Io e Ueli

«Era tanto un maniaco della precisione quanto, talvolta, completamente fuori dagli standard e anche un po’ impacciato in quelle che sono le cose quotidiane, a noi più normali» scrive Simone Favero nell’articolo su Ueli Steck (Io e Ueli) che apre Skialper 130 di giugno-luglio. Ueli Steck è il mantra che ricorre in tutte le pagine di Skialper perché è l’ispiratore di tutti gli alpinisti che abbiamo intervistato nel numero dedicato all’alpinismo e a The Swiss Machine abbiamo dedicato anche la copertina, una bella foto di Jonathan Griffith scattata su Supercouloir. Però di Steck è stato scritto già tanto e volevamo un ritratto diverso, più intimo. Dell’uomo prima ancora che del recordman alpino. Così Simone Favero, che ha lavorato gomito a gomito con Ueli nel reparto marketing di Scarpa, ha scritto parole che lo rendono (un po’) più umano.

«Dormivamo spesso nello stesso appartamento, tre stanze messe a disposizione da Scarpa quando facevo tardi in ufficio (sempre, in pratica) che condividevo con gli ospiti che venivano in azienda. Con alcuni era divertente, con Ueli era uno spasso e accadeva sempre qualcosa di assurdo: uno dei must era l’allarme che partiva la mattina a causa delle sue uscite a orari impossibili per andare a fare allenamento: anche venti chilometri di corsa attorno ad Asolo prima dell’alba. Poi una doccia, dieci ore con il team prodotto, e quasi sempre guidava la sera stessa fino a casa, per non perdere l’alba della mattina dopo e andare a provare i prototipi che aveva appena sviluppato. Ricordo che tutti i discorsi erano incentrati sui materiali, ogni dettaglio doveva essere più leggero; un’ossessione quella verso la leggerezza che non era mai fine a sé stessa, ma racchiudeva anzi una necessità ed era un primigenio stimolo a migliorarsi, darsi obiettivi in cui l’asticella doveva sempre alzarsi di almeno due tacche». Questo è solo uno degli episodi che troverete in Io e Ueli, su Skialper 130, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.

© photo courtesy Suunto

Cosa resterà di quei formidabili anni ‘90

È di questi giorni la notizia del record di Franco Collé sul Monte Rosa. Il suo non sarà probabilmente l'unico record di skyrunning di un anno senza gare e si inserisce in una storia gloriosa che nasce proprio con il record del 1988 di Valerio Bertoglio sullo stesso itinerario. Su Skialper 129 abbiamo ripercorso l'epopea dello skyrunning in quei favolosi anni '90 e per celebrare l'impresa di Franco ve la riproponiamo.

Nel 1988 Valerio Bertoglio è salito e sceso da Staffal, nella valle di Gressoney, alla vetta del Monte Rosa, in 5h29’33’’. L’anno dopo Marino Giacometti ha coperto il percorso Alagna-Punta Gnifetti andata e ritorno in 6h07’07’’. Valerio, Marino e i primi mountain runner, inconsapevolmente, hanno acceso la scintilla che avrebbe infuocato tutti gli anni ’90 e l’inizio del secolo, ma soprattutto hanno dato vita allo sport di velocità in montagna e, indirettamente, al mondo meno estremo del trail running, che li avrebbe poi fagocitati. Scrive il professor Giulio Sergio Roi, nel 1995 tra i fondatori della FSA (Federation for Sports at Altitude) nell’interessante libro Skyrunning, l’abc di chi corre in quota pubblicato da Correre: «La parola skyrunner è stata introdotta da Marino Giacometti all’inizio degli anni ’90 del secolo scorso, proprio per indicare quello che allora era chiamato mountain runner, che partendo da un paese del fondovalle tentava di raggiungere la vetta di una qualsiasi montagna, situata a una quota maggiore di 2.000 metri, lungo il percorso più breve e nel minor tempo possibile. La quota di 2.000 metri, che indica il limite inferiore della media quota, è stata arbitrariamente scelta come la quota al di sopra della quale gli effetti dell’altitudine cominciano a diventare importanti, poiché comincia a essere evidente la riduzione della massima potenza aerobica che penalizza le prestazioni di lunga durata e può già comparire il mal di montagna».

Tutte le intuizioni hanno bisogno di sognatori e visionari e anche lo skyrunning ha avuto i suoi, a partire da Marino Giacometti, dallo stesso Giulio Sergio Roi e da Enrico Frachey. Il primo è stato atleta e inventore di uno sport al quale ha dato regole e organizzazione attraverso la FSA e poi l’International Skyrunning Federation, il secondo, medico dello sport, ha posto le basi per studi sulle prestazioni in alta quota che ancora oggi fanno discutere. Frachey, amministratore delegato di Fila e grande appassionato di montagna, agli inizi degli anni ’90 aveva capito la potenza comunicativa dello sport di velocità in quota e incoraggiato Giacometti a organizzare la prima gara in altitudine. Perché le due parole chiave di un’epoca forse irripetibile sono proprio quota e velocità e sono alla base di tutta la filosofia fast & light che permea la nostra passione per la montagna. «Lo skyrunner è un atleta che fa della velocità un fattore di sicurezza» dice Giulio Sergio Roi. E lo fa in alto. Tutto il movimento dello skyrunning è un ingranaggio perfetto per lo spettacolo e per studiare la prestazione sportiva in altitudine. Per arrivare a intuirne i limiti estremi.

Il 28 luglio 1991 quattro atleti – Adriano Greco, Marino Giacometti, Angelo Todisco e Sergio Rozzi – partecipano alla prima edizione della salita al Monte Bianco da Courmayeur con ben 52 chilometri di sviluppo, vinta da Adriano Greco in 8h48’25’’. Al Monte Bianco si disputarono tre edizioni consecutive, fino al 1993, e la gara faceva parte del Fila Skyrunner Trophy. Il tempo migliore è quello del 1993 di Adriano Greco (7h06’31’’), poi nel 1994 il maltempo costrinse ad annullare la prova e non se ne fece più niente. Ma era scattata la scintilla. Dal 1992 al 1998 si organizza il Fila Skyrunning Trophy, poi diventato Skymarathon Trophy, Skymarathon Circuit e Skyrunning Circuit. È un’epopea fantastica con regole semplicissime: si parte dal fondovalle e si raggiungono le cime più famose delle Alpi, tutte sopra i 3.000 e molto spesso i 4.000 metri, rientrando a valle nel minor tempo possibile. Nel 1992 si sale sull’Adamello, sul Monte Rosa e sul Monte Bianco e sono 51 in totale gli atleti-alpinisti iscritti. Il Monte Rosa è la gara più longeva, disputata nel 1992 (anche se su percorso modificato causa maltempo), 1993, 1994 e 1996, poi dal 2002 al 2011 rinasce come Monte Rosa Sky Marathon, ma su un percorso diverso. Nel 1995 si inizia a correre anche sul Bretithorn occidentale e nel 1998 Cervinia ospita il primo Campionato Mondiale di Skyrunning che vede al via 46 atleti di 18 Paesi. La Skymarathon, vinta da Bruno Brunod, arriva proprio fin sul Breithorn Occidentale, a 4.165 metri.

Adriano Greco nel 1993 sul Monte Bianco ©Dario Ferro/FSA

L’idea di correre in alta quota esce dai confini alpini e si iniziano a disputare gare in Messico, in Kenya e in Tibet. In America si corre sull’Iztaccihuatl, fino a 5.286 metri. Nel 1996 la prima edizione è stata vinta da Ricardo Meija. Nel 1995 sul Mount Kenia (5.199 metri) si assiste all’avvincente duello tra quelli che saranno due degli indiscussi protagonisti di quegli anni: Fabio Meraldi e Matt Carpenter. La spunta il valtellinese in 5h03’22’’. Meraldi era stato anche protagonista di un episodio che ha dell’incredibile proprio in Messico. La gara del 1996 avrebbe infatti dovuto disputarsi sul vulcano Popocatépetl (5.465 m) ma il percorso fino alla vetta non era accessibile per motivi di sicurezza perché il vulcano era attivo. Fabio e Pep Ollé vollero comunque fare un giro esplorativo in vetta e furono arrestati al rientro perché le guardie del parco avevano visto le loro tracce sulla neve. Il viaggio dello skyrunning oltre i confini dell’Europa ha un significato ben preciso: sempre più in alto. Così si arriva al punto massimo dello studio della prestazione in quota, la Everest Skymarathon, corsa nel 1992, 1993, 1994, 1995, 1996 e 1998. La prima edizione della Everest Skymarathon raggiunge quota 5.050 metri, mentre le altre si svolgono su anelli con dislivelli inferiori ai 200 metri. La distanza è quella della tradizionale maratona, anche se solo quella del 1998 è stata certificata dall’Association of International Marathons and Distances Races. Quattro gare vengono disputate a quota 4.300 metri, una a 5.200 metri. A parte la prima, con 1.470 metri di dislivello positivo, vinta da Greco e Meraldi, le altre sono state vinte tutte da Matt Carpenter. «Carpenter è stato l’atleta, dal puro punto di vista della corsa, più forte che ho potuto studiare, mentre quando iniziavano le difficoltà, non essendo un vero skyrunner, emergevano altri» dice Sergio Giulio Roi. La miglior prestazione ufficiale su maratona a 4.300 metri è proprio quella di Matt Carpenter nel 1998 con 2h52’57’’, mentre, seppur non certificata, quella a 5.200 metri è sempre dell’americano in 3h22’25’’. Le maratone in quota hanno permesso la realizzazione del Peak Performance Project, un progetto di ricerca scientifica promosso dalla FSA. L’obiettivo era rispondere ad alcune domande: è pericoloso correre in quota? Danneggia cuore e cervello? Qual è il limite della prestazione in alta quota? «Il Peak Performance Project ha portato a numerose pubblicazioni scientifiche e si è scoperto che è possibile correre ininterrottamente per 42 chilometri sopra ai 5.000 metri e in un percorso pianeggiante non innevato è teoricamente possibile utilizzare la corsa come forma di locomozione fino a un’altitudine di 7.000 metri» dice Sergio Giulio Roi. Altre scoperte? Si può correre a 4’/km sopra i 4.000 metri, lo skyrunner sale a circa 1.200/1.500 metri di dislivello ora, anche di più nelle gare corte e scende fino a 3.000 metri/ora, non sono emerse patologie significative legate alla prestazione in quota e negli atleti che hanno corso fino a 5.000 metri non si sono mai riscontrati casi di mal di montagna.

«I dati raccolti sugli skyrunner che hanno partecipato a maratone disputare a livello del mare e in alta quota in Tibet, a 4.300 e 5.200 metri, indicano che in termini di prestazione gli atleti meno veloci sono più penalizzati in quota rispetto ai più veloci. Ad esempio il vincitore della maratona evidenzia a 4.300 metri di quota un peggioramento di velocità del 21 per cento rispetto al record personale a livello del mare, mentre l’ultimo classificato evidenzia un peggioramento di velocità circa doppio, del 42 per cento; queste caratteristiche sono dovute alla diversa capacità di sfruttare un’elevata percentuale della massima potenza aerobica, al diverso costo del lavoro dei muscoli respiratori in quota e solo in parte alle diverse caratteristiche dei terreni» dice Sergio Giulio Roi. Gli anni ’90 volgono al termine, ma non la voglia di exploit in alta quota, che tocca anche altri sport. Nel 1998 nasce lo SkySki du Mont Blanc, che si corre fino al 2002. È un raid di skyrunning, scialpinismo e alpinismo inventato da Romano Cugnetto per promuovere la preparazione sportiva e la velocità in montagna come concetti di sicurezza. Si corre da La Villette, vicino a Courmayeur, fino al Rifugio Torino, poi si mettono gli sci per toccare Col du Rochefort, Flambeau, d’Entrèves, Base de la Vierge, Col du Rognon e si raggiunge l’Aiguille du Midi con tecnica alpinistica. È una gara a squadre e la prima edizione la vincono Ettore Champretavy e Leonardo Follis che coprono i 30 chilometri e 3.500 metri di dislivello in 3h48’30’’. Già nel 1992 si era corsa la Skyraid Adamello che prevedeva bici, skyrunning e alpinismo, ma la massima espressione di questi raid  multisport è stata nel 2002, in occasione dell’anno internazionale delle montagne, con l’Alpine Skyraid da Courmayeur a Cortina d’Ampezzo. Le squadre di tre-quattro atleti dovevano percorrere 500 chilometri e 23.000 metri di dislivello (in otto tappe) utilizzando la bici o mountain bike fino a 2.000 metri di quota, fino ai 3.000 in assetto skyrunning e oltre con tecnica alpinistica o scialpinistica. Per la cronaca la vittoria andò al Team Vibram di Stephane Brosse, Bruno e Dennis Brunod, Jean Pellissier in 27h00’40’’ e al Team Fila di Gisella Bendotti, Arianna Follis, Gloriana Pellissier e Alexia Zuberer. La combinata tra skyrunning, sci e bici era diventata di moda già prima e nel 2000 è stata organiz- zata la prima Olimpiade d’alta quota, gli Skygames, sulla scia delle imprese skybike di Giacometti del 1993 al Monte Rosa e del 1997 al Monte Bianco, raggiunto in 23 ore da Genova unendo bici e skyrunning.

Poi piano piano si è scesi di quota, lo skyrunning ha dato origine ad attività meno tecniche e meno d’élite, si è diffuso il trail running e la corsa del cielo è rimasta un sogno per pochi eletti. Ma tutto questo non sarebbe stato possibile grazie ai favolosi anni ’90. Sabato 23 giugno 2018 Franco Collé e William Boffelli hanno chiuso la salita e discesa da Alagna alla Capanna Margherita in 4h39’59’’ in quella che è stata la prima edizione moderna della gloriosa gara del Monte Rosa, rinata a coppie sulla distanza di 35 chilometri e 7.000 metri di dislivello totale. La Monterosa Skymarathon si è disputata anche nel 2019 e, al momento di andare in stampa, è ancora in calendario, ma rinviata a luglio e in data da destinarsi. Il Monterosa segna il ritorno dello skyrunning alle sue origini: sport d’elite, per pochi, oltre i 2.000 metri, che richiede progressione anche con i bastoncini, con tratti attrezzati o l’uso delle mani. E dei gran polmoni. Come quelli che servono alla Dolomyths, al Kima, alla Pikes Peak, al Sentiero 4 Luglio o al Uyn Vertical Courmayeur Mont Blanc. Perché lo skyrunning è sempre stato vivo. E il futuro ha un cuore antico.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 129, SE VUOI ACQUISTARLO CLICCA QUI

SE VUOI RICEVERE COMODAMENTE TUTTI I NUMERI DI SKIALPER A CASA TUA, ABBONATI

Matt Carpenter in Messico © Dario Ferro/FSA

Il sogno di Franco Collé: Gressoney-Monte Rosa andata e ritorno in quattro ore e mezza

Crolla un record che durava dal 1997. Ieri alle prime luci dell’alba Franco Collé ha scritto la sua firma sul libro delle salite in velocità sul Monte Rosa. Partenza alle 4,30 da Gressoney, a quota 1.635, per arrivare alla Capanna Margherita (4.554 m) e rientrare in 4h30’45’’, 14’15’’ meno di Bruno Brunod nel 1997. Rimane però di Brunod il record di salita, che vede Collé dietro di 4’. «La neve nell’ultimo tratto dal Colle del Lys alla Capanna Margherita era polverosa e mi ha creato molte difficoltà, ma in discesa le condizioni erano ottimali» ha commentato Franco. La linea seguita da Collé copre 31 chilometri passando per il rifugio Mantova, Gnifetti e Colle del Lys. Erano tre anni che Franco pensava a questo FKT e l’assenza di gare in questa stagione estiva ha permesso di concretizzare il sogno di andare e tornare dalla montagna che vede dalle finestre di casa in quattro ore e mezza.

In un lungo post su Facebook, Marino Giacometti, padre dello skyrunning, ha riassunto la storia dei record sul Monte Rosa, dai vari versanti: «Nel 1988 un notiziario RAI riportava che un certo Valerio Bertoglio aveva salito il Monte Rosa in 4 ore. Da alpinista che ha salito molte volte il Monte Rosa, inclusa la parete est, uno dei miei pallini diventa farlo in meno di 4h. Ci riesco nel 1989 da Alagna, 3h53’. Solo qualche anno dopo scopro che il primo record di 4h (5h29’ a/r) era però da Gressoney, vale a dire circa 400 metri di dislivello e qualche chilometro in meno. La storia continua con le gare da Alagna dove Fabio Meraldi nel 1994 porta il record-gara a 3h14’ in salita e 4h23’27’’a/r. Nello stesso anno ci scappa il mio record da Genova alla vetta 16h30’ (tuttora imbattuto dal lato di Alagna). Nel 1997 in un ritaglio di tempo avevamo organizzato a Gressoney con Bruno Brunod, RAI Aosta e un cronometrista che certifica la salita in 3h05’ e ar 4h45’. La storia prosegue con il ritorno della gara a coppie da Alagna in cui si sfiora il record di Meraldi nel 2018 mentre come prestazione individuale (FKT) ci riesce per un soffio Marco De Gasperi, salita in 3h10’ e ar in 4h20’34’’ (3’ sotto il tempo di Fabio Meraldi in gara). Nel 2019, dal mare, ci prova Nico Valsesia passando però da Gressoney in 14h31’. Nel 2020 da Gressoney, Franco Collé abbassa il record a/r di 4h30’45’’ ma la miglior salita da questo versante resta di Bruno Brunod, 3h05’ contro 3h09’ impiegate da Collé».


Desert Love Affair

Quando chiudo gli occhi e lascio divagare la mente, mi ritrovo sulla vetta di una montagna innevata e illuminata dai raggi del sole, con il riverbero e una leggera brezza che penetra nel casco e fa vibrare ogni capello. Essere su una vetta mi trasmette una sensazione di familiarità, ma anche di passione e avventura. Ma ora, con gli occhi chiusi e il vento che fa svolazzare i capelli, sento come un prurito sulla pelle. Attraversa la faccia e arriva ai denti. Sabbia. Sabbia negli scarponi, sotto gli sci e nella pelle. Questa volta, sulla vetta di una grande duna del Sahara, con una linea vergine da sciare sotto di me, mi ritrovo immerso in un corteggiamento con il deserto.

Il sole aveva assunto una tonalità rossastra filtrato da quelle nuvole di sabbia. Non c’erano alberi, né moto che rombavano per le strade e neppure negozi illuminati fino a notte fonda come a Marrakech. Era una città piatta che pullulava di vita e di commerci che si adagiava sulle colline. Le colline piano piano diventavano montagne e le montagne si perdevano nel cielo sporco. Dai ciliegi in fiore ai pini, dalla neve alla sabbia: avevamo viaggiato nove ore verso Sud-Ovest attraverso il Marocco e le valli dell’Atlante fino al villaggio di Merzouga, nella regione di Erg Chebbi, deserto del Sahara. Dietro di me c’erano i pro skier Chad Sayers e Tof Henry e il fotografo Daniel Rönnbäck che stavano sorseggiando una calda tazza di tè del deserto e sgranocchiando i biscotti che avevano trovato alla stazione di servizio. Un viaggio fino in Marocco per sciare dove quasi tutti non l’avrebbero fatto. Chad cercava la curva perfetta nella powder con profumo di deserto, Tof nuovi couloir in stile Chamonix e Daniel di catturare quell’allure esotica di un viaggio con gli sci in Africa attraverso l’obiettivo. E poi io, che mi sono unito all’avventura di una vacanza sciistica diversa in qualità di quarto nomade. Davanti a noi c’era Muhammad, la nostra guida del deserto. Ci siamo seduti sotto il cielo nuvoloso con la sabbia che stava ancora depositandosi al suolo dopo due giorni di tempesta. La luna piena bucava le nubi con la sua luce chiara e illuminava le sagome dei cammelli di Muhammad, Mali e Jimmy. Stavamo per lasciare il comfort della casa di Muhammad per un accampa- mento da dove il giorno successivo saremmo partiti per la nostra pellata sulle dune del deserto.

© Daniel Rönnbäck

Ora il pulviscolo della sabbia era sparito dall’aria, lasciando trasparire in tutta la sua potenza il contrasto tra il bronzo della sabbia e il blu intenso del cielo. Le nuvole correvano sopra di noi, creando un filtro ai potenti raggi del sole. Alle 8 il termometro segnava 22 gradi e la pelle iniziava a scottare. Con i turbanti ad avvolgere i capelli, gli sci sulla schiena e i bagagli ridotti al minimo siamo partiti in groppa ai cammelli verso un infinito di sabbia. Le tracce tra i granelli raccontavano le storie di altri viaggi. Nonostante il vento che aveva soffiato da Sud a Nord erano rimaste le tracce di altri cammelli passati prima dei nostri, di pesci delle sabbie (una specie di lucertola tipica del deserto) che scappavano dai topi del deserto e le piccole orme degli scarabei. Piccoli e paffuti, tutti neri con dei puntini sul guscio, gli scarabei avevano rimescolato la sabbia facendola sembrare ancora vergine e il Sahara si era fatto bello per noi dopo giorni di tempesta.

Eravamo da poco arrivati al campo che Tof stava già scrutando la sua prima discesa. Le dune di sabbia circondavano l’accampamento e creavano dei miraggi fatti di spine e couloir. Il vento del Sud aveva deposi- tato granelli di sabbia sui versanti Nord, creando delle piccole valanghe sui pendii oltre i 40 gradi. Con gli sci sugli zaini e gli scarponi ai piedi, eravamo pronti per la nostra avventura sulle montagne più alte che vedevamo. Jimmy e Mali salivano veloci nella sabbia lasciando impronte grandi il doppio di una mano umana. Eleganti e potenti allo stesso tempo, i cammelli ci hanno fatto guadagnare quota al comando di Chad e Tof. Siamo passati dalle valli di sabbia alle creste. Stare in groppa a un cammello è simile a cavalcare un cavallo, con la differenza che sembra di essere tre volte più alti ed è un ottimo punto di osservazione alla ricerca delle migliori linee. Man mano che salivamo di quota, aumentava la pendenza e a un certo punto abbiamo dovuto scendere e proseguire con gli sci ai piedi. La sabbia era calda e abrasiva e non abbiamo avuto bisogno delle pelli per scalare questi pinnacoli di 350 metri. Ogni duna cambiava mentre la guardavi, trasformata dalle forti folate di vento che arrivavano dall’Algeria, distante solo 17 chilometri. La serie di dune era diversa da come me la sarei aspettata: solo cinque chilometri di larghezza, ma ben 50 da Nord a Sud.

© Daniel Rönnbäck

Le più grandi erano al centro di quella striscia e le loro creste proiettavano ombre nere sulla sabbia più in basso. I miei sci per fortuna salivano senza nessun problema su quella sabbia così grippante e quasi non mi sono accorto di essere arrivato in cima e avere tutto il deserto ai miei piedi. Tof si è messo la sua maglietta e ha aperto le zip di ventilazione dei pantaloni mentre Chad serrava bene gli scarponi  e chiudeva gli attacchi. C’era eccitazione nell’aria ed eravamo in vetta al Sahara. Ero curioso di vedere Tof disegnare la prima discesa su una spina di 200 metri rivolta a Nord. Con le braccia larghe come ali e la nuvola di sabbia dietro come se fosse neve, si è messo sulla linea di massima pendenza. Chad ha infilzato i bastoni nella sabbia per spingersi e guadagnare velocità. La sabbia creava uno strato appiccicoso che frenava gli sci, come quando l’acqua ti rallenta sulla neve marcia. Il trucco era quello di riuscire a trovare lo strato più compatto dove potere scivolare piuttosto che sprofondare nella soffice polvere e impantanarsi. Chad è riuscito a disegnare una perfetta C dietro di lui, lasciando una scia esile. Sulla neve ti giri per guardare con soddisfa- zione i tuoi otto, sulla sabbia hai solo un momento per dare uno sguardo, prima che il vento cancelli i segni del tuo passaggio. Ho scritto la mia storia sulle dune, ma l’unica prova che è rimasta è stata la sabbia che si è infiltrata negli scarponi.

Giro dopo giro, salita dopo salita, Tof e Chad hanno preso confidenza e il sorriso sui loro volti ne era la prova più evidente. Hanno sciato spine e versanti aperti fino a quando il sole ha iniziato a tramontare. Il bagliore della luce si è trasformato in un arancione vivo quando finalmente il vento da Sud è diventato fresco. In vetta, con gli occhi chiusi e la faccia illuminata dagli ultimi raggi, con il vento che accarezzava la pelle e la sabbia soffice sotto i piedi, mi sono sentito a casa, proprio come su una vetta innevata. Tof ci ha lasciati per godersi un’ultima discesa fino all’accampamento mentre i turisti erano saliti sulla duna più alta per vedere il tramonto. La sera è stata allietata dal calore delle braci di tamerice che hanno rosolato una pizza del deserto, carne e verdure. Muhammad e i suoi portatori ci hanno trasmesso tutto il loro amore per l’Africa battendo le mani sui tamburi e cantando. Muhammad è uno di noi.

Ha viaggiato 52 giorni in groppa a un cammello da Timbuktu, dove vive la sua famiglia, in cerca di legno di frassino da bruciare, nuove opportunità e vino. Il Marocco è la creazione di un nomade. La sua cultura, la religione e le abitudini sono il risultato del vagabondaggio di Berberi, Arabi e viaggiatori che hanno traversato il più grande deserto del mondo fino alle vette innevate dell’Atlante o al Mediterraneo alla ricerca di commerci, viveri e amore. Con la sabbia intrappolata tra gli interstizi del mio attacco Kingpin e il turbante rosa legato allo zaino, anche io ho lasciato un segno nel Paese dei nomadi. Mentre le tracce sparivano nella sabbia e le dune venivano modellate dal vento, mi sono sentito a casa. Gli sciatori sono dei nomadi. Ogni montagna è una nuova avventura da scrivere. Giriamo il mondo in cerca di linee ancora da sciare, grandi pareti e nuovi tipi di neve. O sabbia. Siamo una tribù di entusiasti girovaghi. Senza uno stile di vita precostituito, solo un’avventura dietro l’altra. Dando il benvenuto a nuovi nomadi da fare entrare nelle nostre vite e nuove discese nel nostro viaggio.

Donny O'Neill

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 126

© Daniel Rönnbäck

Enrico Brizzi, partire adesso

Scusa Sarax, imprevisto con le ragazze, 15 minuti e ci sono.

Il messaggio aleggia azzurrino sullo schermo del mio smartphone da quattro soldi. Avevamo appuntamento mezz’ora fa, ma il telefono suona a vuoto. Sorrido sornione e digito:

Don’t worry, man. Io, nel frattempo, butto sotto la doccia il mio bimbo. A frappé!

È così che va per noi papà separati: quando sei coi piccoli, loro vengono prima di tutto. Non c’è santo che tenga. E se io ho vita abbastanza facile col mio Alberto che, durante l’intervista telefonica (presto trasformatasi in un fiume in piena), ascolta divertito, legge Topolino e gioca col Lego, Enrico, lo scrittore che c’è dall’altro capo del telefono, ha un ménage un po’ più movimentato nella sua casa di Rimini: insieme a lui, in questa ventosa giornata di fine giugno, ci sono le sue quattro figlie e la nipotina.

Enrico Brizzi, da che lo conosco e mi nutro delle sue pagine (e son quasi cinque lustri) è una meravigliosa scoperta. Come narratore, certo. Ma, soprattutto, come strepitoso essere umano. Autore da un milione di copie a poco meno di vent’anni - il suo Jack frusciante è uscito dal gruppo è stato il romanzo culto di almeno tre generazioni (una era la mia) - tradotto in più di venti lingue, oggetto di studio di cattedratici e laureandi, Enrico fa parte della storia della letteratura italiana. Brizzi non si è crogiolato sul successo degli esordi, ha saputo costantemente reinventarsi surfando tra i generi: dal noir precocissimo di Bastogne alla trilogia ucronica di Lorenzo Pellegrini, ambientata in un dopoguerra immaginario in cui l’Italia fascista ha rotto l’alleanza con Hitler ed è uscita vittoriosa (con tanto di impero coloniale intatto) dalla Seconda Guerra Mondiale; dai geniali saggi sportivi che raccontano le sue passioni, calcio e ciclismo su tutte (il recente Nulla al mondo di più bello, sulle stagioni calcistiche a cavallo dell’armistizio, è appena uscito per i tipi di Laterza; col glorioso Di furore e lealtà, biografia del campione Vincenzo Nibali, ha vinto il Premio bancarella Sport 2015) all’ultimo strepitoso romanzo sulla Bologna dei primi Novanta divisa tra curva, droghe, ribellione, punk e l’immancabile struggente amore adolescenziale. Tu che sei di me la miglior partechiude il cerchio aperto da Jack Frusciantequasi un quarto di secolo fa (nel libro compaiono sia Alex che Martino, protagonista e antieroe del fortunato proemio brizziano) in un poderoso crescendo di chitarre distorte e colpi sotto la cintura. In mezzo a questo florilegio di pagine da antologia, c’è un punto di svolta. Una fase sorprendente della produzione letteraria dell’artista che entusiasma e continua a spiazzare: dal 2004 Enrico Brizzi scrive di viaggi a piedi. Insieme ai suoi buoni cugini, i pellegrini con cui ha fondato il gruppo degli Psicoatleti (perché è il polpaccio che spinge, ma è la testa che ti porta a fine tappa, c’è poco da fare…), ha compiuto alcuni straordinari cammini: dal Tirreno all’Adriatico, da Canterbury a Roma lungo il percorso della Via Francigena e poi da Roma fino a Gerusalemme. E ancora: ha percorso l’Italia da Nord a Sud durante i festeggiamenti per il centocinquantesimo anniversario del tricolore, ha camminato da Torino a Finisterre, calpestato ogni singolo miglio del Vallo di Adriano e, di recente, calcato palmo a palmo i terreni carichi di storia delle Residenze Reali Sabaude col patrocinio dell’omonimo consorzio.

Da ognuno di questi viaggi è nato (o sta per nascere) un libro, un racconto, una entusiasmante giustapposizione di parole, pagine, passi, immagini, musica ed emozioni. E pensare che tutto è nato quando l’autore era stanco di scrivere. Enrico me lo racconta appeso alla cornetta mentre il vento di Rimini sferza il ricevitore. Io e Alberto ascoltiamo rapiti. L’anno di svolta, s’è detto, è il 2004, ma in realtà il richiamo della strada e dei sentieri viene da molto più lontano. Il primo grande viaggio risale a quando Enrico aveva vent’anni: da Bologna a Cervia, cinque giorni in autonomia tra le colline: nel cuore quella voglia matta di libertà germinata da bambino, ai piedi d’una montagna povera e generosa. E maturata con pazienza nei campi scout. Enrico parte con un amico, Giovanni, destinato anch’egli a guadagnarsi il pane battendo sui tasti (Giovanni Cattabriga, a.k.a. Wu Ming 2, membro fondatore del collettivo di scrittori Wu Ming). È un viaggio fatto di stupore e ingenuità: «Ci portammo dietro un’ascia. Si sa mai, magari si fan brutti incontri, pensavamo…». Gli scappa da ghignare. «Oh, hai in mente quanto pesa un’ascia? Mai più nella vita! Però finché non prendi due misure non impari nulla. È là che abbiam cominciato a capire cosa significa andare a piedi». La conferma della meraviglia arriva al ritorno, in autobus, verso casa: le colline che sembravano infinite scorrono veloci via dal finestrino. I due giovani viandanti riconoscono i bivacchi dove hanno passato le notti avvolti in una coperta di stelle e intuiscono che il mondo, per essere conosciuto davvero, va misurato un passo alla volta.

La famiglia di Brizzi ha radici profonde, che fan sognare e profumano d’avventure salgariane. «La mia gente ha campato di farina di castagne praticamente per mille anni. I miei zii, bisnonni e trisavoli, fin dal primo momento che è stato possibile imbarcarsi su una nave e solcare l’Oceano, per scansar la fame han preso a imbarcarsi. Partivano: si faceva la naja e poi via, da Genova verso il Nuovo Mondo, a cercar fortuna. Le loro mani forti e ingombre di calli hanno costruito le ferrovie del Missouri. Son tornati cinquantenni con le tasche piene e han preso mogli giovani, nate molti anni dopo la loro partenza». Enrico a camminare è avvezzo fin dalla culla. «La montagna dove son cresciuto, dove mamma ci portava a fare le prime escursioni, è la stessa che Francesco Guccini ha scelto come casa. Ho imparato a masticare dislivello perché mamma ci diceva: se volete la merenda, bambini, bisogna arrivare al rifugio! e noi dietro, senza paura. S’impara così ad andare». E sta tirando su le sue ragazze con lo stesso spirito con cui è diventato grande: «La prima notte in tenda, in quota, le più grandi l’han fatta che avevano neanche sei anni e ancora ne parlano come di una delle più belle esperienze della loro vita. Le ho portate sul Corno alle Scale, la montagna classica di noi bolognesi».

A far sul serio coi viaggi a piedi, però, Brizzi inizia in quel mitico 2004, con la Tirreno-Adriatico. Quella traversata ormai mitica, da cui scaturisce il romanzo Nessuno lo saprà, coincide con un turning point della vita dello scrittore. È l’autentico momento di svolta. A dieci anni esatti dall’inizio della sua avventura editoriale, per la prima volta, Enrico si ritrova a provare una sensazione mai sperimentata prima: «Stavo scrivendo una storia per Mondadori e non provavo nessuna emozione. Mi pareva di scrivere semplicemente perché dovevo ottemperare a un contratto. Era scioccante: è come accorgersi, di punto in bianco, che la donna con cui stai da una vita non prova più niente per te». La scrittura, che prima era piacere puro e autentico, è di colpo diventata fatica. È allora che Enrico decide di prendere una pausa dalla tastiera. Di staccare andando a fare qualcosa che ama da sempre: perdersi per le montagne con uno zaino in spalla. Dopo la Bologna-Cervia ci sono stati altri viaggi, sia con Giovanni che con altri ex compagni scout del Bologna 16. Ma è tempo di alzare l’asticella. E allora perché non realizzare quel sogno tante volte immaginato in classe, durante i giorni più noiosi, fissando la cartina d’Italia? Attraversare lo Stivale nel senso stretto, proprio come gli eroici ciclisti della Tirreno-Adriatica tante volte acclamati per le strade dell’infanzia. Ma a piedi.

Il viaggio dura quasi tre settimane e ad accompagnare Enrico ci sono suo fratello e altri amici, che fanno piccoli pezzi di strada con lui, alternandosi lungo il cammino. L’unica tappa prefissata è l’approdo a Perugia da un sodale bolognese trasferitosi colà. Ed Enrico ci sbarca quando è tempo, senza avvisare, seguendo la poesia dei passi. L’amico riparte con lui dopo una cena luculliana e insieme raggiungono l’Adriatico. Quel viaggio è seminale. Per la scrittura, per il ritrovamento della pace interiore e della nuova direzione da prendere. Quel viaggio non sarà l’ultimo. Soltanto il primo di moltissimi. L’asticella prende a volare, tanta è la fretta che ha d’essere alzata ancora, e ancora. Nel 2006 Brizzi parte da Canterbury alla volta di Roma, proprio come un pellegrino medievale, e il racconto di quell’avventura inestimabile diventa un reportage a puntate per L’Espresso. Due anni più tardi il sogno di proseguire il cammino, proprio come facevano i fratelli pellegrini del passato, diventa realtà, e i buoni cugini partono da Roma per raggiungere Gerusalemme. È uno di quei voli pindarici che, solo a pensarli, fanno battere il cuore e tremare i polsi. E di solito, quando racconti l’itinerario c’è sempre qualcuno che dice: «Sì, ma c’è l’acqua in mezzo». Enrico risponde sorridendo: «C’era anche nel 1200… e noi l’abbiamo attraversata come si faceva allora».

Da Roma a Brindisi a piedi: niente Via Appia che è troppo trafficata, ma dritti sui monti d’Abruzzo, poi Molise, Isernia, Benevento e giù fino al mare, in mezzo alla natura beatamente desolata. A Taranto c’è un amico che lavora per la Marina Militare, e per passione ha riarmato un relitto alla vecchia maniera: niente radio, niente tender, niente giubbotti di salvataggio. A questo punto dovrebbe comparire la scritta lampeggiante in sovrimpressione do not try this at home, ma per i buoni cugini quel legno è quello giusto. Peccato che il nocchiero, a pochi giorni dalla partenza, sia richiamato dalla Madre Patria ai propri doveri militari, e di colpo la nave si ritrova senza capitano. A quel punto sì che la storia prende un’autentica piega salgariana: Brizzi e i compadres girano ogni bettola del porto finché non s’imbattono in Nicola, un marinaio d’esperienza, con l’accento di Lino Banfi e il volto di Ernest Hemingway (C’hai presente la foto di Hem sui Meridiani Mondadori? Uguale!), folle a tal punto da imbarcarsi nell’avventura. È lui che li traghetta di là del mare stretto. È grazie a lui se i pellegrini approdano festanti a Gerusalemme dopo più di due mesi dalla partenza. Quel viaggio è una consacrazione. Enrico e soci decidono di organizzarsi e fondano la Società di Psicoatletica (che a oggi conta all’incirca ottanta membri) e immaginano e percorrono itinerari sempre più ambiziosi:

Nel 2010, anno del centocinquantenario dell’Unità Nazionale, viaggiano dalla Vetta d’Italia fino a Capo Passero, marciando letteralmente lo Stivale da Nord a Sud. Nel 2012 viene varato il nuovo circuito per camminatori denominato Gran Giro Psicoatletico d’Italia: i buoni cugini ne percorrono la prima tranche calpestando i sentieri del Giro delle Tre Venezie: da Venezia a Riva del Garda via Trieste e Trento. Nel 2014 ripartono da Limone sul Garda alla volta di Torino attraverso Lombardia, Canton Ticino, Piemonte e Valle d’Aosta. Nel 2016 è la volta del cammino tanto rimandato, quello di Santiago. Enrico decide di percorrerlo ancora una volta sulle orme dei pellegrini medievali e parte da Torino per approdare, dopo milioni di passi, a Finisterre. Da questa magnifica classica scaturisce un reportage in sedici puntate per il sito della Gazzetta e, soprattutto, il libro Il sogno del drago, entusiasmante volume inaugurale della collana di Ponte alle Grazie in collaborazione col CAI, magnificamente vergato in seconda persona. Il resto, come si suol dire, è storia.

Enrico e i buoni cugini non si sono fermati, e continuano a camminare con il ritmo costante di due viaggi all’anno. Uno in primavera e uno alla fine dell’estate. C’è chi, camminando, cambia vita: Maurizio Manfredi - per tutti, Manfro - decide viaggiando con Brizzi e soci che l’esistenza è troppo breve per negarsi la felicità. E molla un lavoro sicuro per realizzare il proprio sogno: diventare tatuatore. Oggi Manfro vive d’arte e inchiostro ed è, ça va sans dire, il tatuatore ufficiale degli Psicoatleti. Un bel po’ di quell’inchiostro decora il corpo snello e muscolare di Enrico: «Han fatto il conto le ragazze qualche giorno fa qui al mare. Ne ho quindici, pare. E, a parte i nomi delle mie figlie e un vecchio tributo d’onore alla mia squadra del cuore, son tutti ricordi dei nostri grandi viaggi».

Prima di congedarmi annoto le ultime imprese per sacrosanto dovere di cronaca: il Grand Tour del Vallo di Adriano, la risalita del Reno che sta per cominciare in Olanda, e lo splendido tracciato patrocinato dal Consorzio delle Residenze Reali Sabaude: un giro di 300 chilometri circa, delimitato a nord dal Castello di Aglié e a Sud da quello di Govone. Enrico e i buoni cugini lo hanno percorso in nove giorni, terminando la marcia nel cuore di Asti. La telefonata volge al termine: è durata un paio d’ore ma a me e Alberto sembra d’aver viaggiato per un milione di miglia. La stretta al cuore che proviamo sa d’invidia e di promesse d’avventura.

«Papà, quando sarò più grande andiamo anche noi, vero?» dice il mio bimbo.

«Dove, amore? Dove andiamo?» domando io.

«Dappertutto» risponde lui.

E davvero non c’è chiosa più bella. È questo l’effetto che fan le parole e il ricordo delle impronte lasciate da Enrico Brizzi sui sentieri di mezzo mondo: fan voglia di partire. Di non aspettare le ferie e neppure la primavera. Partire domani, anzi no. Partire e basta. Partire adesso.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 119, INFO QUI


Patagonia, finisce l'era Marcario

Quando nel 2008 Rose Marcario varcò la porta dell’headquarter di Ventura, in California, per assumere il ruolo di CFO di Patagonia, nessuno poteva immaginare che avrebbe lasciato un segno così indelebile nella storia del marchio di abbigliamento tanto da avvicinarsi a quello del suo carismatico fondatore, Yvon Chouinard. Patagonia ha ufficialmente annunciato che Marcario, fino a qualche giorno fa presidente e CEO del brand, ruolo che ricopriva da sei anni, da oggi, 12 giugno, lascia ogni carica. Secondo quanto riportato da Fast Company, che ha dato la notizia in esclusiva il 10 giugno, Marcario aveva comunicato all’azienda la sua decisione di lasciare a fine anno, ma la necessità di riorganizzare il business in seguito all’emergenza Covid-19 ha reso più urgente un cambio al vertice, in modo che il nuovo modello di sviluppo venga pensato fin dall’inizio dal nuovo team dirigenziale. Team dirigenziale che però non c’è ancora e la fase di transizione verrà per ora guidata dal COO Doug Freeman in attesa che Chouinard trovi una persona degna di raccogliere l’eredità di Marcario.

Marcario lascia Patagonia nel momento di più grande prosperità nella sua storia lunga 47 anni e da quando ha messo piede in azienda il giro d’affari è quadruplicato, superando il miliardo di dollari. Il ruolo della manager in questa storia di successo è di primo piano e, al suo arrivo, a un’immagine aziendale forte non corrispondeva un’organizzazione altrettanto importante. L'immagine pubblica di Marcario, dapprima dietro le quinte, è rapidamente cresciuta, soprattutto nell’era Trump, fino ad arrivare a creare un’alchimia con quella di Chouinard difficilmente rinnovabile. Patagonia si è sempre più trasformata in uno strumento di cambio, con visioni e campagne dal forte impatto politico e apparentemente in contrasto con il modello di business dominante nel mondo dell’outdoor e della moda, fino ad arrivare ad appoggiare apertamente alcuni candidati nelle elezioni midterm del 2018 in Nevada. In questi anni sono stati prodotti film a sostegno delle cause ambientali, destinati 10 milioni di dollari risparmiati grazie alla politica fiscale dell’amministrazione Trump a iniziative di tutela dell’ambiente. Sono arrivati anche un fondo di venture-capital interno per finanziare start-up sostenibili e Patagonia Action Works, un digital hub per mettere in contatto attivisti e organizzazioni ambientali.

Nella fase pubblica degli ultimi anni anche il coming out nella comunità LGBT che l’ha fatta salire al primo posto dell’indice Queer 50 di Fast Company che raggruppa le personalità più influenti della comunità LGBT nel mondo del business e del tech. In una dichiarazione rilasciata proprio a Fast Company c’è la sua filosofia del business: «Non è tempo di essere riservati, di essere complici, di stare zitti. Stiamo vivendo in un momento in cui è così importante per le aziende guidare questa nuova economia, questa nuova visione, questo futuro ambizioso degli affari come forza per il bene. Perché quello che abbiamo visto negli ultimi 25 anni è stato il business come forza del male». Un’eredità pesante, una nuova sfida per un marchio che ha fatto parlare di sé ben oltre il perimetro dell’industria outdoor. Ma la linea del futuro l’ha già tracciata la stessa Marcario, lasciando un’azienda in salute e con valori ben definiti al suo successore. Chiunque sarà.


Michele Graglia, oltre le ultra

La storia dell’ultra running risale ai tempi dell’antica Grecia, ma solo nell’ultimo decennio correre sulle lunghe distanze è diventato un argomento di discussione comune, permettendo a chiunque, purché abbastanza coraggioso di sperimentare la sensazione indescrivibile di spingere il proprio limite, di esplorare le proprie potenzialità. Andare oltre 42,195 chilometri e diventare ultrarunner non è un’impresa facile, richiede indubbiamente un’enorme quantità di desiderio e impegno. E forse anche un pizzico di follia. Si dice spesso che l’ultra è mentale al 90% e l’altro 10% è nella tua testa. Questo per sottolineare quanto sia importante il coinvolgimento personale, la propria forza trainante e la motivazione per superare i mille alti e bassi che si incontrano in distanze così ampie. Il corpo può portarti lontano, ma quando arriva il momento, quando ogni muscolo del corpo ti chiede di fermarti, è solo la tua capacità di recupero e ciò che ti motiva ad andare avanti che può aiutarti a raggiungere quel traguardo.

Sviluppare una solida routine di allenamento e seguire uno stile di vita sano è ovviamente fondamentale, ma possono esserci diversi approcci all’allenamento, specialmente se pensiamo in termini di tecnicità, distanza, quota, temperature estreme. Visto che il corpo può portarti solo fino a un certo punto, secondo me, se esiste una ricetta per il successo per arrivare in fondo, la si trova in qualità non fisiche. Bisogna allenare la pazienza, il rispetto e la gratitudine: la corsa ultra richiede tempo e perseveranza. Dobbiamo sviluppare un senso di gioia verso l’idea di passare un’intera mattinata o addirittura un giorno a correre nella natura, spesso soli con i nostri pensieri, e naturalmente anche con i calzini sporchi. Non dovremmo mai avere fretta, ma goderci semplicemente il viaggio. Il successo sulle lunghe distanze nasce anche da un senso di rispetto per la natura, una sorta di consapevolezza esistenziale verso la madre terra e la profonda connessione che  sviluppiamo entrando in contatto con la sua pura semplicità. È una cultura dell’umiltà, insieme al rispetto per i grandi spazi aperti.

La capacità di tollerare esperienze spiacevoli e di soffrire durante una corsa ha molto più a che fare con la testa che con il corpo. È proprio come la meditazione. Solo esplorando le nostre menti scopriamo che siamo senza limiti e che la percezione del dolore è tutta relativa. C’è un detto buddista che sembra perfetto: Il dolore è inevitabile, ma la sofferenza è facoltativa. Ricordiamo a noi stessi perché stiamo facendo quello sforzo e niente ci impedirà di raggiungere il nostro obiettivo. È importante sviluppare la pianificazione strategica. Qui entrano in gioco una grande quantità di tentativi ed errori, ma con il tempo capirai cosa funziona per te e cosa no. Una volta che abbiamo scoperto e messo a fuoco i bisogni, tutto ciò di cui abbiamo veramente bisogno è pianificare in anticipo, praticare. Capire gli aspetti logistici di questo sport, in particolare rifornimento, idratazione e equipaggiamento.

Per sviluppare l’abilità di pianificare non c’è un’alternativa all’esperienza. La pratica rende perfetti, quindi bisogna continuare a provare. Poi trovare i migliori stimoli: abbiamo tutti diverse ragioni per cui partecipiamo a una gara ultra, ma c’è un tratto che li accomuna, la motivazione, forse l’aspetto più importante. Bisogna scavare nel proprio io alla ricerca di quell’unica ragione per cui si è disposti ad alzarsi ogni giorno prima dell’alba per spingere un po’ più in là i propri limiti. Capire che cosa ci fa correre cento chilometri, quando tutto dentro di noi fa male e sembra non esserci più forza per andare avanti, che cosa ci fa mettere un piede davanti all’altro finché non raggiungiamo il nostro obiettivo. Trovare quella ragione che, quando il gioco si fa duro, ci prenderà per mano, anche solo per un momento, ci permetterà di sfruttare il nostro infinito potenziale, connettendoci con la parte più profonda di noi stessi e sperimentare la vera felicità.

Michele Graglia

 

MICHELE IN PILLOLE

I tre personaggi che mi hanno ispirato a spingermi oltre nella corsa sono Dean Karnazes, Anton Krupicka e Marco Olmo. Leggere il libro di Karnazes mi ha aperto le porte a una ragione di vita perché per me l’ultrarunning non è uno sport ma uno stile esistenziale. L’idea di ritrovarsi ad attraversare spazi estremi sulle proprie gambe in modo primordiale è stata come un colpo di fulmine, ma non sapevo come iniziare. Mi piace l’ultra come concetto di spingersi oltre, che sia sulla strada, deserti o in alta montagna, non amo chiudermi in una gabbia.

Sono istruttore di yoga e lo yoga ha rivoluzionato la mia vita e soprattutto la percezione del tempo e dello spazio. Mi ha insegnato a vivere nel momento, ad assaporare l’ora, a dare il meglio di me stesso in quell’istante. Così ti distacchi dalle distrazioni, non hai aspettative e stress. Un concetto che applicato alla corsa mi aiuta a dare tutto me stesso in quel frangente e la somma di ogni minuto ti porta all’arrivo. Senza pensare a quello che sarà ed è stato.

Di solito faccio due ore di corsa prima di colazione, che spesso è presto, alle 7. Ho un’alimentazione quasi vegana. Ogni tanto mangio uova, prima delle gare importanti salmone, sono goloso di sushi. A fine mese mi gratifico con il gelato. È stato un percorso graduale, ho provato su me stesso quello che funzionava e che non funzionava. Mi sono avvicinato a uno stile di nutrizione low carb, hi fat (pochi carboidrati, tanti grassi) con tanti oli, di oliva e cocco, per esempio, frutta secca, avocado, ogni tanto quinoa, verdure, insalate a foglia scura, tanti spinaci, rucola, songino. L’unico carboidrato sono le patate dolci americane. Fuori stagione qualche pizza me la concedo però. Mi sono accorto che togliendo la carne mi sentivo più leggero.

Programmo la stagione al contrario: guardo all’obiettivo principale, di solito a fine estate o in autunno, e costruisco il resto di conseguenza. Il caldo a livello fisico ti distrugge di più del freddo, non puoi combatterlo, puoi solo cercare di limitarne gli effetti e hai bisogno dell’aiuto di un’equipe. Alla Badwater fai fuori anche 38-40 litri di acqua in 24 ore. Il freddo è meno invasivo, basta coprirsi. Ma è più pericoloso, se hai un minimo problema e non riesci a infilarti la giacca sei fregato. Però il caldo a livello atletico è stressante, devi bere una goccia d’acqua anche ogni minuto, se c’è vento secco ti disidrati senza sudare.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124

© Dino Bonelli

Gilles Sierro, lo sci come arte

Parlare a quattr’occhi con chi hai sempre incrociato solo virtualmente è un piacere che ritengo fondamentale per poter conoscere qualcuno, specie al giorno d’oggi che mettersi in contatto con altre persone è questione di un click. Quando poi incontri un grande sciatore, diventa un privilegio. Vedere dove abita, come vive, gli occhi con cui guarda le sue montagne, ti fa capire un mondo di sfumature che si perderebbero tra i filtri di un più asettico scambio di mail. Gilles Sierro è un grande sciatore. Vive di sci e per lo sci. Non usa frasi fatte e ti basta uno sguardo per capire che la sua vita è veramente votata a questa disciplina. È cresciuto e vive nei pressi di Hérémence, Vallese, vicino ad Arolla. In linea d’aria pochi chilometri dal confine italiano. Con condizioni di neve migliori per raggiungerlo avremmo fatto prima con una pellata forse. Ce lo hanno detto anche gli operai al tunnel del Gran San Bernardo, chiuso.

Al Bianco sono sempre gentilissimi e accettano i quaranta e più euro anche se sono stropicciati. Poi il Col des Montets con la prima neve e i larici rossi, vuoi mettere? La schilometrata passa che quasi ti chiedi perché lo hanno fatto il Gran San Bernardo. Alla domanda invece di perché forse eravamo gli unici a non sapere della chiusura una risposta ce la siamo data dopo un secondo e faceva rima con… leoni. Poi le luci di un pomeriggio di novembre in un villaggio di chalet in legno svizzeri annullano o quasi i sensi di colpa. Per trovare quello di Gilles l’indicazione è poi ineccepibile: lo riconoscerete dalla buca delle lettere fatta con gli sci. Dopo circa mezz’ora passata a visitare ogni cortile della borgata, Gilles ha capito che era meglio se ci veniva incontro anche se il nostro navigatore si stava ostinando a indicarci una strada (in effetti corretta) che poi abbiamo scoperto essere la più innevata di tutto il vallese. È arrivato in retromarcia. Dopo un caffè abbiamo iniziato a conoscerci.

Una casella della posta decisamente da... skipper ©Federico Ravassard

 Gilles, la prima domanda che ci si fa tra sciatori in questo periodo: Sei carico per la stagione? Hai voglia di sciare oppure hai ancora voglia di altro?

«È vero! È la domanda classica del periodo tra chi scia! In realtà ho già iniziato questa settimana qui sopra. Con un amico ho testato un po’ il drone per fare delle riprese. La Magic Valley (come chiama la Val d’Hérens) è la mia casa, in stagione il comprensorio qui vicino è collegato con Verbier. Non posso lamentarmi. Anche se quando mi chiedono quale sia il mio spot preferito sono sempre in difficoltà perché in realtà il posto preferito è dove scio in quel momento, perché sto facendo proprio ciò che mi piace!».

Montagnard o sciatore? Ti piace vivere la montagna anche nelle altre stagioni?

«Posso ritenere di essere entrambe le cose, specie per il genere di sci che pratico. Sono diventato Guida proprio per poter sciare il più possibile, per vivere la mia passione quasi dieci mesi l’anno, tra clienti, spedizioni, viaggi e attività personale. Generalmente in luglio e agosto pratico attività più alpinistiche. I miei periodi preferiti per lo sci sono l’inizio dell’estate per la pente raidee il pieno inverno, quando riesco a godermi senza stress lo sci: freeski nel pieno della sua definizione, vivere la sensazione di gioco, di scivolare».

In una parola, facci capire che cosa è lo sci per te?

«Sembra banale ma posso dire che è vita: nel senso che la mia vita è orientata allo sci in modo totale. Perché è la cosa che mi è sempre piacito di più fare. Sono uno ski addicted nel senso più puro del termine. Ad esempio, quando a maggio finisco la stagione invernale con i clienti, stacco una settimana, vado al mare, faccio bici, libero la mente e mi preparo per iniziare la mia stagione dello sci. Lo faccio per lo sci».

Veniamo al tuo sci preferito, allo ski de pente, sinceramente non mi piace molto la definizione di sci ripido, o estremo, sei d’accordo?

«Non mi piace la parola estremo, ormai non ha più senso. Su qualsiasi rivista e ancor peggio sui diversi canali social dove ormai gira l’informazione tutto viene passato per estremo: usano termini come leggenda, enorme, ogni fatto viene galvanizzato. È talmente tutto leggendario che ormai lo sci estremo ha perso di significato perché il termine stesso è stato abusato e banalizzato. Se ci riflettiamo, il livello di estremo dipende dal limite soggettivo di ognuno. Paradossalmente anche una pista rossa può risultare estrema per un principiante. Un altro problema che vedo in questo mondo è che sono pochissimi quelli che sciano solo per se stessi. Grazie anche alla facilità di accesso alle informazioni sta diventando un circo in certi posti. Mi è capitato di parlarne con Davide Capozzi. Vedi il bacino di Argentière: è un posto dove le linee classiche sono indiscutibilmente bellissime, ma si riempie all’inverosimile perché sono conosciute, hanno nomi spendibili. Un piacere anche maggiore, senza anima viva intorno, lo si può trovare su una linea sconosciuta, ma appunto: non la conoscerebbe poi nessuno (ride)».

La tua idea di skieur de pente quindi quale è?

«Per fare veramente pente raide secondo me sono necessarie tre cose: bisogna essere buoni sciatori, e ce ne sono sempre di più in giro. Devi essere un alpinista e, cosa veramente importante, paziente. La pazienza! Sulle linee davvero impegnative le buone condizioni sono fondamentali. È veramente difficile trovare quelle perfette. Per sciarle in un bel modo, con una sciata estetica, è necessario aspettare il giusto momento. Ad esempio, prendiamo l’anno scorso: avete presente la parete nord della Pigne d’Arolla, qui sopra casa mia? È stata scesa, ma con doppie e derapate tra le rocce per cento e passa metri. Ed è una parete che diventa buona quasi tutti gli anni. Basta aspettare. Per me una discesa di quel tipo è inconcepibile. Anche su progetti più impegnativi sto aspettando da anni il momento giusto, ho visto bianche certe pareti in autunno mentre la parte bassa era impercorribile. Oppure, sempre qui in zona, il Mont Blanc de Cheilon è stato sceso per adesso non dalla punta. Ma secondo me potrebbe arrivare il momento. Mi piace aspettare, per cercare di scendere le pareti nel momento perfetto. Ci vuole pazienza».

 Quello che ritieni il tuo più bell’exploit?

«La Dente Blanche sud-sud/ovest, dalla punta con due miei amici di qui, con cui ho condiviso l’attesa e la speranza di poterla sciare proprio come abbiamo fatto. Con le condizioni del 2013 e solo una doppia di meno di quaranta metri. Questo è proprio l’esempio di cosa intendo per ski de pente».

Ho letto che di cercatori di linee in realtà pensi che ce ne siano pochi, una decina tra Chamonix, Vallese e Valle d’Aosta? Chi sono?

«Senza dubbio tra questi posso citarti Davide Capozzi, Pica Herry. Anche Fransson, che purtroppo se ne è andato. Penso che abbiamo lo stesso modo di intendere questo tipo di sci. Personalmente mi piace cercare linee il più possibile pulite, possibilmente senza doppie o dry ski su cui alcuni si sono specializzati. Non è quello il mio modo di sciare».

©David Carlier

Abbiamo parlato anche con Pierre Tardivel nell’intervista dello scorso mese dell’attuale tendenza della ricerca della massima fluidità e velocità possibili nello scendere certe pareti. Negli ultimi anni sono usciti parecchi video e immagini di questo tipo. Cosa ne pensi? Credi che sia, come ritengono alcuni, qualcosa di rivoluzionario, oppure no?

«Vedere sciare certe pareti in quel modo è senza dubbio impressionante, per la velocità stessa intendo. Non per la linea. Se si vuole parlare di rivoluzione bisogna specificare che è relativo alle linee classiche e più aperte. Non sono nuovi problemi, linee inedite o molto tecniche».

Però forse è stato messo nero su bianco come sciatori professionisti possono sciare pareti - sono d’accordo - classiche. Per un’attività libera come lo ski de pente dove anche lo sciatore della domenica, se preparato, può confrontarsi, se vuole, sullo stesso terreno di gioco del professionista, si è visto quale sia il livello e il margine dei professionisti! Si sono messi un po’ in ordine i valori tra tutti quelli che fanno discese e si spacciano per pro o ambiscono a esserlo.

«Su questo posso concordare. Però secondo me non si può parlare di rivoluzione nello sci ripido. L’evoluzione, per come la vedo, passa nella ricerca della linea. Sia chiaro, nutro molto rispetto per sciatori come Jérémie Heitz: ha spinto in avanti il limite del freeride. Però la mia visione di sci ripido, forse anche per questioni di età, ritengo sia differente».

Pensi che lo sci estremo nel futuro continuerà a progredire sulle Alpi oppure si sposterà in alta quota? Vedi dei limiti in questo?

«A mio avviso continuerà sempre sulle Alpi e le discese classiche vedranno sempre più sciatori, complici l’evoluzione dei materiali e le migliori capacità e preparazione. Questo discorso vale per le classiche. Su linee nuove non penso che ci sarà mai molta gente: per uno sciatore la preparazione e la ricerca delle condizioni è più complicata e ci si deve investire molto più tempo. Nella quota invece non vedo seriamente un limite. Prima o poi ci sarà qualcuno che ci mostrerà come fare e allora proprio quel limite non ci sarà più. Proprio come per certe salite se pensiamo a Ueli Steck o alle ascese in velocità di Kilian».

Un lato affascinante degli sciatori come te è il loro rapporto con i rischi e la paura durante l’azione.

«Io dico sempre che bisogna distinguere tra rischi e pericoli. I primi capita di prenderli, di accettarli e devi sempre cercare di minimizzarli. Tra i secondi invece non si deve dimenticare di considerare anche la pressione, le aspettative che uno ha intorno, la social pressure: sono come i seracchi. Personalmente anche con i miei sponsor cerco sempre di minimizzare e gestire al meglio questi aspetti. Poi l’aspetto mentale è importantissimo: ad esempio due anni fa in primavera avevo per la testa troppi pensieri. C’erano buone condizioni in montagna, ma non nella mia testa. E ho preferito tagliarmi fuori da questa situazione proprio perché non ero al 100 per cento mentalmente».

Che ruolo gioca la paura in quello che fai. Pierre Tardivel ci diceva che in realtà si mantiene sempre un margine.

«È importante prima e dopo, non durante l’azione. Bisogna essere focalizzati. Si deve sempre scendere mantenendo un margine di sicurezza: se sali e magari capisci che non ci sono le condizioni, devi saper rinunciare, anche se poi non posti nessuna foto su Facebook (ride)».

Gilles, quali sono stati i tuoi miti?

«Senza dubbio Dédé Anzévui, Guida e sciatore fortissimo di questa zona. Poi Stefano De Benedetti. Una linea che ho sognato a lungo e che mi piacerebbe sciare è proprio la sua parete est della Aiguille Blanche de Peuterey

Veniamo alle domande tecniche che ci si fa tra sciatori: che materiale usi, quali sono i tuoi setting?

«Generalmente scio con assi da 100-110 millimetri sotto il piede: così lo scarpone non tocca mai e poi sono gli sci che anche per lavoro uso di più, con i quali ho più confidenza: non ci sono sorprese. Scarponi tipo TLT6 o affini: non mi pongo particolari limiti per il peso dell’attrezzatura. Però gli sci devono essere facili, non esageratamente rigidi o duri. Generalmente 177 centimetri di misura circa. Attacchi tipo pin montati un centimetro indietro rispetto al centro scarpone: ho meno coda quando giro nello stretto e davanti ho la sensazione che galleggino meglio. Comunque ribadisco, non sono un fanatico del peso, anche se cerco di portare il meno possibile compatibilmente con ciò che faccio. Ad esempio preferisco i ramponi con le punte frontali in acciaio e la talloniera in alluminio».

I tuoi posti preferiti per sciare nel nostro paese?

«Senza dubbio Helbronner, è assolutamente fantastico! E poi Dolomiti, dove è tutto così vicino, di facile accesso e ci sono linee bellissime».

Come ti vedi tra 20 anni, quale potrà essere il tuo modo di sciare?

«Tra vent’anni? Spero di far conoscere alcune linee classiche, magari ai miei figli. Ah, dimenticavo, certamente non su uno snowboard!»

Chissà come mai lo avevamo capito già dalla cassetta della posta…

Chi è Gilles Sierro

Svizzero, classe ’79, Guida alpina, alpinista, Istruttore di sci certificato. Se chiediamo a lui: sciatore, punto. Cresciuto nel villaggio di Hérémence, non distante da Arolla, nel cuore delle Alpi Svizzere, tra Chamonix e Zermatt. Ha fatto le prime scivolate ad appena due anni, per poi praticare prima sci agonistico e quindi freestyle con l’arrivo dell’adolescenza fino a competere in Coppa del Mondo di halfpipe. La scelta di diventare alpinista e quindi Guida è stata presa per poter sposare il più possibile la sua passione per lo sci. Balzato alle cronache nel 2013 per la fantastica nuova discesa diretta dalla parete sud-sud/ovest della Dent Blanche (4.364 m), non smette di fare progetti e di riempire di neve le sue giornate in attesa delle condizioni perfette per poterli portare a termine.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 115, INFO QUI

Gilles Sierro con i suoi sci ©Federico Ravassard

Eric delle Montagne

All’inizio di marzo del 2001 una marea umana di uomini senza diritti partiti dal Chiapas entra a Città del Messico dopo avere attraversato 12 stati e percorso oltre 3.000 chilometri. È la grande marcia del subcomandante Marcos «per reclamare infine i diritti degli indios, umiliati per cinque secoli e violentati dal liberismo selvaggio che ha strappato loro l’ultima manciata di mais» come scrive Goffredo Buccini sul Corriere della Sera del 26 febbraio 2001. Le centinaia di migliaia di persone avanzano lentamente, al ritmo della musica sparata a palla da un camion. Su quel camion ci sono i 99 Posse, band napoletana, ed Eric Girardini, venticinquenne di Lentiai, in provincia di Belluno. Festeggia gli anni proprio in quei giorni e fa partedelle oltre duecento tute bianche antiglobalizzazione italiane che assicurano il servizio d’ordine. «Ero l’unico ad avere dei cd e così mi sono ritrovato sul quel camion» dice oggi Eric seduto nella sua casa di Lamon, ai piedi del monte Coppolo, l’ultimo paese veneto prima di accedere alla valle del Primiero. Cosa ci faceva una Guida della Scuola delle Aquile di San Martino nel cuore della marcia zapatista a Città del Messico? La storia è un po’ lunga.

Lentiai, quota 261 metri sul livello del mare, alla fine degli anni Settanta è il paradigma dell’Italia pre-crisi e cambiamento climatico. Dietro casa ci sono le colline, d’inverno fa ancora freddo e la neve, oltre a cadere dal cielo, rimane a terra a lungo. I genitori di Eric gestiscono un piccolo supermercato e lavorano tutto il giorno. Così Eric e suo fratello Manuel stanno con Katia, la baby sitter. «Baby sitter, ma in realtà aveva qualche anno in più di noi ed era maestra dello sci club, in quegli anni si poteva, anche se non aveva il patentino» dice Eric. Le giornate invernali si trasformano in un piccolo paradiso. Il padre la mattina li accompagna in alto, al Pian di Coltura, dove c’era una rudimentale manovia, e loro sciano lì tutto il giorno. Il rientro fuoripista fino all’uscio di casa con gli sci, passando per il Colderù, dove abitava Massimo Braconi. «Massimo è di un’altra generazione, me lo ricordo, ma non ci siamo frequentati, lui era l’unico Maestro di sci con il patentino in paese». C’è anche lo sci club, il Lentiai, che durante le vacanze scolastiche riempie due corriere ogni giorno verso le piste di sci. E tra le case arrivava una gara di scialpinismo, proprio nella piazza centrale. «La neve c’era sempre, la portavano solo sugli ultimi metri, lungo la strada, ricordo che una volta vinse il mio Maestro del club, lo soprannominavamo cinghiale: non era fortissimo in salita, ma vinceva in discesa». Poi arriva la scuola,il liceo classico. Neanche il tempo di diventare maggiorenne e il temperamento ribelle di Eric lo porta lontanoda casa. «Sono scappato e sono andato a vivere con i ragazzi dei centri sociali, per un periodo avevamo due realtà autogestite in una cittadina piccola come Feltre. Dopo quel mese in Messico ho partecipato attivamente al G8 di Genova che è stato una batosta per tutti i movimenti, con una repressione mostruosa; così ho iniziato a riavvicinarmi ai miei genitori che avevano bisogno di aiuto in negozio e a ritornare in montagna per appagare quel bisogno di libertà così insito nella mia indole». L’approccio è abbastanza ribelle, d’altronde al DNA non si può mentire ma, come avviene a quei ragazzi che sbattono poco dopo aver preso la patente, distruggendo l’auto ma uscendone illesi, è proprio il suo trascorso ribelle ad averne fatto una delle Guide più affidabili tra la neve delle Dolomiti.

«Un giorno mi sono presentato in ufficio da Diego Dalla Rosa e gli ho detto che avrei voluto sciare con lui: mi ha risposto di fare il corso del CAI e l’ho fatto, presentandomi con un paio di Rossignol Bandit, tra i primissimi sci larghi: gli istruttori giustamente mi frenavano sempre in discesa!». Dopo le prime discese in solitaria (tra cui una in notturna del Monte Pavione terminata con tre ore di autostop a Imer alle tre di mattina con sci alla mano e scarponi ai piedi perché Arnaldo detto Napoli aveva rotto la coppa dell’olio della Citroen per accompagnarlo su per il Vallon de Aune ed era rimasto bloccato lassù e senza telefono) Diego accoglie Eric nel suo gruppo. Diego Dalla Rosa, classe 1952, da quelle parti (e non solo) è un’istituzione. Va forte sulla roccia e in discesasulla neve. Con Roberto De Bortoli, Aldo Bortolot e Maurizio Manolo Zanolla dà vita alle Formiche Rosse, arrampicatori funamboli contro il sistema. Ma è in discesa che Diego lascia tracce indelebili. Negli anni d’oro dei Valeruz e Vallençant è uno dei precursori del ripido tra le sue montagne, le Vette Feltrine e le Pale di San Martino, sua la prima e unica discesa in sci dalla vertiginosa parete Sud del Sass de Mur. «Diego ha fatto decine di prime discese, ma si sapoco, perché le ha fatte per lui, non per la gloria. Le Formiche Rosse venivano dal movimento studentesco degli anni ‘70, hanno rotto gli schemi dell’alpinismo, facevano parte di quella generazione ribelle dei Berhault ed Edlinger. Anche il nostro modo di andare in montagna era un po’ dissacratorio, almeno a me sembrava così; oltre a Diego ed altri c’era anche Hermann Crepaz, ancora oggi il mio socio preferito per le uscite in montagna, con un curriculum invidiabile di prime discese non ripetute, dalle Pale alle Vette Feltine. Eravamo tra i primi a usare gli sci larghi dalle nostre parti, ci guardavano come degli astronauti». Hermann è anche tra i fondatori del King of Dolomites e il sodalizio con Diego, Eric e gli altri amici ha una marcia in più nello stare insieme. «Siamo sempre stati così, nessuno di noi era un superfenomeno, ma come gruppo ci siamo fatti notare e poi, dopo le gite, nelle feste al bar aumentava l’ego di tutti. È il bello dello sci, quello stare insieme che in cordata non provi, perché ti muovi sempre da solo anche se sei legato a un’altra persona».

© Alice Russolo

Le gite scorrono veloci, le pendenze aumentano, ma scorre anche la vita, con i suoi eventi. Un giorno, durante un’escursione facile di fine stagione, una valanga travolge un compagno di avventura di Eric, Luca, sepolto appena fino allo zaino, ma ucciso dal peso della neve. Qualche tempo dopo tocca a Eric finire sotto la neve. «Ero sulla Marmolada, la neve mi ha trascinato per 700 metri, facendomi fare un salto di 50 metri: sono vivo per miracolo perché due scialpinisti – uno si chiama Salvatore di nome e di fatto, l’altro Ivan, non potrò mai scordarmelo – hanno visto i miei sci affiorare. Da quel giorno mi sono detto che avrei voluto diventare Guida alpina per acquisire maggior consapevolezza nel mio muovermi in montagna». Eric è testardo e quando si mette in testa una cosa la ottiene. Così passa subito il corso Aspiranti e ora quel ragazzo che si è trovato nel cuore della marcia zapatista è una Guida di San Martino.

Raccontato così sembra un romanzo, ma non è stata una passeggiata. «Ho deciso di vendere l’attività di famiglia, anche se me lo sconsigliavano tutti e i primi anni non sono stati facili, ho dovuto spingere, e poi venivo da un paese di collina dove le Guide non sapevano neanche cosa fossero e sono andato in una valle; ancora oggi c’è qualcuno che mi guarda con diffidenza perché sono forestiero, un ‘Talian. D’altronde San Martino di Castrozza e il Primiero hanno una lunga tradizione di isolamento. «La prima strada d’accesso dal Feltrino è stata costruita nel 1875, prima c’erano solo sentieri o mulattiere impervie, perché nel 1500 Feltre è stata distrutta dall’invasione austro-ungarica scesa dal Primiero e volutamente l’accesso alla valle è stato mantenuto così, per frenare eventuali truppe». Però San Martino è anche uno dei posti più incredibili per chi ama lo sci e la montagna. E le Pale, che hanno stregato anche una mente profondamente illuminata comequella di Dino Buzzati, sono montagne uniche al mondo. «Sono stupende per arrampicare e sciare, le amo particolarmente d’inverno anche se per il mio lavoro sono meno redditizie di altre località iper frequentate delle Dolomiti, ma mi piacciono proprio per questo… Amo anche il Lagorai, ma non ha la stessa verticalità che provi nelle Pale, per me la montagna è roccia e neve, soprattutto canali: ho sempre cercato l’estetica e tra le Pale mi sento appagato, mi piace pensare all’estate, quando arranco su quelle pietraie che ora solco veloce. Lo sci è il motivo per cui sono diventato Guida, prima scalavo di più, soprattutto in falesia, ma con il passare degli anni è sempre più dura portare avanti difficoltà se hai poco tempo». Il curriculum di Eric è di tutto rispetto, anche se non è un tipo che ama stare lì a snocciolarti le sue prime, non gli interessa. Forse perché, come Diego Dalla Rosa, lo fa per se stesso. «E poi da noi è difficile nello sci dire se è veramente la prima discesa, anche se sono sicuro che con Hermann e Diego ne abbiamo fatte molte, comunque possiamo dire di avere sciato belle linee con il nuove tra virgolette. Ai Vani Alti c’è forse il canale più estetico, simile all’Holzer, incassato e chiuso, esposto a Nord. Poi ricordo la Cima di Ramezza, sulle Vette Feltrine, la parete Nord del Colbricon italiano. Ah, dimenticavo, la Nord del Piz de Sagron, nelle Vette Feltrine, è stata forse il nostro apice. Probabilmente è una prima, ci sono solo notizie vaghe di una discesa di Mauro Rumez, ma non si sa con precisione se abbia sciato quella parete». C’è un aneddoto che fa capire che cosa rappresentano la salita e la discesa per Eric. Qualche anno fa, quando non era ancora Guida, ha sciato la Nord del Lyskamm con scarponi da discesa noleggiati ad Alagna, penso che il negoziante si ricordi ancora, non ci credeva e quando li ha riportati non ha voluto nulla, diciamo che è stato contento di rivederli. «Vado forte in salita, ho anche fatto qualche garetta dicorsa, però non m’interessa, meglio qualche etto di attrezzatura in più, ma l’obiettivo è la discesa». E va forte anche in discesa…

«Il mio terreno sono i canali, ma sono sempre stato più portato per la velocità che per le curve strette». Logico che anche l’attrezzatura che usa segua questo teorema. «Usavo Black Crows perché ho sciato qualche volta con Bruno Compagnet, da due anni sono passato ad Armada, grazie anche all’aiuto del mitico Macho di Prosport di Vicenza, un negoziante illuminato, uno che ci crede sempre e comunque, che mi ha dato una mano e sostiene diversi rider. Il mio set-up? Ne ho vari: lo sci da tutti i giorni è il Tracer 98, poi ho un 88 per le gite lunghe e la primavera, un ARV116 JJ e lo sci di Tof Henry, Declivity X. Son tutti belli, il 116 è sbananato e divertente nei boschi, il 98 va bene davvero dappertutto, il Declivity perfetto per il ripido ampio, diciamo più sul Monte Bianco o sulla Marmolada che dietro casa». Al piede mette Roxa, attacco Armada Shift o Ski Trab Tr2 e per l’abbigliamento c’è Salewa con cui ha sviluppato diversi progetti tra cui uno short film di 15 minuti sullo sci nelle Pale (youtube – salewaski -mountaineering). L’attrezzatura da sogno deve pur supportarli questi sogni.

«Quest’anno voglio andare in Francia a fare il Chourum des Olympiques, una discesa ripida che si infila in duegrotte, l’anno scorso mi sono preso una bella soddisfazione nel Vallon delle Scandole, di fianco alla Nord dell’Agner, 1.900 metri di discesa ripida ma non estrema, in condizioni super top, in una zona un po’ defilata delle Pale». E il futuro? «Nei primi anni di professione ho fatto molti viaggi e spedizioni, ora, con due figli e un terzo in arrivo, nel tempo che mi rimane in inverno mi obbligo ad andare a sciare con gli amici per riprendermi la mia passione, fuori stagione curo l’orto e i campi con mia moglie Daniela e mia suocera e cerco di rendermi autonomo dal punto di vista energetico». Tutto quello che coltiva, dai prelibati fagioli di Lamon agli ortaggi, basta per quasi un anno grazie al congelatore, la legna che raccoglie nei boschi scalda la casa. «È un impegno, richiede tempo, ma mi sono reso conto che più lavori, più spendi: per andare a lavorare spendi, se guadagni di più ti senti giustificato a spendere, così ti accorgi che rinunciando a qualcosa e dedicando più tempo a te stesso e alla famiglia, la qualità della vita aumenta, anche se non è un equilibrio facile da trovare. E poi lo faccio anche per i miei figli Pietro e Anna, perché si rendano conto dell’importanza della terra e della natura. Se stai in montagna e fai la stessa vita della città non ha senso». Già, la terra, quella stessa terra per la quale gli indios hanno percorso oltre 3.000 chilometri fino a Città del Messico. Tutto torna.

© Alice Russolo

Questo articolo è stato pubblicato su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui


Michael Sinn: freeride, skialp e video. Da fare vedere ai figli

Sentirsi dire in tipico accento sud-tirolese da un ragazzo con un gran piede che partecipa regolarmente al circuito FWQ scio per divertimento, per il resto faccio l’agricoltore spiazza un po’. Dopotutto cercavamo gente che si muovesse senza clamore, sotto traccia. Agricoltore? Conoscendo un po’ l’Alto Adige le scimmie che battono i coperchi nel mio cervello iniziano a dipingere il classico paesaggio alpestre: baite, dolci pascoli e Michael con un filo d’erba all’angolo della bocca che scruta il gregge. Naaaaaaa… maledette scimmie, sono fuori strada. «Scio da sempre, ho fatto gare dai quattro ai 19 anni, anche qualcuna in Coppa Europa con la Nazionale. Ho studiato Agraria e quando ho finito ho iniziato a lavorare nell’azienda di famiglia».

Il maso di cui parla in realtà è una moderna azienda agricola con annessa cantina di Caldaro che produce ottimi e conosciuti vini locali, dal Lagrein al Sauvignon Blanc. «Ho fatto anche il maestro a Obereggen. La stagione invernale era quella con meno lavoro in azienda e riuscivo a conciliare le due cose. Ormai però da due anni il lavoro è aumentato, siamo un’azienda in espansione e quindi lavoro fisso a casa. Però non è un male perché ho più tempo per sciare libero come mi piace! Mi porto dietro il DNA della competizione e le gare di freeride e il FWQ è un modo divertente per conciliare diversi aspetti. Sto migliorando, anche se lo faccio solo per piacere, soprattutto per stare con il bel gruppo dei ragazzi italiani, andare in giro a sciare e divertirsi. In genere vado dove c’è neve. Nevica e c’è polvere? Allora faccio freeride. Non ne mette da un pezzo? Ecco che mi dedico allo skialp, percorrendo itinerari non necessariamente alla moda. Anzi, mi piace andare con gli sci in posti selvaggi. Non sono molti anni che faccio scialpinismo, ma mi piace sempre di più. Ho iniziato a pensarci dopo avere visto il film sul viaggio in Georgia del mio amico Wolfang Hell. Mi piace viaggiare e nel 2018 mi sono aggregato al loro viaggio in Siberia, sui Monti Altai: bei canali, belle cime e la discesa della parete Nord della cima più alta della zona. Nel 2019 poi è stata la volta del Marocco e dei suoi contrasti. I filmati che giriamo sono prima di tutto un bel ricordo che un giorno vorrei far vedere ai miei figli. E tutto questo mi piace sempre di più».

Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.


Diego Filosi, lo sci con leggerezza

Il numero di Diego l’ho avuto da suo nipote Alberto. Quando risponde gli spiego il motivo della mia telefonata. Dopo un attimo di silenzio mi risponde: «Non amo mettermi in mostra. L’ho già detto anche ad altri, preferisco starmene nel mio, sciare, fare le mie traversate, come un sacco di gente di cui raramente si viene a sapere quello che ha fatto».

Arriviamo a un compromesso quando gli prometto che potrà leggere quello che scriverò prima della pubblicazione. Si parte. Lo stile di Diego è leggero, da vero bergamasco: tutina, Merelli sempre nei piedi. È uno scialpinista non di primo pelo: di Lovere, classe ’63, ha sempre preferito i set-up ultralight. Diego è un appassionato di traversate con gli sci e anche per quelle usa attrezzi da vertical per ottimizzare al massimo il peso e poi – come dice lui – in salita su neve dura vanno meglio, batti meno e sei più efficace. Una di quelle a cui è più affezionato è la traversata dal Colle San Zeno fino all’Adamello e rientro al Passo del Tonale. Aprile 2013: 67 ore totali, 107 km, 7.100 metri di dislivello positivo. Un viaggio vero e proprio. Si muove per lo più da solo e, visti i progetti, non fatichiamo a crederlo.

«Da anni aspettavo il momento propizio per potare a termine questa lunga traversata, seguendo idealmente la traccia battuta trent’anni prima (fine marzo 1982) dagli sci dei miei amici e compagni di cordata Battista Pezzini e Federico Gualini e completando il loro percorso con la salita in vetta al Monte Adamello. Il progetto prevedeva il collegamento tra due cime molto care agli alpinisti locali, partire dal Colle San Zeno, sotto il monte Guglielmo, per arrivare in Adamello seguendo la via più logica. Negli anni, accompagnato da diversi amici, ho tentato di portarlo a termine, ma ho sempre incontrato qualche ostacolo: tempo avverso o neve impraticabile, condizioni fisico-mentali non ottimali o scarsa motivazione. Per questo avevo maturato la decisione di andare da solo: fare i conti con se stessi aumenta la probabilità di successo, anche se mi è spiaciuto un po’ non aver potuto condividere questa esperienza, unica nel suo genere». Non posso elencare tutte le traversate di Diego, ma ho letto alcuni racconti che mi ha inviato: li scrive in maniera minuziosa, annotando orari, emozioni, passaggi dei suoi percorsi. Come diari di viaggio d’altri tempi. Viaggi leggeri.

Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.


Giovanni Rovedatti: dieci, cento, mille curve

Giovanni, valtellinese di Morbegno, è di poche parole. Apprezzo molto chi riesce a esserlo: parlare meno è spesso un valore aggiunto non indifferente. Negli ultimi anni ci è capitato di scambiarci qualche impressione su alcune gite orobiche. Lavora in fabbrica alla Galbusera e per scrivere questo articolo ci siamo dovuti sentire verso l’ora di cena visto che aveva il turno di notte. Quando non conosco direttamente una persona le chiedo di raccontarsi un po’. «Son trentacinque anni che scio sulle montagne di queste zone. Si, è vero, ormai i posti nuovi qui in Valtellina, specie nelle Orobie, sono pochi, ma ci sono ancora. Ad esempio in Val Madre, vicino alla Val Tartano. Ho fatto anche tutti i quattromila delle Alpi, quelli che potevo con gli sci. Però ora sarebbe meglio che nevicasse: sto facendo delle gite che di solito si fanno più avanti approfittando del fatto che in basso le strade sono pulite come in tarda primavera. Ultimamente mi sono mosso in Val Bodengo».

A Giovanni però una domanda dovevo farla, stante il fatto che è forse uno di quegli sciatori che vantano le serpentine più perfette che ci siano in giro. Perché sempre curve corte? Non ti diverti anche a mollarli?. (Ride, ndr) «No, no, mi piace fare serpentina, mi piace fare più curve possibili, forse sono ancora alla moda veja, ma altrimenti dentro di me sento di non valorizzare abbastanza il pendio se facessi solo tre o quattro curve. Lo stesso per l’altra mia passione, la fotografia e i paesaggi. Sono tra i pochi che si ostina a scarrozzarsi dietro la reflex al posto di una compatta o di un telefonino». Ma è quando gli faccio la domanda più banale e allo stesso tempo difficile per un appassionato come lui che mi rendo conto di quanto sia innamorato di andarsene in giro per le sue montagne: perché ti piace sciare?

«Mi piace fare scialpinismo. Mi piace da matti. Poi per carità, a volte vado anche in pista piuttosto che stare a casa. Ma la cosa che davvero amo è arrivare in cima, guardarsi intorno. Non so spiegarlo, è più bello, è quella roba lì». Lo capisco, perché altrimenti non farebbe centomila metri di dislivello all’anno…

Questo ritratto è stato pubblicato all’interno dell’articolo Sei personaggi sotto traccia su Skialper 128 di febbraio 2020. Info qui.