AMA-Bilmente, assalto al Monte Rosa
«Lo scopo del progetto è di trasmettere un importante messaggio sociale sia alle persone diversamente abili che alle persone normodotate. Come ben noto, l’invalidità non è solo un concetto fisico, ma un’ideologia ben radicata nel pensiero comune, che vede il disabile come una persona emarginata e dalle poche possibilità fisiche. Lo scopo è di abbattere l’immensa montagna psicologica della disabilità affrontando la vera montagna». A parlare è Moreno Pesce, anima del progetto AMA-Bilmente vedrà 6 sportivi con un arto artificiale salire lungo il percorso della Monte Rosa SkyMarathon AMA, la gara più alta d’Europa, fino alla Capanna Margherita a 4.554 m sul Monte Rosa.
Il gruppo partirà il 15 giugno raggiungendo la Capanna Gnifetti. Il giorno dopo si partirà al mattino per l’ascesa verso la Capanna Margherita. Il cronometro non sarà importante tanto quanto invece il risultato del gruppo.
Moreno Pesce, 46enne, appassionato di montagna, amputato in seguito a un incidente motociclistico ha ideato il progetto con la collaborazione degli organizzatori della gara e un gruppo di Guide alpine ed è stato recentemente anche in vetta al Gran Sasso. Nel 2019, in un analogo tentativo di salita alla Capanna Margherita, aveva dovuto fermarmi al Cristo delle Vette con 40 centimetri di neve fresca. Il suo sogno è quello di realizzare una scuola di alpinismo per i disabili. Perché bisogna provare prima di dire non ce la faccio.
Del gruppo di AMA-Bilmente fanno parte sei team composti da uno sportivo amputato, un accompagnatore (una sicurezza in più in caso di rottura delle protesi) e una Guida alpina.
Gruppo TRANSTIBIALI
Cesare Rocco + Chiarolini Cristina - GUIDA Simone Elmi
Lino Cianciotto + Luigia Marini - GUIDA Leandro Giannangeli
Massimo Coda + Massimo Vialardi - GUIDA Luca Montanari
Salvatore Cutaia + Angelo Santucci - GUIDA Abele Blanc
Gruppo TRANSFEMORALI
Loris Miloni + Paola Frigiolini - GUIDA Paolo Della Valentina
Moreno Pesce + Martina Scussel - GUIDA Lio De Nes
La Réunion di altitudini in Val Terragnolo
L’Isola de La Réunion è un piccolo paradiso dell’arcipelago delle isole Mascarene, di cui fa parte la più famosa Mauritius. Posta nell’Oceano Indiano a 700 km dal Madagascar il 40% del territorio è tutelato a Parco naturale, caratterizzato da valli, boschi, gole e falesie che formano un paradiso naturale in gran parte incontaminato.
Il Masetto è un puntino nel bosco, fuori dai sentieri battuti, a metà strada tra Rovereto e Folgaria, tra i monti della Valle trentina di Terragnolo. Il Masetto, gestito da Gianni Mittempergher, come un’isola tra i boschi è un luogo pieno di cultura, un rifugio creativo e ospitale.
Isola, riunione e arcipelago sono sembrate tre parole perfette attorno alle quali organizzare il primo incontro di altitudini aperto a chi ama le storie e i luoghi fuori traccia, occasione per conoscere i vincitori del Blogger Contest 2020, di cui Skialper e la nostra casa editrice sono media partner.
Ecco il programma:
I vincitori e i premiati del Blogger Contest 2020 si racconteranno attraverso un oggetto, un disegno, una mappa, un pezzo di motore, una foto: Francesca Nemi (premio PalaRonda Trek), Marco Ranocchiari (premio Giro del Confinale), Federico Balzan (premio La montagna dal vivo), Erica Segale (3° posto web comics); Stefano Lovison (2° posto web comics); Marco Rossignoli (1° posto web comics), Antonio G. Bortoluzzi (3° posto racconti brevi); Silvia Benetollo (2° posto racconti brevi); Luciano Caminati (1° posto racconti brevi, premiato da Skialper).
E come negli incontri importanti ci saranno alcuni ospiti speciali: Andrea Nicolussi Golo (scrittore e poeta) parlerà di grandi montagne e piccoli popoli; Laura Bortot (scrittrice e traduttrice) di tradurre in mezzo alle montagne; Eva Toschipresenterà il suo libro Per la mia strada edito da Harper Collins Italia e Simonetta Radice direttrice di MonteRosa edizioni parlerà di Sciare in modo fragile.
Durante la camminata di sabato mattina, attraverso gli insediamenti storici di Terragnolo, ci si fermerà ogni tanto a parlare con Alice Martinelli della Mudeda e della vita in rifugio, con Daniele Ceddia del suo progetto Sulla Faglia e con Andrea Carta della sua Cima Undici e di quella dei famosi Mascabroni.
Ad accompagnare gli ospiti ci saranno Luisa Mandrino (presidente della giuria del BC 2020, autrice e sceneggiatrice) e Davide Torri (editor di altitudini).
Per partecipare è necessaria la prenotazione: redazione@altitudini.it
Un asino sul Gran Paradiso
10 settembre 2019 133 giorni / 2.169 km
La Becca di Monciair è la cima che più mi ha colpito di tutto il gruppo del Gran Paradiso. Camminando sul sentiero a mezzacosta che si addentra nella testa della Valsavarenche era davvero singolare il contrasto tra questa vela di roccia e ghiaccio, appuntita ed elegante, e i meandri della Dora del Nivolet nel pianoro sottostante, così tortuosi da ricordare il Rio delle Amazzoni. Giunti al rifugio Città di Chivasso, a pochi metri dal confine con il Piemonte, ci siamo presi un’ultima coppa dell’amicizia valdostana, colma di caffè bollente, bucce d’arancia e grappa; alla fine eravamo più amici che mai.
La mensa era affollatissima, alle pareti c’è una vera e propria biblioteca. Mentre aspettavo una zuppa di farro mi sono perso nella storia del prete Joseph-Marie Henry che, a inizio Novecento, allo scopo di certificare la facilità dell’ascensione al Gran Paradiso (e attrarre così i turisti nella povera valle), ebbe una sensazionale pensata: scalare la cima insieme a un asino. Se ce l’avesse fatta anche un somaro... Arruolatone uno di nome Cagliostro, gli ramponò gli zoccoli e insieme, nello scalpore generale, compirono l’ardita impresa. Leggenda vuole che sulla vetta Cagliostro lanciò un formidabile jodel e depositò un profumato souvenir, a imperitura memoria. Rock’n’roll.
Dopo cena il gestore del rifugio, Sandro, ha preso parola e, nel silenzio degli avventori, si è scatenato in un’invettiva contro l’eterna fretta della società moderna. Si definisce anticonformista, eretico e ribelle, una sorta di Fra Dolcino delle Alpi. Le camerate erano piene, così ci hanno sistemati nel piccolo locale invernale, all’esterno. Faceva freddo e ci siamo messi tre coperte a testa sopra il sacco a pelo. Non avendo sonno dopo il caffè dell’amicizia, né sapendo cosa fare (non c’era luce nel bivacco), abbiamo tirato fuori dallo zaino il portatile e abbiamo guardato un film, il primo da chissà quanto: La pazza gioia. Siamo andati a dormire commossi. Alla mattina, quando siamo usciti dal bivacco, tutto era coperto di bianco. Durante la notte era caduta una spolverata di neve e i Laghi del Nivolet si erano trasformati in fiordi norvegesi.
5 ottobre 2019 158 giorni / 2.595 km
Non ero mai stato nelle Alpi Marittime: a duemila metri ritrovi i colori della macchia mediterranea. Anche l’odore dell’aria è diverso, a volte sembra sappia di timo. L’estate è finita, ma le giornate sono ancora belle e regalano grandi vedute. Da settimane il Monviso compare a ogni cima o valico, comincio a capire perché i Romani pensavano che fosse il più alto delle Alpi.
Stamattina siamo partiti dal rifugio Garelli prima che sorgesse il sole, un vento freddo spazzava l’aria e rendeva tutto nitidissimo. Passando per lo stretto Canale dei Torinesi abbiamo risalito la Nord del Marguareis, la vetta più alta delle Alpi Liguri. Mentre affrontavamo la rampa finale, ci è sfrecciato accanto un branco di camosci, tanti da non riuscire a contarli: in mezzo minuto hanno coperto la stessa distanza che noi abbiamo fatto in mezz’ora.
Dalla vetta, per la prima volta dalla partenza, abbiamo rivisto il mare, come i soldati di Senofonte. Ho provato una strana sensazione, come tornare a casa. In realtà non ci siamo accorti subito che fosse il mare, vedevamo solo una grande piana luccicante. Poi abbiamo intravisto dei puntini e ci siamo resi conto che fossero navi.
Laggiù, oltre l’immenso specchio d’acqua e le sottili nuvole di vapore marino, spuntavano le sagome di alcune montagne: erano quelle della Corsica, dove tutto questo è cominciato. Dove, per un curioso paradosso, la mia vita ha preso una direzione smarrendo la via per il Monte Cinto.
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Smarano, Sfruz e il Sentiero Roma
14 giugno 2019 46 giorni / 707 km
Guardandola dalla rocca di Haderburg, la valle dell’Adige sembra disegnata con il righello. Una distesa di meleti e filari paralleli la cui linearità è interrotta dal flusso sinuoso del fiume. A Salorno si parla l’italiano, un paio di chilometri più a Nord il tedesco. Alla sera le vie si riempiono di risate e di giovani. Bicchiere di vino in mano, uno di loro mi ha raccontato di un sentimento particolare chiamato heimat: l’attaccamento ai luoghi della propria infanzia, quelli in cui si sono vissuti i momenti più belli.
Ieri ci siamo svegliati sulle rive del piccolo lago di Favogna, tempestato di ninfee. Sembrava un quadro di Monet. Ero ancora stordito dal sonno e ho pensato di farmi una nuotata. Dal pontile di legno, nudo, mi sono tuffato nel lago deserto. Grazie al fondo torboso l’acqua era a temperatura ideale e mi è venuto da urlare di felicità. Più tardi abbiamo raggiunto la cima del Monte Roen. Non è stato solo il nome a ricordarci il Signore degli Anelli. Da lassù, a Ovest, scintillavano i grandi ghiacciai dell’Ortles-Cevedale, sormontati da vette che parevano scolpite nel cielo. Ai nostri piedi la parete orientale del Roen volava in picchiata per centinaia di metri.
Lungo la discesa verso il rifugio abbiamo allungato per la Malga di Smarano e Sfruz. Volevamo toglierci lo sfizio di vedere se esistono davvero due tali con dei nomi simili, da Stanlio & Ollio altoatesini. Alla malga non c’erano né Smarano né tantomeno Sfruz (che abbiamo scoperto poi essere dei paesini a valle), ma due cani con il manto chiazzato che ci hanno guardati arrivare in attento silenzio, senza scomporsi né abbaiare. Erano Pastori del Lagorai. Un ragazzo dagli occhi gentili ci ha offerto birre e cacioricotte fresche di minuti, sapevano ancora di erba tagliata. Lui e sua moglie (Alan e Roberta) salgono qui ogni primavera con le loro vivaci bimbe e le tante caprette. Ce ne hanno anche fatta mungere una. Mi ha colpito la loro serenitа. Roberta aspetta un altro bimbo e, mentre mi preoccupavo della loro sussistenza, guardandoli ho realizzato di come fossero spontaneamente al di sopra di ogni tipo di preoccupazione, concentrati a vivere il presente come un dono. A fine tappa, mentre ci rilassavamo a piedi scalzi sul grande terrazzo del rifugio Oltradige, il Latemar, il Catinaccio e le Odle si sono tinti di rosa. È stata l’ultima grande vista delle Dolomiti, un bellissimo arrivederci.
Tra i prati tempestati di ranuncoli gialli, stamani siamo scesi a Fondo, un paese della Val di Non. La piazza era affollata di persone che gremivano i tavolini dei chioschetti. Sopra le tante voci allegre scandiva i secondi un rumore incessante: un grande orologio ad acqua, una macchina prodigiosa fatta di leve e mulini meccanici. Abbiamo preso a fissarlo per diversi minuti, senza riuscire a capire esattamente quale fosse la chiave del portento.
Ho chiesto alla ragazza dei gelati cosa succede d’inverno, quando l’acqua all’interno dell’orologio si ghiaccia. «Il tempo si ferma» ha sorriso.
20 luglio 2019 81 giorni / 1.279 km
Il Sentiero Roma è probabilmente il tratto più difficile di tutto il nostro viaggio. Ieri alla Bocchetta Roma per poco non abbiamo perso Sara, la fotografa della spedizione. Si stava calando da una corda fissa, sospesa su un salto di venti metri; una pietra si è staccata dalla parete e le è rimbalzata verso la faccia. Sara si è abbassata di riflesso e l’ha schivata per pochi centimetri. Ci siamo zittiti. Stamattina avremmo dovuto affrontare il Passo Cameraccio ma ci hanno detto che le corde fisse, ancora seppellite dal ghiaccio, sono inutilizzabili. Non avendo con noi ramponi e piccozze, siamo stati costretti a stravolgere i piani e raggiungere il rifugio Allievi con una lunga deviazione, passando per la Val di Mello.
Questa valle ha un valore speciale, per me: ho ricevuto qui il mio battesimo della montagna. Quando ero piccolo con mio padre venivamo in quella che chiamano la piccola Yosemite, tra le marmitte d’acqua verde smeraldo e le pareti di granito luminoso, e provavamo a raggiungere il rifugio Allievi, cioè la tappa di oggi. Tentammo in più occasioni senza mai riuscirci, ogni volta per ragioni diverse: vuoi la pioggia, la stanchezza, la tarda partenza. La montagna rimaneva qualcosa di cui non capivo il senso, un non-luogo in cui si camminava per non arrivare mai. Tuttavia durante l’ultimo di quei tentativi - avrò avuto una decina d’anni - superammo la quota degli alberi e dall’imbocco di un vasto circo glaciale, per la prima volta, avvistammo il rifugio. Ricordo quel momento come fosse ieri. Una piccola macchia rossa e squadrata, ben sopra le nostre teste. Il sole stava ormai tramontando e così, a malincuore, convenni che fosse prudente tornare indietro e rinunciare ancora una volta alla meta agognata. Mi era bastato averlo visto, era là, il rifugio esisteva davvero: la montagna cambiò significato e coordinate nella mia mappa mentale.
Oggi, per uno strano scherzo del destino, ci siamo trovati a percorrere proprio quel sentiero, la stessa salita che da bambino mi aveva ostinatamente respinto. L’ho affrontata di petto, sotto il sole di luglio, come si affronta l’incontro di una vita, i piedi che volavano e il cuore a ruota. Mi sembrava di riconoscere i tornanti del sentiero, una roccia levigata, una lapide.
Mentre ci avvicinavamo allo svaso del circo glaciale, laddove ci eravamo spinti tanti anni fa, ho visto da lontano un uomo seduto di spalle con un cappello da pescatore, che guardava in su appoggiato a un grosso bastone di legno. Dopo qualche minuto l’ho raggiunto e quando, sorpreso dal rumore dei passi, si è voltato, mi sono accorto che era papà.Stava andando all’Allievi per farmi una sorpresa, non si immaginava di incontrarmi proprio lì. Era incredulo e commosso, come me. Gli altri sono andati avanti e noi due, più lenti, ci siamo incamminati insieme verso il rifugio, riprendendo la marcia proprio da dove l’avevamo interrotta più di vent’anni fa, questa volta a parti invertite, io a spronarlo, lui a dire vai avanti, poi ti raggiungo. Quando siamo arrivati, ci siamo abbracciati e ci siamo presi due birre a testa, in un momento di rara felicità, con la consapevolezza di aver chiuso un cerchio.
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Va' Sentiero
Non ne potevo più di tutto quel rumore. I corridoi della tube brulicanti di umanità, i lavori perennemente in corso, i fischi delle ambulanze ogni cinque minuti. Ero finito a Londra un paio d’anni prima, in autostop, inseguendo il sogno di fare musica. Sembrava il posto giusto, ma il chiasso della città inghiottì il mio estro e rimasi intrappolato in una grande bolla: mi sentivo l’ennesimo tra milioni di esuli, senza riuscire a trovare quel che cercavo. Avevo 29 anni e già da tempo il mio grillo parlante aveva preso a fare discorsi circa un posto nel mondo dei grandi. Mi stavo incattivendo. Così, sul finire dell’estate 2016, feci i bagagli e lasciai l’Inghilterra con la sgradevole sensazione di aver perso tempo e l’ennesimo treno.
Dovevo trovare il modo di prendermi una pausa da quel genere di pensieri. Mi avevano parlato del GR20, un lungo trekking che percorre tutta la dorsale montuosa della Corsica. Proposi al mio amico Toni di farlo insieme; a fine settembre ci incontravamo al porto di Bastia, nel Nord dell’isola. Durante la seconda tappa Toni si azzoppò malamente, peraltro su uno dei rari tratti in piano. Non poteva più proseguire. Fu un brutto colpo per entrambi, ma decisi di continuare anche senza di lui. La prospettiva di affrontare quel viaggio da solo mi spaventava un poco e al contempo mi eccitava: in ogni caso non potevo accettare di perdere in partenza anche quella mano. Lasciai le mie cose al Refuge d’Ortu di u Piobbu, mi caricai il sacco di Toni in spalla e lo accompagnai lentamente a valle, fin dove arrivava una stradina, in prossimità d’un campeggio. Trascorremmo un bellissimo pomeriggio con i piedi a mollo nel torrente gelido e la mattina dopo tornai su.
Dopo qualche giorno stavo avvicinandomi lentamente alle pendici del Monte Cinto quando in pochi minuti calò una nebbia pesante. Malgrado i miei sforzi, finii presto col perdermi. Vagai a casaccio cercando un ometto di pietra e, mentre cercavo di decidere, per l’ennesima volta, se quello sotto i miei piedi fosse un sentiero, la traccia di un rivolo o di un qualche animale, ecco spuntare nel muro d’aria biancastra tre tipi alti e biondi. Erano dei ragazzi svedesi che percorrevano il GR20 in direzione opposta. Sparpagliandoci ritrovammo il sentiero e, per suggellare il brillante episodio di cooperazione internazionale, mangiammo assieme un boccone. Uno di loro, con una bandana gialla al collo dello stesso colore della barba, mi chiese: «tu che sei italiano conosci il Sentiero Italia?». «Sentiero Italia... no. Mai sentito».
Passarono i mesi. In una fredda sera d’inverno quel cassettino della memoria si aprì all’improvviso e decisi di cercare Sentiero Italia su Google. Trovai qualche informazione in un blog con un’estetica da anni ‘90, ma fu comunque abbastanza: un sentiero di 7.000 chilometri lungo tutte le montagne italiane, Alpi e Appennini, ormai dimenticato. Cominciai subito a fantasticare di una spedizione alla scoperta del cammino misterioso.
13 maggio 2019
13 giorni / 184 km
Fotografa, videomaker, responsabile logistico, filosofo cambusiere e guida: la spedizione Va’ Sentiero. Ci siamo messi in testa di percorrere tutto il Sentiero Italia per documentarlo e farlo rivivere. Due settimane fa siamo partiti dal Golfo di Trieste. Era il primo maggio, ci sembrava il giorno giusto per coronare il lavoro degli ultimi anni, tutte le pene e le notti insonni per arrivare a essere lì, a tagliare quel nastro. Nonostante le previsioni maligne, la mattina della partenza c’era un gran sole e il mare era tutto un riflesso. Prima di incamminarci abbiamo letto ad alta voce Itaca di Kavafis, a mo’ di augurio.
Dopo le depressioni del Carso e i vigneti del Collio, oggi per la prima volta abbiamo superato i mille metri di altitudine sul monte Kolovrat. La sua schiena è bucata da decine di trincee e dentro gli stretti camminamenti coperti tirava un’aria gelida. Le feritoie dominano l’Isonzo, un lungo serpente d’acqua turchese, e la cittadina slovena di Kobarid: un tempo si chiamava Caporetto. Siamo sul confine tra le Valli del Natisone e la Slovenia, uno dei fronti più caldi di tutto il Novecento. La Grande Guerra, la Seconda, la Guerra Fredda... non ce n’è stata una che lo abbia risparmiato.
Dopo una lunga discesa tra i frassini, il sentiero si è trasformato in una stradina lastricata di ciottoli e siamo entrati nel borgo di Topolò. Il nome viene dallo sloveno topolove, cioè pioppeta, anche se di pioppi non ce n’è neanche l’ombra. Tra le vecchie case coi ballatoi di legno si udiva solo il singhiozzo nervoso di un rio in lontananza, sembrava un paese fantasma. Eppure su alcuni muri splendevano delle curiose targhe di metallo: Ufficio Postale per Stati di coscienza, Ambasciata dei Cancellati, Ostello per i suoni trascurati, Accademia del Passo Ridotto.
Donatella, una signora dai capelli rossi e le mani piccole, ci ha indicato un ostello ricavato da un fienile. La sua intelligenza pratica e tagliente mi ha ricordato le donne dell’Europa dell’Est. Cercando un posto tra le stanze ho notato un libro di poesie aperto: Il confine insegna a stare fermi / e non gli importa della tua natura / ma anche a lei non importa di lui / come due innamorati che fanno finta / di non amarsi - tengono la posizione.
Prima di infilarci nei sacchi a pelo abbiamo votato per il bicchiere della staffa e, proprio in quel momento, è spuntato in ostello un signore dall’aspetto elegante e scapigliato, con il sorriso giovane; ci è venuto spontaneo proporgli una bevuta con noi. Abbiamo scoperto in fretta che, oltre al sorriso, anche l’animo di Moreno è instancabilmente giovane. Lui e Donatella sono gli artefici di un evento artistico che negli anni ha assunto rilevanza internazionale: la Stazione Topolò - Postaja Topolove. In quei giorni, ci ha raccontato Moreno mentre lo ascoltavamo seduti per terra come bambini, il borgo diventa un laboratorio creativo a cielo aperto. Artisti da ogni dove si esibiscono nei vicoli, nelle vecchie rimesse, al limitare dei boschi, senza una vera distinzione col pubblico. Non ci sono orari fissi nei programmi, solo indicazioni generiche: al tramonto, pomeriggio presto, col buio.
Ci è venuto spontaneo chiedere a Moreno come sia stato realizzare un progetto così stravagante in un luogo segnato per decenni dalla tensione e dal sospetto. Per un attimo il suo sguardo scanzonato ha tradito un lampo di fierezza, mentre inghiottiva l’ultimo sorso: «Fare arte da queste parti è stato un atto politico». È notte fonda, ormai.
Yuri Basilicò
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La rinuncia di Kilian e David
«No, no, no. No, non abbiamo scalato l’Everest. Finalmente, dopo aver atteso tanto che passassero i cicloni tropicali e che la neve smettesse di cadere, abbiamo lanciato un tentativo, ma mentre stavamo raggiungendo il Colle Sud abbiamo deciso di fermarci entrambi». A scrivere è David Göttler sui suoi account social nella giornata di ieri. Dunque, dopo settimane complicate a causa del meteo e della pandemia, il duo Kilian Jornet - David Göttler non ha raggiunto la vetta dell’Everest nella finestra di tempo lasciata dal passaggio del ciclone Yaas. Una rinuncia nata non solo per cause esterne come il meteo, ma soprattutto ‘interne’. Kilian è partito dal campo base e David dal campo 2 e, dopo avere scalato tutta la notte, si sono ritrovati al Colle Sud. «Tutti e due non ci sentivamo bene e non avevamo le forze necessarie . «È stato un momento bizzarro quando ci siamo ritrovati al Colle Sud e ci siamo detti che non stavamo bene, entrambi abbiamo vissuto esattamente la stessa esperienza. Quindi è stato facile decidere di non proseguire. Sarebbe stato folle continuare a salire più in alto in quelle condizioni. Non puoi scalare l’Everest nel nostro stile se non ti senti al 100% e per fortuna entrambi sappiamo benissimo come dovremmo sentirci a quelle quote. Per questo siamo scesi. Anche se potevamo dare la colpa al vento per averci impedito di proseguire (al Colle Sud ce n’era abbastanza), non è stato per il vento o il maltempo o le cattive condizioni sulla montagna. La causa i nostri corpi e come ci sentivamo, ed è altrettanto importante ascoltare il proprio corpo e saperlo rispettare». Kilian e David sono saliti dalla via normale. Durante il loro allenamento in quota erano arrivati fino a sfiorare quota 8.000 sulla via per il Lhotse. Tra le ipotesi iniziali del duo sembrava esserci proprio la traversata Everest - Lhotse.
Transap
C’è chi si porta in spalla il fornelletto e prepara l’asado, chi gira in bretelle. C’è chi cammina tutta la notte senza fermarsi mai e chi non vede l’ora che finisca. La Transappenninica è una prova di avventura e di montagna attraverso l’Appennino, lungo le antiche vie che l’uomo ha usato per centinaia di anni per trasportare il sale necessario alla conservazione dei cibi verso la Pianura Padana e sui sentieri dei Partigiani tracciati durante la Seconda Guerra Mondiale, dalle colline della bassa padana fino al Mar Ligure. Tutti percorsi che toccano i crinali e non le valli come le strade moderne, per sfuggire a briganti, interminabili guadi dei fiumi o soldati tedeschi. Non è una gara di trail running. Non è a pagamento. Ciò che conta non è vincere. La Transap è una corsa al mare, un’intensa esperienza di strada. Si fonda su valori di resistenza alla fatica, ironia, fair-play, sostenibilità e un pizzico di follia. La sfida si svolge durante l’ultimo weekend d’estate (che quasi sempre coincide con il terzo fine settimana di settembre) e prevede di coprire ampie distanze in poco tempo, con notevoli metri di dislivello (da 3.000 a 7.000 tra salite e discese) e chilometri di sviluppo (dai 55 ai 110), variabili a seconda dell’itinerario scelto.
Per essere classificati è fissato un tempo limite, all’incirca 32 ore. Chi, pur sforando l’orario massimo, giungesse ugualmente all’arrivo, può in ogni caso considerarsi un vincitore. Solo che le birre saranno già finite. La partecipazione è gratuita e a proprie spese: ogni squadra, composta obbligatoriamente da due persone, deve procurarsi da sé tutto l’equipaggiamento necessario. L’organizzazione stabilisce solo i punti di partenza e di arrivo, variabili di anno in anno. Alcuni luoghi del campo di gara sono segnalati come checkpoint e stabiliscono il punteggio che determina il risultato finale della squadra» si legge sul sito. È necessario fornire le prove dell’avvenuto passaggio ai checkpoint, attraverso selfie, disegni, video… L’elemento sorpresa è fondamentale: partenza, arrivo e checkpoint vengono comunicati solo poche ore prima del via.
La scelta del percorso, assolutamente libero, dipende dal gusto personale e dalla capacità di lettura dei sentieri. Per partecipare è necessario munirsi di mappe dettagliate della zona, che sono fornite via mail agli iscritti. La prova non consente l’utilizzo di GPS, navigatori e applicazioni di navigazione di altro tipo. Il primo premio della Transappenninica è riservato alla squadra che totalizza il maggior numero di punti, in considerazione dei checkpoint raggiunti. A parità di punti, vince la squadra che impiega meno tempo. Ogni anno cambiano il percorso, i checkpoint e le regole (non tutte) e varia leggermente il numero delle coppie in gara (tra le 40 e le 45). Sono ben accetti contributi spontanei, anche di beni in natura, per coprire i costi della festa inaugurale e della logistica. Ci si iscrive a coppie. I posti sono limitati e si è ammessi per ordine di iscrizione. Per partecipare basta spedire il modulo che si trova sul sito (https://transap.tumblr.com/iscriviti) all’indirizzo transappenninica@gmail. com. Gli ammessi vengono contattati telefonicamente o via mail.
Marinai d’Appennino.
Transap 2018
Sono quasi le otto di sera e osservo Giulio tuffarsi in mare a Sori. Lo guardo e sono contento. Il senso di tutta questa corsa era racchiuso nel farla insieme, cavandosela, sostenendosi e continuando ad andare avanti fino a mettere i piedi sulla spiaggia e poi in acqua. È stato come essere un piccolo equipaggio in una minuscola barchetta tra le onde verdi dell’Appennino. Eppure abbiamo rischiato di saltare e di andare alla deriva quasi subito per colpa mia, per le gambe vuote e per lo stomaco sottosopra. Ma abbiamo tenuto, un po’ per la testa dura e un po’ per un pizzico di fantasia, o sana follia, chissà… I detrattori direbbero che non si fa, ma va bene lo stesso per noi. Non abbiamo mollato nello sconforto della nebbia che il mitologico Alfeo ci buttava addosso, carica di pioggia, di vento e di pessimismo.
Ci siamo rincuorati e rimessi in sesto con i sorrisi e le parole di Giovanni e Giulia al rifugio Antola (anche con le birrette e i panini, ok...). E la strada passava, intrecciando le nostre storie con le memorie del passato, dei villaggi, dei boschi profondi e delle antiche speranze di chi si metteva in viaggio verso il mare. Poi incontrare un amico fa la differenza. Già, Davide, che ti aspetta vicino a Torriglia, dopo essere partito di corsa proprio dal mare per poi ritornare a ritroso insieme, con te. E così corri ancora, cammini, fatichi, corri di nuovo, corri in tutte le sue declinazioni possibili fino al limite del semplice un piede dietro l’altro e poi arrivi a Sant’Uberto al tramonto, con il sole che sfonda e spacca in un grido cremisi tutto quello che c’è in giro. Scalinate ripide, odori di fiori, le voci che arrivano dalla spiaggia; è la Liguria di chi sbuca dal retro bottega come noi ora, nell’incandescenza di una sera interminabile e preziosa come le cose rare. Siamo arrivati adesso, io e Giulio e Davide dietro che ci scorta, con cura. Magari non belli da vedere, ma efficaci, come quando sai dove stai andando e ci vai. Alla fine per terra c’era scritto ecco il mare. I marinai d’Appennino hanno bisogno di saperlo, sempre.
Niki Gresteri
Una canzone semplice.
Transap 2019
Le cose più belle della Transap sono quelle che non si vedono con gli occhi, sono quelle che non puoi toccare e quantificare materialmente. Credo sia un aspetto positivo non avere oggetti o riconoscimenti che definiscano il valore delle motivazioni e delle azioni. Non ci servono cose per essere e per fare. Nel caso della Transap, tutto ciò che ha un significato, almeno per me, rimane immateriale. A dare un senso alla Transap non sono certo i chilometri (non pochi), né tantomeno il dislivello (non male), anche se ci devi fare i conti, e magari dopo un po’ li maledici, come se fossero diventati delle vespe sotto la maglietta o delle tarme nelle scarpe bucate. Sudi e soffri, a volte sbocchi in mezzo al bosco, sbuffi come un vecchio motore a gasolio sfatto, ma vai avanti perché nella Transap c’è un perenne senso di attesa nei confronti di qualcosa che sta per accadere. Mi piace pensare alla Transap come a un viaggio ideale, che in realtà non si compie, ma ridefinisce ogni volta una meravigliosa aspettativa. Perché è sempre difficile cogliere il senso di un’attesa, visto che la sua magia è proprio il non compiersi, ma aspettare che nasca. Ci vuole impegno e il giusto atteggiamento per capire la semplicità.
C’è l’attesa che precede la partenza e poi quella di vedere il mare. L’attesa di un versante che cambia e della notte che ti avvolge. L’attesa che una crisi passi e che la strada termini il prima possibile, anche se poi alla fine ti dispiacerebbe. Ci sono incertezze e dubbi che si trasformano in scoperte. Ma so che, nonostante tutto - la fatica, i dolori e il dolce desiderio di abbandonarsi al sonno - so che vale sempre la pena arrivare in fondo. Perché la cosa più bella resta il momento in cui vedi brillare gli occhi del tuo compagno o dei tuoi compagni e hai vissuto per tutto il giorno l’attesa di vederli felici, ancor prima di esserlo per davvero anche tu. Così, al mattino presto, lentamente, ciascuno con la propria idea in testa di cammino e di sentiero, ci siamo diretti verso un’intuizione di orizzonte e di memorie marine, a Sud. Ognuno a suo modo è ispirato da qualcosa. E da qui, da Borgo Val di Taro, il mare è per davvero ispirazione, promessa e idea, ma in alcuni momenti del nostro viaggio ci è sembrato quasi un miraggio, una chimera e una condanna, soprattutto quando la testa ti porta in un loop di malessere e di pensieri negativi. È come essere impigliato nei rovi e nelle ortiche senza venirne fuori (e magari a qualcuno è successo, più zecche optional). Ma il momento nero passa sempre, basta saper aspettare. E si tratta di capire che fa parte del gioco mettersi a nudo, saltare per aria e ripartire. È questo il bello.
Alla fine siamo sempre rimasti in cinque, siamo partiti e arrivati tutti insieme: io, Giulio, Edoardo, Eva e Ombra. Una lunghissima giornata di condivisione, di sguardi, di parole e di silenzi, che quasi sempre raccontano perfettamente lo stupore. Sempre insieme, camminando nel respiro dei faggi più alti e poi correndo sugli assolati crinali battuti dal sole pomeridiano. Insieme a cercare acqua, non trovarne, aspettare, chiedere a un contadino, trovare una locanda aperta al passo e rinfrescarsi finalmente! Sempre insieme, con le gambe adesso più stanche, prima di arrivare in cima a Prato Pinello nell’ora d’oro e fermarsi a osservare l’arco ideale di montagne disegnate con i piedi fino a quel momento. Pensi alla generosità e alla dedizione dei tuoi amici, di chi ha razionato l’acqua e ne ha portata in più per gli altri e per Ombra, il fedele amico a quattro zampe. Pensi che sia il posto giusto e il momento giusto.
E diventa più facile correre di nuovo, almeno per un po’, incontro alla luna che cresce dietro montagne placide ma adesso oscure, relitti abbandonati in una terra di alberi a volte storti, a volte dritti e luminosi come se esplodessero di luce. Torni indietro con la mente fino al mattino quando, lungo un tratto di Via Francigena, una vecchietta ci ha chiamato da un pugno di case in pietra ed è uscita fuori. C’era il sole fragrante e l’odore dell’Appennino profondo, quello che scivolando nell’autunno ti lascia con un nodo alla gola. Abbiamo firmato il diario dei pellegrini e annusato i porcini essiccati al sole, poi siamo ripartiti. Era di nuovo il posto giusto e il momento giusto, era l’attesa che precedeva altre cose belle. La Transap porta ancora avanti la propria idea originale, pulita ed essenziale, spesso selvatica e anarchica, e chi si mette in cammino non cerca premi e classifiche. Chi si mette in viaggio non cerca di essere migliore, ma cerca di essere se stesso e di condividere un pezzo di strada (e di attesa) con qualcuno. È come una canzone semplice che ascolti di notte davanti al mare, con gli amici che si abbracciano e sorridono per tutte quelle cose che ci sono state e che non si possono vedere. È come una canzone semplice che avevi in testa e che hai saputo aspettare.
Niki Gresteri
Chi arriva per primo aspetta.
Transap 2019
Fine estate 2019. È molto buio. Sono le tre di notte e da diverse ore mia sorella e io camminiamo completamente sole nel bosco. State attente ai lupi ci hanno detto gli organizzatori alla partenza, anche se, in realtà, l’animale non è pericoloso per le persone, anzi tende a evitarle. Da queste parti può anche capitare che, tra la lapide all’eroe russo Fëdor e un paesino abbandonato, si incontrino gli occhi gialli di un lupo che sta seguendo il tuo stesso sentiero. Appena gli alberi lasciano spazio ai pascoli erbosi ci accoglie la luna piena. Camminiamo da diciassette ore e ci si chiudono gli occhi. Il suono del silenzio regna incontrastato e ci sembra, laggiù oltre le montagne, di intravedere il mare. Forse è solo un’allucinazione. Tiriamo fuori i sacchi a pelo e puntiamo la sveglia dopo mezz’ora.
Ci rannicchiamo testa contro testa: sembra che qualche folletto abbia modellato il sentiero sulla sagoma dei nostri corpi. È comodissimo! esclama mia sorella. Due secondi dopo sta già dormendo. Quando ci svegliamo inizia a piovere. Cerchiamo la traccia per la salita, ma di notte, sotto la pioggia, non la troviamo. Guadiamo più volte un fiume. La batteria della mia frontale è scarica, ne abbiamo una in due. Le cartine sono bagnate, scarabocchiate e spiegazzate. Ci perdiamo. Siamo partite alle 6,30 di ieri mattina da una cascina incantata, sulle colline dell’Emilia Romagna, che ci ha accolti e ospitati in tanti, curiosi, sorridenti e scalpitanti. Venerdì sera abbiamo picchettato le tende al buio, una vicina all’altra: la notte prima della partenza, quando si dorme tutti insieme sotto le stelle, e il ritrovo in spiaggia la domenica, sono dei momenti davvero magici. Intanto abbiamo trovato la strada. Siamo sole sul crinale.
Le prime salite, in verticale, sono state toste. Barcollo. Penso che sono tutti matti. Francesca mi dice che è importante chiacchierare per distrarsi: uso il poco fiato che ho per mandarla al diavolo. I gruppi che si erano formati alla partenza piano piano si dividono. Passo dopo passo il mio respiro si regolarizza: sto imparando la strada e mi piace un sacco. Attraversiamo parchi naturali, vette, fiumi e torrenti favolosi. Schiviamo un serpente e percepiamo i cinghiali che ci scrutano nella penombra del sottobosco. Sono le 8,30 di domenica mattina, siamo in vetta a un meraviglioso monte checkpoint e abbiamo fame. Rapida sosta rifocillante: focaccia ripiena di pomodorini secchi, scamorza affumicata e uova sode. Destra o sinistra? Rincomincia a piovere. Arriviamo al cimitero checkpoint, selfie al volo, e ci rimettiamo in marcia accompagnate dalle ultime gocce. I piedi fanno male e sono fradici. Ormai è una corsa al mare, tra salite e discese. Siamo partite insieme, camminiamo insieme, dobbiamo arrivare insieme. Viaggiare è la nostra passione, ma non avevamo mai viaggiato a piedi. Siamo molto puzzolenti, però quando arriviamo in spiaggia i nostri compagni d’avventura ci abbracciano lo stesso e ci mettono in mano delle birre ghiacciate. Francesca e io abbiamo camminato per circa ventisette ore. Arriviamo a un quarto d’ora dal termine, con diverse zecche su varie parti del corpo. Bottiglia di vino per tutti e rapida premiazione. Abbiamo fatto tante nuove amicizie e ci salutiamo con la voglia di ripartire. Il detto dice che l’avventura comincia sulla porta di casa: queste colline, valli e montagne, per me e per noi della Transap, sono diventate casa. Spero che lo diventino anche per voi. Buona strada!
Marta Manzoni
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Finché c’è neve c’è Speranza
In montagna ho fatto più o meno tutto, più o meno bene: salite invernali, arrampicate in falesia d’estate, trekking, corse in quota, ciaspolate a non finire, sci su pista e sci da fondo. In quest’ultimo settore ho partecipato pure a qualche gara e ad almeno una dozzina di Marcialonghe, a partire dalla prima, quella del remoto 1971. Solo per farvi intendere l’età che ho accumulato. Mi mancava dunque lo scialpinismo. È un po’ che ce l’avevo in mente ma per smuovermi davvero ci volevano due cose indispensabili: l’occasione e la compagnia giusta. Adesso l’occasione l’ho trovata: la quarantena nella casa di montagna. E devo sfruttarla in fretta prima che anche qui, nelle terre alte piemontesi, arrivi l’ingiunzione di dover uscire solo con una Guida. Un po’ mi scoccerebbe, non tanto per i soldi, che in quanto extra da qualche parte dovrei far saltar fuori, quanto perché ero convinto che lo scialpinismo, a differenza degli altri sci, fosse l’essenza della libertà assoluta: vai proprio dove vuoi, seppur con la consapevolezza dei tuoi mezzi e dei rischi.
Poi ho trovato anche la compagnia giusta, le tracce da seguire, quelle di Speranza Vigliani, una signora del centro di Milano che tutto sembra tranne che una signora del centro di Milano. Speranza ha anche una casa alpina non lontano dalla mia, e non vede l’ora che cada la neve per mettere le pelli sotto gli sci e andarsene per monti e valli. Quelle vicine, per poi allargare man mano il giro. Scia scia, è arrivata a serpeggiare anche sui versanti del monte Ararat e perfino tra quei valloni scoscesi e ghiacciati che precipitano sui fiordi della Norvegia. Per il resto, non è che se ne sta con le mani in mano: fa triathlon, trail in mountain bike, traversate a nuoto di laghi e corse in bici sulle strade bianche. Vanta pure un brevetto di Accompagnatore di media montagna, così almeno gli aspetti culturali e ambientali del cammino li può raccontare e condividere in via ufficiale. Non può certo insegnare scialpinismo, è ben chiaro, ma non l’ho contattata per questo, ma perché conosce i posti giusti per cominciare vicino a casa nostra, per farmi dire come funziona tutto l’ambaradan per un principiante, cosa mi serve davvero. Insomma, finché c’è neve c’è Speranza.
«Prima di tutto, è necessario informarsi sul tempo che verrà, sullo stato della neve. Non chiederlo però ai local. Per loro la neve l’è semper bela, una farina anche se in realtà è molto più simile ai cubetti di ghiaccio del freezer. Ma loro scendono sempre e dappertutto, perciò non fanno testo».
«Ok, poi?».
«Poi l’attrezzatura giusta. Vai in un negozio qualificato, di qualcuno che conosci e fatti consigliare. Magari, all’inizio, è meglio noleggiarla».
Perfetto. Dalle mie parti, che sono defilate, c’è un negozio storico. Beh, più che un negozio è una specie di outlet-antiquario (nel senso che qui le cose nuove arrivano quando altrove sono già vecchie), beh, più che un outlet, un magazzino dove tutto è piuttosto confuso, ammucchiato.
Se vedi sbucare un paio di guanti che ti piacciono non toccarli! Lascia fare al padrone di casa, che sa come sfilarli delicatamente senza far venire giù tutto. Lui è un tipo convincente, l’autunno scorso sono entrato per prendere un paio di robusti guanti da sci e sono uscito con un paio di guantini di seta in colori mimetici, forse buoni per i cacciatori, che non metterò mai. In compenso stanno nell’astuccio degli occhiali, non si sa mai. Una volta ho visto dare a uno un paio di ghette di tela cerata con il pelo di volpe dentro, ammuffito alla perfezione, avanzate probabilmente dalla prima spedizione polare di Roald Amundsen. Non ero comunque l’unico nel suo antro; davanti a me c’era una signora (non so se milanese o meno) anche lei per prendere l’attrezzatura da scialpinismo. L’ho capito chiaramente verso il finale, quando le ha dato la scatola delle pelli. Lei l’ha aperta, ha guardato, ha palpato tra indice e pollice e ha esclamato con disappunto: ma non sono di foca!.
«No signora, gli ambientalisti ce lo vietano». Detto con un sorrisetto.
«Maledetti, anche qui sono arrivati» ha risposto madame con un ringhio.
Cosa volete, noi puristi dello scialpinismo un po’ âgée siamo così, ci piace la foca.
È toccato finalmente a me. Il negoziante mi ha scrutato un attimo, su e giù, giù e su, come fosse uno scanner, ha afferrato il primo paio di sci larghi a tiro e me li ha spiattellati contro una spalla: «Questi sono perfetti».
E io che mi aspettavo prove da galleria del vento. Poi però mi sono detto che Ottorino Mezzalama quando nel ’27 è salito e poi sceso vivo dal Monte Bianco aveva due strisce di legno con ganasce, molle, lacci e fermapunta in canapa. E se ce l’ha fatta Ottorino…
«Ok, Speranza, con la roba sono a posto. Dove si va?».
«Alla Dormillouse, salendo dalla Val di Thures».
Il posto mi piace. A partire dal nome, la Dormillouse, che mi dà l’idea di una figura adagiata su un fianco morbido. E così è. L’intera montagna, larga e polposa, alta 2.908 metri, è glabra, solo qualche arbusto che sbuca dalla neve qua e là ma non ci sono proprio alberi, quindi, una volta constatata la stabilità del terreno, si può galleggiare, planare, svolazzare, svoltare dove si vuole.
«Calma, non è detto che uno che sa sciare dignitosamente in pista se la cavi altrettanto decorosamente sulla neve naturale. Anzi. Perciò si parte più sotto, dalla Crête de la Dormillouse, dove il fondo è più compatto e la ripidità meno accentuata».
«Come dire che invece che partire dalla spalla della dormiente partiamo dalla coscia» aggiungo io per fare lo spiritoso.
«Più o meno. Comunque qui stiamo parlando di scendere. Però c’è un fatto: prima bisogna salire. Ricorda, sci-alpinismo, e quest’ultimo prevede che prima si salga».
La salita, giusto.
Non capisco perché certe signore milanesi quando sono in città, quando anche vanno di fretta, hanno un passo e quando sono in montagna ne hanno un altro. Non riesco a starle dietro. Nemmeno sulla strada di neve già ben battuta che dalle case di Rhuilles, dove abbiamo lasciato le auto, sale alle Grange Chabaud e al colle omonimo, un pianoro enorme che se lo percorri tutto sconfini sulle praterie francesi che scendono verso la solitaria valle della Cerveyrette, nelle cui microscopiche borgate non arriva ancora la corrente elettrica.
Decenni di passo alternato nello sci da fondo mi aiutano a coordinare i movimenti, ma un conto è andare in piano tra i binari ben tracciati delle vicine piste olimpiche di Pragelato, un conto è salire, salire, salire e cercare di stare dietro a Speranza che sembra andare con una lentezza esasperante e invece guadagna centimetri ad ogni scivolata. Lei scivola, io zampetto, qui sta la differenza. C’è anche da aggiungere che il sottoscritto, da neofita, ha portato nello zaino tutto quel che serve per proteggersi dal blizzard, dalla nevicata del secolo, dall’invasione delle locuste, dall’arrivo del vento dal Sahara, dall’alluvione e da ogni altra avversità dovuta ai cambiamenti climatici, sempre più imprevedibili. Speranza, che aveva controllato di nuovo le previsioni meteo, solo quel che serve davvero in una giornata di sole tiepido che fa rintanare il freddo del mattino nelle zone ombrose di fondovalle. Nello zaino ha la pala e la sonda, mentre l’Artva lo abbiamo addosso entrambi. Il mio l’ho naturalmente affittato insieme agli sci, ma Speranza mi raccomanda di acquistarlo nel caso intendessi proseguire l’attività dopo le prime lezioni. «Con il kit di sopravvivenza te la cavi con circa 250 euro, beh, poi c’è l’attrezzatura, poi ci aggiungi cinque o sei uscite con una Guida o un Maestro di sci…». Mentre sbuffo e sudo, bagnato come la Fontana di Tritone a Roma, con l’acqua che gli zampilla dalla testa e gli ricade addosso, faccio mentalmente due conti e concludo che il resto dell’inverno, altro che montagna; lo trascorrerò a passeggiare sul lungomare di Bordighera, come molti pensionati di professione, fermandomi a scrutare il mare ogni tre minuti, con la mano a visiera sulla fronte, anche se il panorama è sempre quello.
La mia amica milanese tiene subito a precisare che questa che stiamo facendo è una scampagnata, tanto per guardarci in giro e assaporare il buon gusto della libertà e della solitudine e per far due scivolate su terreno sicuro, ma poi per imparare davvero e affrontare la polvere (si capisce da questo che lei ne sa, pur se the wild world of powder lo dicono solo quelli che hanno imparato il free ride tra le foreste della British Columbia) qualche lezione bisogna pur prenderla.
Alla base della Crête riprendiamo fiato prima di iniziare a salire (ancora!) tra quelle che sono delle collinette, le gobbe di cammello, avrebbero detto in una telecronaca sciatoria di qualche tempo fa. Qui sembra che di cammelli ce ne siano mandrie intere, il fianco della montagna pare la superficie di un panettone ricoperto di uvette, ce ne sono tantissime. Meglio, penso, tutti quegli avvallamenti serviranno a frenarmi. Davanti a me, molto davanti a me, Speranza sale con calma, con regolarità e scioltezza, anzi, naturalezza, e dà al movimento un perfetto tono armonico. Ogni tanto cambia direzione, si ferma, respira, osserva tutt’intorno, alza lo sguardo verso le creste.
«Grazie, che ogni tanto mi aspetti» le dico quando la raggiungo emanando vapori come una locomotiva d’altri tempi.
«Più che aspettarti – risponde ridendo mi godo la salita e la fatica, quella che regala benefici. E, a parte questo, lo scialpinismo richiede osservazione, attenzione, decisione, sensibilità. Bisogna cercare di entrar a far parte dell’ambiente intorno. Se non fai così, tanto vale restarsene a sciare sulle piste lisce e soleggiate del Fraiteve cercando di schivare le bande di ragazzini degli sci club».
Saliamo ancora un po’ fino a superare le gobbe di cammello, simili più a meringhe soffici cosparse di zucchero abbondante. «Direi di partire da qui – dice Speranza ma prima beviamoci un sorso di tè, copriamoci bene e immaginiamo un tracciato da seguire e soprattutto un punto di arrivo». Allaccio e stringo tutto quel che è allacciabile e stringibile. In alto c’è il sole ma dalla valle della Cerveyrette sale una lama di aria gelida. Il vento francese è sempre così, ce l’ha con noi italiani, avverte subito quando stai per avvicinarti troppo alla linea di confine.
«Naturalmente immagino che tu abbia curiosato su YouTube e avrai visto quei rider giapponesi che si immergono e riemergono da mucchi di neve fresca tenendo fuori solo la testa e la punta degli sci. Dimenticali! Avrai pure visto quelli del Mezzalama, che quando si buttano giù dai pendii sembra debbano sfracellarsi da un momento all’altro. Beh, dimentica anche quelli! Loro sono in gara e devono recuperare secondi preziosi. Per fare quelle cose ci vogliono anni di pratica e un fisico bestiale, e mi sa che tu…».
«Perciò?».
«Posizione centrale, niente uso degli spigoli, movimenti accentuati di flessione-distensione e appoggio dei bastoncini, che danno il ritmo. Fluidità, scioltezza, naturalezza. Niente lunghi diagonali, per non rallentare e rendere difficili le curve. Tutto qui».
Certo, tutto qui. Ora che mi concentro su ogni singolo elemento viene Natale 2021 ma in questo caso bisogna fare tutto insieme, contemporaneamente.
«Vado avanti, così vedi».
«Sì, vai, vai».
In effetti è un bel vedere. Punte subito a valle, curve sinuose e continue, piccoli sbaffi simmetrici sulla neve fresca, una danza soffice. Sono incantato e dall’incanto vengo svegliato da un agitare di bastoncini nell’aria, giù in fondo. Tocca a me, arrivo. Punte subito a valle, piccola spinta, provo la prima curva, provo la seconda, la terza, lasciando dietro di me solo sbavature di una linea retta che diventa sempre più minacciosa. Accentuo ancora di più la flessione/distensione, allungo il braccio in avanti/di lato ma le punte stanno sempre fisse a valle e vanno dritte verso una meringa. Beh, poco male, almeno mi fermo con la risalita e la neve fresca. Ma no, perché il versante Nord della meringa è più ghiacciato degli altri versanti, e prendo ancor più velocità. La meringa fa effetto trampolino, salto nell’aria e atterro una ventina di metri più in là, nella neve soffice. Di schiena, naturalmente, per via dello zainone (che però, pieno com’è di roba inutile, fa effetto airbag) e resto immobile con le gambe rigide nell’aria, come un passero abbattuto da un pallino. Speranza mi si avvicina: «tutto a posto?».
«Una meraviglia».
«Beh, passare dal freeride al freestyle è stato un attimo!» dice ridendo.
Ma io non demordo. Proviamo qualche altra inerpicata con conseguenti discese. Mi fa rifare i movimenti da fermo. «Perfetti» mi incoraggia.
Ci credo, da fermi son buoni tutti. Però nei successivi tentativi qualche curva a parentesi tonda (invece che a parentesi quadra come le precedenti) mi riesce, offrendo allo sguardo un paesaggio meno sconnesso, più lineare, e qualche brivido di piacere assoluto. Dopo un paio d’ore di su e giù riprendiamo la strada che ci riporta alle auto. È tutta discesa e, sul battuto, i miei sci scodinzolano stretti come quelli di un vecchio maestro dello storico Sci Club 18 di Cortina; tecnica, anche questa, d’antan. A valle ci salutiamo, dandoci appuntamento a un domani impreciso, vago, forse inesistente. La sera ci penso: in fondo non è stato un brutto giro, sono vivo ed è questo che conta. Quasi quasi chiamo Speranza per farmi dare il numero di un esperto autorizzato, per quelle lezioni base. Oppure prenoto a Bordighera?
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Ararat amaro per Nico Valsesia
Nico Valsesia ci ha abituati a imprese titaniche a suon di pedalate e passi di corsa per raggiungere le cime più alte della terra partendo dal mare. Imprese che il cinquantenne di Borgomanero con un secondo e terzo posto nella Race Across America di ciclismo ha sempre affrontato con disinvoltura. Solo il Monte Ararat l’ha respinto. Il D-Day era previsto sabato scorso, 22 maggio. Partenza da Hopa, una piccola cittadina affacciata sul Mar Nero, e dopo 500 chilometri e 8.000 metri di dislivello da pedalare in completa solitudine, arrivo ai 2.200 metri della base dell’Ararat, con ancora altri 3.000 metri di dislivello da scalare a piedi per raggiungere la vetta. Una montagna, l’Ararat, tecnicamente facile da salire in estate ma ancora ricca di neve e ghiaccio in questo periodo. Con in più le difficoltà della pandemia, con la Turchia sottoposta a pesanti restrizioni. Per non farsi mancare nulla Nico ha pensato bene di raggiungere la destinazione in auto, aggiungendo altri 4.000 chilometri non proprio agevoli.
Cronaca di un tentativo
La partenza sabato alle 12.33. La strada, quasi sempre ben asfaltata, scorre prima in una valle e poi inizia una lunga e massacrante salita di oltre 100 chilometri, quindi prosegue su e giù per altipiani prima molto verdi e poi dalle tonalitа più aride. Il vero problema sono i cani randagi che attaccano più volte Valsesia, costringendolo anche a scendere dalla bicicletta e usare la stessa per difendersi. Poi sarа l’auto al seguito a mettersi in mezzo e a fare da deterrente per i tanti cani incarogniti contro il ciclista. La notte, fredda e molto ventosa di suo, con gli agguati improvvisi di questi branchi di pericolosi randagi, diventa un tormento. Alle prime luci dell’alba e con il cambio di zona il cielo diventa grigio e le temperature iniziano a salire. Una foratura e alcuni posti di blocco militari, in un’area contesa con la vicinissima Armenia, rallentano leggermente il ruolo di marcia, mentre bar, market e qualsiasi tipologia di negozio sono chiusi, mettendo a dura prova il pianificato reintegro alimentare. Arrivati a Dogubayazit, la piccola cittadina sulla piana ai piedi dell’Ararat, giа base logistica per la prima ascensione conoscitiva e d’acclimatamento con salita in vetta, dei giorni precedenti, si decide per un reintegro energetico importante. Dopo un riposo di un’ora e mezza, Valsesia cambia anche la bicicletta, una gravel, per gli ultimi 20 chilometri che portano allo spiazzo da cui partono tutte le ascensioni al monte. Una salita flagellata dal vento e con il cielo che diventa sempre più nuvoloso e scuro. La frazione ciclistica termina dopo 25 ore e 31 minuti. Dopo un paio d’ora di marcia, Nico, accompagnato dal figlio Felipe e da un Guida locale, è costretto a un riparo di fortuna sotto una roccia per evitare una forte grandinata e i tanti fulmini che saettano in cielo. Un altro spostamento verso l’alto in un momento di apparente calma, mentre il nero della notte si è impossessato della montagna e un secondo stop forzato da un’altra grandinata spinta da un vento fortissimo. A quota 3.200 metri l’ospitalitа in una tenda di un gruppo di escursionisti. anche loro bloccati dalle avversitа meteorologiche, un riparo che servirà per tutta la notte. Questa mattina, con il vento leggermente in calo e nessuna precipitazione, un ultimo tentativo fino ai 3.800 metri dove li avrebbe dovuti attendere una tenda di servizio, purtroppo distrutta dalla forza della natura. Restano comunque la vetta dell’Ararat conquistata nei giorni precedenti e un tentativo di record portato nuovamente al limite da un atleta che a 50 anni ha ancora qualcosa da dire.
Una corsa alla fine del mondo
Ero curioso di tornare nella valle Chacabuco e al lago Jeinemeni. Ma non era solo la natura ad attrarmi, piuttosto gli uomini e il loro rapporto con l’ambiente. Queste valli, questi monti, sono forse il luogo dove ho lavorato più a lungo come Guida di montagna, dove ho corso più lontano. Qui ho scritto record di salita e discesa in velocità su cime selvagge. Queste montagne le sento un po’ come mie, anche se non vivo qui, ma vicino a Santiago, nella valle Maipo. All’inizio del 2018, grazie alla donazione allo stato del Cile della terra della Valle Chacabuco da parte di Tompkins Conservation, la Reserva Nacional Lago Jeinemeni e la Reserva Nacional Lago Cochrane sono state unite nel Parque Nacional Patagonia. Queste valli sono state trasformate negli anni dall’allevamento e l’ecosistema, al di fuori dei panorami da cartolina, rischiava di essere compromesso irrimediabilmente, però la creazione del parco è andata contro alcuni degli interessi economici locali. Così, a distanza di due anni, volevo vedere come è stato accolto dalle persone che vivono da quelle parti e che effetto ha prodotto sull’economia locale. Volevo farlo a mio modo, tornando lì per correre. Allora ci sono ricascato. Come un anno fa, sono partito per il Sud. Questa volta ho scelto un Volkswagen T2. In realtà è lui che ha scelto noi: l’abbiamo trovato in un parcheggio e ce ne siamo subito innamorati.
Ho corso sul sentiero delle Lagunas Altas o al Mirador Douglas Tompkins per guardare dall’alto il Lago Cochrane, ho attraversato il Chacabuco sul lungo ponte pedonale, ho riscoperto la bellezza selvaggia del Lago Jeinemeni e i paesaggi extraterrestri della Valle Lunar e della Piedra Clavada, una roccia vulcanica alta 40 metri. Tornare a casa è stato speciale. Inutile dire che correre qui, ma anche semplicemente partire per un trekking lungo uno dei tanti sentieri segnalati, è un'esperienza unica. I guanacos (una specie di lama) sono una presenza costante, ma ci sono altri occhi che vegliano su di te, dal condor al flamenco cileno che volteggiano nel cielo, ai puma e agli armadilli, fino ai simpatici huemules, i cervi cileni. Per dormire ci sono i tre campeggi all’interno del parco, così il contatto con la natura ti rimane dentro ogni minuto della giornata. Però tutto questo lo sapevo. Tompkins Conservation è stata creata da Douglas Tompkins, fondatore di The North Face ed Esprit, e dalla seconda moglie Kristine per comprare terre in Sud America, creare parchi, proteggere la fauna e incentivare l’agricoltura rigenerativa. Nel 1968 Tompkins partì in auto dalla California per raggiungere la Patagonia insieme a Yvon Chouinard, fondatore di Patagonia, e aprire una nuova via sul Fitz Roy. Ora che Douglas è morto, Yvon e sua moglie Malinda fanno parte del board direttivo della Tompkins Conservation. Il Parque Nacional Patagonia è una scommessa riuscita, un segreto che è sempre più difficile tenere nascosto per partire alla scoperta di una Patagonia meno frequentata e più autentica di altri santuari naturali, come per esempio il Parque Nacional Tierra del Fuego, a Ushuaia, in Argentina o il De Agostini, in Cile. Ma la sorpresa più bella è che il modello di turismo del parco e soprattutto di agricoltura rigenerativa che si sta sviluppando, anche fuori dall’area protetta, sta funzionando. Le persone del luogo iniziano a vivere di turismo e agricoltura sostenibile e si è messo in moto un volano che porta lavoro e benessere.
Gli allevamenti di bestiame e i danni all’ecosistema sono un ricordo. Le grandi valli modellate dal Rio Chacabuco e la steppa patagonica, dopo un secolo di pastorizia, ospitano un livello di biodiversità tra i più alti della regione di Aysén. Invece di produrre anidride carbonica, la catturano. E le montagne, i boschi di lengas e i grandi laghi sono lo scenario perfetto per questo film a lieto fine.
Huerto Cuatro Estaciones
Mi ricordo il mio primo giorno di agronomia all’università, quando uno dei professori ci ha detto che saremmo stati responsabili di nutrire il mondo perché stavamo affrontando una fase di grande crescita demografica. Però c’era una contraddizione con quello che nella realtà ci insegnavano e produrre vino e frutta a buon mercato per i Paesi sviluppati perché potessero soddisfare il capriccio di avere tutte le primizie sulla tavola in ogni periodo dell’anno, senza preoccuparsi dell’origine e di come fossero prodotte. Con Javier abbiamo pensato di costruire un’alternativa. All’università non abbiamo imparato come coltivare la terra, ed eravamo agronomi. Così siamo andati in Ecuador, dove siamo diventati contadini. Poi con questa esperienza siamo venuti in Patagonia e siamo stati quattro anni nell’Estancia Chacabuco, nel Parque Nacional Patagonia, dove abbiamo adattato la nostra esperienza al clima patagonico. Qui il meteo è ostile e variabile, la stagione corta. La sfida da vincere era quella di poter produrre senza l’utilizzo di fertilizzanti chimici, ma soprattutto di dimostrare che fosse economicamente sostenibile. Così è nato Huerto Cuatro Estaciones (la fattoria delle quattro stagioni). Ora siamo sulle rive del lago General Carrera dove c’è un microclima favorevole per l’agricoltura. La regione di Aysén è una delle zone meno popolate del Cile e l’agricoltura intensiva qui non è ancora arrivata.
È un’opportunità unica per costruire il futuro di queste terre e della comunità locale. Ci ispiriamo al concetto dell’agricoltura rigenerativa che non cerca solo di rigenerare il suolo, ma anche di creare abbondanza e sviluppo, però è importante non essere fraintesi, non sembrare quelli che impongono le loro conoscenze alla comunità locale, che insegnano come coltivare il loro cibo. Di questa comunità abbiamo deciso di fare parte. Puerto Guadal è un piccolo villaggio, tutti si conoscono e vendiamo i nostri prodotti al mercato ogni settimana. È un’opportunità di condividere con loro il nostro lavoro e abbiamo ispirato alcuni abitanti a coltivare l’orto e a iniziare a vendere i prodotti ai vicini. Organizziamo corsi dove i giovani possono vedere e imparare come coltiviamo la verdura. La nostra idea è quella di dare loro l’esperienza per fare partire altri progetti. Il modo migliore di imparare è fare. Ci sono le lezioni teoriche, ma la cosa più importante è sporcarsi le mani, seminare, raccogliere, fare il compost e passare la giornata in un orto organico. Utilizziamo il metodo bio intensivo perché non richiede fertilizzanti e pesticidi e non dipende dai prodotti fossili. Si basa sulla vita del terreno e lo rende più fertile di anno in anno. Coltiviamo più di 30 diverse specie, usiamo i fiori per attrarre gli insetti benefici, aumentando la diversità. Sono molto fortunato a vivere in uno degli ultimi territori non devastati dall’uomo e voglio proteggerlo e dimostrare che è possibile vivere bene rispettando il mondo che ci circonda, la natura e gli uomini.
Francisco Vio
Peninsula Mitre
Flashback. Gennaio 2019. Sono sui soffici ciuffi di erba, ma poco oltre c’è una bianca scogliera che precipita per centinaia di metri verso le onde del mare. Il vento mi fa barcollare. Di tanto in tanto arriva qualche provvidenziale goccia d’acqua. La Península Mitre è l’estrema punta meridionale del Sud America, quella punta dell’Argentina che guarda a Est. Ieri abbiamo provato a bere l’acqua degli acquitrini rendendoci conto che, anche bollita, è imbevibile perché inquinata dai castori. Sembra incredibile, ma questi roditori, introdotti dall’industria delle pellicce, hanno devastato l’ecosistema locale. L’alternativa era bere quel liquido disgustoso o l’acqua salata del mare, poi abbiamo capito che si poteva raccogliere l’acqua che ogni giorno cade dal cielo ed è stata la nostra salvezza. Essere qui, senza tutte quelle comodità del nostro mondo, a partire da un collegamento internet, mi ha obbligato a risolvere i problemi, tanti, facendo solo ricorso al mio intuito. Mi ha fatto capire che a volte devi avere fortuna. Ormai siamo in strada da quasi sette settimane io e la mia compagna. Ci siamo uniti al gruppo di Adolfo, un attivista che da 20 anni frequenta la Península Mitre e che sta portando degli scienziati a studiare le colonie di leoni marini. Loro vanno a cavallo, noi corriamo su questi tappeti morbidi e la sera ci ritroviamo. Qui ogni estate arrivano diverse specie migratorie. Da oltre 30 anni organizzazioni no-profit, scienziati, attivisti e abitanti di queste terre si battono per renderle un territorio protetto. Salvaguardare le torbiere e il loro ecosistema è importante perché coprono solo il 3% della superficie terrestre ma contengono 550 miliardi di tonnellate di carbonio organico, il doppio di quello di tutte le foreste del mondo, e sono uno dei migliori alleati nella lotta al cambiamento climatico. Correre qui, tra venti e maree, è stata una delle esperienze più speciali della mia vita, ma mi rimane da visitare l’isola di Navarino.
A dicembre lì, a Sud di Ushuaia, ho partecipato al trail più meridionale del mondo e ho conosciuto Fede e Facu, che mi hanno ospitato a Ushuaia, ma ora voglio tornare per correre anche sul versante Sud e andare a esplorare un grande lago. Lì finisce il sentiero più meridionale del mondo. Oltre ci sono solo le Wollaston Islands e l’Antartide. Dovremo aspettare due giorni per poter attraversare il Canale di Beagle a causa dei venti forti e del mare mosso. Puerto Navarino, in Cile, è il piccolo attracco sull’isola ed è piccola pure la barca per la traversata. Ho pensato di non tornare vivo, è stata un’esperienza difficile tra le onde. Poi da Puerto Williams ci spingeremo sulle montagne e al lago. Le nostre tende, al risveglio, verranno ricoperte da una spessa coltre di neve. Non c’è niente e nessuno al di fuori del piccolo villaggio di Puerto Williams, gli smartphone non prendono. Ushuaia e i suoi turisti sono lì di fronte, ma basta girare l’angolo per essere nel nulla. Prima di Peninsula Mitre e Navarino siamo stati a correre nel Karukinka Natural Park, un parco privato sull’isola della Tierra del Fuego, gestito dalla Wildlife Conservation Society, in pratica un laboratorio a cielo aperto per la difesa dei diversi ecosistemi della Tierra del Fuego. Karukinka significa ultima terra dell’uomo. Ed è stato così anche per noi perché la tappa successiva era il Yendegaia National Park, nel cuore della Cordillera Darwin. Questa terra ha una storia simile al resto della regione: sfruttata per l’allevamento, che ha incoraggiato il genocidio delle popolazioni indigene, è stata comprata dal Conservation Land Trust che nel 2014 l’ha donata al Cile ed è stata dichiarata parco nazionale. Però si tratta di un parco che esiste solo sulla carta perché è inaccessibile e per questo estremamente selvaggio. I militari stanno costruendo una strada per renderlo accessibile, ma questo posto non sarà più lo stesso. Così, a causa anche dell’uso degli esplosivi, utilizzo comunque regolamentato per non disturbare l’avifauna locale, l’accesso è vietato. Però credo che se hai degli obiettivi e ti guida la passione, devi prenderti qualche rischio e, approfittando di una pausa nei lavori e del rischio basso di essere scoperti, siamo riusciti a entrare. Sono stato spesso in zone remote, ma questa volta è stato diverso, oltre ogni aspettativa. Non esiste nulla, neppure una traccia nella vegetazione. Lì, fuori dal mondo, ho riflettuto sulla fortuna di essere uno degli ultimi a vedere dei posti così selvaggi. La strada sicuramente cambierà i luoghi, però pensando ai benefici portati dal Parque Nacional Patagonia credo che i cambiamenti positivi saranno maggiori di quelli negativi. Correre su sentieri è un modo diverso per connettersi con i luoghi e le persone che li vivono. Più impariamo dalla natura, maggiore è la probabilità di essere coinvolti e rispettarla. Se tutti potessimo capire che i parchi nazionali non servono solo a proteggere un posto meraviglioso, ma sono strumenti che abbiamo per salvare il nostro pianeta, penso che li guarderemmo con altri occhi. E la corsa è un ottimo punto di partenza.
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Da casa al Monte Bianco e ritorno
Non che sul Monte Bianco non ci fosse già stata, nel 2010 e altre due volte l’anno scorso, però Hillary Gerardi, statunitense trapiantata nella valle di Chamonix, voleva inventarsi qualcosa per dare un senso alla permanenza forzata ai piedi del Monte Bianco e alla mancanza di gare nella stagione della pandemia. Così la trail runner e ambassador Black Diamond, guardando distrattamente la cartina in rilievo che ha in cucina, non ci ha pensato su due volte: partire da casa, a Servoz, all’inizio della valle di Chamonix, e salire dritta fino al Monte Bianco, per poi tornare a sedersi sulla sdraio nel giardino nella stessa giornata. Non la linea più logica, non la più bella, ma quella più diretta da casa alla vetta e ritorno. Partenza alle 2 di notte, arrivo in vetta alle 11,15 e rientro per godersi il panorama e riposarsi sulla chise-long. Ne è nato un simpatico cortometraggio, Home Summit Home, tutto da guardare, magari iniziando a pensare alla propria avventura dietro casa.
https://youtu.be/YyVYzuvu-f0
Patagonia per le comunità energetiche
Patagonia, il noto marchio di abbigliamento e accessori per l’outdoor, non è la prima volta che sostiene iniziative e cause ambientali anche non direttamente collegate con il mondo dello sport e delle attività outdoor. L’ultima azione prevede un sito e il documentario We the Power per mettere in luce il crescente movimento delle comunità energetiche in tutta Europa. Le comunità energetiche sono un sistema di produzione di energia in cui gruppi di cittadini producono la propria energia rinnovabile e condividono i benefici economici all'interno della comunità locale. La campagna mira a dimostrare i vantaggi che potrebbe portare questa rivoluzione energetica, sia alle persone che al pianeta.
Attualmente sono un milione i cittadini europei coinvolti nel movimento in veste di membri, investitori o clienti delle comunità energetiche. Entro il 2050 questo numero potrebbe aumentare fino a 260 milioni di cittadini e le comunità energetiche potrebbero contribuire a generare fino al 45% dell’energia dell’Unione Europea, fornendo posti di lavoro locali, bollette ridotte, un ambiente più sano e un tessuto sociale più forte.
La campagna We the Power chiede ai cittadini europei di immaginare un nuovo sistema energetico, libero dai grandi monopoliestrattivi energetici che controllano elettricità e denaro, oltre ad aggravare la crisi climatica. Al posto di questo modello obsoleto e dannoso c'è quello della produzione di energia rinnovabile locale, di proprietà della comunità, socialmente innovativo ed economicamente vantaggioso per le comunità locali.
L'obiettivo della campagna è quello di spronare i cittadini a scegliere come fornitore di energia elettrica una comunità di energia rinnovabile, a unirsi o investire in un gruppo - favorendo così la creazione di posti di lavoro, la crescita della comunità e sostenendo gli abitanti del posto che vivono in condizioni di povertà energetica - o a fondare una nuova comunità energetica. Tutte queste azioni potrebbero accelerare la crescita di questo importante movimento in tutta Europa.
Il film di 30 minuti e la campagna presentano le storie dei pionieri delle comunità energetiche come Dirk Vansintjan, fondatore e presidente della federazione europea delle cooperative di energia rinnovabile REScoop. Altri leader del movimento includono Sebastian Sladek, i cui genitori hanno fondato EWS Schönau negli anni '80, come risposta diretta ai potenziali pericoli nucleari derivanti dal disastro di Chernobyl. Nel film vengono presentati anche Agamemnon Otero, MBE, direttore e fondatore di Repowering London ed Energy Garden – che ha introdotto nel movimento il concetto di resilienza della comunità e di buy-in – e Nuri Palmada, membro del consiglio della comunità energetica spagnola Som Energia.
Il film è stato diretto da David Garrett Byars, il pluripremiato regista del documentario Patagonia Public Trust, che è stato visto 2,5 milioni di volte dal lancio nel settembre 2020.
Per saperne di più sulla campagna We the Power di Patagonia visita il sito Patagonia.