Mario Poletti organizza la Orobie Experience
Nel 2005 Mario Poletti corse il Sentiero delle Orobie in 8 ore, 52 minuti e 31 secondi. Un’impresa che ricordano ancora in molti e che portò tante persone sul sentiero. Ora il product manager di Scott Italia, nell’anno in cui Marco Zanchi tenterà un’impresa simile, si è inventato una nuova avventura aperta a chi vorrà condividerla con lui: Orobie Experience.
L’appuntamento è per sabato 29 e domenica 30 giugno. La prima tappa è daVal Canale al Rifugio Coca: 42 km e 2700 m D+ - tempo percorrenza stimato 10 ore. La seconda dal Rifugio Coca al Curò, Rifugio Albani e ad Ardesio: 42 Km e 2300 m D+ - tempo percorrenza stimato 11 ore.
L’evento è gratuito e aperto a tutti coloro che, avendo compiuto i 18 anni alla data di svolgimento dell’Experience, sono in possesso di certificato medico sportivo di idoneità all’attività agonistica in corso di validità. Per la partecipazione però è richiesto il curriculum sportivo. Si richiede di aver concluso una skymarathon o un’ultra trail (dai 55 km in su) o edizione del GTO (Gran Trail delle Orobie ). Le iscrizioni si chiuderanno al raggiungimento dei 20 partecipanti e la logistica è curata da Fly - UP. Iscrizioni qui.
Il film del record di Emelie Forsberg sul Kungsleden
Luglio 2018: Emelie Forsberg percorre il sentiero Kungsleden, nella Lapponia Svedese, in quattro giorni e 21 ore, facendo registrare il fastest known time. L’itinerario, in uno degli angoli più selvaggi del Paese scandinavo, è lungo 450 chilometri e viene di solito coperto in due settimane. La partenza è da Abisko, l’arrivo a Hemavan e il punto più alto a quota 1.150 metri, con discese fino a 330 metri. Nella prima tappa, la più lunga, la runner svedese ha raggiunto dopo 116 chilometri Saltoluokta, il rifugio dove ha lavorato quando aveva 19 anni e dove ha scoperto la montagna. L’itinerario comporta diversi fiumi da attraversare con piccole barche. Il cortometraggio di 14 minuti che documenta la sua impresa è disponibile da qualche ora sulla Salomon TV.
IL LIBRO - Il libro autobiografico di Emelie, Correre, Vivere con le stupende foto di Kilian Jornet, è stato da poco pubblicato in italiano dalla nostra casa editrice ed è uno dei successi editoriali della stagione, stabilmente nella top ten delle categorie corsa e maratona delle principali librerie online.
L’ABBIGLIAMENTO DI EMELIE – Come si è vestita e che scarpe ha utilizzato Emelie durante l’impresa in Svezia. Ecco soddisfatta la curiosità: scarpe S/LAB Sense 6 Softground, S/LAB Women’s Skirt, S/LAB Modular Shorts, Women’s Comet Plus SS Tee, Women’s Elevate Move’on SS Tee, X Wool Long Sleeve Tee, Women’s Lightning Wind Hoodie, Haloe Down Hybrid Women’s Hoodie, zaino Skin Pro 10 Set, Agile Long Tights, S/LAB Running Socks, e orologio/GPS Suunto 9. Scarpe e abbigliamento sono di Salomon.
Il viaggio sul filo delle frontiere di Jacquemoud e Bruchez
«Queste ultime tre settimane ci hanno permesso di mettere i nostri sci sul versante Est del Cervino, quello meridionale delle Grandes Jorasses e del Grand Combin de Valsorey, la Nord del Monviso e la Est del Monte Bianco». Scrive con soddisfazione Mathéo Jacquemoud in un post sul suo account Instagram. Le discese, che fanno parte del progetto Sur le fil des frontières (sul filo delle frontiere), in compagnia di Vivian Bruchez, porterà alla realizzazione di un video in prossimo autunno. Sulle Grandes Jorasses i due erano in compagnia di Thomas Guerrin e hanno dovuto rinunciare ad arrivare fino in vetta alla Walker a causa del rigelo insufficiente. La discesa sulla Est del Monte Bianco ricalca quella del 1988 di Pierre Tardivel, dal Col de la Brenva. Al Coolodge, sul Monviso, c’erano anche Leo Viret e Thomas Guerrin. La prima discesa, sulla Est del Cervino, è iniziata alla Cabane Solvay. Jacquemoud e Bruchez hanno anche sciato la cresta Ovest dell’Eiger.
Zegama, il film della gara
Come è andata lo sapete già, con Kilian Jornet a conquistare l'ennesima vittoria nella maratona basca davanti a Bartlomiej Przedwojewski, con Thibaut Baronian a completare il podio e la vittoria femminile di Eli Anne Dvergsdal con piazza d’onore per Elisa Desco che vince il testa a testa con Amandine Ferrato. Ma Zegama, tappa inaugurale delle Golden Trail World Series 2019, è gara che va vissuta e rivissuta perché trasmette emozioni come pochi eventi. Ecco allora il video di 23 minuti con tutto quello che è successo lo scorso 2 giugno.
Marcel Kurz, l'età d'oro dello scialpinismo
Lo svizzero Marcel Kurz non è stato solo fra i primi a introdurre lo scialpinismo sulle Alpi a fine ottocento, ma ne ha influenzato più di ogni altro lo sviluppo a partire dagli anni venti in Svizzera, Francia e Italia, soprattutto grazie al suo libro Alpinisme Hivernal del 1925. Pubblicato in Italia nel 1928, questo poderoso volume è stato l'indiscusso punto di riferimento per più generazioni di sciatori alpinisti, compresa la mia. Kurz è stato, anzi è, il grande ispiratore dell'attuale scialpinismo classico. Mio padre, come ogni appassionato scialpinista, possedeva una copia di Alpinismo Invernale. Ora il libro, ingiallito dal tempo, impreziosisce la mia collezione di opere fondamentali sullo sci. È curioso come nel titolo non appaia la parola sci, mentre tutto il volume, a parte il primo capitolo dedicato ai precursori, che andavano in montagna d'inverno a piedi, è un vero inno allo sci come modo ottimale per vivere la montagna bianca.
Sono piuttosto il titolo e il sottotitolo del secondo capitolo, rispettivamente Il trionfo dello sci e La seconda conquista delle Alpi, a definire bene i contenuti dell'intero volume. Alpinismo invernale è innanzitutto un manuale tecnico denso di consigli e una guida preziosa sui grandi itinerari in sci delle Alpi Occidentali, percorsi per la prima volta da Kurz e destinati a diventare dei classici, come la haute route Bourg Saint Pierre-Zermatt, il circuito del Bernina, i quattromila intorno alla capanna Britannia. Alpinismo invernale però non è solo questo. È anche e soprattutto un saggio sulla bellezza e sul fascino della montagna vissuta con gli sci. Per Kurz lo scialpinismo è un fantastico modo di vivere, è entusiasmo puro, piacere di fermarsi per contemplare un panorama, per bearsi con calma della montagna bianca, per crogiolarsi al sole. Il tutto senza l'assillo delle lancette dell'orologio. La fatica, il gusto della performance e anche le disavventure sono sempre in secondo piano. Alpinismo invernale ci riporta insomma a valori dimenticati, a un modo sereno e gioioso di vivere lo sci. Il libro mette in evidenza molto bene le due diverse anime di Kurz, che si completano alla perfezione. Il Kurz passionale, che ama la montagna perdutamente e si abbandona a essa, e il Kurz razionale, l'ingegnere topografo pignolo, talvolta addirittura pedante, lo scrittore esigente, meticoloso. Perfette, sotto quest'ultimo punto di vista, le pagine dedicate agli albori dello scialpinismo, a Wilhelm Paulcke, Christoph Iselin, Arthur Conan Doyle. L'intera opera ha un valore letterario e fa parte a pieno diritto di quella letteratura dello sci che annovera opere di grandi scrittori, da Doyle a Hemingway, da Calvino a Parise, da Buzzati a Marchi, senza dimenticare Balzac...
Figlio d'arte
Marcel Kurz nasce a Neuchâtel nel 1887. È suo padre Louis, insegnante di violino e noto alpinista nonché autore di carte e guide del Monte Bianco, a trasmettere al figlio la passione per la montagna. A undici anni compiono insieme la prima al Grand Darrey (3.515 m). La famiglia Kurz possiede uno chalet a Saleina, campo base ideale per esplorare le Alpi del Vallese. Marcel inizia lì a fare seriamente scialpinismo, nel 1907, effettuando la prima salita invernale con gli sci del Grand Combin, insieme al professor François Frédéric Roget di Ginevra (autore del famoso e raro volume Ski runs in the high Alps del 1913) e alla guida Maurice Crettez. Per la verità gli sci vengono lasciati ai piedi del Col du Meitin (3.426 m). Laureatosi ingegnere topografo, nel 1913 inizia a lavorare per l'Ufficio Federale di Topografia. Nel 1921 partecipa, con la moglie Lilette Morand, a una spedizione al Monte Olimpo in Grecia, dove scala l'inviolato Trono di Zeuss e redige una pregevole monografia e una cartina.
Nel 1922 lascia l'impiego sicuro per dedicarsi anima e corpo alla montagna, alla redazione di carte e di guide come libero professionista. Una scelta non facile che gli permette però di organizzare spedizioni in Nuova Zelanda con Ned Porter nel 1926/27, con salite al Tasman e al Cook, e in Himalaya con Günter Dyhrenfurth nel 1930. In questa spedizione, che ha come obiettivo il Kangchenjunga, Kurz realizza la prima carta dettagliata della zona e raggiunge la massima altitudine di quegli anni: la vetta del Jongsong Peak (7.459 m). Gli sci non mancano mai nel suo bagaglio di grandi viaggi. Purtroppo però, a causa di una caduta da cavallo nella fase iniziale della successiva spedizione di Dyhrenfurth, in Karakorum, del 1934, non può dividere con l'amico Piero Ghiglione la vetta del Golden Throne (7.250 m). A un'intensa attività alpinistica e scialpinistica Kurz affianca una pregevole attività editoriale, pubblicando una versione aggiornata della guida e della cartina del padre sul Monte Bianco. Prepara inoltre le quattro guide sulle Alpi del Vallese che ancora oggi costituiscono una fonte di informazioni fra le più complete e apprezzate. Nel 1957 pubblica il volume Chronique Himalayenne, una ciclopica e fondamentale opera sulla letteratura himalayana. Negli ultimi anni ritorna a percorrere in veste estiva le grandi traversate in sci attraverso le sue adorate Alpi Pennine. Purtroppo la sua mente brillante si offusca tragicamente negli ultimi tre anni di vita. Muore a Neuchâtel nel 1967. Non avendo avuto figli, la moglie Lilette dona tutto il suo vasto archivio alla fondazione che porta il nome di Marcel e del padre: la fondazione Louis e Marcel Kurz, con sede a Neuchâtel.
Uno scialpinismo gioioso
Lo scialpinismo di Kurz non è certo quello veloce mordi e fuggi in giornata. Ma non è nemmeno quello dei grandi raid senza punti d'appoggio. Neppure quello delle tutine. È uno scialpinismo lento, segnato dal piacere della sobria ospitalità dei classici rifugi alpini. Ossia dei veri rifugi, custoditi o incustoditi ma sempre aperti, alla svizzera per intenderci. Per Kurz e compagni l'arrivo in un rifugio è sempre un momento felice e importante, il raggiungimento «di un tetto ospitale e della sognata (e meritata, ndr!) cena» fa parte a pieno titolo dei piaceri dello scialpinismo. Di mattina Kurz non ha mai fretta di partire per arrivare in cima. Quindi niente levatacce notturne: si parte piuttosto tardi, quando si è pronti, dopo una buona colazione. Ritornare al rifugio o concludere la gita con una lanterna con dentro una candela accesa è di conseguenza una cosa piuttosto normale. Le soste per le ‘belle pipate’ durante le salite, anche quelle impegnative, sono un'altra caratteristica dello scialpinismo di Kurz. Fumare fa parte del gioco. Non ho contato quante volte nel suo libro nomina la pipa, ma sono davvero tante. Ovunque c'è un bel panorama, si ferma e si accende la pipa per godere pienamente della magia della montagna bianca. In particolare le albe e i tramonti sono considerati spettacoli sublimi da assaporare lentamente con questa prospettiva, per poi lasciarsi andare a descrizioni particolareggiate di quei momenti unici che grazie allo scialpinismo si ha il privilegio di vivere. Sempre con il «fumo azzurro che sale verso l'azzurro del cielo» si sognano altri colli, altre vette, laggiù all'orizzonte «puntando il cannello della pipa» verso di loro.
Kurz non è un solitario, il suo è uno scialpinismo condiviso con amici fidati e con guide locali. Nei suoi scritti egli è molto discreto nel parlare dei compagni di gita, particolarmente avaro di notizie sulla loro vita privata, come sulla sua. Ad esempio, per mettere in evidenza l'autorevolezza di un certo Roget, premette sempre il titolo di signore o professore al suo nome, mentre per sottolineare l'amicizia che lo lega a De Choudens lo chiama affettuosamente Chouchou. L'atteggiamento da condottiero che contraddistingue la guida Crettez, nonché la sua forza e la sua determinazione, risultano invece da battute e comportamenti riportati nel volume. A proposito di guide e di portatori, Kurz si serve spesso di montanari locali. Ciò non significa che non sia esperto, forte e allenato. Prendendo a modello i grandi alpinisti inglesi di fine Ottocento è però favorevole a questa prassi, non solo per evitare la fatica delle marce di avvicinamento ai rifugi con zaini giganteschi ma anche per dividere con le guide locali le soddisfazioni di tante prime salite con gli sci. In quell'età d'oro dello scialpinismo le Alpi permettevano ancora l'emozione di essere i primi a scoprire stupendi itinerari ed era bello farlo condividendo queste emozioni con i montanari locali.
Nello scialpinismo di Kurz sono assenti le donne. È pur vero che siamo agli albori dello scialpinismo, ma grandi scialpiniste erano già in attività sulle Alpi, da Nini Pietrasanta a Livia Bertolini Magni, da Ella Maillart a Paula Wiesinger. Kurz dedica pochissime righe al gentil sesso nelle sue pubblicazioni. Abbiamo trovato una sola citazione di sua moglie, a proposito dell'acquisto di un quadro di montagna del pittore Abrate, nello chalet di Saleina. C'è poi un unico riferimento al fascino femminile quando si trova fra le tante belle donne presenti a una festa danzante presso l'hotel Kronenhof di Pontresina, alla fine del circuito del Bernina. Qui Kurz, stanco ma felice, si rende conto che l'attrazione irresistibile, la «malìa», come la chiama lui, che esse esercitano è «tanto quanto ve n'era lassù nelle solitudini ghiacciate». Infine notiamo la metafora donna-montagna utilizzata a proposito del Blindenhorn in Val Bedretto, paragonato alla «più bella ragazza del mondo» che non si dà interamente: egli non serba infatti un buon ricordo di questa bellissima montagna a causa della neve troppo dura! A parte queste eccezioni, in generale per Kurz le donne non sembrano per nulla interferire con le sensazioni forti che gli vengono offerte dalla montagna e dallo scialpinismo. Occorre però tener presente la discrezione e il pudore nel parlare di sensazioni e di passioni diverse da quelle per la montagna, come se queste ultime non fossero in alcun caso influenzate da altre pulsioni.
Lo sciatore Marcel Kurz
Secondo Walter Amstutz, che scrisse il necrologio di Kurz per la rivista dell'Alpine Club, non era uno sciatore raffinato. Probabilmente si tratta di un giudizio oltremodo severo, in quanto Amstutz, nativo di Mürren e grande amico di Arnold Lunn, fu uno dei più talentuosi ed entusiasti sciatori della sua epoca, vincitore di moltissime gare nonché imprenditore di successo ed editore di Der Scneehase, l'annuario dello Schweizerischer Akademischer Ski Club da lui fondato. Per Kurz invece gli sci erano soprattutto un mezzo per raggiungere un obiettivo, per salire le montagne e non solo per scenderle. Questo non significa che non fosse un appassionato sciatore. Nei suoi scritti non mancano molti apprezzamenti alla ‘scivolata’. Ecco alcuni esempi tratti da Alpinismo invernale. La discesa dalla Rosablanche è stata effettuata in «dieci-quindici centimetri di polvere leggera nella quale i volteggi diventano un gioco inebriante». Dai 4.206 metri dell'Alphubel, «appena calzati gli sci, addio contemplazioni: ognuno s'abbandona al piacere della sciata. La neve favorisce tutte le audacie... .era un gioco eccitante e voluttuoso che finiva per inebriare». Il gioco continua al Basodino, con un gran finale «tra le ombre allungate del crepuscolo, ... sulla neve scricchiolante e leggera, una fuga indiavolata, stordente...». Anche nella parte finale della discesa dal Grand Combin, mentre «il crepuscolo scendeva lentamente sulla montagna stendendo il suo velo uniforme, chiaroscuro... descrivemmo lunghe curve e questo movimento cadenzato ci inebriò deliziosamente». Il piacere della lentezza si ripete nella bellissima discesa sulla Cabane d'Orny dal Plateau du Trient dove, a differenza di Crettez che va «velocissimo, dritto verso il fondo del pendio», Kurz preferisce «le larghe serpentine così da protrarre il piacere il più lungamente possibile»: si tratta di un'affermazione importante, sulla quale i veloci scialpinisti del giorno d'oggi dovrebbero meditare... Infine c'è la discesa in neve brutta, che Kurz chiama cattiva, sulla quale «tutti i mezzi per discendere diventano buoni», sulla quale è «inutile fare dello stile come quando si vuol far colpo sulla platea di un Kurort». Quando la neve è cattiva meglio mettere «i bastoni tra le gambe» e andar giù diritti con l'intramontabile raspa. Con riferimento alla prima discesa in sci in pessima crosta dal Monte Leone, scrive: «io non dirò che la discesa sia stata deliziosa: sarebbe fare alla neve un complimento che non meritava». Malgrado grandi sforzi, non siamo riusciti a trovare una foto di Marcel Kurz in discesa con gli sci. Gli unici scatti in cui appare con gli sci sono quelli pubblicati in questo articolo: statiche, più o meno nella stessa posizione e con il medesimo abbigliamento, seppur in luoghi diversi.
L'inverno alpino
Secondo Luciano Ratto, curatore dell'ultima edizione di Alpinismo Invernale (Vivalda Editori, 1993), il capitolo più bello, più poetico del libro è il terzo, intitolato L'inverno alpino. Ha perfettamente ragione. In esso si trovano alcune pagine da antologia e alcune verità che tutti coloro che amano o si interessano di sci, compresi gli strateghi e gli operatori del moderno turismo invernale di massa, dovrebbero conoscere. L'inverno alpino, dice Kurz, è molto più lungo di quello del calendario. Esso conta tre fasi principali: una «di innevamento preliminare» spesso insufficiente; una centrale caratterizzata da periodi di «massima secchezza», da neve polverosa che viene lavorata e portata via dal vento; una terza e ultima fase con «un innevamento definitivo» che «precede immediatamente la prima estate alpina». Durante tutto l'inverno di calendario, cioè le prime due fasi, secondo Kurz «le alte Alpi (oltre i 2.500 metri, ndr.) non offrono nulla di molto seducente per lo sciatore propriamente detto, il quale farà meglio a evitare queste alte regioni fino a marzo». È invece la terza fase quella di gran lunga più adatta allo sci ed essa coincide con la primavera. La neve si consolida per effetto dell'azione del sole e del gelo notturno, diventando più facile e sicura, la superficie nevosa diventa un potente riflettore che, anziché assorbire il calore solare, lo respinge nell'aria, rendendo più gradevole la sciata. È quindi la primavera la grande stagione dello sci. Anche Arnold Lunn è d'accordo su questo: «mai le Alpi sono più meravigliose che in maggio, quando la loro bellezza è fatta di contrasti… non vi è vagabondaggio in sci paragonabile a quello di primavera sui ghiacciai». Kurz riporta nel suo volume questi pensieri dell'amico inglese, oltre al suo racconto di una traversata dell'Oberland Bernese, un massiccio che stranamente Kurz non visitò.
Un'eredità importante
Kurz descrive uno scialpinismo ricco di emozioni che sono in gran parte dimenticate ma non per questo superate. La scoperta della lentezza, della bellezza dei «campi di neve che giammai sciatore abbia sognato», le «partenze senza sveglia», l'atmosfera dolce del rifugio, le soste «deliziose» durante le gite, «l'apoteosi dello sci di primavera», il piacere di «crogiolarsi al sole» sulla neve e quello di «potersi attardare sulle vette, osservando le ombre della sera”, le sensazioni di libertà e di nostalgia che irrompono prepotenti quando meno ce l'aspettiamo, i piaceri dello sci di traversata, l'ottimismo dei «cuori gonfi di speranza». L'eredità importante che ci ha lasciato non è però solo questa. Il suo è uno scialpinismo basato su alcuni principi fondamentali anch'essi troppo spesso dimenticati dalla visione moderna che si possono riassumere in tre parole: riconoscenza, elasticità, ricerca.
Riconoscenza
Scrive nel capitolo Prime esperienze: «Io, allora, avevo diciannove anni. Mio padre mi aveva iniziato ai segreti della montagna e, a poco a poco, la passione ingigantiva dentro di me». Tre anni dopo, un Kurz in piena forma durante la traversata del Bernina, aggiunge: «Quanta riconoscenza noi dobbiamo a coloro che ci hanno fatto conoscere le montagne e le loro meraviglie». Il valore dimenticato della riconoscenza permea tutta la sua vita e dà spessore al suo scialpinismo.
Elasticità
Un altro messaggio importante che un Kurz maturo ci propone, prendendo lo spunto dalla salita non programmata alla Dent d'Hérens insieme a Crettez a fine gennaio 1920, è quello relativo all'elasticità dei programmi. Ecco cosa scrive: «Nella notte avevo cambiato i miei piani. Più corro attraverso le montagne, più constato che bisogna sapere adattarli alle circostanze del momento... una volta sul posto, bisogna essere molto elastici e non attaccarsi ciecamente alla prima idea». Se ne deduce che la vera avventura non è quella minuziosamente programmata, frutto di prenotazioni di mezzi di trasporto, rifugi e servizi vari, ma quella che, secondo esploratori del calibro di Eric Shipton e Bill Tillman, si può sintetizzare sul retro di un qualsiasi pezzo di carta».
Ricerca
Kurz ci invita a non ripeterci, a ricercare sempre nuove mete. «Lo confesso - scrive parlando delle gite effettuate fra il Sempione e il Gottardo nel gennaio 1911 - i miei sci hanno una tendenza spiccata a lasciare le tracce note; essi paiono calamitati: l'ignoto li attira ed essi si volgono volentieri verso luoghi nuovi». Per questo considera importante «estendere l'esplorazione invernale delle Alpi fino alla loro estremità... tracciare una haute route invernale, che si sviluppi lungo la cresta più alta delle Alpi, da Grenoble a Innsbruck, e verrà il giorno senza dubbio in cui qualche entusiasta percorrerà le Alpi from end to end, come ha fatto Sir Martin Conway». Ci penserà, non molti anni dopo, nel 1933, uno solitario sciatore vagabondo chiamato Leon Zwingelstein...
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 112 DI SKIALPER, INFO QUI
In arrivo Skialper 124 di giugno-luglio
«Una linea difficile ed effimera come lo sono quelle sugli ottomila, in balia dei forti venti e del meteo, che ora scarica neve, ora dissemina roccia che impedisce la discesa con gli sci, se mai si riesce ad arrivare in vetta. Una linea unica e irripetibile. Ma ognuno ha la sua linea». scrive così Claudio Primavesi nell’editoriale di Skialper di giugno-luglio per introdurre la foto di copertina e il tema del numero 124: fedeli alla linea. Si parte, appunto, dall’estetica Dream Line di Hilaree Nelson e Jim Morrison sul Lhotse, ma scriviamo anche di trail running, escursioni dolomitiche, discese norvegesi, vacanze in bici e sci, concatenamenti alpinisti in velocità, rifugi del massiccio francese degli Écrins. Dopotutto, sono tutte traiettorie in cui si sviluppa un movimento se vogliamo rimanere fedeli alla definizione di linea. E sono linee tracciate o sognate da uomini e donne, come scrive il direttore editoriale Davide Marta. «Una linea si può tracciare. Si può seguire, ci si può discostare. Si può senz’altro studiare, sognare, immaginare. Se ne può avere una sola, oppure più di una. Una linea può essere dritta, oppure curvilinea, può girare attorno a degli ostacoli. Può assecondare, ma può anche filare dritto per dritto. Noi abbiamo un’idea di fare riviste che poi è una linea. Parlare di persone, prima di tutto, usando il pretesto della montagna, dello sci, dell’arrampicata, della corsa. Che senso avrebbe, se no, tutto questo? Le linee sono cose che hanno a che fare con la vita delle persone, tutti i giorni». Skialper 124, 160 pagine, è in distribuzione nelle edicole a partire da martedì 11 giugno.
LA LINEA DI DISCESA PRIMA DI TUTTO - Quella di Hilaree Nelson e Jim Morrison sul Lhotse del settembre 2018 è stata, insieme alla discesa del K2 di Bargiel, l’impresa dell’anno. Per conoscere i retroscena della sciata sulla Dream Line abbiamo intervistato Hilaree. Una chiacchierata che non si è fermata al Lhotse, ma è arrivata al Papsura, al ruolo di mamma e sciatrice estrema-esploratrice e tanto altro.
ICE & PALMS - Dal Sud della Germania a Nizza. Una vacanza in bici per arrivare al mare. E in mezzo un po’ di cime con gli sci e le pelli. È la pazza avventura della scorsa primavera di due simpatici tedeschi (che è diventata anche un film, Ice & Palms, appunto). Con qualche imprevisto, come il passo del Furka ancora chiuso affrontato con 50 chili sulle spalle tra zaino e bici, fio da pagare per qualche sciata indimenticabile. E naturalmente non è mancato il bagno finale nelle acque del Mediterraneo.
THE GODMOTHER OF ALL COULOIRS - Una linea netta, tra le rocce a picco sul fiordo. Un nome invitante (la madrina di tutti i couloir). Non si poteva non andare alla scoperta di quella sottile fessura. Ed è quello che hanno fatto Alice, Alberto, Marco e Carolina. Ma non avevano calcolato che fiordo e tormentato territorio norvegese avrebbero richiesto molto più tempo del preventivato. Alla fine la soddisfazione di una discesa molto estetica ha ripagato la tanta fatica, ma non per tutti gli escursionisti.
TOUR DE LA MEIJE, 4 GIORNI AU REFUGE - Unire i rifugi attorno al quasi quattromila del Sud della Francia in un unico tour scialpinistico. È quello che hanno fatto Andrea Bormida e Federico Ravassard. Scoprendo, oltre a bellissime montagne e altrettanto invitanti discese, che rifugi e rifugisti di questo angolo di paradiso hanno ancora un’anima. E che la tarte au chou è più calorica delle barrette energetiche.
IO SONO MATTEO EYDALLIN - Cinque trofei Mezzalama in bacheca. Ma anche un vecchio Nokia come telefono, l’avversione per i selfie, i cd al posto degli mp3, l’allenamento di testa sua e la lingua senza peli. Siamo stati nel ritiro estivo di Matteo Eydallin per scoprire meglio il metodo steppen. E come si fa a rimanere competitivi per così tanti anni.
FAST IS THE NEW TRENDY - Salire per vie alpinistiche in velocità, partendo dal fondovalle. Un’escursione a metà tra skyrunning e alpinismo ma in compagnia e con tutta l’attrezzatura da quota. «Dʼaltronde, esiste forse uno stile più logico ed elegante del partire dal fondovalle, scalare una o più montagne e tornare al punto di partenza con il minimo materiale indispensabile, in un solo, rapido, assalto?». Ed è quello che hanno fatto Denis Trento e Robert Antonioli l’anno scorso per allenarsi, con tre uscite tra Monte Bianco e Monte Rosa che abbiamo fatto in parte ripercorre ai protagonisti per realizzare le splendide fotografie a corredo dell’articolo. Non solo un reportage sulle escursioni, ma un articolo per scavare a fondo nella filosofia fast & light, nella storia e nelle diverse opzioni di materiale utilizzabile.
LA HAUTE ROUTE DEL TRAIL - Da Verbier a Zermatt: 225 chilometri e 14.000 metri di dislivello positivo ai piedi delle montagne più spettacolari d’Europa. È la Via Valais, il nuovo itinerario lungo di trail creato, dopo attente esplorazioni, dalla premiata ditta Kim Strom, Dan e Janine Patitucci, che i lettori di Skialper già conoscono. Uno spunto per le vacanze…
ALTA VIA - Da Tires alla Val Fiscalina, l’Alto Adige da Ovest a Est, attraversando le Dolomiti e incrociando le alte vie più frequentate. Un indimenticabile trekking di otto giorni in compagnia di Egon Resch, Guida alpina altoatesina, al cospetto di cime simboliche come Sciliar, Catinaccio, Tofane, Tre Cime. E alla scoperta di rifugi unici, alte cascate e ferrate molto panoramiche.
OLTRE LE ULTRA - Come si allena Michele Graglia, ex modello e soprattutto vincitore di due delle gare di corsa più estreme, la gelida Yukon Arctic Ultra e la torrida Badwater Ultramarthon? È un mix di training atletico, alimentazione, ma soprattutto testa. Un articolo sull’approccio alle lunghe distanze che diventano una vera e propria filosofia di vita perché «l’ultra è mentale al 90% e l'altro 10% è nella tua testa».
SUL CAMPO - Le nuove New Balance Fresh Foam Hierro v4 provate da tre diversi concorrenti del Chianti Ultra Trail, ma anche i nuovi zaini Trail Force di Camp testati da Franco Collé. Non mancano i test su Skialper 124 e anche le presentazioni delle novità, come le scarpe da hiking termoformabili Tecnica Plasma o la nuova collezione di calzature da trail RaidLight o ancora tutti gli highlight per l’estate 2020 di Dynafit.
Cazzanelli e Ratti ripetono la Cresta Cassin al Denali: poco meno di 19 ore dalla terminale alla vetta
Due volte in vetta al Denali (6.190 m), con tempi da fast & light. Queste le notizie che arrivano dall’Alaska dove François Cazzanelli, ben conosciuto dai lettori di Skialper, e Francesco Ratti (testatore della nostra Outdoor Guide) sono saliti il 23 maggio sulla West Rib (a un esatto dalla vetta del Lhotse di Cazzanelli in compagnia di Marco Camandona) e poi il 30 maggio sulla Cresta Cassin. La Cassin, salita da Cassin e dai Ragni di Lecco nel 1961 e solitamente percorsa in alcuni giorni, è una via lunga e impegnativa con circa 2.500 metri di dislivello.
«Parliamo di tempi, con partenza e arrivo dal campo 4, abbiamo impiegato 26 ore e 45 minuti - scrive Cazzanelli in un post su Instagram -. Dalla terminale alla punta abbiamo impiegato 18 ore e 58 minuti. L’avvicinamento lo abbiamo fatto in 4 ore e 20 minuti risalendo prima verso la West Rib fino al colletto a 4.900 m (600 m di dislivello dal campo 4 situato a 4.300 m), dopo il colle siamo scesi per 1.200 m per la seraccata chiamata Seattle Ramp. Per la discesa ci sono volute 3 ore e altri 27 minuti circa, gli abbiamo spesi alla base per prepararci e sulla punta. Abbiamo sempre arrampicato tranne quando ci siamo riparati nella tenda mono telo, per 3 ore (dalle 23.00 alle 2.00) per riposare e rifocillarci; alla ripartenza la temperatura segnava -36° e il vento era di 45 km/h. I metri totali saliti sono stati 3.100. Nei primi 1000 m di via abbiamo trovato la traccia, nei restanti 1.500 la traccia l’abbiamo fatta noi, con la neve che arrivava tra le caviglie e le ginocchia. Tenuto conto anche di questo siamo molto soddisfatti del risultato!». In un altro post Cazzanelli esprime la soddisfazione per essere riusciti ad affrontare la Cassin in stile alpino e parla della meticolosa preparazione, durata tutto l’inverno.
Nella scorsa stagione estiva François aveva realizzato la traversata integrale delle Grandes Murailles con Kilian Jornet in meno di 11 ore da Cervinia e le quattro creste del Cervino in poco più di 16 ore, in compagnia di Andreas Steindl. In spedizione con Cazzanelli e Ratti ci sono anche Stefano Stradelli e Roger Bovard.
Domenica si assegnano i titoli mondiali trail
Gli azzurri sono già in Portogallo per testare il percorso della Trilhos dos Abutres, la gara che domenica assegnerà i titoli mondiali trail. 44,2 km con più di 2.000 metri dislivello. «Percorso di ‘confine’ - spiega il responsabile tecnico dell’Italia, Paolo Germanetto - tra una gara lunga e una prova di corsa in montagna. Credo che sarà molto aperta, anche a qualche sorpresa, senza guardare troppo al punteggio ITRA. Come Italia speriamo di essere della partita, anche perché questo format di gara si avvicina di più a quello del nostro movimento». Squadra bella ‘compatta’ quella azzurra, soprattutto al maschile: se le ‘punte’ sono Marco De Gasperi, Francesco Puppi e Alessandro Rambaldini, anche Luca Cagnati, Davide Cheraz e Andreas Reiterer possono certamente dire la loro. Nel team rosa invece, le sei azzurre al via sono Barbara Bani, Gloria Giudici, Lidia Mongelli, Sarah Palfrader, Emma Linda Quaglia e soprattutto Silvia Rampazzo.
FAVORITI - Come non partire dalla Spagna con Luis Alberto Hernando (che se non è proprio un tracciato ‘favorevole’ al tre volte campione del mondo) e Cristofer Clemente, poi la Francia con Ludovic Pommeret, Nicolas Martin e Julien Rancon, la Gran Bretagna con Jonathan Albon, Andy Symonds e Ricky Lightfoot. E ancora lo statunitense Mario Mendoza o i rumeni Ionut Zinca e Gyorgy Szabolcs.
Nella gara rosa ci sarà la campionessa del mondo in carica, l’olandese Ragna Debats, la vice, l’iberica Laia Cañes (ma in casa Spagna attenzione anche Gemma Arenas e Azara García) e ancora la neozelandese Ruth Croft, l’austriaca Sandra Koblmüller, la francese Adeline Roche, la statunitense Kasie Enman, la rumena Denisa Dragomir, la polacca Magdalena Laczak, la svedese Sanna El Kott…
Insomma avete capito, difficile fare un pronostico.
Seguendo le orme del lupo
Tra le Alpi Marittime in Italia e il massiccio del Mercantour in Francia si snoda la linea di un confine aperto. In un mondo dove oggi stanno sorgendo troppi muri, il limite amministrativo tra i due Stati del vecchio continente in questa zona di splendide montagne non intende dividere, ma favorire il passaggio di uomini (senza mezzi motorizzati) e di animali. A stringere in un grande abbraccio la porzione più occidentale della catena alpina ha contribuito l’istituzione di due grandi aree naturali protette, che collaborano da tempo in modo efficace attraverso specifici protocolli d’intesa. Si tratta del Parco Naturale Alpi Marittime sul versante italiano settentrionale (istituito nel 1995) e del Parc National du Mercantour su quello meridionale francese (fondato nel 1979). Gli spazi selvaggi che si estendono all’interno dei due parchi coprono una superficie complessiva di quasi mille chilometri quadrati e, grazie all’integrità naturale, sono frequentati da numerose specie faunistiche. In parallelo si è affermata modalità di turismo rispettosa dell’ambiente, attenta ai valori della natura ma anche ad altri motivi di interesse di questo territorio che, sul lato italiano che ricade nella Provincia Granda di Cuneo, riguardano ad esempio le spettacolari strade militari e i sentieri utilizzati per raggiungere i luoghi di caccia frequentati un tempo da Re Vittorio Emanuele II.
L’abbandono dell’attività di caccia da parte della famiglia reale e l’istituzione delle aree naturali protette hanno progressivamente favorito la crescita numerica di molte specie animali. Nel Parco Naturale Alpi Marittime oggi si possono contare circa 4.000 camosci e 500 stambecchi, ai quali si aggiungono caprioli, cinghiali, cervi e mufloni. Tra gli uccelli spiccano le presenze della coturnice, del fagiano di monte e della pernice bianca, oltre a quelle dell’aquila reale (10 coppie) e del maestoso gipeto. Gli aspetti naturalistici si completano con circa 1.800 piante superiori (oltre il 30 per cento del totale della flora italiana), e dieci endemismi vegetali ad areale ristretto, che si possono osservare solo sulle Alpi Marittime. Numeri e specie già rilevanti, ma ai quali va aggiunta anche la straordinaria presenza del lupo (Canis lupus), animale di fondamentale importanza ecologica. L’ufficialità del suo ritorno porta la data del 24 dicembre 1989 quando, a seguito di osservazioni dirette effettuate da operatori del Parco Naturale delle Alpi Marittime e del Parco Nazionale del Mercantour, è stata accertata la presenza di alcuni lupi a cavallo della frontiera tra Italia e Francia.
L’aumento delle prede e delle superfici forestali hanno costituito le principali condizioni ambientali che hanno richiamato gradualmente fin qui alcuni esemplari di lupo provenienti dall’Appennino, dando vita a un processo di colonizzazione spontanea che ha favorito il ritorno del grande predatore. Il confine tra i due parchi è quindi zona di transito per questo animale e, da alcuni anni, anche di un affascinante percorso escursionistico che si snoda all’interno delle valli e delle montagne che frequenta. L’itinerario si chiama Trekking del Lupo e lungo il percorso si trovano diversi rifugi e punti di appoggio in quota per il ristoro e il pernottamento. In otto tappe si può compiere a piedi l’intero viaggio mantenendo ritmi che consentono di osservare con calma paesaggio, flora e fauna, ma i più allenati possono anche dimezzare i tempi escursionistici e percorrerlo in tre-quattro tappe.
Si cammina in buona parte su sentieri ed ex strade reali di caccia dal fondo selciato, ma non mancano passaggi su pietre e massi (e talvolta anche neve) caratteristici degli ambienti alpini, che rendono più indicato l’utilizzo dello scarpone a quello delle scarpette da trail o di scarpe basse da hiking. Si superano spesso i 2.000 metri, pertanto la stagione estiva fino all’inizio dell’autunno rappresenta il periodo ideale per organizzarne una vacanza a passo lento o veloce sulle orme del lupo. La parte iniziale del trekking non richiede eccessivo impegno. Da San Giacomo d’Entracque si percorre il Vallone del Gesso della Barra passando dai boschi del fondovalle ai pascoli e alle rocce distribuiti alle quote più elevate. Il vispo torrente, la marmotte e camosci accompagnano fino al rifugio Soria-Ellena. Il giorno successivo il cammino riprende ancora in salita, ora più ripida e faticosa. L’ampia e storica traccia si sviluppa in direzione sud fino al Colle di Finestra (2.471 m, stambecchi in zona) e poi, in territorio francese, raggiunge il Pas de Ladres (2.448 m). Il Lac de Trecolpas allieta la prima parte di discesa in direzione del Refuge de Cougourde, mentre la seconda, accanto al torrente, percorre ambienti alpestri rilassanti che accompagnano a Le Boréon.
Il cammino riprende nei pressi del lago di Boréon in direzione nord per raggiungere il Colle di Ciriegia (2.543 m), dove sono stati osservati i primi lupi nel 1989. La salita richiede impegno fin da subito nel Vallon du Cavalet e non è da sottovalutare nemmeno la lunga e a tratti tecnica discesa che dal colle riconduce in Italia, con ampie visuali sul Monte Argentera (3.297 m) e sulle sue sorelle a corredo del cammino fino al Rifugio Elena (1.834 m). La tappa che segue costituisce ancora un viaggio nella natura (zone umide e laghetti) ma anche nella storia, con tratti da percorrere su strade reali e altri su opere viarie risalenti alla Grande Guerra. Oltre il Colletto di Valasco (2.429) si prosegue lungo la Val Morta e poi si risale al rifugio Questa (2.388 m), affacciato sul lago delle Portette.
Il Vallone e il Pian del Valasco sono gli elementi che caratterizzano principalmente la sezione successiva che si conclude alla borgata di Terme di Valdieri. Da qui una passerella in legno conduce all’imbocco del vallone di Lourousa. La zona è un paradiso per gli escursionisti ma anche per alpinisti e arrampicatori. Il canalone di Lourousa fino al Colletto Coolidge rappresenta una logica, ambita e impegnativa linea su neve da percorrere all’inizio dell’estate (difficoltà AD, 3-4 ore e 950 metri di dislivello dal bivacco Varrone), mentre il vicino Corno Stella (3.262 m) ha visto all’opera sulle sue pareti nord-est e sud-ovest alpinisti del calibro di Allain, Grassi, Kosterlitz, Ravaschietto e Berhault. Dopo la sosta al rifugio Morelli-Buzzi (zona frequentata anche da numerosi stambecchi) si riparte alla volta del vicino Colle del Chiapous (2.526 m), dal quale si scende nell’omonimo vallone fino alla grande diga del Chiotas (1.980 m) e da qui in breve al Rifugio Genova-Figari (2.013 m), prossimo al bel lago alpino naturale Brocan.
La tappa conclusiva del trekking del Lupo raggiunge nel suo ultimo tratto di salita il Colle di Fenestrelle (2.643 m). In questa zona si osservano due piccoli laghi effimeri e uno stupendo panorama sul Monte Gelas attorno al quale, sui ghiacciai più meridionali della catena alpina, e a poche decine di chilometri in linea d’aria dalle famose località turistiche balneari della Costa Azzurra, si sviluppano interessanti itinerari scialpinistici. La discesa, dalla pendenza graduale, supera il Piano del Praiet e conduce, lungo il tratto percorso all’inizio del trekking nel Vallone del Gesso della Barra, di nuovo a San Giacomo di Entracque. Un’avvertenza: il nome dato al trekking non deve indurre a credere che gli esemplari di lupo siano facilmente osservabili. La possibilità di vedere direttamente questo animale è piuttosto remota e la sua presenza è riferita a segni (impronte, tracce, escrementi, peli e resti delle sue prede) di non semplice interpretazione. Però rimane immutato il fascino di attraversare le montagne gradite dal grande carnivoro e pensare che mentre stiamo camminando, magari, ci stia osservando.
Il Trekking del Lupo ha una lunghezza complessiva di circa 75 chilometri e può essere suddiviso in 8 tappe.
TAPPA 1. Da Cuneo si percorre la SP22 fino a raggiungere Entracque, dove in località Casermette si può visitare il Centro Faunistico Uomini e Lupi. Sul sito del comune (www.comune.entracque.cn.it), nell’area tematica ‘guida turistica’, sono disponibili le indicazioni su alloggi e strutture ricettive. Con l’auto ci si porta a San Giacomo d’Entracque (1.213 m), dove si parte a piedi per il rifugio Soria-Ellena (1.840 m) [totali: 627 m D+, 2h30’]
TAPPA 2. Dal rifugio Soria-Ellena (1.840 m) a Le Boréon (1.460 m) attraverso il Colle di Finestra (2.471 m), il Pas des Ladres (2.448 m) e il Lac de Trecolpas (2.150 m) [totali: 900 m D+, 1.100 m D-, 6h] - nota: la tappa si può spezzare in due con una piccola variante al Refuge de la Cougourde (2.110 m).
TAPPA 3. Da Le Boréon (1.460 m), dove si può visitare il Centro faunistico Alpha Loup, si parte alla volta del rifugio Regina Elena (1.834 m), passando dal Col de Cerise/Colle di Ciriegia (2.543 m) [totali: 1.070 m D+, 700 m D-, 5h30’]
TAPPA 4. Dal rifugio Regina Elena (1.834 m) al rifugio Questa (2.388 m) attraverso il Colletto di Valasco (2.429 m) [totali: 850 m D+, 300 m D-, 4h]
TAPPA 5. Dal rifugio Questa (2.388 m) a Terme di Valdieri (1.368 m) passando per il rifugio Vallone di Valasco (1.763 m) [totali: 250 m D+, 1.270 m D-, 3h]
TAPPA 6. da Terme di Valdieri (1.368 m) al rifugio Morelli-Buzzi (2.351 m) [totali: 1.080 m D+, 100 m D-, 3h]
TAPPA 7. Dal rifugio Morelli-Buzzi (2.351 m) al rifugio Genova-Figari (2.015 m) transitando dal Colle del Chiapous (2.526 m) [totali: 300 m D+, 640 m D-, 2h30’]
TAPPA 8. Dal rifugio Genova-Figari (2.015 m) a San Giacomo di Entracque (1.213 m) passando per il Colle di Fenestrelle (2.463 m). Possibile visita alla seconda struttura del Centro Faunistico Uomini e Lupi, collocata nel paese in Piazza Giustizia e Libertà [totali: 460 m D+, 1.265 m D-, 5h]
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Armando Mariotta saluta l'ISMF
A fine settembre ci sarà il nuovo presidente della ISMF. Presidente che non sarà più Armando Mariotta che, dopo due mandati alla guida della federazione internazionale dello scialpinismo, non potrà più candidarsi, ‘da statuto’.
Otto anni alla guida della ISMF, un bilancio?
«Non dovrei farlo io, ma mi ritengo molto soddisfatto. Per il riconoscimento del CIO, l’approdo alle Olimpiadi giovanili il prossimo anno, e ancora la Coppa del Mondo che quasi non esisteva e che ora ha una buona rilevanza internazionale e soprattutto con un format unico come le altre discipline invernali. Senza dimenticare che lo skialp adesso è in pianta stabile ai Mondiali Militari e ai World Master Winter Games. Ma ci metterei dentro anche il controllo antidoping, l’evoluzione dei regolamenti, il sistema di cronometraggio».
Però lo ski-alp in Cina alle Olimpiadi non c’è, e in Coppa del Mondo, e ci aggiungerei anche i Mondiali, spesso ci sono state gare non all’altezza.
«Partiamo da Giochi in Cina. Ci abbiamo provato, siamo stati in più occasioni dagli organizzatori cinesi, ma la risposta è stata quella che per quell’appuntamento non c’era il via libera del CIO. Adesso pensiamo al 2026. Dico pensiamo perché l’attuale consiglio dovrà fare le prime mosse già dopo la scelta della sede a fine giugno a Losanna. Abbiamo avuto contatti con entrambi gli organizzatori, ma anche qui il CIO ci ha detto di aspettare. Una volta decisa la location del 2026, dovremo muoverci.
Per quanto riguarda la Coppa del Mondo bisogna fare una precisazione: non è l’ISMF che decide i luoghi, ma sono le federazioni nazionali che indicano la località; a me sarebbe piaciuto andare a Courchevel, ma se i francesi ci indicano Puy-St. Vincent o Super Devoluy, andremo lì.
Noi abbiamo fatto il possibile per far capire alle stazioni che la Coppa del Mondo era un prodotto in più da offrire e non un peso: sopralluoghi in estate, riunioni; credo che spesso ci siamo riusciti, altre volte forse meno. Nell’ultima edizione della Coppa siamo arrivati a sei tappe, con tutte le gare disputate e con grandi risultati. E le finali a Madonna di Campiglio direi che si sono concluse con un grande successo organizzativo.
Agli ultimi Mondiali, poi il maltempo l'ha fatta da padrone e comunque non abbiamo annullato nessuna gara. Resta, comunque, un altro aspetto. Piaccia o meno, il nostro format di gare è questo: dobbiamo avere partenza e arrivo vicino alla piste».
La sensazione è quella che lo skialp, però, non sia decollato, come per esempio il biathlon.
«Abbiamo fatto una scelta con il nostro partner Infront: prima, iniziare una diffusione attraverso le televisioni per raggiungere il grande pubblico e poi lavorare sui canali social dove c’è una presenza ovviamente dei più appassionati. Non avevamo le dirette, ma il nostro magazine è andato a milioni di spettatori, Thailandia compresa. Ripeto, è un progetto a lungo termine, e non è facile da conseguire in breve tempo, ma siamo soddisfatti dei risultati raggiunti».
Capitolo LGC, perché questa divisione?
«Non l’ho vissuta bene, anche perché non ho condiviso la loro scelta. Abbiamo sempre cercato di mantenere il mese di marzo ‘libero’ dalla Coppa del Mondo, il sistema del ranking credo fosse un bel compromesso. Per i Mondiali, però, non avevamo altra scelta che su quella data. Lo abbiamo comunicato a settembre, chiedendo alla Pierra Menta di cambiare i giorni di gara. Non è stato fatto e di conseguenza si è perso tutto quello che avevamo fatto insieme prima. Mi auguro che si possa ricucire in futuro, perché questo è un danno per il nostro sport. Sempre considerando che sono due format diversi, ma alla fine credo che sia sempre ski-alp e che gli atleti siano gli stessi».
Cosa farà Mariotta in futuro?
«Ho già detto che non accetterò incarichi politici, piuttosto se lo vorranno, darò una mano a livello operativo. Altrimenti andrò a vedere le gare, spero quelle dei Giochi del 2026».
Il meteo ostacola Mosetti, Grant, Briggs e Petersson in Alaska. Lo svedese trascinato per 800 metri da una valanga
L’obiettivo erano due linee nella catena del Denali, in Alaska. Ma il meteo non è stato favorevole ed Enrico Mosetti, Tom Grant, Ben Briggs e Jesper Petersson tornano a casa con «molte partite a scacchi, alcune delle notti più fredde mai vissute in montagna e un tentativo di salita sul Denali stoppato a 5.700 metri in quello che doveva essere ‘il giorno’ ma con gli dei della montagna che hanno deciso di spingerci giù con venti a 80 chilometri orari e – 25°» scrive Mosetti in un post sul suo account Instagram. Tom e Jesper sono poi riusciti a salire sul Denali un altro giorno e a sciare il couloir Messner. L’avventura in Alaska ha vissuto anche attimi di paura quando, sul Kahiltna Queen (3.773 m), Petersson ha fatto partire una lastra che ha generato una piccola valanga in un canale a 50 gradi. «Abbiamo raggiunto la vetta intono alle 12 e iniziato a sciare – scrive Petersson in un post Instagram – era una discesa tecnica ma siamo riusciti a farla senza doppie. Quando eravamo nella parte finale ho fatto partire una piccola valanga e non sono riuscito a restarne fuori, così sono stato trascinato per 700-800 metri in un canale di 50 gradi con neve, ghiaccio, rocce e un salto alla fine». Mosetti e Grant sono riusciti a raggiungere subito Petersson e a chiamare i soccorsi che hanno evacuato lo svedese in elicottero non appena i venti hanno permesso il soccorso. L’infortunio ha comportato fratture alle vertebre cervicali e alle costole. «Sono stato fortunato e sono felice di essere vivo, la sensazione è quella di avere avuto un’altra opportunità di vivere» conclude Petersson.
La via del confine pacifico
«I confini sono un catalogo di ipotesi. Ad esempio, più che demarcazioni lineari, sono passi, creste, frastagli, onde. Sono percorsi, tracce e sentieri. Prima che geografie, sono storie, racconti e immagini» Il pensiero di Gian Luca Favetto, scrittore e giornalista torinese, corrisponde con la mia idea di confine e da questa percezione mentale, che nasce da un dato fisico, ha inizio il nostro viaggio.
L’idea è semplice. Vorrei camminare lungo i versanti nord e sud delle Vette Feltrine, al margine della linea di confine che per quasi 400 anni ha diviso due Stati, la Repubblica di Venezia dal Tirolo: oggi confine tra due regioni, il Trentino e il Veneto, e le due province di Trento e Belluno. Un confine pacifico, che segue in gran parte il profilo di cime che superano i 2.000 metri che, a dispetto dell’idea di dividere, ha sempre unito le vallate. Le labbra del tempo raccontano di passaggi di pastori, contrabbandieri, cacciatori, viaggiatori e rivoltosi, in una mescolanza di commerci, lingue, matrimoni e idee. E non c’è viaggio che non attraversi un confine, dunque partiamo. Le Vette Feltrine sono il gruppo più meridionale delle Dolomiti, si trovano nella zona sud-occidentale della provincia di Belluno. A sud dominano la vallata Feltrina, a nord costituiscono una barriera naturale sulla Valle di Primiero e se non ci fosse la stretta gola dello Schenèr, ad unirla alla pianura veneta, anche la storia del Primiero sarebbe un’altra cosa.
Per tutto il Medioevo il Feltrino e il Primiero sono stati uniti sotto il controllo del vescovo conte di Feltre. Con il dominio dei Duchi d'Austria il Primiero venne consegnato nel 1401 ai Conti Welsperg. A sud, oltre la gola dello Schenèr, nel 1404 la storia di Feltre prende una piega diversa, in seguito alla sua spontanea consegna alla Serenissima Repubblica di Venezia, e il Feltrino diventa terra di confine. Il piccolo gruppo di amici che mi accompagna si è dato appuntamento a Feltre. Giacomo e Laura sono due local e in parte conoscono i luoghi che visiteremo. Giacomo fa la guida escursionistica ed è un fotografo naturalista, recentemente ha pubblicato un bel libro sulla fauna delle Dolomiti Bellunesi. Laura è fisioterapista, la sua passione è stare il più possibile all’aria aperta, meglio se in alta quota e in tutte le stagioni. Federico invece arriva da Torino e come fotografo di Skialper avrà il compito di raccontare con le immagini il nostro cammino.
Partiamo verso il Primiero. Arrivati a Pontét spiego che qui c’era la dogana tra l'Impero austro-ungarico e il Regno d'Italia e l’albergo accanto alla strada era l’ufficio doganale austriaco. Entriamo nella gola dello Schenèr, la strada sfiora la riva del lago e poco dopo esce in vista della conca di Primiero. Seguiamo il corso del torrente Cismón fino a una rotatoria con al centro una lontra gigante in ferro. Penso a come le rotatorie da semplici collinette siano diventate luoghi d’arte contemporanea, un luogo di libertà per sindaci, architetti e artisti. Qui giriamo a destra verso la Val Noana. La strada si stringe e divide il poco spazio disponibile con il torrente. Sale tortuosa dentro un profondo canyon, a tratti in galleria. Sopra la gola, sulla nostra destra, incombono i versanti settentrionali delle Vette Feltrine e alla sommità di essi corre il confine pacifico.
I giganti della Val Noana
Prima di giungere alla testata della valle giriamo a destra verso malga Val Stua di Sopra; ci fermiamo alla Casina forestale del Comune di Mezzano dove ci aspetta Silvano Doff Sotta. Quando si dice un nome e un destino, Silvano (ovvero l’uomo dei boschi o delle selve) ne è l’esempio. Da 39 anni è il custode forestale dei boschi del Comune di Mezzano e, come la maggior parte dei boschi trentini, anche questi sono di proprietà delle comunità locali che li amministrano da secoli tramite sistemi di regole. Chiediamo a Silvano di mostrarci qualcuno dei suoi gioielli: gli abeti giganti della Val Noana. Prima di raggiungere i grandi patriarchi della foresta, Silvano tira fuori alcune mappe e tabelle e ci mostra i segni adottati a indicare i confini comunali e le particelle forestali. In questo caso i confini sono al servizio delle comunità. «In questa foresta» ci dice «vivono numerosi alberi di grandi dimensioni, abeti, tassi e faggi, alti diverse decine di metri, che si sviluppano all'interno di boschi maestosi in tempi relativamente brevi. Ciò è dovuto al clima particolarmente favorevole e a una storia che non ha mai visto uno sfruttamento eccessivo». Potremmo rimanere tutta la giornata ad ascoltare Silvano parlare della ‘sua’ foresta, ma è ora di mettersi in cammino. La parte superiore della valle, dopo il lago, si divide in altri due bacini, da una parte il Rio Giasinozza e dall'altra il Rio Nèva che seguiremo fino al rifugio Boz. Il paesaggio si addolcisce e nella foresta si celano insospettabili oasi a prato e pascolo punteggiate di fienili, stalle e abitazioni temporanee.
Mamma, quando andiamo al mare?
Per raggiungere il rifugio Boz abbiamo ben tre possibilità: il sentiero 748 che passa per il Col San Piero, il sentiero 727 che coincide con la rotabile che termina a casera Nèva Seconda e la variante 727/A, nota anche come sentiero dei Pinteri (dei bottai), che risale la sinistra orografica del Rio Nèva. Conosco bene le tre vie di accesso e ogni opzione ha la sua attrattiva, dipende solo dal tempo a disposizione. Considerato che siamo un po’ ritardo e il sole picchia forte, propongo ai miei compagni di seguire la rotabile fino a casera Nèva Seconda dove potremmo conoscere i malghesi Ruggero e Linda. La strada s’inerpica decisa e in breve la foresta è alle nostre spalle. Dinanzi a noi ora abbiamo i dolci pascoli di Nèva e le pareti del Sass de Mura che sbucano dal verde della mugheta. È una giornata calda e afosa, il sudore inzuppa i vestiti e secca la gola. La mulattiera dopo un’ampia curva termina dinanzi casera Nèva Seconda (1.741 m) che molti chiamano ancora Nèva austriaca o tedesca, per distinguerla da Nèva italiana che sta poche centinaia di metri più in là, oltre il confine che per secoli ha diviso questi pascoli tra il Veneto e l’Austria. La casera è cinta da un filo elettrico per impedire al bestiame di avvicinarsi all’abitazione. Dentro il recinto due bambini giocano in una piccola piscina gonfiabile riempita con pochi centimetri d’acqua. Arriva a farci visita il cane pastore, due abbaiate stanche e poi si ritira al fresco sul pavimento in pietra. Linda ha 31 anni, cappelli cortissimi e biondi, è la mamma di Mirco e Anna i bambini che sgambettano nella piscina. Ci saluta con gentilezza e un bel sorriso, in mano ha il secchio per l’allattamento dei vitelli. Lei e suo marito Ruggero da cinque anni conducono questa malga che è di proprietà del Comune di Mezzano. Hanno in custodia 60 manze, 40 vacche con vitelli, 8 mucche da latte, 25 cavalli e 50 pecore. Da giugno a settembre questa è la loro casa. «Ogni anno, con due bambini piccoli, lasciare la nostra casa a Lamon per venire qui in montagna è sempre complicato» mi dice Linda. «Dobbiamo aspettare che Anna finisca la scuola e intanto trasferire quanto necessario per avviare l’alpeggio». Ruggero ha 42 anni, quando non è in malga fa il boscaiolo. «Qui io sono l’operaio e Linda è il capo. È lei la titolare del contratto di lavoro» mi dice sorridendo. «Ciò che amo di più di questo lavoro è il grande senso di libertà che mi dà vivere qui. Ogni giorno ci sono tantissime cose da fare, ma ci sono anche tanti piccoli momenti per noi e i bambini» e i suoi occhi corrono a cercare quelli di Linda. Federico con discrezione chiede se può scattare qualche foto dentro casa. La cosa pare non disturbarli. Ruggero ci accompagna perfino nel sottotetto dove c’è la loro camera da letto. Quello che vedo è commovente: in mezzo alla stanza ci sono tre letti e un lettino, tutti attaccati ‘vicini-vicini’. Sembra una favola, la notte in montagna stretti uno all’altro non fa più paura. Mirco ora è in braccio alla mamma che lo asciuga e gli cambia i vestiti fradici. Dico a Linda che i suoi figli sono due bambini fortunati e da adulti ricorderanno le estati qui in malga come uno dei momenti più belli della loro vita. «Anch’io penso questo, ma trovare il giusto equilibrio non è facile» mi dice Linda. «Qui non ci sono bambini e Anna, che ora ha 9 anni, spesso si sente sola. Qualche giorno fa è venuta a trovarla una sua amica, di ritorno dal mare. Alla sera Anna mi ha detto: mamma e noi quando andiamo al mare?».
Una moltitudine di lingue e nazioni
Prima di arrivare al rifugio Boz avverto i miei compagni che stiamo per attraversare il vecchio confine di Stato. Gli indico un cippo in pietra che ha inciso su un lato la V di Veneto e sul lato opposto la T di Tirolo. Dico che è uno degli undici segni posti nel 1782 per sanare una controversia confinaria fra l’Austria e la Repubblica di Venezia. La pretesa dell’Austria era di portare il confine sulle cime che fanno da spartiacque naturale, invece Venezia, carte alla mano, sosteneva che fin dal medioevo la conca di Nèva era feudo del Vescovo di Feltre. Il tutto si concluse con un compromesso politico. Venne individuata una linea artificiale, indicata da cippi in pietra e da segni scolpiti nelle rocce. La prima ad accorgersi del nostro arrivo è Neva, il border collie di Daniele e Ginetta. La stagione è appena iniziata e non ci sono molti escursionisti in giro, anche se le prenotazioni non mancano. «Da quando l’Unesco ha riconosciuto le Dolomiti Patrimonio dell’Umanità, abbiamo visto crescere il passaggio di stranieri un po’ da tutto il mondo: israeliani non mancano mai, ma spesso sono coreani, neozelandesi, canadesi, americani e anche brasiliani. Arrivano dopo giorni di cammino lungo l’Alta Via n. 2 o l’Alta Via Europa 2 che parte da Innsbruck» mi dice Daniele. «Invece sono calati gli italiani e i tedeschi che avevano hanno fatto la fortuna delle alte vie» Considero questo aspetto cosmopolita del rifugio come un fatto interessante, ma anche una stranezza della globalizzazione: luoghi rimasti per secoli al margine diventano improvvisamente centro, ma rimangono sempre terra di confine per le lingue che si parlano. Ginetta ritorna in cucina a preparare l’impasto per le torte. «Con il cambiamento climatico è cambiata anche la vita qui al rifugio» mi dice. «Le stagioni si sono allungate e siamo spesso aperti anche fuori stagione» Da 35 anni lei e suo marito gestiscono il Boz, nato nel 1970 come bivacco. «Chi è cambiato sono le persone che arrivano qui. Un tempo il rifugio era un punto di partenza verso altri luoghi, per escursioni o arrampicate, ora è un punto di arrivo, soprattutto per mangiare. Così dai semplici piatti dei primi anni siamo passati a una cucina più ricca, che richiede però maggior impegno».
I contrabbandieri del Passo Finestra
Meno di mezz’ora di cammino separa il Passo Finestra dal rifugio Boz. In prossimità del passo invito i miei compagni a seguirmi in una breve deviazione. Pochi metri e siamo dinanzi al vecchio passo: el ‘bus de finestra’, com’era chiamato questo stretto intaglio tra due pareti di roccia. Racconto che qui è passata la storia dei rapporti tra montanari di diverse vallate. C'erano i pastori che conducevano gli armenti al pascolo. Ma anche i contrabbandieri, in particolare di tabacco, che entravano di nascosto nel territorio della Repubblica di Venezia carichi di merce acquistata a prezzi più bassi in Tirolo. Un passaggio difficilmente controllabile, dove le milizie arrivavano raramente. Mentre racconto la storia di questi luoghi veniamo raggiunti dai primi raggi del sole e anche le pareti di Dolomia del Sass de Mura si accendono dei colori del mattino. Il percorso che ci attende oggi è abbastanza lungo e articolato, almeno sei ore di cammino. Non ci sono grandi dislivelli da superare, tuttavia la fatica a fine giornata si farà sentire. Per raggiungere il rifugio Dal Piaz cammineremo sulla via aperta dai militari italiani negli anni 1916-17, quando costruirono la Linea Gialla, la linea arretrata di fortificazioni, baluardo in caso di sfondamento della prima linea. Mentre cammino osservo il sentiero ben scavato nella roccia, tagliare il ripido pendio con regolarità, avvicinarsi ove possibile alla linea di cresta per ispezionare le valli nemiche. Rimango sempre affascinato dall’abilità del genio militare nel costruire sentieri e mulattiere che da cent’anni facilitano le nostre escursioni. In prossimità della salita al Sasso Scàrnia il sentiero si restringe in un’esile cresta, sospesa sull’abisso sopra la Val Noana e la Val Canzói. Poi s’impenna, prosegue sullo spigolo roccioso inciso da alcuni gradini. È un punto davvero suggestivo e Federico scatta in avanti a fotografare. La salita termina sulla spalla sotto la cima del Sasso Scàrnia. Il panorama è qualcosa di grandioso e selvaggio. Montagne conosciute e sconosciute, luoghi lontani e vicini. La percezione è di una natura selvaggia ma umana. La vita selvatica che ci ha fatto da preludio sopravvive con noi. Laura, agile e veloce, ci precede nella discesa lungo la balza inclinata di rocce che ci riporta tra i mughi. Dalla Busa de Ramézza fino al Passo Piétena cammineremo dentro la Riserva Integrale: un’area che racchiude i più elevati valori biologici e merita la massima tutela. Non a caso queste montagne dal 1990 sono una delle perle del Parco Nazionale Dolomiti Bellunesi. Un breve tratto sul versante nord e all’improvviso ci appare la misteriosa Piaza del Diàol. Non è facile capire cosa sia successo. È un pendio disseminato di macigni e sfasciumi rocciosi, con al centro una ‘piazza’ erbosa sgombera da massi che la tradizione vuole sia un luogo di convegno di streghe. Ora anche Giacomo si è messo a fotografare, la sua attenzione è soprattutto rivolta alla fauna. Un branco di giovani mufloni con le madri ci ha appena tagliato la strada. Giunti sul Passo Piétena abbiamo davanti a noi alcuni dei circhi glaciali più spettacolari delle Vétte, veri giardini botanici dove le specie più delicate hanno trovato un rifugio. Nel fondo di queste buse si aprono vasti pianori d'alta quota interrotti da fenditure e avvallamenti di natura carsica, circondati da bianchissimi ghiaioni. Indico ai miei compagni un accumulo di pietre poco lontano da noi. «Da lì, il 29 settembre 1944, il partigiano Paride Brunetti ‘Bruno’, con l’unica mitragliatrice a disposizione, cercò di arrestare l’avanzata dei tedeschi che erano qui per un rastrellamento. Insieme al comandante Bruno c’era anche un altro personaggio leggendario, il maggiore Bill Tilman, un ufficiale inglese inviato dagli alleati per sostenere le formazioni partigiane. Tilman all’epoca era un alpinista famoso, aveva salito il Nanda Devi (7.816 m) senza ossigeno, la cima più alta, fino ad allora, raggiunta dall’uomo».
La focaccia di Mirco ed Erika
La mulattiera sale dolcemente verso l’ultimo passo di questa lunga traversata: il Passo Vette Grandi. Pochi metri più in basso ed ecco il rifugio Dal Piàz, l’ultimo anche per chi percorre l’Alta Via delle Dolomiti n. 2. Il sogno di Mirco ed Erika era di aprire un agriturismo, poi è arrivata l’occasione di gestire un rifugio e sono qui da quattro anni. «Siamo soddisfatti della nostra scelta e vogliamo continuare, però la carenza d’acqua molte volte mette a dura prova il nostro coraggio» mi dice Erika. La natura carsica delle Vette non aiuta il rifugio Dal Piaz e l’acqua spesso non basta nemmeno per la cucina. Marito e moglie ogni giorno, a turno, scendono a valle. Mille metri in discesa e il giorno dopo altrettanti in salita. Scendono per stare, almeno alla sera, con le loro bambine e liberare un po’ le nonne dall’impegno. «Ho provato a tenerle qui, ma sono ancora troppo piccole» mi dice Erika. Intanto sul tavolo del rifugio è arrivata la specialità di Mirco: la focaccia Dal Piaz. Nessuno si aspetterebbe di trovare qui questa bontà. Mirco ci racconta che volevano creare una pietanza per caratterizzare il rifugio. Con sua moglie ha seguito un corso di pizzaiolo ed è nata la focaccia: un impasto da lasciare lievitare tre giorni, non rotonda come una pizza ma di forma allungata, da mangiare in più persone su un unico tagliere. Come a condividere le fatiche della montagna e i piaceri della gola.
Il Pavióne, la più bella piramide erbosa delle Dolomiti
«Il mattino ha l'oro in bocca» ci dice Mirco mentre ci prepariamo a lasciare il rifugio. Federico mi chiede cosa significa. «Intende dire che è meglio sfruttare le ore del mattino per realizzare i nostri progetti. D’estate qui sulle Vette il forte riscaldamento dell’aria alle basse quote produce sovente nebbie che avvolgono per molte ore le cime, quindi è meglio muoversi!». Le nebbie non ci hanno ancora raggiunto, le vediamo avanzare e ritirarsi sotto di noi mentre camminiamo sui crinali erbosi che ci portano verso il Pavióne. Sono verdi e lunghissimi crinali che collegano cime arrotondate e smussate dal tempo, lo sguardo può spaziare su entrambi i versanti e seguire il sottile filo che unisce le cime. Percorrere la creste del Coston delle Vette Grandi e del Col di Luna è un’esperienza indimenticabile. La vetta del Pavióne, il punto più altro del nostro cammino, ci appare all’improvviso. Non c’è più nulla da salire solo un orizzonte sconfinato di cime da osservare, un panorama a 360° che ci lascia incantati. Lo spettacolo delle Pale di San Martino, dei Lagorai, il reticolo dei paesi del Primiero, le Dolomiti Agordine e Bellunesi, i monti dell’Alpago, la Val Belluna, l'altopiano dei Setti Comuni,le Prealpi e più lontano il luccichio della laguna di Venezia. Rimaniamo alcuni minuti in silenzio, sdraiati sui prati ancora umidi di rugiada, con lo sguardo nel cielo a incrociare le traiettorie dei rondoni alpini.
La discesa a valle
Dalla vetta scendiamo verso il Passo Pavióne, all’estremità occidentale delle Vette. Il nostro cammino ora prosegue a nord verso l’Alpe Vederna. Scendiamo lungo delle balze rocciose fino a incontrare il bosco di abeti e larici. Il sentiero sistemato di recente ci dice che abbiamo superato il confine regionale. Da malga Agneròla non seguiamo la strada forestale ma il sentiero nel bosco, più diretto, che termina proprio al rifugio Vederna. Una sosta veloce al rifugio, appena il tempo per bere qualcosa e far conoscenza con i gestori Roberto e Mirella. La strada è ancora lunga. Giriamo ad est verso il Piàn Grant, la zona pianeggiante dell'Alpe Vederna, da sempre un'importante fonte di fieno per la popolazione di Imèr. Ora ci attendono un paio di ore di cammino lungo la strada forestale che taglia tutti i versanti settentrionali delle Vette e che ci riporta al punto di partenza. Ritroviamo i profumi di resina e di terra umida, le erbe rigogliose del sottobosco e infine gli abeti giganti di Silvano. Vedo che ognuno di noi, di tanto in tanto, alza lo sguardo oltre le chiome degli abeti, verso le cime, come a cercare l’indefinito confine. Siamo fatti di confini, bisogna solo farli stare bene dentro di noi.
La via del confine pacifico fa parte dell'Altavia delle Dolomiti Bellunesi
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