Il paradiso è per pochi

«L’inizio di luglio è uno dei periodi più tranquilli e bui dell’anno a El Chaltén. Gli affollati mesi estivi sono un lontano ricordo e gli inverni freddi e tempestosi della Patagonia meridionale, anno dopo anno, hanno fatto da humus per un’improbabile cultura dello sci tra le guglie di granito e l’arida steppa. Una cultura forgiata dal clima spietato della regione e dalla topografia, sfidando gli standard dell’industria dello sci e plasmando gli sciatori a partire da un improvvisato gruppo di semplici local con diverse storie di montagna alle spalle. In effetti si tratta di una community così poco conosciuta che molti dei non sciatori di El Chaltén sanno a malapena che esiste».

© Matthew Tufts

E di quella community così piccola (si dice una trentina di sciatori, in buona parte avvicinatisi alla montagna invernale senza avere mai preso una funivia o una seggiovia) ora fa parte anche il giornalista statunitense Matthew Tufts, che ha passato un intero inverno (che naturalmente corrisponde alla nostra estate) tra i venti burrascosi della Patagonia. Su Skialper 136 di giugno-luglio pubblichiamo in esclusiva per l’Italia un reportage di 20 pagine sull’inverno patagonico. Venti pagine per parlare di sci e pelli ai piedi di alcune delle montagne più fotografate al mondo, dal Cerro Torre al Fitz Roy. Venti pagine per spiegare un inverno fatto di avvicinamenti interminabili in foreste fittissime e di lunghe attese della finestra meteo giusta. «Il tempo gioca a uno strano gioco in Patagonia. Passano giorni e poi settimane all’insegna della tempesta. Questo, tuttavia, dà alla cultura montana argentina la possibilità di fiorire, celebrando la vita all’ombra di un anfiteatro alpino, banchettando con asados e sognando obiettivi futuri. Entrambi sono cotti a fuoco lento e marinati con la pazienza che solo la Patagonia può infondere. L’esperienza è innaffiata da un buon Malbec e dal fischio del vento, guarnita con un’alzata di spalle verso le opportunità mancate, deluse da tempeste furiose».

© Matthew Tufts

Poi però quando arriva l’occasione giusta, dimentichi le lunghe attese (che sono la migliore scusa per conoscere i local). «’In Patagonia devi essere paziente’ mi aveva detto Lipshitz diverse settimane prima. «È difficile aspettare, non è per tutti. Ma una volta che provi a sciare qui, quando trovi le condizioni giuste, non c’è niente di paragonabile». È l’incertezza che ti fa desistere, ma se hai il fegato di scommettere e di stare al gioco… A El Chaltén la questione non è ‘com’è’ o ‘come sarà probabilmente’, ma ‘come può essere bello’ dicono i local. Ed è un ottimo motivo per mettere il proprio destino in balia dei venti del Sud». Come ha fatto Matthew Tufts. 

© Matthew Tufts

La formula del divertimento di tipo 2

«Non l’avrei mai fatto se non qui, a casa mia, pandemia o meno». Ha detto così Martina Valmassoi parlando del record del mondo di dislivello in 24 ore con gli sci che ha fatto registrare a fine marzo in Cadore. 17.645 metri contro i 16.777 di Rea Kolbl, un record registrato solo qualche giorno prima. Eppure il primato di Martina è spontaneo come lei. Ha organizzato tutto da sola, messo insieme e gestito la sua crew, sentito il comune per capire se in zona rossa fosse possibile tutto questo. È nato all’ultimo minuto. «Poche strategie, l’obiettivo che si pone è di fare un giro all’ora e completarne 24 - scrive Smaranda Chifu su Skialper 136 di giugno-luglio - L’unica cosa che ha subito chiara, perché così le ha consigliato la trail runner brasiliana Fernanda Maciel, è di iniziare subito con la notte di modo da togliersela all’inizio». 

Martina non avevo praticamente sciato in pista quest’anno e nessun allenamento specifico, ha preso una decisione a febbraio e soltanto allora ho messo in cantiere due settimane di carico con circa 30.000 metri di dislivello in pista. Alla fine ne sono uscite 24 ore di divertimento due. «Ci sono tre tipi di divertimento. Il divertimento di tipo uno è quello che ti diverti mentre lo fai; il tipo due mentre lo fai non ti diverti affatto ma a posteriori assume un altro sapore e ti viene voglia di farlo ancora; e poi c’è il divertimento di tipo tre, che non ti diverti mai, nemmeno a posteriori. ‘Sicuramente questo è di tipo due’ risponde Martina ‘sai a un certo punto, mentre risalivo il muro, pensavo di aver sbagliato strada, mica me lo ricordavo così lungo, però alla fine ci sono arrivata col sorriso, ero proprio felice’»


Chiedimi se sono felice

«L’idea è nata praticamente insieme: Matteo vedeva, dalla finestra della suo nuova casa in affitto, a San Vito di Cadore, il Pelmo a destra e l’Antelao a sinistra, entrambi gli facevano l’occhiolino; io stavo cullando il sogno di un’avventura lunga con gli sci. Per un inverno intero ci siamo confrontati, abbiamo perfezionato il percorso, la strategia. Ognuno preso dai suoi impegni, ci siamo allenati meglio che potevamo. Ci siamo visti poco negli ultimi mesi, non abbiamo mai sciato insieme la neve di questa stagione. Eppure ci sentivamo tutti i giorni per motivarci e stare focalizzati sul progetto, per condividere i dubbi e la carica che avevamo dentro».

Quale idea? Concatenare quattro vette simbolo delle Dolomiti come Civetta, Pelmo, Antelao e Tofana di Rozes partendo da casa e spostandosi solo con gli sci o a piedi. Quello che hanno fatto Giovanni Zaccaria e Matteo Furlan. 56 ore, circa 9.000 metri di dislivello e 85 chilometri di sviluppo di cui parliamo su Skialper 136 di giugno-luglio. Ma il cronometro è stata solo l’ultima preoccupazione.

«Non abbiamo fatto le corse, il cronometro non è uno strumento che ci appartiene. Ci siamo messi in gioco, sì, dal primo all’ultimo momento. Abbiamo tracciato una curva a modo nostro, unito dei punti che per noi significavano qualcosa, prevedendo non solo neve brutta, ma anche fango e polvere. Ora, da ogni punto delle Dolomiti, guarderemo queste quattro cime e l’aria che le separa con occhi diversi. È stato strano salire le montagne senza dare importanza all’apice della vetta. Perché il nostro giro, come tutto ciò che scorre, andava avanti lo stesso. Non c’era tempo per sedersi sugli allori, sentirsi arrivati. Esisteva solo il presente, da assorbire con gli occhi e col cuore, lì in piedi di fianco a questa o quella croce. Fermi per un istante privo di gratificazione, come adesso che è tutto finito». 

Una fatica per scoprire la differenza tra contentezza e felicità. «È bello sentirsi soddisfatti e contenti, ma l’appagamento dura poco, il tempo di una storia su Instagram, e già bisogna pensare al giorno seguente. La felicità è un’altra cosa, dice il mio tumulto interiore mentre apro gli scarponi e cerco le chiavi dell’auto. Ha a che fare con il sogno, con l’ideazione, la sperimentazione e la condivisione vera. La felicità costa fatica ed ha bisogno dei suoi tempi».


Pionieri dietro casa

«L’Altavia numero 1 tocca quasi tutti i luoghi più simbolici delle Dolomiti, dal Lago di Braies alla città di Belluno. Forse, più che un concatenamento di sentieri, è un simbolo. Una metafora di libertà, un modo per le persone di riuscire a toccare l’indipendenza con uno zaino in spalla, tanto pesante quanto lo sarà la fame e la propria necessità di agio». 

Comincia così l’articolo di Andrea Galliano che pubblichiamo su Skialper 136 di giugno-luglio, in edicola a partire da questi giorni. Un articolo che mostra un’altavia in una veste completamente diversa, invernale. E con tutti i rifugi chiusi. «Quest’inverno tra i miei pensieri è riaffiorato un vecchio sogno: percorrerla nella stagione meno confortevole dell’anno. L’idea è molto semplice quanto per me elettrizzante: coprire tutte le tappe sci ai piedi, dormendo in bivacchi di fortuna, malghe o altri ricoveri che potrei trovare per strada».

Ecco così che un progetto a lungo nel cassetto diventa realtà, con tutte le sue difficoltà. «Se la giornata è andata bene, la notte al contrario: una delle più lunghe della nostra vita. Abbiamo scavato una truna con la stessa meticolosità di quando si fa un favore a una persona che sta antipatica». Un progetto che sa di libertà, nel cuore di uno dei momenti più difficili della nostra esistenza. «Siamo in un bar con una birra sul tavolo aspettando qualcuno che ci riporti a casa, la mascherina è tornata sul viso. I giorni trascorsi ci hanno fatto dimenticare il Coronavirus. Probabilmente abbiamo sbagliato, anzi sicuramente: non è dimenticandosi che si risolvono i problemi, ma siamo riusciti a sentirci realmente liberi».

© Andrea Galliano

Skialper 136, Sweet Home

Non abbiamo mai vissuto le nostre case come negli ultimi quindici mesi. Probabilmente non le abbiamo mai odiate così tanto perché da un giorno all’altro si sono trasformare da dormitorio a ufficio, luogo di svago, palestra, ristorante. E non erano state pensate per quelle funzioni. Ma poi alla fine la pandemia ci ha obbligati a riflettere sul concetto stesso di casa e a uscire dalla nostra comfort zone. Il domicilio è il luogo dove un soggetto ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi. Ce lo hanno insegnato i DPCM, così casa è dove abbiamo deciso di spostarci, anche per dare sfogo alle nostre passioni, è un luogo fisico con uno spazio mentale a cui siamo a nostro agio. Una luogo piccolo dove progettare le nostre grandi avventure, con le finestre che si aprono su panorami infiniti, come quelli della copertina, che rappresenta la vista dall’oblò di un bivacco in Sud America. E allora casa per gli autori di questo numero di Skialper significa Patagonia, Altavia numero 1 delle Dolomiti, Monte Baldo, Balcani, un record fuori dall’uscio e tanto altro. 

PrimAscesa, prove di alpinismo post-apocalittico

Molti chiamano casa le proprie montagne. Ma in fin dei conti casa non è l’intero pianeta che abitiamo? Ed è piena di spazzatura. Perché allora ci risulta tanto difficile prenderne coscienza? Forse perché noi quella spazzatura non la vediamo. Così Simon e Juan, i protagonisti del mediometraggio presentato al Trento Film Festival, hanno pensato di scalare i 300 metri e 105.000 metri cubi di immondizia di una discarica per scenderla con gli sci. 

© Elisa Bessega

Il paradiso è per pochi

El Chaltén, Patagonia. Migliaia di visitatori al giorno in estate (il nostro inverno) e poche centinaia di residenti nell’inverno australe, quando soffiano i venti del sud e la neve ricopre anche i pendii più bassi del Fitz Roy e del Cerro Torre. E quando entra in scena la minuscola ed eterogenea tribù di scialpinisti locali. Matthew Tufts ha deciso di fare di El Chaltén la sua casa per un lungo inverno fatto di attese, asados e discese irripetibili. Un reportage di 20 pagine per pensare alla neve e allo sci di montagna anche quando da noi si riempiono le spiagge. 

© Matthew Tufts

Chiedimi se sono felice

Civetta, Antelao, Pelmo e Tofana di Rozes da salire e scendere con gli sci uno dietro l’altro, spostandosi solo a piedi tra una montagna e l’altra. Non un record alla ricerca della prestazione contro il cronometro, ma una sfida dietro casa per scoprire la differenza tra contentezza e felicità. È quello che hanno fatto Giovanni Zaccaria e Matteo Furlan.

Tea e il Baldo

La montagna di casa, un microcosmo che si tuffa nel Lago di Garda, ricco di sorprese anche se è proprio fuori dall’uscio. Da raggiungere in bici e attraversare a piedi, con la neve, in coppia. Per chiudere tutte le cianfrusaglie della vita moderna in un baule col lucchetto e farsi un giro leggeri e senza pensieri. Un racconto di Andrea Zocca con illustrazioni di Alessandro Ripane.

Dobro došli

Carpazi, Balcani e Caucaso. Un viaggio leggero, al ritmo del trekking e di una tendina gialla. Ma anche al ritmo dell’ospitalità semplice e genuina, quando ad aprirti la porta di un’umile ma dignitosa casa sono soprattutto le donne come Mayvala, sul Caucaso Maggiore. Storie di incontri, e rinascite, come quella di Zef, che ha aperto un rifugio sulle montagne dell’Albania. Storie di notti nella natura, con le parole e le immagini di Giacomo Frison e Glorija Blazinšek.

© Altripiani.org

Pionieri dietro casa

L’Altavia numero 1 delle Dolomiti è un sogno per molti, ma in inverno è poco frequentata, soprattutto nell’anno pandemico, con tutti i rifugi chiusi. E allora perché non provare ad affrontarla con sci e pelli, costruendosi ogni sera la propria casa scavando una truna o infilandosi in una baita? L’idea Andrea Galliano ce l’aveva in mente da tempo, ma la pandemia e i lockdown hanno dato la spinta giusta.

La formula del divertimento di tipo 2

17.645 metri di dislivello con sci e pelli in 24 ore. E il nuovo record del mondo. A realizzarlo, a marzo, Martina Valmassoi, sulle piste di casa, nel Cadore. Un’idea nata per caso e un progetto improvvisato, per mettersi alla prova e fare qualcosa di diverso.

© Philipp Reiter

Marco De Gasperi 2.0

Dopo sei ori mondiali nella corsa in montagna e successi prestigiosi come quelli alla Sierre-Zinal e alla Jungfrau Marathon è tempo di guardare oltre. Per progettare le scarpe da trail del futuro. Siamo stati in SCARPA, la nuova casa di Marco De Gasperi, category manager per il trail del marchio veneto. Per parlare di scarpe e suole ma anche di ricordi. Passato, presente e futuro di un campione.

© Federico Ravassard

Must Have & more

Siamo stati a Saluzzo e nei dintorni, tra Valle Varaita e Valle Po, per una corsetta con i ragazzi della Podistica Valle Varaita. E nel frattempo abbiamo anche provato qualche chicca: scarpe, abbigliamento, bastoni, zaini, gps & co. Poi abbiamo fatto un giro in mountain bike e a piedi a Gressoney con i nuovi capi di abbigliamento della linea Moncler Grenoble, abbiamo organizzato una tavola rotonda a fil di vetta con Federica Mingolla, Fabian Buhl e Matteo Jellici, R&D footwear director La Sportiva, sulla nuova linea di scarponi semi-ramponabili Aequilibrium e abbiamo chiesto alla Guida alpina catalana Santi Padrós cosa ne pensa della nuova scarpa da approach AKU Rock DFS.

Pensieri di roccia e di neve

Nella consueta rubrica Antologia Bianca i racconti dei lettori e proprio uno di loro, Massimo Teghille, dopo essere stato pubblicato tra le pagine dei lettori, è stato promosso e ha firmato l’outro di questo numero. Quindi… continuate a mandarci i vostri racconti! La doppia pagina dei Pensieri, a inizio rivista, è dedicata alle Dolomiti, alla loro roccia e all’arrampicata, a firma di Gian Luca Gagino. 


Festa al Lago Nero

1 novembre 2019 185 giorni / 3.076 km

Camminare sulla dorsale dell’Appennino Tosco-Emiliano è come surfare la cresta di una lunga onda immobile. A destra si infrangono le scoscese pareti a balze, a sinistra montano le faggete infinite. In un giorno di sole abbiamo lasciato il Passo della Cisa e ci siamo incamminati verso il Marmagna. Nel tardo pomeriggio, quando la luce esprimeva le sue sfumature più calde, siamo arrivati in cima. Davanti a noi, a Sud-Ovest, la terra precipitava a lungo, fino a essere inghiottita dal mare delle Cinque Terre. Abbiamo aspettato il tramonto e, quando gli ultimi raggi arrossavano le Alpi Apuane, abbiamo acceso la cassa portatile e ci siamo scatenati in un ballo di gruppo sotto la grande croce di vetta, sulle note funky di Lord Shorty. Purtroppo la favola dell’autunno bucolico è finita subito e dal giorno dopo abbiamo dovuto fare i conti con temperature in discesa libera e forti venti da Nord: questa settimana ci sono state due allerte meteo. I nostri volti iniziano a tradire la stanchezza accumulata nei mesi.

Stamani abbiamo deciso di unire due tappe, visto che per una volta non davano burrasca. Le cose sono andate per le lunghe e abbiamo speso le ultime ore brancolando nel buio dentro un manto di foschia vischiosa che assorbiva ogni suono, col naso attaccato al GPS per capire dove andare. Siamo praticamente andati a sbattere contro il bivacco Lago Nero, una malga di pietra. Non vedevamo l’ora di mettere in corpo il brodo liofilizzato. Quando abbiamo aperto la porta, ci siamo dovuti stropicciare gli occhi dalla sorpresa: il locale interno era spazioso e affollato da una ventina di persone, al lume di candela: chi suonava la chitarra, chi arrostiva costine e funghi nel camino scoppiettante. Il paradiso all’improvviso. Ci hanno fatto sedere e una donna aretina dai lineamenti fini (che ho scoperto avere 63 anni, non potevo crederci) ci ha servito delle pappardelle al ragù di cinghiale. Sembrava di essere in una scena di un film di Fellini, se non fossimo stati in un bivacco, in mezzo al nulla.

Dopo la cena e vari bicchieri, parlando con gli altri commensali del pane toscano senza sale, è venuto fuori che un paio di noi hanno origini siciliane e che laggiù mangiamo saporito, sapete. Toccati sul vivo, i nostri ospiti ci hanno sfidato ad assaggiare una grappa speciale. In fondo a una torbida bottiglia di liquido ocra se ne stavano due peperoncini gonfi e rotondi, sul punto di esplodere. Chiaramente non era il caso di tirarsi indietro e abbiamo raccolto il guanto della sfida col sorriso piacione di chi è avvezzo a certe cose. Dopo aver inutilmente cercato di non boccheggiare, ci siamo attaccati senza pudore a una bottiglia di latte, pronta lì accanto, manco a farlo apposta.

13 dicembre 2019 / fine primo tempo

Due settimane fa la nostra spedizione è arrivata a Visso, un piccolo borgo marchigiano incuneato ai piedi dei Sibillini. Per Va’ Sentiero era la fine del primo tempo: abbiamo scelto di dividere la spedizione in due tranche, fermandoci per l’inverno a rifiatare. Oltre che essere a metà del Sentiero Italia (3.548 chilometri), Visso è stata uno degli epicentri del terremoto del 2016: gran parte degli edifici è inagibile, specialmente nel centro storico. I cittadini rimasti vivono ancora in container temporanei. Ci sembrava bello finire lì la prima parte del viaggio, portare un po’ di festa.

L’ultimo giorno è magicamente tornato il sole, come a premiarci: un cielo pulito, senza compromessi, come alla partenza sette mesi prima. Istintivamente nutrivo una fede immotivata che sarebbe stato così. Il nostro arrivo, a modo suo, è stato un evento. C’erano tantissime persone venute apposta a camminare con noi quella tappa speciale, una vera carovana: da lontano dovevamo sembrare un lungo serpente un po’ sgangherato.

Poi siamo giunti tra le prime case semidistrutte, puntellate, come un paese bombardato. Durante la spedizione ne abbiamo visti parecchi di vecchi borghi crollati o in preda all’abbandono, ma lì era diverso: le case, vivisezionate dal sisma, sembravano abitate fino a un attimo prima. Sulla parete di una cameretta ho intravisto un poster di Bob Marley. Oltre le macerie abbiamo iniziato a sentire la banda del paese che attaccava a suonare in nostro onore, la gente in lontananza che vociava allegra; mi è sembrato grottesco o quantomeno surreale, ma è stato solo un attimo.

La sera c’è stata una gran festa. A un certo punto, mentre la band ci dava dentro sul palco, mi sono guardato intorno e ho visto tante persone diverse, perfetti sconosciuti, vecchietti e ragazzini, sales manager e pastori, fricchettoni e professori, tutti a sgomitare selvaggiamente in un grande tendone della Protezione Civile per difendersi dal freddo pungente. Che meraviglia pensare che a unirli sia stato Va’ Sentiero. Qualche giorno dopo io e Sara siamo scesi in Sicilia, in quella che un tempo era la casa dei miei nonni. Nell’ultimo periodo, nei momenti di stanchezza e marcia forzata, non facevo che pensare a essere qui. Ma una volta arrivati non è stato facile staccare la spina, abituarmi a essere fermo, a non dormire ogni notte in un posto diverso. Stamattina ci siamo tirati su e la giornata era magnifica, così abbiamo preso una granita al limone e siamo andati in spiaggia. L’acqua era una tavola e mi sono buttato. In zona Cesarini, ma ce l’ho fatta anche quest’anno: sarebbe stato il primo della mia vita senza un tuffo a mare.

4/fine

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131 


Un asino sul Gran Paradiso

10 settembre 2019 133 giorni / 2.169 km

La Becca di Monciair è la cima che più mi ha colpito di tutto il gruppo del Gran Paradiso. Camminando sul sentiero a mezzacosta che si addentra nella testa della Valsavarenche era davvero singolare il contrasto tra questa vela di roccia e ghiaccio, appuntita ed elegante, e i meandri della Dora del Nivolet nel pianoro sottostante, così tortuosi da ricordare il Rio delle Amazzoni. Giunti al rifugio Città di Chivasso, a pochi metri dal confine con il Piemonte, ci siamo presi un’ultima coppa dell’amicizia valdostana, colma di caffè bollente, bucce d’arancia e grappa; alla fine eravamo più amici che mai.

La mensa era affollatissima, alle pareti c’è una vera e propria biblioteca. Mentre aspettavo una zuppa di farro mi sono perso nella storia del prete Joseph-Marie Henry che, a inizio Novecento, allo scopo di certificare la facilità dell’ascensione al Gran Paradiso (e attrarre così i turisti nella povera valle), ebbe una sensazionale pensata: scalare la cima insieme a un asino. Se ce l’avesse fatta anche un somaro... Arruolatone uno di nome Cagliostro, gli ramponò gli zoccoli e insieme, nello scalpore generale, compirono l’ardita impresa. Leggenda vuole che sulla vetta Cagliostro lanciò un formidabile jodel e depositò un profumato souvenir, a imperitura memoria. Rock’n’roll.

Dopo cena il gestore del rifugio, Sandro, ha preso parola e, nel silenzio degli avventori, si è scatenato in un’invettiva contro l’eterna fretta della società moderna. Si definisce anticonformista, eretico e ribelle, una sorta di Fra Dolcino delle Alpi. Le camerate erano piene, così ci hanno sistemati nel piccolo locale invernale, all’esterno. Faceva freddo e ci siamo messi tre coperte a testa sopra il sacco a pelo. Non avendo sonno dopo il caffè dell’amicizia, né sapendo cosa fare (non c’era luce nel bivacco), abbiamo tirato fuori dallo zaino il portatile e abbiamo guardato un film, il primo da chissà quanto: La pazza gioia. Siamo andati a dormire commossi. Alla mattina, quando siamo usciti dal bivacco, tutto era coperto di bianco. Durante la notte era caduta una spolverata di neve e i Laghi del Nivolet si erano trasformati in fiordi norvegesi.

5 ottobre 2019 158 giorni / 2.595 km

Non ero mai stato nelle Alpi Marittime: a duemila metri ritrovi i colori della macchia mediterranea. Anche l’odore dell’aria è diverso, a volte sembra sappia di timo. L’estate è finita, ma le giornate sono ancora belle e regalano grandi vedute. Da settimane il Monviso compare a ogni cima o valico, comincio a capire perché i Romani pensavano che fosse il più alto delle Alpi.

Stamattina siamo partiti dal rifugio Garelli prima che sorgesse il sole, un vento freddo spazzava l’aria e rendeva tutto nitidissimo. Passando per lo stretto Canale dei Torinesi abbiamo risalito la Nord del Marguareis, la vetta più alta delle Alpi Liguri. Mentre affrontavamo la rampa finale, ci è sfrecciato accanto un branco di camosci, tanti da non riuscire a contarli: in mezzo minuto hanno coperto la stessa distanza che noi abbiamo fatto in mezz’ora.

Dalla vetta, per la prima volta dalla partenza, abbiamo rivisto il mare, come i soldati di Senofonte. Ho provato una strana sensazione, come tornare a casa. In realtà non ci siamo accorti subito che fosse il mare, vedevamo solo una grande piana luccicante. Poi abbiamo intravisto dei puntini e ci siamo resi conto che fossero navi.

Laggiù, oltre l’immenso specchio d’acqua e le sottili nuvole di vapore marino, spuntavano le sagome di alcune montagne: erano quelle della Corsica, dove tutto questo è cominciato. Dove, per un curioso paradosso, la mia vita ha preso una direzione smarrendo la via per il Monte Cinto.

3/continua

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131 


Smarano, Sfruz e il Sentiero Roma

14 giugno 2019 46 giorni / 707 km

Guardandola dalla rocca di Haderburg, la valle dell’Adige sembra disegnata con il righello. Una distesa di meleti e filari paralleli la cui linearità è interrotta dal flusso sinuoso del fiume. A Salorno si parla l’italiano, un paio di chilometri più a Nord il tedesco. Alla sera le vie si riempiono di risate e di giovani. Bicchiere di vino in mano, uno di loro mi ha raccontato di un sentimento particolare chiamato heimat: l’attaccamento ai luoghi della propria infanzia, quelli in cui si sono vissuti i momenti più belli.

Ieri ci siamo svegliati sulle rive del piccolo lago di Favogna, tempestato di ninfee. Sembrava un quadro di Monet. Ero ancora stordito dal sonno e ho pensato di farmi una nuotata. Dal pontile di legno, nudo, mi sono tuffato nel lago deserto. Grazie al fondo torboso l’acqua era a temperatura ideale e mi è venuto da urlare di felicità. Più tardi abbiamo raggiunto la cima del Monte Roen. Non è stato solo il nome a ricordarci il Signore degli Anelli. Da lassù, a Ovest, scintillavano i grandi ghiacciai dell’Ortles-Cevedale, sormontati da vette che parevano scolpite nel cielo. Ai nostri piedi la parete orientale del Roen volava in picchiata per centinaia di metri.

Lungo la discesa verso il rifugio abbiamo allungato per la Malga di Smarano e Sfruz. Volevamo toglierci lo sfizio di vedere se esistono davvero due tali con dei nomi simili, da Stanlio & Ollio altoatesini. Alla malga non c’erano né Smarano né tantomeno Sfruz (che abbiamo scoperto poi essere dei paesini a valle), ma due cani con il manto chiazzato che ci hanno guardati arrivare in attento silenzio, senza scomporsi né abbaiare. Erano Pastori del Lagorai. Un ragazzo dagli occhi gentili ci ha offerto birre e cacioricotte fresche di minuti, sapevano ancora di erba tagliata. Lui e sua moglie (Alan e Roberta) salgono qui ogni primavera con le loro vivaci bimbe e le tante caprette. Ce ne hanno anche fatta mungere una. Mi ha colpito la loro serenitа. Roberta aspetta un altro bimbo e, mentre mi preoccupavo della loro sussistenza, guardandoli ho realizzato di come fossero spontaneamente al di sopra di ogni tipo di preoccupazione, concentrati a vivere il presente come un dono. A fine tappa, mentre ci rilassavamo a piedi scalzi sul grande terrazzo del rifugio Oltradige, il Latemar, il Catinaccio e le Odle si sono tinti di rosa. È stata l’ultima grande vista delle Dolomiti, un bellissimo arrivederci.

Tra i prati tempestati di ranuncoli gialli, stamani siamo scesi a Fondo, un paese della Val di Non. La piazza era affollata di persone che gremivano i tavolini dei chioschetti. Sopra le tante voci allegre scandiva i secondi un rumore incessante: un grande orologio ad acqua, una macchina prodigiosa fatta di leve e mulini meccanici. Abbiamo preso a fissarlo per diversi minuti, senza riuscire a capire esattamente quale fosse la chiave del portento.
Ho chiesto alla ragazza dei gelati cosa succede d’inverno, quando l’acqua all’interno dell’orologio si ghiaccia. «Il tempo si ferma» ha sorriso.

20 luglio 2019 81 giorni / 1.279 km

Il Sentiero Roma è probabilmente il tratto più difficile di tutto il nostro viaggio. Ieri alla Bocchetta Roma per poco non abbiamo perso Sara, la fotografa della spedizione. Si stava calando da una corda fissa, sospesa su un salto di venti metri; una pietra si è staccata dalla parete e le è rimbalzata verso la faccia. Sara si è abbassata di riflesso e l’ha schivata per pochi centimetri. Ci siamo zittiti. Stamattina avremmo dovuto affrontare il Passo Cameraccio ma ci hanno detto che le corde fisse, ancora seppellite dal ghiaccio, sono inutilizzabili. Non avendo con noi ramponi e piccozze, siamo stati costretti a stravolgere i piani e raggiungere il rifugio Allievi con una lunga deviazione, passando per la Val di Mello.

Questa valle ha un valore speciale, per me: ho ricevuto qui il mio battesimo della montagna. Quando ero piccolo con mio padre venivamo in quella che chiamano la piccola Yosemite, tra le marmitte d’acqua verde smeraldo e le pareti di granito luminoso, e provavamo a raggiungere il rifugio Allievi, cioè la tappa di oggi. Tentammo in più occasioni senza mai riuscirci, ogni volta per ragioni diverse: vuoi la pioggia, la stanchezza, la tarda partenza. La montagna rimaneva qualcosa di cui non capivo il senso, un non-luogo in cui si camminava per non arrivare mai. Tuttavia durante l’ultimo di quei tentativi - avrò avuto una decina d’anni - superammo la quota degli alberi e dall’imbocco di un vasto circo glaciale, per la prima volta, avvistammo il rifugio. Ricordo quel momento come fosse ieri. Una piccola macchia rossa e squadrata, ben sopra le nostre teste. Il sole stava ormai tramontando e così, a malincuore, convenni che fosse prudente tornare indietro e rinunciare ancora una volta alla meta agognata. Mi era bastato averlo visto, era là, il rifugio esisteva davvero: la montagna cambiò significato e coordinate nella mia mappa mentale.

Oggi, per uno strano scherzo del destino, ci siamo trovati a percorrere proprio quel sentiero, la stessa salita che da bambino mi aveva ostinatamente respinto. L’ho affrontata di petto, sotto il sole di luglio, come si affronta l’incontro di una vita, i piedi che volavano e il cuore a ruota. Mi sembrava di riconoscere i tornanti del sentiero, una roccia levigata, una lapide.

Mentre ci avvicinavamo allo svaso del circo glaciale, laddove ci eravamo spinti tanti anni fa, ho visto da lontano un uomo seduto di spalle con un cappello da pescatore, che guardava in su appoggiato a un grosso bastone di legno. Dopo qualche minuto l’ho raggiunto e quando, sorpreso dal rumore dei passi, si è voltato, mi sono accorto che era papà.Stava andando all’Allievi per farmi una sorpresa, non si immaginava di incontrarmi proprio lì. Era incredulo e commosso, come me. Gli altri sono andati avanti e noi due, più lenti, ci siamo incamminati insieme verso il rifugio, riprendendo la marcia proprio da dove l’avevamo interrotta più di vent’anni fa, questa volta a parti invertite, io a spronarlo, lui a dire vai avanti, poi ti raggiungo. Quando siamo arrivati, ci siamo abbracciati e ci siamo presi due birre a testa, in un momento di rara felicità, con la consapevolezza di aver chiuso un cerchio.

2/continua

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131 

© Sara Furlanetto

Va' Sentiero

Non ne potevo più di tutto quel rumore. I corridoi della tube brulicanti di umanità, i lavori perennemente in corso, i fischi delle ambulanze ogni cinque minuti. Ero finito a Londra un paio d’anni prima, in autostop, inseguendo il sogno di fare musica. Sembrava il posto giusto, ma il chiasso della città inghiottì il mio estro e rimasi intrappolato in una grande bolla: mi sentivo l’ennesimo tra milioni di esuli, senza riuscire a trovare quel che cercavo. Avevo 29 anni e già da tempo il mio grillo parlante aveva preso a fare discorsi circa un posto nel mondo dei grandi. Mi stavo incattivendo. Così, sul finire dell’estate 2016, feci i bagagli e lasciai l’Inghilterra con la sgradevole sensazione di aver perso tempo e l’ennesimo treno.

Dovevo trovare il modo di prendermi una pausa da quel genere di pensieri. Mi avevano parlato del GR20, un lungo trekking che percorre tutta la dorsale montuosa della Corsica. Proposi al mio amico Toni di farlo insieme; a fine settembre ci incontravamo al porto di Bastia, nel Nord dell’isola. Durante la seconda tappa Toni si azzoppò malamente, peraltro su uno dei rari tratti in piano. Non poteva più proseguire. Fu un brutto colpo per entrambi, ma decisi di continuare anche senza di lui. La prospettiva di affrontare quel viaggio da solo mi spaventava un poco e al contempo mi eccitava: in ogni caso non potevo accettare di perdere in partenza anche quella mano. Lasciai le mie cose al Refuge d’Ortu di u Piobbu, mi caricai il sacco di Toni in spalla e lo accompagnai lentamente a valle, fin dove arrivava una stradina, in prossimità d’un campeggio. Trascorremmo un bellissimo pomeriggio con i piedi a mollo nel torrente gelido e la mattina dopo tornai su.

Dopo qualche giorno stavo avvicinandomi lentamente alle pendici del Monte Cinto quando in pochi minuti calò una nebbia pesante. Malgrado i miei sforzi, finii presto col perdermi. Vagai a casaccio cercando un ometto di pietra e, mentre cercavo di decidere, per l’ennesima volta, se quello sotto i miei piedi fosse un sentiero, la traccia di un rivolo o di un qualche animale, ecco spuntare nel muro d’aria biancastra tre tipi alti e biondi. Erano dei ragazzi svedesi che percorrevano il GR20 in direzione opposta. Sparpagliandoci ritrovammo il sentiero e, per suggellare il brillante episodio di cooperazione internazionale, mangiammo assieme un boccone. Uno di loro, con una bandana gialla al collo dello stesso colore della barba, mi chiese: «tu che sei italiano conosci il Sentiero Italia?». «Sentiero Italia... no. Mai sentito».

Passarono i mesi. In una fredda sera d’inverno quel cassettino della memoria si aprì all’improvviso e decisi di cercare Sentiero Italia su Google. Trovai qualche informazione in un blog con un’estetica da anni ‘90, ma fu comunque abbastanza: un sentiero di 7.000 chilometri lungo tutte le montagne italiane, Alpi e Appennini, ormai dimenticato. Cominciai subito a fantasticare di una spedizione alla scoperta del cammino misterioso.

13 maggio 2019
13 giorni / 184 km

Fotografa, videomaker, responsabile logistico, filosofo cambusiere e guida: la spedizione Va’ Sentiero. Ci siamo messi in testa di percorrere tutto il Sentiero Italia per documentarlo e farlo rivivere. Due settimane fa siamo partiti dal Golfo di Trieste. Era il primo maggio, ci sembrava il giorno giusto per coronare il lavoro degli ultimi anni, tutte le pene e le notti insonni per arrivare a essere lì, a tagliare quel nastro. Nonostante le previsioni maligne, la mattina della partenza c’era un gran sole e il mare era tutto un riflesso. Prima di incamminarci abbiamo letto ad alta voce Itaca di Kavafis, a mo’ di augurio.

Dopo le depressioni del Carso e i vigneti del Collio, oggi per la prima volta abbiamo superato i mille metri di altitudine sul monte Kolovrat. La sua schiena è bucata da decine di trincee e dentro gli stretti camminamenti coperti tirava un’aria gelida. Le feritoie dominano l’Isonzo, un lungo serpente d’acqua turchese, e la cittadina slovena di Kobarid: un tempo si chiamava Caporetto. Siamo sul confine tra le Valli del Natisone e la Slovenia, uno dei fronti più caldi di tutto il Novecento. La Grande Guerra, la Seconda, la Guerra Fredda... non ce n’è stata una che lo abbia risparmiato.

Dopo una lunga discesa tra i frassini, il sentiero si è trasformato in una stradina lastricata di ciottoli e siamo entrati nel borgo di Topolò. Il nome viene dallo sloveno topolove, cioè pioppeta, anche se di pioppi non ce n’è neanche l’ombra. Tra le vecchie case coi ballatoi di legno si udiva solo il singhiozzo nervoso di un rio in lontananza, sembrava un paese fantasma. Eppure su alcuni muri splendevano delle curiose targhe di metallo: Ufficio Postale per Stati di coscienza, Ambasciata dei Cancellati, Ostello per i suoni trascurati, Accademia del Passo Ridotto.

Donatella, una signora dai capelli rossi e le mani piccole, ci ha indicato un ostello ricavato da un fienile. La sua intelligenza pratica e tagliente mi ha ricordato le donne dell’Europa dell’Est. Cercando un posto tra le stanze ho notato un libro di poesie aperto: Il confine insegna a stare fermi / e non gli importa della tua natura / ma anche a lei non importa di lui / come due innamorati che fanno finta / di non amarsi - tengono la posizione.

Prima di infilarci nei sacchi a pelo abbiamo votato per il bicchiere della staffa e, proprio in quel momento, è spuntato in ostello un signore dall’aspetto elegante e scapigliato, con il sorriso giovane; ci è venuto spontaneo proporgli una bevuta con noi. Abbiamo scoperto in fretta che, oltre al sorriso, anche l’animo di Moreno è instancabilmente giovane. Lui e Donatella sono gli artefici di un evento artistico che negli anni ha assunto rilevanza internazionale: la Stazione Topolò - Postaja Topolove. In quei giorni, ci ha raccontato Moreno mentre lo ascoltavamo seduti per terra come bambini, il borgo diventa un laboratorio creativo a cielo aperto. Artisti da ogni dove si esibiscono nei vicoli, nelle vecchie rimesse, al limitare dei boschi, senza una vera distinzione col pubblico. Non ci sono orari fissi nei programmi, solo indicazioni generiche: al tramonto, pomeriggio presto, col buio.

Ci è venuto spontaneo chiedere a Moreno come sia stato realizzare un progetto così stravagante in un luogo segnato per decenni dalla tensione e dal sospetto. Per un attimo il suo sguardo scanzonato ha tradito un lampo di fierezza, mentre inghiottiva l’ultimo sorso: «Fare arte da queste parti è stato un atto politico». È notte fonda, ormai.

Yuri Basilicò

1/continua

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131 


La rinuncia di Kilian e David

«No, no, no. No, non abbiamo scalato l’Everest. Finalmente, dopo aver atteso tanto che passassero i cicloni tropicali e che la neve smettesse di cadere, abbiamo lanciato un tentativo, ma mentre stavamo raggiungendo il Colle Sud abbiamo deciso di fermarci entrambi». A scrivere è David Göttler sui suoi account social nella giornata di ieri. Dunque, dopo settimane complicate a causa del meteo e della pandemia, il duo Kilian Jornet - David Göttler non ha raggiunto la vetta dell’Everest nella finestra di tempo lasciata dal passaggio del ciclone Yaas. Una rinuncia nata non solo per cause esterne come il meteo, ma soprattutto ‘interne’. Kilian è partito dal campo base e David dal campo 2 e, dopo avere scalato tutta la notte, si sono ritrovati al Colle Sud. «Tutti e due non ci sentivamo bene e non avevamo le forze necessarie . «È stato un momento bizzarro quando ci siamo ritrovati al Colle Sud e ci siamo detti che non stavamo bene, entrambi abbiamo vissuto esattamente la stessa esperienza. Quindi è stato facile decidere di non proseguire. Sarebbe stato folle continuare a salire più in alto in quelle condizioni. Non puoi scalare l’Everest nel nostro stile se non ti senti al 100% e per fortuna entrambi sappiamo benissimo come dovremmo sentirci a quelle quote. Per questo siamo scesi. Anche se potevamo dare la colpa al vento per averci impedito di proseguire (al Colle Sud ce n’era abbastanza), non è stato per il vento o il maltempo o le cattive condizioni sulla montagna. La causa i nostri corpi e come ci sentivamo, ed è altrettanto importante ascoltare il proprio corpo e saperlo rispettare». Kilian e David sono saliti dalla via normale. Durante il loro allenamento in quota erano arrivati fino a sfiorare quota 8.000 sulla via per il Lhotse. Tra le ipotesi iniziali del duo sembrava esserci proprio la traversata Everest - Lhotse. 


Transap

C’è chi si porta in spalla il fornelletto e prepara l’asado, chi gira in bretelle. C’è chi cammina tutta la notte senza fermarsi mai e chi non vede l’ora che finisca. La Transappenninica è una prova di avventura e di montagna attraverso l’Appennino, lungo le antiche vie che l’uomo ha usato per centinaia di anni per trasportare il sale necessario alla conservazione dei cibi verso la Pianura Padana e sui sentieri dei Partigiani tracciati durante la Seconda Guerra Mondiale, dalle colline della bassa padana fino al Mar Ligure. Tutti percorsi che toccano i crinali e non le valli come le strade moderne, per sfuggire a briganti, interminabili guadi dei fiumi o soldati tedeschi. Non è una gara di trail running. Non è a pagamento. Ciò che conta non è vincere. La Transap è una corsa al mare, un’intensa esperienza di strada. Si fonda su valori di resistenza alla fatica, ironia, fair-play, sostenibilità e un pizzico di follia. La sfida si svolge durante l’ultimo weekend d’estate (che quasi sempre coincide con il terzo fine settimana di settembre) e prevede di coprire ampie distanze in poco tempo, con notevoli metri di dislivello (da 3.000 a 7.000 tra salite e discese) e chilometri di sviluppo (dai 55 ai 110), variabili a seconda dell’itinerario scelto.

Per essere classificati è fissato un tempo limite, all’incirca 32 ore. Chi, pur sforando l’orario massimo, giungesse ugualmente all’arrivo, può in ogni caso considerarsi un vincitore. Solo che le birre saranno già finite. La partecipazione è gratuita e a proprie spese: ogni squadra, composta obbligatoriamente da due persone, deve procurarsi da sé tutto l’equipaggiamento necessario. L’organizzazione stabilisce solo i punti di partenza e di arrivo, variabili di anno in anno. Alcuni luoghi del campo di gara sono segnalati come checkpoint e stabiliscono il punteggio che determina il risultato finale della squadra» si legge sul sito. È necessario fornire le prove dell’avvenuto passaggio ai checkpoint, attraverso selfie, disegni, video… L’elemento sorpresa è fondamentale: partenza, arrivo e checkpoint vengono comunicati solo poche ore prima del via. 

La scelta del percorso, assolutamente libero, dipende dal gusto personale e dalla capacità di lettura dei sentieri. Per partecipare è necessario munirsi di mappe dettagliate della zona, che sono fornite via mail agli iscritti. La prova non consente l’utilizzo di GPS, navigatori e applicazioni di navigazione di altro tipo. Il primo premio della Transappenninica è riservato alla squadra che totalizza il maggior numero di punti, in considerazione dei checkpoint raggiunti. A parità di punti, vince la squadra che impiega meno tempo. Ogni anno cambiano il percorso, i checkpoint e le regole (non tutte) e varia leggermente il numero delle coppie in gara (tra le 40 e le 45). Sono ben accetti contributi spontanei, anche di beni in natura, per coprire i costi della festa inaugurale e della logistica. Ci si iscrive a coppie. I posti sono limitati e si è ammessi per ordine di iscrizione. Per partecipare basta spedire il modulo che si trova sul sito (https://transap.tumblr.com/iscriviti) all’indirizzo transappenninica@gmail. com. Gli ammessi vengono contattati telefonicamente o via mail.

© Nicola Damonte

Marinai d’Appennino.
Transap 2018

Sono quasi le otto di sera e osservo Giulio tuffarsi in mare a Sori. Lo guardo e sono contento. Il senso di tutta questa corsa era racchiuso nel farla insieme, cavandosela, sostenendosi e continuando ad andare avanti fino a mettere i piedi sulla spiaggia e poi in acqua. È stato come essere un piccolo equipaggio in una minuscola barchetta tra le onde verdi dell’Appennino. Eppure abbiamo rischiato di saltare e di andare alla deriva quasi subito per colpa mia, per le gambe vuote e per lo stomaco sottosopra. Ma abbiamo tenuto, un po’ per la testa dura e un po’ per un pizzico di fantasia, o sana follia, chissà… I detrattori direbbero che non si fa, ma va bene lo stesso per noi. Non abbiamo mollato nello sconforto della nebbia che il mitologico Alfeo ci buttava addosso, carica di pioggia, di vento e di pessimismo. 

Ci siamo rincuorati e rimessi in sesto con i sorrisi e le parole di Giovanni e Giulia al rifugio Antola (anche con le birrette e i panini, ok...). E la strada passava, intrecciando le nostre storie con le memorie del passato, dei villaggi, dei boschi profondi e delle antiche speranze di chi si metteva in viaggio verso il mare. Poi incontrare un amico fa la differenza. Già, Davide, che ti aspetta vicino a Torriglia, dopo essere partito di corsa proprio dal mare per poi ritornare a ritroso insieme, con te. E così corri ancora, cammini, fatichi, corri di nuovo, corri in tutte le sue declinazioni possibili fino al limite del semplice un piede dietro l’altro e poi arrivi a Sant’Uberto al tramonto, con il sole che sfonda e spacca in un grido cremisi tutto quello che c’è in giro. Scalinate ripide, odori di fiori, le voci che arrivano dalla spiaggia; è la Liguria di chi sbuca dal retro bottega come noi ora, nell’incandescenza di una sera interminabile e preziosa come le cose rare. Siamo arrivati adesso, io e Giulio e Davide dietro che ci scorta, con cura. Magari non belli da vedere, ma efficaci, come quando sai dove stai andando e ci vai. Alla fine per terra c’era scritto ecco il mare. I marinai d’Appennino hanno bisogno di saperlo, sempre.

Niki Gresteri

Una canzone semplice.
Transap 2019

Le cose più belle della Transap sono quelle che non si vedono con gli occhi, sono quelle che non puoi toccare e quantificare materialmente. Credo sia un aspetto positivo non avere oggetti o riconoscimenti che definiscano il valore delle motivazioni e delle azioni. Non ci servono cose per essere e per fare. Nel caso della Transap, tutto ciò che ha un significato, almeno per me, rimane immateriale. A dare un senso alla Transap non sono certo i chilometri (non pochi), né tantomeno il dislivello (non male), anche se ci devi fare i conti, e magari dopo un po’ li maledici, come se fossero diventati delle vespe sotto la maglietta o delle tarme nelle scarpe bucate. Sudi e soffri, a volte sbocchi in mezzo al bosco, sbuffi come un vecchio motore a gasolio sfatto, ma vai avanti perché nella Transap c’è un perenne senso di attesa nei confronti di qualcosa che sta per accadere. Mi piace pensare alla Transap come a un viaggio ideale, che in realtà non si compie, ma ridefinisce ogni volta una meravigliosa aspettativa. Perché è sempre difficile cogliere il senso di un’attesa, visto che la sua magia è proprio il non compiersi, ma aspettare che nasca. Ci vuole impegno e il giusto atteggiamento per capire la semplicità.

C’è l’attesa che precede la partenza e poi quella di vedere il mare. L’attesa di un versante che cambia e della notte che ti avvolge. L’attesa che una crisi passi e che la strada termini il prima possibile, anche se poi alla fine ti dispiacerebbe. Ci sono incertezze e dubbi che si trasformano in scoperte. Ma so che, nonostante tutto - la fatica, i dolori e il dolce desiderio di abbandonarsi al sonno - so che vale sempre la pena arrivare in fondo. Perché la cosa più bella resta il momento in cui vedi brillare gli occhi del tuo compagno o dei tuoi compagni e hai vissuto per tutto il giorno l’attesa di vederli felici, ancor prima di esserlo per davvero anche tu. Così, al mattino presto, lentamente, ciascuno con la propria idea in testa di cammino e di sentiero, ci siamo diretti verso un’intuizione di orizzonte e di memorie marine, a Sud. Ognuno a suo modo è ispirato da qualcosa. E da qui, da Borgo Val di Taro, il mare è per davvero ispirazione, promessa e idea, ma in alcuni momenti del nostro viaggio ci è sembrato quasi un miraggio, una chimera e una condanna, soprattutto quando la testa ti porta in un loop di malessere e di pensieri negativi. È come essere impigliato nei rovi e nelle ortiche senza venirne fuori (e magari a qualcuno è successo, più zecche optional). Ma il momento nero passa sempre, basta saper aspettare. E si tratta di capire che fa parte del gioco mettersi a nudo, saltare per aria e ripartire. È questo il bello.

Alla fine siamo sempre rimasti in cinque, siamo partiti e arrivati tutti insieme: io, Giulio, Edoardo, Eva e Ombra. Una lunghissima giornata di condivisione, di sguardi, di parole e di silenzi, che quasi sempre raccontano perfettamente lo stupore. Sempre insieme, camminando nel respiro dei faggi più alti e poi correndo sugli assolati crinali battuti dal sole pomeridiano. Insieme a cercare acqua, non trovarne, aspettare, chiedere a un contadino, trovare una locanda aperta al passo e rinfrescarsi finalmente! Sempre insieme, con le gambe adesso più stanche, prima di arrivare in cima a Prato Pinello nell’ora d’oro e fermarsi a osservare l’arco ideale di montagne disegnate con i piedi fino a quel momento. Pensi alla generosità e alla dedizione dei tuoi amici, di chi ha razionato l’acqua e ne ha portata in più per gli altri e per Ombra, il fedele amico a quattro zampe. Pensi che sia il posto giusto e il momento giusto.

E diventa più facile correre di nuovo, almeno per un po’, incontro alla luna che cresce dietro montagne placide ma adesso oscure, relitti abbandonati in una terra di alberi a volte storti, a volte dritti e luminosi come se esplodessero di luce. Torni indietro con la mente fino al mattino quando, lungo un tratto di Via Francigena, una vecchietta ci ha chiamato da un pugno di case in pietra ed è uscita fuori. C’era il sole fragrante e l’odore dell’Appennino profondo, quello che scivolando nell’autunno ti lascia con un nodo alla gola. Abbiamo firmato il diario dei pellegrini e annusato i porcini essiccati al sole, poi siamo ripartiti. Era di nuovo il posto giusto e il momento giusto, era l’attesa che precedeva altre cose belle. La Transap porta ancora avanti la propria idea originale, pulita ed essenziale, spesso selvatica e anarchica, e chi si mette in cammino non cerca premi e classifiche. Chi si mette in viaggio non cerca di essere migliore, ma cerca di essere se stesso e di condividere un pezzo di strada (e di attesa) con qualcuno. È come una canzone semplice che ascolti di notte davanti al mare, con gli amici che si abbracciano e sorridono per tutte quelle cose che ci sono state e che non si possono vedere. È come una canzone semplice che avevi in testa e che hai saputo aspettare.

Niki Gresteri

© Nicola Damonte

Chi arriva per primo aspetta.
Transap 2019

Fine estate 2019. È molto buio. Sono le tre di notte e da diverse ore mia sorella e io camminiamo completamente sole nel bosco. State attente ai lupi ci hanno detto gli organizzatori alla partenza, anche se, in realtà, l’animale non è pericoloso per le persone, anzi tende a evitarle. Da queste parti può anche capitare che, tra la lapide all’eroe russo Fëdor e un paesino abbandonato, si incontrino gli occhi gialli di un lupo che sta seguendo il tuo stesso sentiero. Appena gli alberi lasciano spazio ai pascoli erbosi ci accoglie la luna piena. Camminiamo da diciassette ore e ci si chiudono gli occhi. Il suono del silenzio regna incontrastato e ci sembra, laggiù oltre le montagne, di intravedere il mare. Forse è solo un’allucinazione. Tiriamo fuori i sacchi a pelo e puntiamo la sveglia dopo mezz’ora.

Ci rannicchiamo testa contro testa: sembra che qualche folletto abbia modellato il sentiero sulla sagoma dei nostri corpi. È comodissimo! esclama mia sorella. Due secondi dopo sta già dormendo. Quando ci svegliamo inizia a piovere. Cerchiamo la traccia per la salita, ma di notte, sotto la pioggia, non la troviamo. Guadiamo più volte un fiume. La batteria della mia frontale è scarica, ne abbiamo una in due. Le cartine sono bagnate, scarabocchiate e spiegazzate. Ci perdiamo. Siamo partite alle 6,30 di ieri mattina da una cascina incantata, sulle colline dell’Emilia Romagna, che ci ha accolti e ospitati in tanti, curiosi, sorridenti e scalpitanti. Venerdì sera abbiamo picchettato le tende al buio, una vicina all’altra: la notte prima della partenza, quando si dorme tutti insieme sotto le stelle, e il ritrovo in spiaggia la domenica, sono dei momenti davvero magici. Intanto abbiamo trovato la strada. Siamo sole sul crinale.

Le prime salite, in verticale, sono state toste. Barcollo. Penso che sono tutti matti. Francesca mi dice che è importante chiacchierare per distrarsi: uso il poco fiato che ho per mandarla al diavolo. I gruppi che si erano formati alla partenza piano piano si dividono. Passo dopo passo il mio respiro si regolarizza: sto imparando la strada e mi piace un sacco. Attraversiamo parchi naturali, vette, fiumi e torrenti favolosi. Schiviamo un serpente e percepiamo i cinghiali che ci scrutano nella penombra del sottobosco. Sono le 8,30 di domenica mattina, siamo in vetta a un meraviglioso monte checkpoint e abbiamo fame. Rapida sosta rifocillante: focaccia ripiena di pomodorini secchi, scamorza affumicata e uova sode. Destra o sinistra? Rincomincia a piovere. Arriviamo al cimitero checkpoint, selfie al volo, e ci rimettiamo in marcia accompagnate dalle ultime gocce. I piedi fanno male e sono fradici. Ormai è una corsa al mare, tra salite e discese. Siamo partite insieme, camminiamo insieme, dobbiamo arrivare insieme. Viaggiare è la nostra passione, ma non avevamo mai viaggiato a piedi. Siamo molto puzzolenti, però quando arriviamo in spiaggia i nostri compagni d’avventura ci abbracciano lo stesso e ci mettono in mano delle birre ghiacciate. Francesca e io abbiamo camminato per circa ventisette ore. Arriviamo a un quarto d’ora dal termine, con diverse zecche su varie parti del corpo. Bottiglia di vino per tutti e rapida premiazione. Abbiamo fatto tante nuove amicizie e ci salutiamo con la voglia di ripartire. Il detto dice che l’avventura comincia sulla porta di casa: queste colline, valli e montagne, per me e per noi della Transap, sono diventate casa. Spero che lo diventino anche per voi. Buona strada!

Marta Manzoni

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131 

© Nicola Damonte

Il 28 agosto la prima edizione di SkyClimb Mezzalama

«È un progetto che era nel cassetto e che la particolare situazione che stiamo vivendo ha tolto dall’ombra» ha esordito il patron del Trofeo Mezzalama Adriano Favre presentando ieri sera in una diretta Instagram SkyClimb Mezzalama by Dynafit, la gara che sabato 28 agosto prenderà il via dalla frazione di Saint Jacques (Ayas) e porterà gli skyrunner fino ai 4.226 metri di quota della vetta del Castore. La partenza e l’arrivo saranno nella frazione di Saint Jacques, in Val d’Ayas. Il tracciato, impegnativo, severo e molto tecnico, misura 25 chilometri con un dislivello complessivo di oltre 5000 metri.

«La caratteristica principale della SkyClimb Mezzalama - ha raccontato Favre - sarà quella che le squadre si dovranno confrontare con un terreno alpinistico e in alta quota. Si dovrà affrontare quella parere Ovest del Castore che tutti conoscono per le immagini del Trofeo Mezzalama dove le pattuglie salivano ramponi ai piedi e sci nello zaino. Questa volta i team, che saranno composti da due elementi, utilizzeranno gli stessi strumenti, corda, imbraghi e ramponi, ma non avranno gli sci nello zaino».

«Il percorso, - ha detto Favre - dopo la partenza a Saint Jacques per raggiungere la vetta del Castore passerà per il Pian di Verra, il Lago Blu, il Rifugio Mezzalama, il Rifugio Guide di Ayas per immettersi nel percorso classico del Trofeo Mezzalama con il passo di Verra e infine la parete Ovest del Castore. Dopo aver toccato la quota di 4228 metri le squadre scenderanno lungo la cresta Est verso il ghiacciaio del Felik passando per il rifugio Quintino Sella. Da qui la lunga discesa porterà gli atleti al traguardo di Saint Jacques toccando, il passo della Bettolina, il Colle della Bettaforca, e i rifugi Ferraro e Guide Frachey».

Per questa prima edizione il numero massimo di squadre ammesse sarà di 80, come succede per il Trofeo Mezzalama i curricula degli atleti saranno esaminati da Adriano Favre tenendo conto anche dei punti ITRA (600 per gli uomini e 450 per le donne) e dei piazzamenti nelle prestigiose competizioni de La Grande Course.

Durante la presentazione è intervenuta Rossella Monsorno, marketing specialist Dynafit per l’Italia, confermando che il rapporto di collaborazione tecnica con la Fondazione Mezzalama, per il trofeo invernale e la gara estiva, andrà avanti almeno fino al 2025. La data scelta prevede la possibilità di recupero il giorno successivo, domenica, in caso di maltempo. L’organizzazione non ha comunicato la cadenza dell’evento che sarà probabilmente biennale, come il Trofeo invernale, e alternato con il Trofeo Kima che solitamente si svolge nello stesso fine settimana, mentre quest’anno si sovrappone all'UTMB, che si rivolge in larga parte a un target di atleti diverso, Kilian escluso, che è uomo da UTMB e SkyClimb. Ma di Kilian ce ne sono pochi…  www.trofeomezzalama.org

IL PERCORSO (25 km circa - 2.533 mt D+)

Partenza da Saint Jacques, una prima salita in un bosco di larici porta al piccolo abitato di Fiery (1.878 m). Da qui la salita è meno ripida e di traverso verso destra si raggiunge il Pian di Verra (2.050 m). Attraversata la piana, la mulattiera conduce al Lago Blu (2.215 m). Si segue poi il ripido filo della morena glaciale che porta al Rifugio Mezzalama (3.036 m). Oltre, il terreno si fa tipicamente pre-glaciale e roccioso ed una facile lingua di ghiaccio pianeggiante conduce ai piedi delle ripide rocce di Lambronecca, alla cui sommità sorge il Rifugio delle Guide di Ayas (3.400 m).

Al Rifugio Guide di Ayas, primo rifornimento (organizzato nel rispetto delle norme anti COVID19) e cambio di assetto. Si indossa l’imbrago, si calzano i ramponi e ci si lega in cordata, pronti per affrontare il ghiacciaio con le sue insidie. Le pendenze sono moderate fino al raggiungimento del Passo di Verra (3.848 m). Teatro della parte più tecnica ed impegnativa della gara sarà l’ascesa al Castore (4.226 m) per la parete Ovest, sulle tracce del Mezzalama classico.

La discesa seguirà la cresta Est ed il ghiacciaio del Felik fino al Rifugio Quintino Sella (3.585 m). Zona rifornimento e cambio di assetto. Si tolgono corda e ramponi. Un’aerea cresta rocciosa ben attrezzata porta alle pietraie che rapidamente conducono al Passo della Bettolina (3.000 m circa).

Da qui si abbandona il comodo e frequentato sentiero che conduce al Colle della Bettaforca e per ripide tracce si guadagna il Pian di Verra inferiore, mille metri più in basso. Un bosco di larici offre riparo al comodo sentiero che conduce ai Rifugi Ferraro e Guide Frachey (2.060 m) a Résy, poi un’ultima ripida picchiata porta all’arrivo a Saint Jacques.