ATK Race si fonde con Gimec
ATK Race si fonde per incorporazione con GIMEC, altra società controllata dalla famiglia Indulti, alla guida di ATK, che così unisce le forze e cambia ragione sociale in ATK Sports srl. L'operazione è stata formalizzata nel mese di aprile, in pieno lockdown. A seguire il comunicato ufficiale dell'azienda.
Con la presente siamo lieti di annunciare che le società ATK RACE srl e GIMEC srl, già controllate dalla Famiglia Indulti, sono state formalmente riunite sotto il nome di ATK SPORTS S.R.L.
Questa operazione palesa gli obbiettivi di forte espansione che ci siamo posti e crea
le condizioni per un progetto di leadership internazionale nello Sviluppo, Ingegnerizzazione e Produzione di prodotti finiti, componenti e sistemi per il mondo dello Sport,
in particolare il segmento Outdoor.
Le ottimizzazioni tecniche, industriali e commerciali già avviate da entrambe le realtà verranno condivise, per raggiungere la massima efficienza e assicurare performance d’eccellenza, con l’obiettivo di proporci ai nostri partner con un’offerta ancora più completa.
Nel breve termine, “ATK BINDINGS” sarà il marchio principale controllato da ATK SPORTS, ma è destinato a non rimanere solo.
La sfida Universale che stiamo affrontando in queste settimane dimostra, ancora una volta, come collaborare sia la chiave per costruire un futuro migliore.
ATK SPORTS.
Solida come ieri, Flessibile come oggi, Presente come sempre.
Michael Sinn: freeride, skialp e video. Da fare vedere ai figli
Sentirsi dire in tipico accento sud-tirolese da un ragazzo con un gran piede che partecipa regolarmente al circuito FWQ scio per divertimento, per il resto faccio l’agricoltore spiazza un po’. Dopotutto cercavamo gente che si muovesse senza clamore, sotto traccia. Agricoltore? Conoscendo un po’ l’Alto Adige le scimmie che battono i coperchi nel mio cervello iniziano a dipingere il classico paesaggio alpestre: baite, dolci pascoli e Michael con un filo d’erba all’angolo della bocca che scruta il gregge. Naaaaaaa… maledette scimmie, sono fuori strada. «Scio da sempre, ho fatto gare dai quattro ai 19 anni, anche qualcuna in Coppa Europa con la Nazionale. Ho studiato Agraria e quando ho finito ho iniziato a lavorare nell’azienda di famiglia».
Il maso di cui parla in realtà è una moderna azienda agricola con annessa cantina di Caldaro che produce ottimi e conosciuti vini locali, dal Lagrein al Sauvignon Blanc. «Ho fatto anche il maestro a Obereggen. La stagione invernale era quella con meno lavoro in azienda e riuscivo a conciliare le due cose. Ormai però da due anni il lavoro è aumentato, siamo un’azienda in espansione e quindi lavoro fisso a casa. Però non è un male perché ho più tempo per sciare libero come mi piace! Mi porto dietro il DNA della competizione e le gare di freeride e il FWQ è un modo divertente per conciliare diversi aspetti. Sto migliorando, anche se lo faccio solo per piacere, soprattutto per stare con il bel gruppo dei ragazzi italiani, andare in giro a sciare e divertirsi. In genere vado dove c’è neve. Nevica e c’è polvere? Allora faccio freeride. Non ne mette da un pezzo? Ecco che mi dedico allo skialp, percorrendo itinerari non necessariamente alla moda. Anzi, mi piace andare con gli sci in posti selvaggi. Non sono molti anni che faccio scialpinismo, ma mi piace sempre di più. Ho iniziato a pensarci dopo avere visto il film sul viaggio in Georgia del mio amico Wolfang Hell. Mi piace viaggiare e nel 2018 mi sono aggregato al loro viaggio in Siberia, sui Monti Altai: bei canali, belle cime e la discesa della parete Nord della cima più alta della zona. Nel 2019 poi è stata la volta del Marocco e dei suoi contrasti. I filmati che giriamo sono prima di tutto un bel ricordo che un giorno vorrei far vedere ai miei figli. E tutto questo mi piace sempre di più».
Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.
Diego Filosi, lo sci con leggerezza
Il numero di Diego l’ho avuto da suo nipote Alberto. Quando risponde gli spiego il motivo della mia telefonata. Dopo un attimo di silenzio mi risponde: «Non amo mettermi in mostra. L’ho già detto anche ad altri, preferisco starmene nel mio, sciare, fare le mie traversate, come un sacco di gente di cui raramente si viene a sapere quello che ha fatto».
Arriviamo a un compromesso quando gli prometto che potrà leggere quello che scriverò prima della pubblicazione. Si parte. Lo stile di Diego è leggero, da vero bergamasco: tutina, Merelli sempre nei piedi. È uno scialpinista non di primo pelo: di Lovere, classe ’63, ha sempre preferito i set-up ultralight. Diego è un appassionato di traversate con gli sci e anche per quelle usa attrezzi da vertical per ottimizzare al massimo il peso e poi – come dice lui – in salita su neve dura vanno meglio, batti meno e sei più efficace. Una di quelle a cui è più affezionato è la traversata dal Colle San Zeno fino all’Adamello e rientro al Passo del Tonale. Aprile 2013: 67 ore totali, 107 km, 7.100 metri di dislivello positivo. Un viaggio vero e proprio. Si muove per lo più da solo e, visti i progetti, non fatichiamo a crederlo.
«Da anni aspettavo il momento propizio per potare a termine questa lunga traversata, seguendo idealmente la traccia battuta trent’anni prima (fine marzo 1982) dagli sci dei miei amici e compagni di cordata Battista Pezzini e Federico Gualini e completando il loro percorso con la salita in vetta al Monte Adamello. Il progetto prevedeva il collegamento tra due cime molto care agli alpinisti locali, partire dal Colle San Zeno, sotto il monte Guglielmo, per arrivare in Adamello seguendo la via più logica. Negli anni, accompagnato da diversi amici, ho tentato di portarlo a termine, ma ho sempre incontrato qualche ostacolo: tempo avverso o neve impraticabile, condizioni fisico-mentali non ottimali o scarsa motivazione. Per questo avevo maturato la decisione di andare da solo: fare i conti con se stessi aumenta la probabilità di successo, anche se mi è spiaciuto un po’ non aver potuto condividere questa esperienza, unica nel suo genere». Non posso elencare tutte le traversate di Diego, ma ho letto alcuni racconti che mi ha inviato: li scrive in maniera minuziosa, annotando orari, emozioni, passaggi dei suoi percorsi. Come diari di viaggio d’altri tempi. Viaggi leggeri.
Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.
Giovanni Rovedatti: dieci, cento, mille curve
Giovanni, valtellinese di Morbegno, è di poche parole. Apprezzo molto chi riesce a esserlo: parlare meno è spesso un valore aggiunto non indifferente. Negli ultimi anni ci è capitato di scambiarci qualche impressione su alcune gite orobiche. Lavora in fabbrica alla Galbusera e per scrivere questo articolo ci siamo dovuti sentire verso l’ora di cena visto che aveva il turno di notte. Quando non conosco direttamente una persona le chiedo di raccontarsi un po’. «Son trentacinque anni che scio sulle montagne di queste zone. Si, è vero, ormai i posti nuovi qui in Valtellina, specie nelle Orobie, sono pochi, ma ci sono ancora. Ad esempio in Val Madre, vicino alla Val Tartano. Ho fatto anche tutti i quattromila delle Alpi, quelli che potevo con gli sci. Però ora sarebbe meglio che nevicasse: sto facendo delle gite che di solito si fanno più avanti approfittando del fatto che in basso le strade sono pulite come in tarda primavera. Ultimamente mi sono mosso in Val Bodengo».
A Giovanni però una domanda dovevo farla, stante il fatto che è forse uno di quegli sciatori che vantano le serpentine più perfette che ci siano in giro. Perché sempre curve corte? Non ti diverti anche a mollarli?. (Ride, ndr) «No, no, mi piace fare serpentina, mi piace fare più curve possibili, forse sono ancora alla moda veja, ma altrimenti dentro di me sento di non valorizzare abbastanza il pendio se facessi solo tre o quattro curve. Lo stesso per l’altra mia passione, la fotografia e i paesaggi. Sono tra i pochi che si ostina a scarrozzarsi dietro la reflex al posto di una compatta o di un telefonino». Ma è quando gli faccio la domanda più banale e allo stesso tempo difficile per un appassionato come lui che mi rendo conto di quanto sia innamorato di andarsene in giro per le sue montagne: perché ti piace sciare?
«Mi piace fare scialpinismo. Mi piace da matti. Poi per carità, a volte vado anche in pista piuttosto che stare a casa. Ma la cosa che davvero amo è arrivare in cima, guardarsi intorno. Non so spiegarlo, è più bello, è quella roba lì». Lo capisco, perché altrimenti non farebbe centomila metri di dislivello all’anno…
Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.
Maurizio Agazzi, lo scrigno delle Orobie
Sfatiamo un pregiudizio sui bergamaschi: non sono orsi e silenziosi. Sono gente appassionata e quando ti raccontano qualcosa non si fanno certo mancare le parole. Maurizio non fa eccezione. Di Bergamo, classe 1970, tecnico informatico dalle mille sfaccettature, al momento impegnato con i ragazzi del collegio dove ha trascorso la sua infanzia. Alla montagna non ci arriva prestissimo, intorno ai vent’anni, ma passa attraverso la Scuola dei Ragni di Lecco e presto ne diventa dipendente. Non pensate a un classico malato del grado e della prestazione. La montagna come terreno, non per uno sterile egocentrismo, anzi!
Da buon bergamasco si innamora delle sue Orobie, un territorio più vasto di quanto si pensi, che nasconde infinite possibilità e una storia alpinistica e scialpinistica spesso poco conosciuta. Maurizio lo capisce e decide di portare avanti un discorso del tutto personale di rivalutazione storica e culturale della sua terra. Senza clamore, ma muovendosi sul campo. Nasce così un’idea ambiziosa, il progetto Lo Scrigno delle Alpi Orobie nel quale, accompagnato da molti amici, tra cui Yuri Parimbelli, si pone l’obiettivo di salire e riscoprire tutte le 524 cime delle Orobie che superano i duemila metri. Attraverso escursioni, arrampicata, alpinismo e uscite con gli assi nei piedi porta avanti questa impresa titanica di riscoperta e condivide con le sempre più numerose persone che lo seguono sul suo blog la storia che ogni cima si porta dietro. «Dare la giusta visibilità. Non voglio portare le vie e gli anfratti di queste montagne nei classici tam-tam social. Raramente parlo di difficoltà. Preferisco raccontare cosa provo, cosa mi ha portato a scegliere quel determinato percorso. Magari parlo di chi ha aperto una via. Ti faccio un esempio con un alpinista a cui mi sento molto legato: pochi sanno chi era Agostino Parravicini. Magari lo ricollegano solo al trofeo omonimo. Eppure è stato un fortissimo dei suoi anni: pur essendo scomparso giovanissimo ha portato a termine una serie impressionante di ascensioni. Ripercorrerle per arrivare su una determinata cima diventa un modo per tramandare una storia che andrebbe persa. Questo modo di andare in montagna probabilmente è stato la chiave del successo del progetto». Terminato il censimento delle cime, l’entusiasmo non accenna a diminuire e inizia questa seconda fase del suo progetto di riscoperta eroico-romantica attraverso il mettersi in gioco con avventure dal sapore antico. Poco rumore, Maurizio è un uomo in missione.
Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.
Le mappe di calore Suunto per mantenere la distanza di sicurezza
Può uno strumento pensato per la socialità contribuire al distanziamento sociale? Sì e così la tecnologia Suunto Heatmaps del costruttore finlandese di sportwatch può rappresentare uno strumento efficace non solo per conoscere i runner che stanno correndo nella propria zona, ma anche per la gestione del social distancing. Uno strumento utile non solo per chi ha un orologio Suunto. Chiunque, infatti, sul proprio smartphone può utilizzare le mappe di calore heatmaps attraverso l’app Suunto Wear, indipendentemente dalla presenza di Suunto 7, l’ultimo arrivato, al polso. Viceversa, i possessori dello smartwatch Suunto 7 possono visualizzare le heatmaps anche senza avere con sé lo smartphone. Suunto Heatmaps sono di rapida lettura e d’immediata comprensione, infatti, grazie agli esclusivi effetti grafici, sono messi in evidenza i percorsi con afflusso maggiore: l’intensità del colore evidenzia come certe zone piuttosto che altre siano state scelte in generale dal pubblico per svolgere attività sportiva. In sostanza, dove le “tracce” sono a intensità ridotta significa che tendenzialmente l’afflusso delle persone è stato minore, di conseguenza sarà più facile durante gli allenamenti mantenere la distanza di sicurezza, per se stessi e per gli altri che durante la corsa, come hanno dimostrato diversi studi, è superiore al generico metro di distanza perché i droplet si diffondo più lontano.
L'app Suunto Wear include mappe di calore per questi sport: corsa, trail running, ciclismo, mountain bike, tutti i percorsi, tutte le camminate, alpinismo, nuoto, surf e attività in spiaggia, tutto il paddling, sci nordico, sci alpino, sci alpinismo, skiroll, pattinaggio, golf.
Suunto 7 è l’ultimi sportwatch del marchio finlandese, in realtà classificabile a metà strada tra sportwatch e smartwatch perché include la maggior parte delle funzionalità Suunto, ma funziona con il sistema operativo Wear OS by Google e sfrutta, per esempio, le ottime mappe disponibili anche offline. Costa 479 € ed è disponibule nei colori Black Lime, Sandstone Rosegold, All Black, Graphite Copper, White Burgundy. Suunto 7 è stato testato dalla redazione tecnica di Skialper insieme ad altri sportwacth e GPS palmari all’interno della Outdoor Guide, in edicola a partire dal 10 giugno.
A fine ottobre le Azzorre ospiteranno il Golden Trail World Champ
La stagione agonistica del trail running è stata spazzata via dalla pandemia e anche gare simbolo come l'UTMB hanno alzato bandiera bianca, cancellando l'evento. Non si arrende invece l'organizzazione delle Golden Trail Series, marchiata Salomon ma di fatto diventata il circuito di riferimento del mondo trail, con l'adesione di molti top anche fuori dal parco atleti della casa di Annecy. Vista l'impossibilità di dare seguito a un tour su scala mondiale e l'annullamento degli eventi infatti si è pensato a un Golden Trail World Champ da disputare in un'unica data alle Azzorre, sempre che l'emergenza lo consenta.
L'appuntamento è dal 29 ottobre al primo novembre sulle isole di Pico e Faial, all'Azores Trail Run. So correranno quattro tappe, la prima di 26 km con 1,069 m D+, la seconda di 32 km con 1.343 m D+, la terza di 32 km con 2,363 m D+ e la quarta di 36 km con 1,453 m D+. I vincitori saranno l'uomo e la donna con un tempo cumulato minore. Ma ci saranno anche premi per le migliore performance in salita, discesa, nello sprint e premi giornalieri dello stesso tipo e per i vincitori di tappa. Il montepremi totale sarà di 100.000 euro e a giugno saranno rese note le modalità per ottenere i Golden Tickets che danno diritto a volo e ospitalità gratuite. Naturalmente saranno invitati di diritto i top ten del circuito 2019.
Cristian Botta e il cambio degli spigoli
Provincia cuneese, Busca downtown, trentacinque anni ma non si è mai abituato all’inevitabile invecchiamento e questo discorso lo precipita sempre in un grigio sconforto. Ricercatore all’università, tecnologie agroalimentari: roba di cibo, batteri e affini. Diverse pubblicazioni in merito, ampie discussioni con gli amici circa quelli più gustosi e dove trovarli. È diventato un punto di riferimento a suon di discese fuori e dentro i confini della Provincia Granda. Tradisce un aspetto rassicurante se lo si incontra nei post gita, ma in realtà è uno dei più feroci sciatori che ci sono in circolazione dal lato bello delle Alpi. Per tecnica e disinvoltura con gli assi nei piedi certamente un cabrì da montagna con a curriculum alcune classiche prestigiose, dalla parete Ovest del Monviso alla nuova discesa del2018 della Nord-Ovest del Täschhorn con Davide Terraneo.
Se si deve inquadrare un momento della sua sciata, penso a quella frazione di secondo in cui cambia spigolo agli assi: stai certo che se c’è lo spazio peruna curva, Cristian la farà. Non uno spettacolo per deboli di cuore se il terreno è esposto e particolarmente ripido. Mi ricordo un episodio in particolare durante una nuova discesa sul versante nord-orientale del Monte Matto, Valle Gesso, Alpi Marittime. Quel giorno eravamo riusciti asbucare sulla cresta sommitale. Come quest’inverno, a un monsone autunnale era seguita una bolla di alta pressione stabile lunga un paio di mesi. L’umida neve autunnale si era incollata e consolida sul roccioso pendio sommitale: un pongo perfetto, morbido in superficie. Tuttavia le prime curve da affrontare subito dopo aver calzato gli sci non rappresentavano certo un inizio soft: expo massima e quella tensione che si percepisce quando si deve abbandonare un luogo piatto come la cima per entrare nell’esposizione della parete. In quei primi dieci metri era tutto massimale: pendenza, esposizione, concentrazione. Io e Max stavamo indugiando su chi sarebbe stato il primo a entrare. Poi abbiamo visto Cristian scivolare in parete con disinvoltura. Bastone a tastare la neve, curva, curva sopra il primo salto in due metri quadri. Sorriso: «Le code dan quasi fastidio, toccano il pendio. È ripido».
Sono profondamente convinto che in parecchi a Chamonix dovrebbero ringraziare che la sua vocazione non sia stata lavorare in un bar o su unpeschereccio durante l’estate per poi fare lo skibum in inverno e primavera ai piedi del Bianco. Rappresenterebbe sicuramente un upset da quelle parti, come un vero underdog.
Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.
In montagna in sicurezza: i consigli del Soccorso Alpino ai tempi del Covid-19
Il numero di interventi di soccorso registrato dal Corpo Nazionale Soccorso Alpino e Speleologico lo conferma: appena allentate le misure del lockdown la montagna è tornata quasi immediatamente al livello di frequentazione pre-pandemia. La voglia di natura, ma probabilmente anche di raggiungere luoghi frequentati sono probabilmente alla radice di questi numeri. Se la pandemia è un'occasione importante per fare conoscere la montagna anche a chi magari prima non la frequentava così assiduamente, in tempi di emergenza sanitaria è ancora più importante rispettare le regole di sicurezza. Ecco perché Il CNSAS ha realizzato una serie di brevi video con alcuni consigli basilari per la sicurezza e per il rispetto delle norme di distanziamento. I primi due riguardano le escursioni e le ferrate, ma ne seguiranno altri su quota, speleologia e torrentismo.
In evidenza in questa notizia puoi vedere il video sull'escursionismo, mentre qui quello sulle ferrate.
Tutti in montagna, ma in sicurezza!
Dynafit, nel 2021 arriva la collezione DNA per il trail running
La lotta contro il tempo fa parte del DNA di Dynafit e i prodotti da gara sono parte imprescindibile di quella che è la filosofia del brand. A partire dall’estate 2021 il marchio dedicherà particolari attenzioni al settore delle competizioni di trail running lanciando sul mercato la prima collezione estiva Dynafit DNA. Una linea di prodotti da gara ultraleggeri, tecnici, ridotti all’essenziale e altamente funzionali che rispecchiano i valori del brand. La collezione è composta da undici prodotti, da uomo e donna, che comprendono scarpe, abbigliamento e attrezzatura.
SCARPA DYNAFIT ALPINE DNA: LEGGERA E IDEALE PER LE DISTANZE MEDIO-LUNGHE
È il fiore all’occhiello della nuova collezione DNA. Leggera, con un peso di soli 240 grammi (200 grammi nella versione da donna), è stata creata appositamente per i trail veloci e tecnici, ed è ideale per le gare su distanze medio-lunghe. Una calzatura che ha mantenuto i punti di forza e i pregi della Alpine Pro, la bestseller da cui prende spunto. In questo nuovo modello gli sviluppatori hanno mantenuto quanto già comprovato e, basandosi sulle esperienze raccolte negli ultimi anni, hanno apportato miglioramenti alle caratteristiche tecniche, così da rendere la scarpa molto più leggera e performante rispetto alla precedente. La Alpine DNA ha una calzata più aderente e ancora più precisa grazie al nuovo plantare e al DNA Volume Reducers che consentono alla scarpa di diventare ancora più reattiva e sfruttare al meglio la potenza delle gambe. Il drop dinamico è di 6 millimetri. La costruzione Alpine Rocker consente una rullata fluida e armonica dal tallone alla punta delle dita, diminuendo la necessità di energia richiesta. La tomaia in mesh è molto leggera e traspirante. Il sistema di allacciatura tradizionale, insieme alla particolare costruzione della linguetta, consente alla scarpa di adattarsi perfettamente al piede. I lacci, inoltre, sono coperti da una fascetta elastica così da evitare che possano impigliarsi. Il battistrada Vibram Megagrip promette una presa ottimale sui suoli alpini, sia sul bagnato che sull’asciutto. La costruzione intelligente dei tasselli consente un passo veloce e una trazione eccellente, anche sui terreni più impegnativi.
Taglie: 6 – 12,13 UK (uomo) / 3 – 9 UK (donna)
Peso: 240 g (uomo) / 200 g (donna)
Drop: 6 mm
Prezzo consigliato: 165 euro
GIACCA A VENTO DYNAFIT DNA, ULTRALEGGERA E ANTIVENTO
Per tagliare l’aria anche quando il gioco si fa duro. È la giacca ultraleggera e antivento Dynafit DNA che offre la massima protezione a fronte di un peso minimo di 112 grammi. Il materiale funzionale senza PFC è antivento e idrorepellente ma anche molto traspirante. Le perforazioni laser poste sotto le braccia e sulla schiena assicurano un’ottimale circolazione dell’aria e la regolazione della temperatura corporea, anche durante le salite più impegnative. Il taglio atletico e aderente e il materiale elastico garantiscono una vestibilità ottimale e la massima libertà di movimento. La giacca può essere indossata e tolta nel minor tempo possibile grazie alla zip frontale posta su tutta la lunghezza. Gli inserti riflettenti migliorarono la visibilità in caso di maltempo o di uscite serali. Grazie all’ingombro ridotto, la giacca a vento DNA può essere portata con sé durante ogni gara.
Taglie: S – XXL (uomo) / XS – XL (donna)
Peso: 112 g (uomo) / 90 g (donna)
Prezzo consigliato: 130 euro
PANTALONCINO SPLIT 2IN1 DYNAFIT DNA: PERFORMANCE E COMFORT
Ideale nelle gare più impegnative, il pantaloncino split 2in1 DNA di Dynafit pesa solo 115 grammi (90 grammi nella versione femminile) e saprà conquistare tutti grazie alla funzionalità e alla costruzione intelligente 2in1. Il tight integrato è elastico, così da garantire la massima libertà di movimento su ogni tipo di terreno. Il tessuto morbido e senza PFC trasporta velocemente l’umidità lontano dal corpo, è molto gradevole sulla pelle e riduce efficacemente gli attriti, un fattore decisivo per arrivare a destinazione senza soffrire, soprattutto nelle lunghe distanze. Sia il tight interno aderente che il più ampio pantaloncino esterno sono perforati per consentire un’ottima circolazione dell‘aria. Il girovita elastico, regolabile in larghezza, offre una vestibilità aderente ma molto confortevole. Nella parte posteriore ci sono diverse taschine ove poter per riporre flask, gel o barrette da tenere sempre a portata di mano in caso di necessità.
Taglie: S – XXL (uomo) / XS – XL (donna)
Peso: 115 g (uomo) / 90 g (donna)
Prezzo consigliato: 90 euro
Andrea Schenone, il Samurai
Andrea è ligure, di Genova, classe 1970. Il belin che usa a volte come intercalare non lascia dubbi. L’ho conosciuto intorno al 2005-2006, in una diquelle discese/scambio interculturale che organizzava Federico Negri cavalcando la rinata onda emotiva dello sci ripido di quegli anni. E sia chiaro: detesto chiamarlo sci-ripido, ma serve a capire. Mi disse che quel sabato avremmo incontrato Andrea Schenone, personaggio di cui avevo appreso sulla bibbia di Igor Napoli e che ricordavo distintamente per una foto che lo ritraeva tumulato sotto una pila di coperte in un bivacco la sera antecedente la prima discesa della parete Sud del Monviso, diventata poi una classica di questo tipo di sci. Ma allora erano altri tempi e forse si stava meglio. Federico mi parlò di Andrea come di uno sciatore eccezionale, un esploratore, un solitario. Ero curioso e la conoscenza non deluse l’attesa: poche volte avevo visto sciare qualcuno così su terreno ripido. La postura, la compostezza: quell’angolo perfetto che manteneva con le ginocchia piegate e unite durante le curve senza mai scomporsi, ai tempi l’avevo solo visto su Youtube al minuto 1:31 del video della discesa del Col de La Verte di Tim Dobbins; sì, forse sono un seriale!
«Scio da sempre, a sedici anni ho scoperto lo skialp e dopo poco ho iniziato ad avventurarmi su discese sempre più impegnative. Terreno di gioco prediletto: dalle Alpi Liguri al Monviso. Un crescendo di discese a cavallo del secolo, in un periodo di pausa dai grandi exploit, specie in Italia, cosa che spesso mi consentiva di essere da solo; non come adesso che se una discesa viene recensita sui social il giorno dopo ci sono venti persone. Io e Mario (Monaco, ndr) siamo stati fortunati a vivere quegli anni. Non ho mai cercato la ribalta, mi è sempre piaciuto sciare nei massicci minori: il Monte Bianco per uno che si muoveva da solo non era l’ideale. Sono sempre stato attirato dalla bellezza delle linee. Mi ritengo molto tradizionalista, ho cercato di essere coerente con ciò in cui credevo: non mi piace il tutto e subito, la competizione e la globalizzazione che i social inevitabilmente creano. Non ho nessun account, non mandarmi messaggi Whatsapp, non ho neppure una mail. Userò quella di mia moglie per mandarti le foto. Son sincero, ho patito questo cambiamento: avvertivo forse una mancanza di rispetto verso la montagna e l’approccio in cui credevo, perciò ho rallentato la mia attività. Non smetterò mai di sciare, ma, come avevo immaginato anni fa, sto regredendo, sono tornato a fare le cose degli inizi. Penso che sianaturale per me. E poi sono un bastian contrario, per esempio ora nei canali sto usando sci da park, da rampa da un chilo e otto, ma sono solo io, mitrovo bene, non riesco a capire quelli che usano gli scietti leggeri».
Andrea in Piemonte e non solo ha sciato una miriade di linee senza mai dire praticamente nulla. Con stile radicale e silenzioso. Qualche anno fa, parlando di altro, ho scoperto che la ormai classica discesa del Bonsai al Monte Labiez, sul Gran San Bernardo, l’aveva percorsa lui sul finire degli anni ’90. Nel corso della nostra ultima telefonata, parlando di Valle dell’Orco, posto caro a entrambi, mi ha confessato di avere già sciato anche la Nord-Est della Levanna Orientale. E io che credevo di essere stato il primo… Volate basso lì fuori, facciamo poco gli splendidi, Skeno non lasciava tracce e nel dubbio scendeva su neve dura. Samurai!
Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.
Täschhorn 4.491
Consumare fa parte della quotidianità dell’essere umano. Alpinisti e sciatori, in quanto esseri umani, sono dei consumatori seriali di qualsiasi dimensione appartenente alla montagna: pareti di ghiaccio, roccia, neve, creste affilate, goulotte, cascate. Tutto, o quasi tutto, è già stato percorso nelle Alpi. Un occhio attento però riesce a scovare ancora qualcosa di vergine. Qualcosa sicuramente scomodo, incerto e lontano dai sentieri più battuti.
Il vallese è il mio posto preferito per sciare in tarda primavera. La lunghezza degli avvicinamenti e l’isolamento, su questi colossi che ti devi guadagnare metro dopo metro, costano tanta fatica, ma sanno regalarti emozioni uniche. Il mio concetto di big mountain skiing è qui, tra queste montagne, su queste pareti e non di certo come intendono oltre Oceano su colline piatte con qualche cliff e un metro di neve fresca.
L’idea di sciare il Täschhorn ha incominciato a frullarmi in testa durante un tentativo fallito alla Est del Weisshorn (4.506 m) a fine maggio 2014, accompagnato da Pietro Marzorati e Pablo Pianta quando, dopo essere saliti in cima al Brunegghorn (3.833 m), mi sono imbattuto nella maestosità delle cime che avevamo di fronte e che formano il famoso massiccio dei Mischabel. Tornato a casa mi sono subito messo a cercare informazioni su questa montagna, ma oltre a un paio di timide discese negli anni 2000 dalla Kinface, non ho trovato nulla, nemmeno consultando vari siti francesi e tedeschi. La Kinface è una proboscide glaciale composta da pendii e seracchi che va a morire in un ghiacciaio molto tormentato e con due imponenti seraccate in successione. Le difficoltà tecniche di questo versante sono medio basse, ma proprio a causa dei ghiacciai tormentati in pochi si avventurano qui. Un altro motivo è di sicuro l’isolamento: non c’è nessun bivacco né punto di appoggio lungo i 3.000 metri di dislivello che bisogna affrontare per raggiungere la cima del Taschhorn. La Kinhütte, a quota 2.500 metri, è un rifugio privato e viene aperto solo nel periodo estivo, come appoggio agli escursionisti che percorrono il famoso sentiero dell’Europaweg. Tutte queste problematiche, unite al dislivello, alla quota e alle condizioni della neve dovute all’esposizione a Nord-Ovest, rendono questo versante mitologico e molto poco frequentato.
Durante le mie lunghe ricerche mi ero imbattuto in una foto su Wikipedia che mostrava in pieno la verticalità della montagna e in particolar modo il versante Nord-Ovest che precipitava a destra della classica Kinface. Una parete enorme, sovrastata da seracchi e con un’uscita mille metri più in basso attraverso delle cenge rocciose con un’altezza di diverse decine di metri. Osservando quella foto ho iniziato a fantasticare, tracciando una linea diretta dalla cima che percorresse tutta la parete a destra della Kinface, fino al sottostante ghiacciaio. Follia pura pensare di poter sciare una parete del genere abitando a 400 chilometri di distanza… Per riuscire in questi progetti è fondamentale poter monitorare le condizioni giornalmente, soprattutto su un pendio cosi dove a 3.500 metri rischi di trovare solo roccia e mille metri più in alto neve che non copre bene la base glaciale. Ecco perché ho subito accantonato la foto nel pc e il relativo progetto per diversi anni.
Nel 2016, durante un’uscita autunnale insieme a Mattia Varchetti, ho conosciuto Riccardo Vairetti, forte scialpinista ossolano. Girovagando in canali alla ricerca di neve sotto i quasi 4.000 metri del Fletchhorn, ci siamo ritrovati a parlare del Täschhorn e della Kinface, la classica della montagna. Anche Riccardo era interessato a quella discesa, ma il progetto morì qualche mese dopo a causa delle scarse precipitazioni primaverili di quell’anno, inadatte a coprire i ghiacciai della parte bassa e la pala superiore.
Nell’inverno 2018 le valli svizzere intorno a Zermatt e Saas-Fee sono state sommerse da enormi quantità di neve. Strade invase da valanghe e paesi isolati per diversi giorni. Subito la mia mente è andata a quel colosso e ho pensato che la neve caduta avrebbe potuto coprire in maniera sensata i ghiacciai tormentati sotto alla Kinface, rendendoli più agibili e sciabili. Dopo una primavera ricca di discese, il mese di giugno è iniziato con un doloroso but (slang francese che significa ritirata) su una nota parete Nord delle Alpi Centrali insieme a Cristian Botta e Pietro Marzorati. Non avevo assolutamente voglia di far finire cosi una stagione ricca di importanti discese. Mattia e Andrea erano off-limits per impegni e mi sono ritrovato ancora con Cristian per sparare quello che avrebbe potuto essere l’ultimo colpo della stagione. Anche a lui piaceva l’idea del Täschhorn ed essendo appena stato sciato sulla classica Kinface da un gruppo di local, eravamo abbastanza fiduciosi sulle condizioni. Volevamo andare su qualcosa di sicuro dopo la mazzata presa.
La sera prima della partenza, facendo lo zaino, mi ritorna in mente quella foto salvata nel pc che ritrae la diretta Nord-Ovest. Il mio sesto senso mi dice di prendere su qualcosa in più (cordini d’abbandono e chiodi da roccia) che nella classica Kinface non servirebbero a niente. Non faccio parola con Cristian della mia idea fino a quando arriviamo a Täsch e ci appare in maniera arrogante il Täschhorn, bianco come non mai. Le particolari condizioni climatiche di inizio giugno hanno fatto crollare tutte le pareti Nord-Est delle Alpi, mentre le Nord-Ovest sono incredibilmente stuccate di neve. Quella a destra della kinface è tutta bianca, regolare ed è enorme. Non si vede purtroppo l’uscita in basso, sopra le cenge, e propongo a Cristian di tentare questa discesa diretta. Tuttavia ciò che può sembrare bianco da lontano non è detto che lo sia anche da vicino. Quindi senza troppe menate ci carichiamo gli zaini in spalla e partiamo con l’obiettivo di trovare un posto in cui passare la notte nei nostri sacchi a pelo e l’indomani pensare al da farsi. Sotto la Kinhütte un ponte non ancora posizionato sul fiume (rimosso in inverno per non essere spazzato dalle valanghe) ci fa ravanare per traversare il torrente in piena e, una volta raggiunta la baita, constatiamo che è troppo spostata a sinistra per essere un posto comodo dove dormire. Saliamo quindi a quota 2.800 metri circa dove intuiamo esserci un piano o qualcosa di simile per sistemarci durante la notte. Verso sera veniamo raggiunti da altri tre sciatori diretti alla Kinface, ma non riveliamo le nostre intenzioni, un po’ per scaramanzia, un po’ perché non abbiamo idea veramente di cosa fare. Sappiamo inoltre che in nottata arriveranno Diego Fiorito e Paolo Piumatti che tenteranno la one-push.
Di comune accordo scegliamo di salire lungo la Kinface versione estiva e non invernale, guardare la diretta e, se ci sembra tutto ok, scendere en boucle, ovvero a vista dall’alto. Verso le 3.40 partiamo nel buio più totale, illuminati solo dalla luce delle nostre frontali, vagando tra seracchi e crepacci poco rassicuranti. Dopo tre ore di marcia, finalmente compare davanti a noi il nostro obiettivo e capiamo che nella parte bassa, rimasta nascosta fino ad ora, abbiamo la possibilità di uscire dalla parete. Alle 12 calziamo gli sci in cima e affrontiamo il primo pezzo di discesa in comune alla Kinface, prima di buttarci nell’abisso della diretta Nord-Ovest. Appena passiamo sotto ai seracchi, la musica cambia: neve dura come cemento e ancora gelata. Curviamo con attenzione e ottima tecnica per oltre 700 metri prima di trovare il punto di passaggio tra le barre rocciose in fondo alla parete. Una doppietta di cinque metri ci deposita sopra l’ultimo pendio prima della terminale. Passata la terminale non è finita, ci aspetta ancora un ghiacciaio totalmente inesplorato per raggiungere il posto in cui avevamo bivaccato e una lunga discesa per morene e prati senza sentiero per tornare nella civiltà, contenti di aver sciato una nuova parete glaciale su uno dei 4.000 metri più selvaggi dell’interno arco alpino.
Täschhorn (4.491 metri) - Diretta Nord-Ovest, 1.000 m, 45°-50°, E4, una doppia di 5 metri alla base della parete. Prima discesa in sci conosciuta il 16 giugno 2018, ad opera di Davide Gerry Terraneo e Cristian Cribot Botta.
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