona e le doti dinamiche anche. Un po’ difficoltoso l’accesso, ma poi quando sei dentro la vestibilità è valida. Ben studiata anche la flessibilità, grazie alla Gore Flex Construction, sostanzialmente simile a quella di modelli come la Mutant. Mescola pensata per il grip su superfici morbide, per il duro c’è l’opzione chiodi AT Grip.

Peso: 350 gr
Prezzo: 189 euro
Drop: 10 mm
Suola: FriXion Blue

La Sportiva Tempesta GTX

Condivide con Uragano lo stesso chassis e la suola. Però non ha la ghetta ma linguetta e collo rialzati. È risultata un ottimo compromesso tra le semplici scarpe in Gore-Tex e le integrali. Per situazioni non estreme, versatile. Per il resto vale quando scritto di Uragano.

Peso: 300 gr (340 gr uomo)
Prezzo: 169 euro
Drop: 10 mm
Suola: FriXion Blue

Scarpa Atom SL GTX

La più leggera del lotto, una vera invernale per il grip, risultato il migliore. Non per la termicità e la protezione della esigua calzetta che la rende indicata per utilizzatori di livello, alla ricerca di una scarpa performante e veloce e per climi/nevi non estreme. E per correre veloce…

Peso: 290 gr
Prezzo: 169 euro
Drop: 4 mm
Suola: Megagrip

GORE-TEX

Dynafit Trailbreaker GTX

La versione in Gore-Tex della scarpa con la caratteristica suola a S firmata Pomoca (che si comporta bene). Termicità e traspirazione indicate per un utilizzo invernale non estremo, tanta protezione dietro, sensazione di drop e più sensibilità davanti. E una buona scelta per utenti di livello intermedio alla ricerca della protezione e di una scarpa versatile, anche per camminate veloci.

Peso: 250 gr (290 gr uomo)
Prezzo: 160 euro
Drop: 10 mm
Suola: Pomoca Alpine TB

New Balance KOM GTX

La novità 2018 New Balance per le ultra-distanze in versione Gore-Tex. Calda e traspirante il giusto per un utilizzo invernale non estremo, protettiva, ha buone doti dinamiche e un discreto grip, che la rendono una allround (per terreni e utilizzatori) no problem. L’impostazione iniziale è rigida e sostenitiva, ma dopo qualche chilometro ‘si fa’ e diventa molto comoda senza perdere il sostegno.

Peso: n.d.
Prezzo: 140 euro
Drop: 8 mm
Suola: Vibram Megagrip

Mizuno Wave Mujin GTX

Il grande classico della casa giapponese tradisce l’origine stradistica del marchio, con un’impostazione molto comoda, che non va a discapito della protezione, che è valida, anche da sotto grazie al rock plate. Lo spazio ampio davanti la indica anche per percorrenze lunghe con clima fresco grazie a una discreta termicità.

Peso: 320 gr (375 gr uomo)
Prezzo: 155 euro
Drop: 12 mm
Suola: Michelin

Scott Kinabalu Power GTX

L’ultima versione della best seller di casa Scott nella versione con tallone rinforzato, che sostiene di più. Rispetto ai precedenti modelli Kinabalu, concede qualcosa di più a comfort e ammortizzazione, ma rimane un modello ‘cattivo’ e veloce. La versione in Gore-Tex non tradisce le attese per qualche corsa bagnata in climi freschi.

Peso: 350 gr (390 gr uomo)
Prezzo: 179 euro
Drop: 8 mm
Suola: Scott, anche per bagnato

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 120, uscito a gennaio 2018. Se non vuoi perderti nessuna delle storie di Skialper e riceverlo direttamente a casa tua puoi abbonarti qui.


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