Cala Cimenti, discesa quasi integrale dal Nanga Parbat
Arriva qualche informazione in più dal Nanga Parbat sulla discesa con gli sci di Cala Cimenti e del russo Vitaly Lazo. A qualche ora di distanza ecco i primi dettagli dopo le informazioni di ieri, quando a un certo punto si era temuto anche il peggio vedendo la traccia del Garmin inReach ferma per quasi un’ora. L’altro russo Anton Pugovkin, sceso a piedi, non riuscendo a scorgere più i due aveva dato l’allarme. «Cala aveva un ampio zoccolo di ghiaccio sotto gli sci e si è fermato a lungo per scalfirlo» dice la moglie Erika Siffredi, raggiunta al telefono dalla redazione di Skialper. Erika è stata in grado di fornirci altri dettagli interessanti. La discesa è iniziata circa 50 metri sotto la cima perché in vetta ci sono delle rocce non sciabili. La partenza è avvenuta all’imbrunire, verso le 17,30 ora locale e quindi in parte sono state necessarie le frontali. Cala ha sciato fino al C4, dove è arrivato dopo la mezzanotte, dopo essersi fermato a riposare e dopo che Vitaly aveva deciso di proseguire a piedi nell’ultimo tratto. Ha poi proseguito con gli sci il giorno seguente anche verso il C3 e il C2, ma in un tratto ghiacciato è stato necessario l’utilizzo delle corde. Ora, dopo i festeggiamenti in tenda, sta rientrando verso Skardu. Il primo ad arrivare in vetta in questa stagione è stato il francese Boris Langenstein che, dopo un tentativo di salita fallito a quota 8.030 metri a causa della tanta neve e della fatica a battere traccia, è arrivato in vetta il primo luglio e ha sciato fino al C4, per poi proseguire il 2 luglio fino al campo base, tranne 100 metri di corda fissa sotto il campo 3 per affrontare un tratto ghiacciato. Con lui c’era la compagna Tiphaine Duperier, che però si era fermata prima della vetta, probabilmente stanca per le notti passate in quota. Anche Langenstein è però partito poco sotto la vetta, probabilmente a 8.070 o 8.080 metri secondo quanto dichiarato a Montagnes Magazine. Langenstein-Duperier sono una vecchia conoscenza di Cala Cimenti e l’anno scorso hanno sciato qualche giorno prima del piemontese l’estetica linea del Laila Peak. Al duo francese si deve inoltre la probabile prima discesa del Peak Spantik, un 7.000 del Karakoram, realizzata a giugno.
Cala Cimenti, vetta e discesa con gli sci del Nanga Parbat
Dunque Cala Cimenti ce l’ha fatta. Non senza qualche momento di paura. Il piemontese, partito alle 3 di mattina ora locale del 3 luglio, è arrivato in vetta al Nanga Parbat (8.126 m) lungo la via Kinshofer con i russi Vitaly Lazo e Anton Pugovkin ed è sceso con gli sci. «Sono sdraiato in cima al mondo e piango, rido e ti amo» il post pubblicato ieri sulla pagina Facebook Cala Cimenti Cmexperience dedicato alla moglie Erika Siffredi. Poi la discesa, durante la quale la traccia gps si è fermata a lungo e a un certo punto si è temuto il peggio. Invece sia Cala che i due russi sono arrivati al C4 verso le 18, non è però ancora chiaro se tutti siano scesi con gli sci e quali tratti abbiano percorso con i legni ai piedi, anche se sembra che solo Vitaly sia partito dalla vetta insieme a Cala sciando. L’ultimo aggiornamento poche ore fa: «Noi a C2 sopra al muro Kinshofer. Che bello pensare di non farlo mai più. Abbiamo sciato fin qui, la neve è una merda ma procediamo».
Ecco il racconto di quelle ore concitate pubblicato dalla moglie in un post Facebook:
«Ad un certo punto la traccia si ferma per più di un'ora. È fermo. Non si muove. Mio fratello Nicolò capisce immediatamente che sta succedendo qualcosa e mi allerta. Nello stesso momento arriva un sms dello staff russo:‘Erika, è successo qualcosa. Anton dice che si sono divisi, lui sta scendendo a piedi, Cala e Vitaly con gli sci ma non li vede più, non ripondono. Contatta immediatamente Cala, se non risponde avvertiamo i soccorsi e chiamiamo le assicurazioni’.Cala non risponde. Contatto i ragazzi di Intermatica che mi offrono immediatamente il loro supporto. Nel panico riesco a chiamare qualche amico, Kuba mi raggiunge immediatamente a casa e prende in mano la situazione. Marco cerca di farmi ragionare e tenta di tenermi tranquilla. Arriva anche Gianluca a casa della mia famiglia che grazie ai suoi contatti mette in allerta chi dall'Italia potrebbe darci una mano nel caso di difficoltà gravi. Alessandro, il fratello di Cala tenta di contattare lo staff russo ma nessuno parla inglese e non riusciamo ad avere informazioni utili. Ad un certo punto la traccia si muove, pare che Cala stia tornando a scendere ma nessun messaggio di rassicurazioni. I miei fratelli Carlo e Nicolò iniziano ad aggiornare un file in cui segnano tutte le coordinante inviate dal Garmin con i relativi orari, continuano a dirmi ‘Erika, sta scendendo, è lento ma scende’. Dopo ore un sms di Cala ‘abbiamo avuto dei ritardi. Poi ti racconto. Non ho il satellitare’».
Valle dell’Orco Outdoor Destination
Se state cercando una località fighetta dove andare a bere uno spritz a fine giornata, mi spiace, siete finiti sull’articolo sbagliato. Se vi piacciono le falesie plaisir con gradi farlocchi, di nuovo, mi spiace, ma andate da un’altra parte. Se vi piace il trail da passerella, dove si va a correre su sentieri balcone sfoggiando l’ultimo completo di Kilian… inutile dirlo, ma qui contano solo le gambe, quando si tratta di attraversare valloni deserti sul filo dei 3.000 metri. La Valle dell’Orco è un posto per quelli a cui piace trovare lungo in parete con le gambe che tremano mentre le mani cercano il friend giusto da piazzare; per quelli che agli apericena sul lungolago vestiti da boulderisti preferiscono i rifugi in quota o le piole dove non bisogna temere l’aglio nelle acciughe al verde; per quelli che si scaldano a leggere i libri di storia dell’alpinismo, perché una parte di essa ha trovato su queste pareti il suo palcoscenico; per quelli per cui andare a correre significa ravanare in una pietraia. Insomma, la Valle dell’Orco chiede ed elargisce sincerità. Ho cominciato a frequentare il lato piemontese del Parco Nazionale del Gran Paradiso qualche anno fa, scegliendo la Royal Ultra Skymarathon come mia prima gara di skyrunning (una decisione non troppo oculata, a posteriori). Poi è arrivata l’arrampicata e le prime vie in stile trad, quel modo un po’ matto e un po’ radical chic di scalare senza utilizzare protezioni fisse (spit), ma ricorrendo all’uso di sistemi rimovibili come friend e nut, che su queste pareti granitiche ha il suo naturale terreno d’elezione. Assieme ad altre valli piemontesi è stata una dei teatri dove l’alpinismo italiano ha vissuto la rivoluzione del Nuovo Mattino negli anni ’70, l’equivalente piemontese degli arrampicatori hippie che in Yosemite sostenevano l’arrampicata libera, tanto nello stile in parete quanto in quello di vita: scala pulito, non piantare chiodi, non stressarti e magari fumati una canna. Con un distacco totale dalla visione eroica della montagna di allora, quelli del Nuovo Mattino erano solo ragazzi che volevano divertirsi, non figure militaresche alla conquista dell’Alpe. Un po’ come nel freeride adesso, no? Poco alla volta mi sono innamorato di questa selvaggia valle poco conosciuta dal turismo di massa della montagna, che pare esercitare un misterioso fascino sui suoi frequentatori sin, tanto che non di rado capita di trovare freaks che per venire qua macinano ore e ore di statali e autostrade a bordo di furgoni scassati, come i due ragazzi venuti dalla Romania che ho incontrato a inizio mese alla parete del Dado.
Parco Nazionale del Gran Paradiso: dove (ri)nascono gli stambecchi
La relazione tra gli stambecchi e il Parco stesso è talmente forte che si può tranquillamente affermare che senza uno dei due, neanche l’altro esisterebbe. Questo perché nel 1856 venne istituita la Riserva Reale di Caccia del Gran Paradiso, per concedere ai Savoia l’esclusività delle attività venatorie sugli stambecchi, che all’epoca si credeva che fossero estinti su tutto l’arco alpino, ad eccezione di una piccola colonia sul versante valdostano. I Savoia proibirono ai valligiani la loro caccia, riservandola per se stessi, ma allo stesso tempo favorirono il ripristino della popolazione, poiché dal loro mirino si salvavano gli esemplari femmina e i cuccioli. Le resistenze iniziali furono vinte con la promessa di Re Vittorio Emanuele II di «far trottare i quattrini sui sentieri del Gran Paradiso» ed effettivamente i benefici furono immediati: vennero fatte opere di riqualificazione dei centri abitati di fondo valle, costruiti ponti e - soprattutto - creata una rete di mulattiere che si estendono tutt’oggi per oltre 300 chilometri, dalla canavesana Noasca alla valdostana Champorcher. Si tratta di vie di collegamento uniche nel loro genere, costruite con fondi lastricati e muri di sostegno, per permettere ai Reali e al loro seguito di guardiacaccia e battitori di spostarsi facilmente a cavallo… e agli skyrunner di correre ad alta quota, visto che il tracciato della Royal Ultra Skymarathon ne ricalca in gran parte il tracciato originale. Nel 1922 Vittorio Emanuele III istituì il Parco Nazionale vero e proprio, il primo in Italia, a cui tutto l’arco alpino deve qualcosa: il ripristino della popolazione degli stambecchi. Tutti quelli che vivono ancora oggi sulle Alpi sono arrivati infatti da qui, unico luogo dove è cominciata la loro salvaguardia, la cui popolazione si attesta a più di 2.700 unità, che condividono il domicilio con oltre 7.000 camosci. Rispetto a quello dei cugini valdostani, il lato canavesano è giudicato a torto più sfigato, complice anche una mentalità diversa in passato che ne ha frenato l’espansione turistica. Se sia meglio o peggio, è soggettivo. Quello che è sicuro è che il versante sud del Parco offre una wilderness e un isolamento rari nelle Alpi.
Stefano, il papà della Royal
Più di 50 chilometri dal lago di Teleccio a Ceresole, conditi da cinque valichi (di cui due sopra i i 3.000 metri) su un percorso che, a differenza di altre sky, è tutt’altro che forzato, dal momento che si utilizza la rete delle strade reali di caccia dei Savoia. Per saperne di più sulla Royal Ultra Skymarathon ho incontrato il creatore di tutto ciò, rimanendo affascinato da una persona tanto eclettica quanto esplosiva. Tanto per cominciare, la sede dell’organizzazione è al primo piano di un edificio che ospita anche la pasticceria dei genitori, che in passato poteva fregiarsi del titolo di fornitrice della casa Reale. Stefano Roletto, nella vita, fa il fisico del suono, un mestiere che non pensavo neanche potesse esistere, e credo che soffra di iperattività o qualcosa di simile. Legato da sempre al territorio del Canavese, ha creato da zero l’idea dell’anfiteatro della collina morenica di Rivoli, ma anche il Morenic Trail e un’altra miriade di progetti sull’identità del territorio canavesano. Se dovesse capitarvi di iniziare una discussione con lui, mettetevi comodi: può intrattenervi per ore parlandovi del Gran Paradiso, della genesi della gara e del rapporto che tutto ciò ha con il Duca degli Abruzzi, una figura che Stefano stima così tanto che alla partenza della Royal, sulla diga, nel luglio del 2016, è stata chiamata a suonare la fanfara della Marina Militare. Tanto per spendere due parole in breve su Luigi Amedeo di Savoia-Aosta: tentò, in anticipo clamoroso sui tempi, la salita al K2; fu un alpinista e uomo di mare di incredibile valore, con spedizioni sul Ruwenzori, al Polo Nord e due prime ascese sulle Grandes Jorasses; fondò un villaggio in Somalia e, un caso più unico che raro per quei tempi, intraprese una relazione con una principessa locale. Mentre lo intervisto, a una settimana dall’evento, Stefano è costretto più volte a rispondere al telefono, che suona ininterrottamente: da quando Marino Giacometti ha dato l’ok per l’ammissione nel massimo circuito, la febbre da Royal è letteralmente esplosa. Quest’anno sono arrivati skyrunner da 30 Paesi diversi e in Orco la popolazione era più calda che mai. Basti pensare che le balise sono state piantate solo a ridosso della domenica di gara, essendo diventate oggetto di culto tra i valligiani entusiasti che le hanno appese ovunque come ornamento. A detta sua, i tifosi più esagitati sono quelli di Noasca, spesso vista come una località di serie B rispetto a Ceresole, anche se alla fine molte iniziative all’interno del Parco arrivano proprio da qui, complice una pro-loco attivissima. Lo saluto dopo essermi trattenuto con piacere più del dovuto, dopo essere finiti - va là che strano - a parlare di sci e di Stairway from Heaven, l’impressionante linea di Federico Negri (da lui affrontata a vista e in solitaria!) che permette, nelle annate più nevose, di inanellare curve lungo la parete sud del Gran Paradiso, la stessa visibile da Torino.
Andrea, local del Piantonetto
Il Vallone del Piantonetto è una piccola gemma nascosta della Valle dell’Orco. Vi si accede attraverso la tortuosa strada che da Locana porta fino alla Diga di Telessio e all’omonimo lago. Sopra l’acqua azzurra vigila, qualche centinaio di metri più in alto, il Rifugio Pontese, luogo di partenza ideale per le scorribande primaverili ed estive di scialpinisti e arrampicatori. Da qui parte anche la Royal, con il primo chilometro corso a perdifiato lungo la diga e la salita concitata che, dopo il passaggio davanti al Rifugio, porta al Colle dei Becchi, primo cancello orario della gara. Il gancio ce l’ho con Andrea Michelotti, un super local della zona, visto che abita proprio nella parte inferiore del vallone, a San Lorenzo. Andrea è uno dei volontari della Royal e, soprattutto, anche del Soccorso Alpino locale: la sera prima del nostro appuntamento era al lavoro proprio qui, per dare una mano a degli arrampicatori rimasti feriti sul Becco della Tribolazione, una delle pareti simbolo del Piantonetto assieme al Becco di Valsoera. Due imponenti guglie, santuari del granito piemontese, che presentano itinerari di stampo classico come la Malvassora o la Mellano-Perego fino alle grandi difficoltà, come Sturm und Drang, liberata solo l’anno scorso dalla torinese Federica Mingolla. Per arrampicare qui sono necessarie la voglia di ingaggiarsi e di camminare, visto che due o tre ore di avvicinamento sono la regola, ma l’ambiente (e la roccia!) ricompensano più che adeguatamente della fatica fatta. Iniziamo a salire lungo il sentiero, con il tetto giallo del Pontese sopra le nostre teste. Il giorno della gara questo tratto viene percorso in modalità ‘corri o muori’, perché è facile che si creino intasamenti. Si tira poi per un attimo il fiato proprio davanti al rifugio, dove il sentiero spiana giusto il tempo di dare modo di godersi il tifo a suon di pentole e campanacci dei gestori Mara e Nicola, due figure di assoluto riferimento quando si tratta di mettere le gambe sotto il tavolo. Tra un tornante e l’altro c’è il tempo di fare due chiacchiere. Andrea mi racconta che ha cominciato a correre proprio per la Roc, la versione ridotta della Royal: nessun altro dei pochi giovani del Piantonetto (gli Under30, qui, si contano sulle dita delle mani o poco più) aveva mai indossato il pettorale della corsa di casa, così il duro lavoro andava pur fatto da qualcuno. L’affetto che Andrea prova per questi luoghi trasuda sinceramente dalle sue parole: qui passava le sue estati da piccolo, ospite della casa dei nonni, e una volta adulto ha scelto di trasferirsi, soffocato dallo stress della pianura, in un periodo in cui molti suoi coetanei dell’alta valle fanno l’opposto. Parliamo di mamma Iren, la società proprietaria delle dighe di tutta la Valle, che offrendo posti di lavori a moltissimi valligiani ha di fatto frenato il turismo: con un lavoro sicuro nell’idroelettrico, ben pochi infatti hanno osato investire in altri settori. Parliamo anche della sua famiglia, di come la vita qui sia cambiata negli ultimi anni. Probabilmente la nonna aveva un allenamento pari a quello degli skyrunner: durante la guerra partiva a piedi dal Piantonetto carica del riso canavesano verso la francese Val d’Isère, passando dalla Galisia e dal rifugio Prariond, per poi fare ritorno con il sale, introvabile da queste parti. Ci fermiamo a fare qualche foto al Piano delle Muande, l’archetipo della Valle Orco. Un torrente, prati che nessuno calpesta mai, la nebbia che va e che viene e tantissima roccia. Se dovessero ambientare un film qui, probabilmente non sarebbe uno di quelli per bambini, tutt’altro. Al ritorno ci fermiamo al Pontese, per molti di noi una seconda casa. Incontro Stefano e Christian, con cui scopro di avere parecchi amici in comune. Uno è Guida, l’altro, invece, ha dato corda al piccolo sogno di sviluppare l’arrampicata a Positano, spinto dall’euforia di Adriano Trombetta, creando un piccolo angolo di paradiso con le sembianze di un agriturismo ribattezzato La Selva. Per Christian è la prima volta da queste parti, per lui ormai abituato al caldo calcare della Campagna il risveglio muscolare di qualche ora prima, al Caporal, è stato piuttosto brusco, ma non credo che gli sia dispiaciuto. Esce fuori a fumare e si guarda in giro, puntando gli occhi verso i Becchi. Toh, penso, un altro rapito dal fascino della Valle dell’Orco. Sono cose che succedono.
Con Ivan al Nivolet
Avessi dovuto scattare tutte le foto di questo reportage con un solo atleta a disposizione, probabilmente la scelta sarebbe caduta proprio su Ivan. Perennemente abbronzato, d’inverno con il segno della maschera da sci e d’estate con quello del completo da ciclista, Ivan Cesarin è una specie di macchina da guerra canavesana in versione multisport. Nella vita di tutti i giorni gestisce il suo negozio a Ciriè (manco a dirlo si chiama Grimpeur e vende attrezzatura da montagna), ma nel tempo libero arrampica, pedala e scia a livelli altissimi. Probabilmente se si dedicasse al biliardo riuscirebbe a eccellere pure lì. Ci incontriamo all’Hotel Gran Paradiso a Noasca, caffè di rito e poi su verso il lago. Lo seguirò durante l’ascesa in bici al Colle del Nivolet. A detta sua, assieme al Ventoux e all’Iseran, è sul podio delle più belle salite d’Europa. Purtroppo, mi spiega, finora è stato ignorato dal grande ciclismo perché la strada apre dopo il Giro d’Italia, mentre il Tour de France non apprezza il fatto che con il passaggio nella galleria si perderebbero venti minuti di diretta televisiva. Ci fermiamo a far foto in alcuni punti suggeriti da Ivan, che ormai queste curve le conosce a memoria. Mi confessa che l’anno scorso le avrà percorse almeno una dozzina di volte, ma vista la bellezza del paesaggio, non credo si sia mai annoiato. Oltre che dai ciclisti, Il Nivolet è meta di pellegrinaggio anche da parte degli astrofili: la protezione offerta dalle alte cime, unita alla lontananza dai centri abitati e alla quota elevata, ne fanno uno dei luoghi con meno inquinamento luminoso dell’intero arco alpino. Arrivati al cartello del passo, ci fermiamo a prendere una coca-cola al Rifugio Città di Chivasso mentre lo sguardo si perde verso il nastro di asfalto che scende giù sul versante valdostano, mai completato. Per arrivare a Pont Valsavarenche bisogna infatti scendere dalla bici e camminare qualche chilometro sui sentieri, per questo motivo a volte capita di incrociare ciclisti con le scarpe da trail legate al mezzo. C’è poi chi ama complicarsi ulteriormente la vita: Daniele Fornoni, amico di Ivan e ultra-trailer di razza, qualche volta si allena con un biathlon devastante: in bici al Nivolet, discesa su Pont, cambio d’assetto e poi su fino alla vetta del Gran Paradiso… per poi rifare tutto nel senso opposto!
Raffaella, la guardiaparco volante
«Ciao, ci possiamo sentire stasera? Scusa, ma sono in giro per il conteggio degli stambecchi!». Inizia così lo scambio di messaggi con Raffaella Miravalle, una delle figure più conosciute dello skyrunning canavese. Da diciannove anni questo scricciolo biondo è uno dei guardiani del Parco, e da sette il suo ufficio, se così si può chiamare, è la Casa di Caccia del Gran Piano di Noasca, a 2.222 metri. Nei giorni liberi si toglie di dosso la divisa verde e il binocolo e indossa canottiera e pantaloncini per andare a correre. E non corre piano, Raffa, tutt’altro: ha vinto cinque edizioni della Royal, più innumerevoli piazzamenti ad altre gare di prestigio, come il Kima. Fare la guardiaparco è sempre stato il sogno di Raffaella e, quasi per caso, è diventato anche lo stimolo grazie al quale ha cominciato a correre, proprio tra queste montagne: uno dei test d’ingresso era infatti una prova di marcia cronometrata, sullo stesso tracciato lungo il quale si disputa tutt’ora il KV di Ceresole. L’appuntamento, alla fine, me lo dà lungo la strada per il Nivolet, da dove poi percorreremo una parte della mulattiera reale qui perfettamente conservata (leggi: lastricata) fino al Casotto Bastalon, una passeggiata breve ma panoramica. Prima di lei, al parcheggio, arriva Jodie, la sua collega pelosa: un pastore tedesco di quattro anni, uno dei pochi ammessi all’interno del parco in virtù del perfetto addestramento. Effettivamente, a vederle andare in giro insieme, le due sembrano essere in contatto telepatico. Pioviggina e si è alzato il vento, ma la luce del sole si fa largo tra le nuvole creando un’atmosfera da Nord Europa. Parliamo del più e del meno, lasciandoci alle spalle i turisti che affollano il Nivolet nei weekend. Prima del ‘trasferimento’ al Gran Piano era questa l’area di cui si occupava Raffaella, decisamente più impegnativa dal punto di vista della sorveglianza: la strada asfaltata passa proprio nel cuore del Parco e la convivenza tra l’ambiente e i frequentatori occasionali, poco responsabili, è fatta di equilibri difficili da far rispettare. È anche da queste necessità che nasce l’idea di A piedi tra le nuvole: tutte le domeniche d’estate la strada viene chiusa all’altezza del Lago del Serrù e per raggiungere il Colle la scelta rimane tra scarpe o bicicletta. Per tutto il tempo che rimaniamo insieme Raffa non smette un attimo di sorridere e per inerzia viene da sorridere anche a me. Mi dà l’idea di una persona completamente innamorata del proprio mestiere, tanto semplice in apparenza quanto complicato nella pratica, spesso fatto di giorni passati nella solitudine e di lunghi spostamenti con zaini resi ancora più pesanti dalla sua corporatura minuta. Torniamo giù in paese e ci fermiamo a prendere un caffè. Sono in tanti a salutarla e a chiederle se è pronta per la gara: lei tituba un po’, sa che quest’anno, complice la concorrenza internazionale, sarà tutto più difficile, nonostante la perfetta conoscenza del percorso di gara, che passa proprio dall’adorato Gran Piano. Un’arma in più, però, è sicura di avercela: il tifo sfegatato degli amici che incontrerà lungo tutti i 55 chilometri.
Trail ed escursionismo
Il Parco Nazionale del Gran Paradiso offre panorami mozzafiato lungo tutti i suoi sentieri, così come una fauna talmente ricca che l’incontro con gli stambecchi è la regola, non l’eccezione. Il tracciato della Royal Ultra Skymarathon tocca pressoché tutti i punti più interessanti della Valle e offre numerosi spunti per singole escursioni giornaliere. Tra queste, alcune delle più belle e isolate sono il Colle dei Becchi dal Teleccio e il Casotto di Caccia del Gran Piano dalla frazione Balmarossa (Noasca), entrambe situate sotto la bastionata della parete sud-est del Gran Paradiso. I più avventurosi possono spingersi fino al Bivacco Ivrea, dove passare la notte, o magari fare un pensierino all’ascensione dell’unico 4.000 tutto italiano da un versante decisamente meno frequentato di quello valdostano. Dal Nivolet, invece, si può salire fino ai 3.338 metri su difficoltà a cavallo tra il trekking e l’alpinismo facile, oppure dirigersi verso il Colle della Terra e la vista sull’azzurrissimo Lago Lillet. Per chi volesse ricalcare le orme dei grandi skyrunner ma ha un’autonomia limitata c’è poi il tracciato della Roc Skyrace: il medesimo della Royal, salvo poi scendere su Ceresole all’altezza dell’Alpe Foges, per un totale di 31 km e 2.000 m D+.
Ciclismo
La salita ai 2.612 m del Colle del Nivolet è un’esperienza che tutti gli amanti delle ruote sottili dovrebbero fare, in Italia lo battono solo lo Stelvio, l’Agnello e il Gavia. Da Locana sono 40 chilometri e 2.000 metri D+, da Ceresole ‘solo’ 22 chilometri e 1.200 metri D+, con una pendenza media del 4,9% e punte del 15%. Ad inizio stagione può capitare di imbattersi in camosci e stambecchi. Se si decide di partire a valle della galleria, è consigliato munirsi di luci di segnalazione. In discesa, occhio ai rivoli d’acqua che si formano talvolta, numerosi motociclisti ne hanno già fatto le spese. È comunque sconsigliato partire prima di Locana, altrimenti al ritorno il vento contrario che sale dalla pianura darà il colpo alle gambe già tritate dalla salita, veramente interminabile. L’ascesa è consigliabile alla domenica, quando dal Lago del Serrù in su la strada è chiusa ai mezzi a motore a eccezione delle navette pubbliche. Un’altra salita da mettere in curriculum è quella infernale che da Rosone sale alla diga del Teleccio, con numeri da scalatori nati: 1.230 metri di dislivello in appena 12 chilometri, che si traducono in una pendenza media del 10%, con gli ultimi cinque chilometri di tornanti che non scendono mai sotto l’11%.
Arrampicare
L’arrampicata in Valle dell’Orco è quantomeno… particolare. Lo stile imposto dal granito, a base di fessure, incastri e placche può essere spiazzante per chi arriva dal mondo del calcare, così come il fatto di dover utilizzare protezioni mobili (friend e nut) visti i pochissimi itinerari attrezzati a spit. L’ideale, per i forestieri, è di acclimatarsi nelle due falesie spittate del Droide e della Pietra Filosofale, a poca distanza l’una dall’altra, e imparare i segreti dell’incastro cercando di scalare il mitico Masso Kosterlitz, sette metri a incastro di mano il cui grado (6b!) è molto, molto relativo. Ho visto amici finalisti in Coppa Italia tribolare parecchio per salirlo. Per chi fosse già pratico con lo stile trad, si può cominciare con le vie del Sergent, che offre di tutto, dalla placca, alle vie lunghe, a una miriade di monotiri di enorme bellezza. Poco più su, al fresco, si trova la falesia del Dado. E poi c’è il Caporal. Qui nacque il Nuovo Mattino e qui il mucchio selvaggio capitanato dai vari Motti, Grassi, Galante iniziò a importare in Italia l’idea di arrampicata nata su El Capitan, in Yosemite. Poco prima, a Noasca, le assolate pareti della Torre di Aimonin sono ideali per le mezze stagioni, così come quelle dello Scoglio di Mroz nel Piantonetto. Continuando verso l’alto, invece, si trovano i due simboli dell’arrampicata in quota nel Gran Paradiso: il Becco Meridionale delle Tribolazione e il Becco di Valsoera. Nel parallelo vallone di Noaschetta svetta invece l’impressionante parete del Monte Castello, con pochi e severi itinerari.
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 113 di Skialper, info qui
10 motivi per innamorarsi dell’Alta Via
Settembre 2018. Un piccolo gruppo di giornalisti e influencer si ritrova alla chiesetta di San Cipriano, vicino a Tires, in Alto Adige. Nella testa di Egon Resch, Guida alpina altoatesina, il percorso è molto chiaro. Un passaggio da Ovest a Est, da San Cipriano, non lontano da Bolzano e dalla Valle dell’Adige, al cuore delle Dolomiti, nella stupenda Val Fiscalina, sul confine orientale della regione. Un nuovo itinerario, chiamato Alta Via, alternativo alle alte vie dolomitiche così belle ma altrettanto affollate. Una linea da occidente a oriente che tocca le valli e lambisce le vette simbolo delle Dolomiti, dallo Sciliar al Catinaccio, passando per le Tofane e le Tre Cime, che sfiora o incrocia luoghi e riti del turismo di massa alpino per immergersi nel silenzio e nel profumo dei prati. Alla fine saranno 150 chilometri e oltre 50 ore percorse in otto giorni, con l’aiuto anche di una e-bike nel tratto pratoso tra il passo di Campolongo e la Capanna Alpina, che avrebbe richiesto molto più tempo a piedi. E un fortunato estratto a sorte ha provato anche un servizio taxi da brivido in parapendio per scendere più velocemente dal rifugio Franz Kostner a Passo Campolongo. Quello che conta, però, è che Egon a settembre è pronto a ripartire a fine estate, perché la voce si è sparsa e l’Alta Via inizia a essere conosciuta. Se volete fargli compagnia potete dare uno sguardo al suo sito www.egonresch.com. Acqua in bocca però, l’Alta Via è un segreto che va conservato ancora per un po’.
L’articolo completo è stato pubblicato su Skialper 124 di giugno-luglio.
Alp Tracks 94, leggero e versatile. Parola di Denis
Quale miglior parco giochi del terreno d’alta quota del Monte Bianco per provare Alp Tracks 94, il gioiello del più puro stile Movement? E quale miglior testatore di Denis Trento, che utilizza spesso il modello centrale di questa particolare gamma della casa della mela, ma conosce bene anche i fratelli 85, 89 e 100? Detto fatto. Non ci abbiamo pensato su troppo, e a fine febbraio siamo saliti a Punta Helbronner per mettere alla prova questo modello che inseriamo nella categoria ski touring per geometrie e peso, ma che si propone come soluzione sofisticata per sciatori free con tendenza performance atletica. Insomma uno ski touring coi fiocchi, per esigenti, ma adattabile ad una cerchia più ampia di utilizzatori. Perché quello che emerge dal test, sia quello della nostra Buyer’s Guide che quello con Denis, è che si tratta comunque di un attrezzo affidabile e soprattutto versatile per utilizzatori evoluti. Non per tutti, ma per tutti quelli che sciano bene. Forse sarebbe sottoutilizzato impiegandolo solo nelle uscite ordinarie, perché l’estrema leggerezza della tecnologia e la larghezza al centro sono perfette per escursioni lunghe e con forte dislivello su ogni terreno. Ma la costruzione permette anche un’altissima trasmissione della forza in ottica freeride. Ne risulta un attrezzo che, per buoni sciatori, può essere anche lo sci unico. Per la montagna aperta, per il ripido alpinistico, e anche per l’approccio freetouring.
Cuore segreto
Il processo costruttivo è il cuore delle doti di Alp Tracks 94 e della sua versatilità. La linea Alp Tracks integra lo stato dell’arte di ricerca e sviluppo Movement sui compositi sottili. L’assemblaggio ad altissima pressione, con l’utilizzo di meno collante possibile, unisce gli strati in composito con la parte in legno di Carrubo ultraleggero rendendoli di fatto un solo elemento. Sottile, deformabile, meccanicamente forte, e reattivo. Si tratta di una costruzione in buona parte top secret, nella quale la manualità riveste il ruolo principe.
Sulla neve con Denis
Nei test della nostra Buyer’s Guide avevamo rilevato che Alp Track 94 è sensibile e rapido, non subisce la velocità, richiede il polso e la tecnica di uno sciatore sicuro. Ci aveva inoltre sorpreso sul duro in rapporto a dimensioni ed estrema leggerezza, conseguenza di un assetto ben aderente al fondo e preciso sullo spigolo, esente dalle reazioni nervose tipiche del composito. Denis ha confermato le nostre sensazioni. «Io lo uso anche per dislivelli importanti, sopra i 1.500 metri, perché è davvero leggero. Ma la leggerezza non deve trarre in inganno: risponde bene anche in velocità e in condizioni impegnative come le superfici segnate o rigelate» dice Denis. «Va abbastanza bene anche sul duro, in rapporto a struttura e geometrie, ma risponde al meglio nella neve polverosa, fino a 30-40 centimetri di fresca». Quali le differenze dunque con gli Alp Tracks più stretti e più larghi? «Fondamentalmente la maggior portanza che lo fa galleggiare bene sulla neve soffice. Per questo ha un utilizzo più versatile, oltre i 40 centimetri soffici è chiaro che Alp Tracks 100 è più indicato». In conclusione? «Mi piace perché è uno sci di carattere ma da montare leggero, poi puoi decidere di usare scarponi più duri con neve più dura visto che lo sci risponde bene, mentre con la polvere puoi fare scelte più soft». Davvero versatile: dimensioni, leggerezza e forza in un solo Alp Tracks.
Alp Tracks 94
Lunghezze: 169, 177, 183 cm
Sciancratura: 130/94/119 mm (177 cm)
Peso: 1.120 gr (+/- 30 gr, misura 177 cm)
Raggio: 19 m (177 cm)
Prezzo: 949 €
Suffer Fest Ice & Palms
Il Baden-Württemberg è uno dei principali land della Germania. La sua capitale è Stoccarda, conosciuta nel resto del mondo come la patria dell’automobile (Mercedes-Benz, Porsche, Bosch hanno sede qui, ad esempio), e l’economia dell’intera regione si basa largamente sull’industria. Confina con la Francia a Est e con la Svizzera a Sud, mentre i principali rilievi sono rappresentati dalla Foresta Nera, la catena dello Giura e le Prealpi del Lago di Costanza. Il Baden-Württemberg sembra un buon posto dove vivere, se non fosse per un piccolo dettaglio: il mare, specialmente quello caldo, è lontano, parecchio lontano. E di conseguenza, se un paio di amici si dovessero inventare di voler andare al mare in bicicletta, le cose si complicherebbero parecchio, specialmente se lungo l’itinerario ci si volesse portare dietro anche degli sci e decidere di utilizzarli nel miglior modo possibile.
I due amici sono Jochen Mesle e Max Kroneck che, oltre alla passione per lo sci scoprono di condividere anche quella per le pedalate, specialmente quelle lunghe e faticose, e per la fotografia, in particolar modo quella che ti impone di utilizzare apparecchi pesanti e scomodi. L’idea che partoriscono insieme ha le caratteristiche comuni di ogni suffer fest che si rispetti: dev’essere lunga, fisicamente estenuante, particolarmente ricca di incognite e problematiche di varia natura, originare vesciche in vari punti del corpo e apparire insensata agli occhi delle persone normali. Et voilà, ecco il progetto Ice & Palms: Jochen e Max vogliono partire da casa loro a Dürbheim, nel Baden-Württemberg, raggiungere l’Austria e da lì attraverso i principali valichi alpini arrivare fino al lungomare di Nizza, senza mai utilizzare mezzi a motore e sciando il più possibile, filmando allo stesso tempo la loro avventura. Di tanto in tanto, poi, verranno raggiunti da amici che daranno una mano nella ripresa delle immagini. I loro destrieri saranno due bici gravel, equipaggiate con portapacchi anteriori e posteriori sui quali sistemare l’attrezzatura. Sci e scarponi dietro, insieme a uno zaino con il materiale per la notte. Sacca anteriore sinistra per il pentolame e macchine foto. Sacca anteriore destra: accessori e abbigliamento da pioggia, pronti per essere tirati fuori in poco tempo. Peso totale, cinquanta chili, grossomodo.
L’articolo completo è stato pubblicato su Skialper 124 di giugno-luglio.
, senza mai utilizzare mezzi a motore e sciando il più possibile, filmando allo stesso tempo la loro avventura. Di tanto in tanto, poi, verranno raggiunti da amici che daranno una mano nella ripresa delle immagini.
I loro destrieri saranno due bici gravel, equipaggiate con portapacchi anteriori e posteriori sui quali sistemare l’attrezzatura. Sci e scarponi dietro, insieme a uno zaino con il materiale per la notte. Sacca anteriore sinistra per il pentolame e macchine foto. Sacca anteriore destra: accessori e abbigliamento da pioggia, pronti per essere tirati fuori in poco tempo. Peso totale, cinquanta chili, grossomodo.
L’articolo completo sull'avventura di Ice & Palms è stato pubblicato su Skialper 124 di giugno-luglio.
The godmother of all couloirs
«Prima ancora di sapere se quella linea ci fosse sul libro, se fosse conosciuta e soprattutto, fattibile, dal momento in cui Albi l’ha adocchiata, è stato amore a prima vista. Il nome poi, una volta scoperto, parlava da sé. Non si poteva non pianificarci una gita».
Scrive così Alberto Casaro a proposito di The Godmother of all Coulouirs: 0 – 1.318 m, di cui 900 di canale con tratti che raggiungono i 50°. L’ambiente è pazzesco. Una discesa estetica e apparentemente inaccessibile, un canale enorme che poggia i piedi sulle rive dei fiordi norvegesi, sulle Lyngen Alps, fino a erigersi, nascondendosi a tratti tra le pieghe della roccia, in cima a una grossa formazione rocciosa. Arrivare in fondo significa arrivare in spiaggia. Ma come tutte le cose belle della vita The Godmother of all Coulouirs non si lascia conquistare facilmente e l’avvicinamento è particolarmente lungo e rognoso. «L’ora e mezza di fatto è volata via solo per rivelare un articolato cammino tra rocce e detriti di volume sempre maggiore, a volte coperti da uno strato di neve che sfondava. Dopo molti zig-zag e saliscendi, uno strato di neve più continuo ci ha permesso di calzare gli sci, ma non per questo di essere più rapidi, perché la via era un labirinto di piccole alture e alberi e di nuovo rocce; arrivare alla base del conoide ha richiesto già molto tempo ed energie, e al momento di calzare i ramponi più di tre ore erano già passate» scrive Alice Russolo.
L’articolo completo sull’estetico canale The Godmother of all Coulouirs è stato pubblicato su Skialper 124 di giugno-luglio.
Con Milano-Cortina lo ski-alp è più vicino alle Olimpiadi
Con la vittoria di Milano-Cortina lo ski-alp ha molte più chance di approdare ai Giochi Olimpici nel 2026. Perché in Italia c’è una maggiore conoscenza dello ski-alp rispetto alla Svezia, perché ci sono molte possibilità di medaglia per gli azzurri. «Ci siamo subito complimentati per la vittoria di Milano-Cortina - spiega l'ISMF general manager, Roberto Cavallo - e abbiamo già chiesto un incontro con il presidente del Coni, Malagò, e il numero uno della Fisi, Roda. Vedremo nelle prossime settimane, sappiamo comunque che già tante località si sono mosse per ospitare lo ski-alp». Si parla della Valtellina, dell’Alpago, anche di Madonna di Campiglio. Sono già dodici le sedi delle gare previste per il 2026, crediamo che forse sarebbe più facile avere l’ok del Cio per l’approdo dello ski-alp se non venisse troppo modificato il dossier presentato a Losanna. Anche per lo ski-alp in questo momento è importante rimanere ‘unito’ per arrivare alle Olimpiadi, il dreaming together che ha portato l’Italia ai Giochi 2026.
Michele Graglia, oltre le ultra
«Visto che il corpo può portarti solo fino a un certo punto, secondo me, se esiste una ricetta per il successo per arrivare in fondo, la si trova in qualità non fisiche. Bisogna allenare la pazienza, il rispetto e la gratitudine: la corsa ultra richiede tempo e perseveranza. Dobbiamo sviluppare un senso di gioia verso l'idea di passare un'intera mattinata o addirittura un giorno a correre nella natura, spesso soli con i nostri pensieri, e naturalmente anche con i calzini sporchi. Non dovremmo mai avere fretta, ma goderci semplicemente il viaggio». Scrive così l’ultra-runner Michele Graglia su Skialper di giugno-luglio in un articolo nel quale dispensa ai lettori i suoi consigli per correre sulle lunghe distanze, dall’alimentazione alla testa.
Ligure, classe 1983, fotomodello (si mormora fosse soprannominato ‘the abs’, con riferimento ai suoi addominali), Michele Graglia rimane folgorato dalla lettura del libro Ultramarathon Man di Dean Karnazes e abbandona i riflettori per cambiare stile di vita. Ora è insegnante di yoga a Malibu, in California, e l’ultra running è la sua filosofia di vita. Nel 2018 ha vinto la Badwater, una gara di oltre 200 km nella Valle della Morte, mentre nel 2016 ha trionfato nel gelo della Yukon Arctic Ultra 100.
Giovedì prossimo, alle 20,30 all’Alexander Hall di Cortina d’Ampezzo, nell'ambito della La Sportiva Lavaredo Ultra Trail, Graglia parlerà di ultra insieme ad Anton Krupicka e allo scrittore Folco Terzani.
L’articolo completo di Michele Graglia è stato pubblicato su Skialper 124 di giugno-luglio.
Essere Matteo Eydallin
Destinazione Gap, a Montmaur, il buen retiro di Matteo Eydallin. Lì, in mezzo al verde, con due cavalli, un mulo, una pecora, due cani. E la fidanzata. Che è veterinaria. La sua vacanza. Per uno che detesta la folla, difficile immaginarlo in spiaggia ad agosto. In fondo c’è tutto quello che serve: strade giuste per pedalare, con la corsia dedicata ai ciclisti, e soprattutto la falesia di Céüse. Siamo stati a trovare il veterano della nazionale azzurra e su Skialper 124 di giugno-luglio pubblichiamo un’ampia intervista a Eyda. Intanto, ecco qualche piccola anticipazione.
Il segreto della longevità agonistica
«Ho sempre cercato di fare quello che mi piaceva nella fase della preparazione. Non mi sono mai imposto troppe regole: al mattino esco in bici perché mi piace pedalare con gli amici, nel pomeriggio cammino quasi un’ora per arrivare ad arrampicare e lì poi mi concentro sui miei progetti. Non sto troppo a pensare: devo fare tot metri di dislivello, altrimenti rimango indietro, ma li metto insieme come voglio io. Forse è un auto-inganno, per farmi piacere le cose. Forse chissà, allenandomi di più avrei vinto di più, ma sarei rimasto competitivo per meno tempo. Non lo so e non mi interessa: per me ha funzionato così e continuo così, senza tanti sbattimenti. Perché cambiare? Mi alleno ancora volentieri, ma pedalando e scalando. Credo che anche il corpo e la mente ne abbiano un beneficio».
La tecnica
«Lavoro sulla tecnica che ti porta a sciare veloce in gara o comunque a risparmiare energie per affrontare la salita successiva senza avere le gambe fuse anche dalla discesa. Vado in tutte le condizioni, nebbia, crosta, polvere, marmo, sempre con gli sci da gara: solo così trovi le sensazioni e gli equilibri giusti. Credo che lo skialp non sia metri di dislivello in pista e cardio, ma sensibilità e lettura delle linee in discesa: per questo secondo me le gare in pista non sono vere gare».
L’intervista completa a Matteo Eydallin è stata pubblicata su Skialper 124 di giugno-luglio.
Spettacolo alla Monte Rosa SkyMarathon. E al nuovo AMA
È stato davvero il caso di dire less cloud, more sky per la Monte Rosa SkyMarathon, la gara più alta d’Europa che si è tenuta domenica nel paese di Alagna Valsesia sul versante piemontese del massiccio. La gara prevista per sabato, attesissima dopo il rilancio di successo dello scorso anno dopo 25 di assenza, è stata rimandata a causa delle condizioni climatiche avverse. Il vento da nord ha spazzato i cieli e 400 atleti da 25 Paesi sono partiti alle prime luci dalla piazza principale per un giro del paese prima di passare sotto l’arco della partenza, far partire il cronometro e attaccare la salita alla Capanna Margherita, il giro di boa. Il tracciato è di 35 km con 7.000 metri di dislivello complessivo su morene, nevai e ghiacciai. I corridori gareggiano legati a coppie per maggior sicurezza.
Il team vincente era guidato dal vincitore dello scorso anno, William Boffelli, quest’anno con un nuovo partner, l’austriaco Jakob Herrmann, per via di problemi di salute del suo precedente compagno di cordata Franco Collé. Il tempo dei vincitori è 4h51’58”, 27 minuti in più del record stabilito da Fabio Meraldi nel 1994 di 4h24’.
A tagliare il traguardo per secondi tra il pubblico in festa è stato il team tutto italiano Beccari-Felicetti, che hanno chiuso in 5h10’41”. Terzi sono stati Carrara-Montanari in 5h30’02”.
La gara femminile è stata guidata fin dalla partenza dalla squadra formata da Giuditta Turini e Laura Besseghini, che è caduta nell’ultima discesa, costringendo la squadra al ritiro.
È stato un giorno di vittoria per la Polonia, con uno sprint finale. Natalia Tomasiak e Katarzyna Solinska hanno chiuso in 6h38’14” seguite, a soli 16” di distanza, da Miska Witowska e Iwona Januszyk. Anche il record femminile è rimasto intatto, nelle mani dell’alagnese Gisella Bendotti fin dal 1994 di 5h34’.
AMA VK2 - Il primo doppio Vertical Kilometer sul Monte Rosa è partito tra tempeste, turbini di nuvole e pesanti nevicate notturne per salite alla quota di 3.260. Il nuovo AMA VK2 ha visto 180 atleti da 15 paesi. Il primo a raggiungere la vetta è stato Nadir Maguet, il favorito della vigilia: in testa dall’inizio alla fine, ha lasciato 15’ di distacco al secondo classificato, Giovanni Bosio, chiudendo in 1h42’01”. Ottimo terzo è stato il 55enne Davide Milesi.
Serrata la sfida rosa, con le prime tre nello spazio di appena 50”. A trionfare la francese Iris Pessey in 2h05’36”. Con solo 13” di ritardo ha tagliato il traguardo Corinna Ghirardi, mentre Ilaria Veronese ha chiuso il podio.
Rally Estivo della Valtartano a Erik Panatti e Massimo Triulzi
Il Rally Estivo della Valtartano parla valchiavennasco. Dominio al maschile di Erik Panatti e Massimo Triulzi, mentre Aal femminile si confermano regine le sorelle gemelle Sara e Fabiana Rapezzi. Dopo 17 anni consecutivi la manifestazione a coppie ed individuale organizzata dallo Sci Club Valtartano si conferma evento che piace. Nel piccolo comune orobico sono stati accolti da una bellissima giornata di sole ben 265 concorrenti. Alla partenza della gara il pronostico per la gara principe da 24 km era molto incerto.
Dopo una prima parte di studio per le 80 coppie al via, alla casera di Budria il team valchiavennasco composto da Erik Panatti e Massimo Triulzi ha provato la fuga. Allo loro spalle era bagarre per i due gradini del podio con le due coppie del Team Valtellina composte da Giovanni Tacchini e Davide Della Mina e da Marco Leoni e Stefano Sansi che provavano a non lasciar scappare i fuggitivi. Panatti e Triulzi però incrementavano metro dopo metro il proprio vantaggio, transitando al gpm in Cima Lemma per primi con il tempo di 1h31’39”. Passavano in seconda posizione con un distaccato superiore ai 3’ il duo Tacchini-Della Mina, seguiti da Leoni-Sansi, Bertolini-Bonesi e Trentin-Rossatti.
Nella lunga discesa i battistrada Erik Panatti (Kv Lagunc) e Massimo Triulzi (Gp Valchiavenna) mantenevano saldamente la testa della corsa ed andavano a presentarsi sulla finish line di Tartano in prima posizione con il tempo finale di 2h34’23”. Seconda posizione finale, dopo rimonta in discesa per i portacolori del Team Fiorelli Sport/I Jejiat Mirko Bertolini e Alessandro Bonesi con il tempo di 2h40’43”. Terza piazza finale per Giovanni Tacchini e Davide Della Mina (Team Valtellina) cin 2h41’40”. Quarta piazza finale per Walter Trentin e Stefano Rossatti (Rupe Magna), quinta posizione per Valentino Speziali e Mattia Bonesi del Team Fiorelli Sport/Jejiat (prima coppia Under50). Seguono Guido Rovedatti e Alessandro Gusmeroli (Team Valtellina), Marco Leoni e Stefano Sansi (Team Valtellina), Alessandro Gadola e Matteo Corazza (Sc Valtartano), Davide Bardea e Raffaele Nana (Sportiva Lanzada), Fabio e Sergio Bongio (Team Valtellina) a completare la top ten.
Gara senza storie quella rosa, con le sorelle gemelle Sara e Fabiana Rapezzi (Osa Valmadrera) che non hanno avuto difficoltà nel riconfermarsi nell’albo d’oro del Rally Estivo della Valtartano. Per loro, crono finale di 3h27’12”, davanti a Francesca Galli (Team
Valtellina) in coppia con Elena Peracca (Alto Lario). Terzo gradino del podio per Bruni e Van Belkom (Atletica PIdagga). Nella gara individuale di 15 km si riconferma sul gradino più alto del podio, dopo il successo 2018, il premanese Luigi Pomoni, che si è presentato sul traguardo di Tartano con il tempo 1h29’19”. Alle sue spalle Fabrizio Triulzi (Gp Valchiavenna) che ha preceduto Federico Bardea (Sportiva Lanzada),
giunto al terzo posto. Top cinque completata nell’ordine da Simone Bertini (Alta Valtellina) e Massimiliano Corti (Team Pasturo). Al femminile successo della portacolori dell’Atletica Pidaggia, Gisella Beretta che ha concluso la sua prova in 1h59’14”, staccando di 1’10” Alessia Bergamini (Cortenova). Terza posizione conquistata da Fabiana Del Grosso (KV Lagunc).