Skialper Archive / Fulgido Tabone, professione custode del Rocciamelone
La voce si assottiglia e si rompe, quasi volesse farsi piccola per lasciar spazio all’ennesimo ricordo. Le memorie di 45 anni trascorsi tutti quassù, senza mai lasciare un’estate sguarnita, fanno a pugni per essere raccontate. Ma, di tanto in tanto, il cuore prevale. E Fulgido il montanaro si commuove. A 2.854 metri d’altitudine c’è chi fatica a camminare qualche ora. Lui ci ha trascorso una vita. Il Ca’ d’Asti, rifugio alpino più antico d’Italia immortalato dalle cronache sin dal Trecento, oggi non sarebbe nulla senza le sue mani callose. Forse non ci sarebbe proprio più. Quel che dal 1977 Fulgido vi ha messo dentro, di materiali, di lavoro, di equipaggiamento, e di cuore, è tanto. È tutto quel che c’è. Trecento quintali almeno di carichi, trasportati tutti con il motore delle gambe, dice lui: qualcuno ha moltiplicato anni, salite e pesi e poi gli ha fatto il conto. Un numero teorico, certo. Ma alla fine, a guardarsi intorno, mica poi tanto. E dire che a 12 anni Fulgido Tabone, annata 1948, muratore e factotum di professione, pensava che da queste parti non sarebbe mai più tornato. Il Rocciamelone, che butta l’occhio sul Ca’ d’Asti da 700 metri più su, 3.538 sul livello del mare, gli era parso qualcosa da dimenticare, dopo quella prima salita poco memorabile vissuta dopo aver raggiunto la base in Vespa. E invece qualcosa era scattato. Ci sarebbe voluto tempo per capirlo, ma qualcosa era pronto a cambiargli la vita. Solo quest’anno sono 41. In totale, alla data del suo settantatreesimo compleanno, il 10 settembre, erano 1.220. Fulgido Tabone oggi non è solo il rifugista storico che dà un’anima al Ca’ d’Asti del CAI Susa: è anche l’uomo del Rocciamelone.
La persona che ha salito la cima dei torinesi, dedicata alla Madonna, più volte rispetto a chiunque altro al mondo. Dopo l’ormai lontana ascesa da dodicenne, Fulgido ha incrociato di nuovo queste strade nel 1976, quando sul giornale diocesano La Valsusa comparve un annuncio per la ricerca di volontari desiderosi di dare una mano nella sistemazione del vecchio rifugio e del bivacco in vetta. «Quel giorno mi sono presentato in punta, e ho visto che c’erano alcuni ragazzi, insieme al cappellano militare Laterza. Passammo insieme tutta la giornata: alla sera mi chiese di rimanere ancora, e di tornare in settimana» ricorda lui. Quel qualcosa destinato a cambiargli la vita era ormai scoccato. Da quell’anno, il legame con questi monti non si è più dissolto. «La sistemazione del rifugio è stata un lavoro lungo e faticoso, durato più di dieci anni e con tantissime persone che hanno dato un contributo – racconta Fulgido – Nessuno avrebbe scommesso una lira sulla rinascita di quel rudere, e invece guardate qui. Ma nel tempo ho capito che se avessi lasciato, forse tutto si sarebbe perso. E così ho deciso di legarmi sempre più a questo posto». Risultato: oggi qui tutto parla di lui. Non solo le stanze del rifugio, arrivato a contare 80 posti che il Covid ha purtroppo ridotto a una ventina, ma anche la cappella di Santa Maria e il bivacco sotto la vetta: «A tutto questo tengo come fosse casa mia» confida, evitando con modestia di puntualizzare che l’impegno gli è valso il Cavalierato e il premio Penna al merito dagli alpini della Valsusa.
Eppure, la storia di un amore tanto forte non può non contare anche dispiaceri. Come in ogni cosa umana, quassù, nell’aria più rarefatta, i sentimenti più nobili a volte se la vedono anche con le debolezze. E Fulgido, che per 45 anni ogni estate ha lasciato la sua Caprie per custodire questi luoghi, ripensa con la voce nuovamente rotta al 2006. «Quella volta in cui sfregiarono il volto della statua della Madonna». O alla vicenda del baffo rotto del busto di Vittorio Emanuele II, proprio in cima alla montagna. Le mani da artigiano di Fulgido ci hanno sempre messo su una toppa, ma la tristezza resta. «In tanti anni sono molte le cose cambiate in peggio. La maggior parte della gente è gentile e corretta, ma oggi faccio i conti sempre più con superficialità e maleducazione. Persone che prenotano e non si presentano, cattiveria, polemiche e discussioni per l’obbligo di mascherine: io non ho più vent’anni. E certe cose fatico ormai ad affrontarle». Anche l’ultima botta: il Comune che ha chiuso la strada fino al parcheggio La Riposa per lavori, compromettendo di fatto la chiusura di stagione, lo ha piegato. Eppure Fulgido tiene duro.
E non si spezza. «Il prossimo anno? Vedremo» lasciando intendere che comunque non saprà mai dire no a tutto questo. «Questa montagna non ha più alcun segreto per me» dice con affetto. E il ricordo va alle 1.220 ascensioni, percorse da tutte le vie possibili, dalle più semplici alle più ardite, da vicino e da lontano, senza carichi e con pesi di ogni genere, per piacere e per dovere. «Un ricordo speciale? Forse la recente salita dal canalino verso Novalesa, durante la quale abbiamo ritrovato la croce in legno che nell’800 era posta sulla cappella di vetta. O forse i due giorni e mezzo di cammino da Caselette alla cima, la volta in cui sono partito da più lontano. O ancora il recente incontro con una ragazza svizzera, che ha deciso di salire in punta con me e con la quale ho chiacchierato di tante cose della vita. Un bel momento, un incontro che mi piacerebbe rinnovare».
Insomma, milleduecentoerotte volte, 41 solo nel 2021, tante solitarie, tante scialpinistiche, 8 Natali e 5 Capodanni in cima. Fulgido ricorda ogni momento. Ogni fatica. Ogni attimo di freddo. Ogni chilo trasportato. Ogni pericolo. «E ogni volta in cui mi sono reso conto – dice – che qui bisogna sempre sapere quel che si fa, soprattutto se alla cima si arriva con gli sci ai piedi». Lui, quel che fa ormai lo sa alla perfezione. Banale da dire. Ma ogni giorno resta una scoperta, pure in una storia tanto fedele a se stessa. «Per venire a Fulgido Tabone, meriterebbe non solo qualche frase, ma un intero volume – scrisse un giorno, anni fa, il generale Giorgio Blais sullo Scarpone Valsusino – Ha dell’incredibile quello che lui e la sua impareggiabile moglie Angiolina fanno. Non so da quanti anni Fulgido sia il gestore di Ca’ d’Asti, non meno di una trentina, forse trentacinque. Già in prima linea durante i lavori per la ricostruzione del rifugio e la sistemazione del Santuario in vetta, ne assunse la responsabilità gestionale da quando il rifugio iniziò a funzionare e da allora è sempre là in prima linea, alternando la sua presenza fra l’abitazione e normale attività a Caprie e la nostra montagna.
Fulgido non è solo il custode del rifugio e del Santuario in vetta. Tabone è l’amorevole custode del Rocciamelone, colui che traccia e mantiene i sentieri, che fissa e controlla le corde che aiutano la salita nell’impervio ultimo tratto sotto la vetta, che va su e giù fra Ca’ d’Asti e la vetta. È lui che si è accorto che l’ultimo nubifragio di giugno e la tempesta avevano danneggiato la Croce di Ferro, facendola precipitare fra i dirupi. L’ha cercata, l’ha trovata, l’ha nuovamente installata, l’ha riportata nelle condizioni precedenti, e tutto in silenzio, senza clamori, senza attendersi un grazie, ma solo per la straordinaria coscienza di gran galantuomo e per l’amore che porta verso il nostro monte, di cui conosce pietra su pietra». Di Fulgido Tabone, in fondo, cosa serve dire di più?
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 138 DI OTTOBRE 2021
Dentro il van
Sulle montagne che fronteggiano Leukerbad la neve si è coricata a cumuli. Ne è scesa tanta, per giorni, senza scegliere il suo dove. Ora ricopre ogni cosa. Ed è questione di metri tradursi in un gioco o in un pericolo, anche se lei a queste cose non ha il tempo di pensare. La mano che bussa al mio van infreddolito è decisa. Non mi lascia il tempo di aprire che già l’ordine mi investe. Go a-w-a-y. Sillabico, glaciale, senza nemmeno lo spazio per un punto esclamativo. In pochi minuti bisogna uscire, non c’è tempo da perdere. Sulla parete alle nostre spalle il sottile confine fra gioco e pericolo oscilla con il pendolo di una daisybell. E ora la neve caduta senza badare al dove fa i conti con un’esplosione che potrebbe finirci sulla testa. Forse seppellirci. Insomma, correre al meeting point per metterci in sicurezza è l’ordine teutonico da rispettare. Dobbiamo lasciare tutto e allontanarci. Cinque minuti di tempo, ma è una scelta che non riesco a fare. Incosciente, forse, ma quel che abbandono non è solo una carrozzeria su quattro gomme. È la mia casa. Per di più, nuova di pacca.
Un van è come un figlio. Quando lo scegli, lo vivi fino in fondo. Non è il tuo mezzo di trasporto, non è il tuo status symbol. Non è solo il viaggio alternativo. È ciò che ti rappresenta. E contiene te stesso. Lasciarlo lì, a un ignoto destino esplosivo, è dura quanto lasciarci il cuore. Vorresti scappare ma anche no. Obbedire agli ordini, ma salvare anche il tuo tutto. Cinque minuti di tempo, ma non è facile. Ci penso più del dovuto, i solleciti mi incalzano, poi la scelta si esaurisce. Si incrociano le dita, e si va. Mentre ti volti a guardarlo, capisci quale sia la prima cosa che impari quando giri il tuo piccolo mondo su quattro ruote. Il tuo mezzo è tutto. È casa. E quando il fine è lieto come lì a Leukerbad, dove la neve sceglie di vomitare la sua cascata lontano dal tuo pensiero, è come se a scampare il pericolo fossi tu. Se oggi mia nonna mi vedesse vagare per mare e monti a bordo di una scatola mobile, lo so cosa direbbe. Che sono una singra. Una zingara. Ai suoi tempi solo il matto del villaggio non le avrebbe dato ragione. Sarebbe dura farle capire che io in quel contenitore ambulante oggi ho tutto quello che lei considerava prezioso della sua casa solida in muratura. Un bagno, l’acqua calda che scorre, un letto, un fornello e un piccolo spazio tutto mio. Non ci crederebbe mai, che in meno di dieci metri quadri posso vivere. E non sentire la mancanza di niente. Tanta gente non ci crede ancora oggi. Non posso biasimare nessuno. Comprendere un diverso stile di vita e di viaggio, apparentemente scomodo e macchinoso, non è facile. Potrei dire che serve provare, ma le complicazioni logistiche rischierebbero di scoraggiare le buone intenzioni. Allora posso solo dire che bisogna crederci. Nella consapevolezza, fin da principio, che di queste vite ci sono tante declinazioni, non tutte ugualmente ostiche. E che comunque, mi scuso per il qualunquismo, non sono a priori cose per tutti.
Io ci sono ormai dentro fino al collo. E in quest’annata assurda flagellata da un minuscolo ma immane virus, so che la mia scelta diventerà quella di tanti. Sempre di più, in un mondo che già da anni si stava moltiplicando. Vivere l’inverno sportivo a bordo di un van, o se volete furgone, che poi la sostanza è sempre quella, vuol dire trovare non la strada giusta, ma la strada furba. Quella che permette di unire tutti i puntini del disegno immaginario: senso di evasione, spirito d’avventura, autodeterminazione, mancanza di vincoli. E - voilà la novità - totale distanziamento sociale, che detto così pare brutto. Ma in fondo è quel che questo mondo strano e folle oggi ci chiede, senza tanti complimenti. La moda la chiama vanlife, vita in van, e gli Stati Uniti ci marciano su ormai da anni. Modaioli, fighi, assuefatti a Instagram all’ennesima potenza, i suoi volti sono storie da copertina patinata. Figli del mondo surfer che nelle spiagge californiane offrono giacigli da sogno per i loro nostalgici Volkswagen serie T, sono la fotografia di un senso hippie vestito di modernità. Nelle traduzioni invernali, ancor più accentuato: braga molla e buriola fashion, prende la forma dei freeskier stile Teton Gravity, perennemente innamorati dei monovolume del Volk. Del popolo. Ma da 50.000 euro a colpo, parola di listino.
La complessità di questo variegato mondo parte da qui. Nella coesistenza fra una tribù nostalgica ed essenziale, affezionata ai vecchi furgoni paffuti da Era dell’Acquario, e un mondo alternativo ma comunque borghese. Ricercatore di un’estetica nuova, ispirata a un bisogno di libertà che è figlio dell’abbondanza e di una voglia di fuga dal troppo. E che si alimenta di soluzioni apparentemente freak, ma sostanzialmente consapevoli, spesso costose. Questa superficiale contraddizione nasconde in realtà una coerenza ineffabile ai più, tanto da diventare spesso fonte di diffidenze. Spirito selvaggio e mezzi di ultima generazione sono in effetti le due facce di una sola ricerca estetica, che vuole mantenere il suo fondamento filosofico ma allo stesso tempo essere all’altezza delle esigenze di comfort e vivibilità, soprattutto d’inverno. Si tratta comunque di un punto di arrivo, questo va detto. Io oggi, forse presuntuosamente, mi annovero con il mio compagno nel grande popolo dei vanlifer, peraltro non permanente, ma a questo risultato siamo approdati solo al termine di un lungo percorso. Nel 2018, anno del nostro personale apice, abbiamo trascorso nove mesi su dodici sul nostro furgone camperizzato (battezzato Thor per una smodata passione per il Nord e per un certo bisogno di ingraziarci i voleri degli dei norrøni), ma più di vent’anni fa lo spirito wild già reclamava la sua parte.
Erano i tempi della combo tenda-macchina, un classico da età studentesca ma troppo poco per affrontare avventure sempre più intense nella natura. E allora, via di furgone allestito un po’ così: due sacchi a pelo buttati sul cassone in legno, zaini sotto la testa e chilometri a gogò. In pancia, paste alla carbonara e zuppe liofilizzate da cuocere sul micro camping gas. Vien da sé che non erano ere di pesanti trasferte invernali, salvo mettere in conto il rischio ibernazione. A quelle siamo arrivati con il tempo, buttando gli sci nel Range Rover preparato da offroad spinto e tuffandoci a fine giornata nel materasso morbido della Maggiolina (la mitica tenda da tetto) montata sulle barre portatutto. Una vita facile? No. Poetica sì. Romantica anche. Ma semplice no. La grande intuizione della tenda da tetto apribile vive nella sua praticità: avere una simil-camera da letto sempre a disposizione, ovunque si vada, è cosa che sa di rivoluzionario. Ma farci vita invernale in modo confortevole, mi scusino gli appassionati del genere, anche no. Serve posizionare il kit apposito, un telo esterno dotato di isolante, dotarsi di sacchi a pelo simil-himalayani e sperare in temperature clementi. Soluzioni fai da te per posizionare riscaldatori a 12 volt, riscaldatori Webasto con prolunghe e stufette a gas rientrano più nella letteratura degli sperimentatori che nella realtà delle cose. Ma tutto (non parliamo poi con un generatore esterno del quale bisogna solo sopportare il rumore) si può fare, ragionando in modalità homemade.
Restano comunque validi gli svantaggi evidenti della soluzione Maggiolina winter-mode, che richiede sempre il trasporto di una scala telescopica e che non offre spazi living coperti. Piove? Nevica? Per passare dalla tenda all’auto serve comunque esporsi alle intemperie. E per i pasti, chiudersi nel baule a costo di contorsioni. Sorvolando, grazie al buon cuore della natura, sulla parentesi wc. Su quest’ultimo, e non proprio secondario, dettaglio il nostro percorso a tappe ha fatto sosta nel periodo del furgone camperizzato fai-da-te. Sospinti dalla voglia di comfort, la soluzione outdoor dei nostri anni di mezzo ha preso le sembianze di un Renault Master color fuoco, allestito in modo artigianale con un letto quasi-matrimoniale sul retro. Doghe simil-bancale modellate dal falegname di fiducia sorreggevano un materasso su misura ogni weekend dell’anno, dal venerdì sera alla domenica. Poi tutto spariva per far posto ai carichi da lavoro, secondo l’uso conforme del mezzo. Per il caldo nessun passo avanti rispetto alla soluzione Maggiolina, essendo un autocarro privo di riscaldamento sul retro. Ma per il wc, entusiasmo a mille: erano i tempi del portapotty, piccolo water da barca che poteva essere comodamente sfruttato anche nella solitudine buia del cassone, sigillati ermeticamente dal mondo esterno. Sciacquone a pompetta manuale, disgregante miracoloso contro ogni tipo di produzione, e la sacra funzione sempre espletata al cospetto del cielo è così diventata un gesto privato e borghese. Anche nella rustica atmosfera del nostro arancio-van.
C’è una tribù, nel mondo furgonato, che esula da ragionamenti collettivi. Sono i VW-addicted. I fan dei furgoni Volkswagen, refrattari ad evoluzioni camperistiche e a concessioni a marchi alternativi. Fra i freeskier e gli skialper è una delle soluzioni più diffuse e amate, molto freak ma anche molto pratica. Dal Multivan al California, versione Westfalia o con letto smontabile, per loro il van è un’auto di uso quotidiano ma anche una casa mobile. Non comoda come un camper, ma agile come un mezzo compatto. È una firma sulla neve, un marchio che designa senza esitazioni l’appartenenza a una community. E soprattutto, è una scelta equipaggiata per affrontare anche le condizioni più fredde: merito di una semplice batteria servizi, che può allo stesso tempo alimentare luci, un eventuale frigo e la ventola di un Webasto.
Eccola, la parola magica. Webasto, l’irrinunciabile, la variabile tra freddo e caldo. La fonte di vivibilità nei giorni delle sciate invernali. Un bruciatore alimentato dal gasolio del serbatoio, una ventola spinta dalla corrente, bocchettoni di calore interni: la semplice formula di questo strumento, chiamato così in onore del brand più noto ma ricco di varianti, è la carta che lo rende vincente. Perché con un consumo tutto sommato economico garantisce la cosa più preziosa di cui un vanlifer, soprattutto invernale, ha bisogno: il calore.
È stata quella volta al Monginevro, in una gelida serata di neve, che anche noi abbiamo compreso l’importanza di quel che normalmente è scontato. Avevamo da poco Thor, furgonato puro su Citroen Jumper, ultimo step del nostro climax di mezzi outdoor, quando il caldo all’improvviso ci ha abbandonati. Era la fine di una giornata di fantastico sci fuoripista. E non ci sono volute molte ore perché il gelo artigliasse ogni cosa.
Sapete cosa accade quando in un camper la temperatura scende sotto i 5 o 6 gradi? Una valvola chiamata Elasi si apre e il centinaio di litri di acqua contenuta nella grande vasca che alimenta gli impianti idraulici viene riversato a terra. Non è un dispetto del diavolo. È un accorgimento di sicurezza, per evitare che i tubi possano congelare e rompersi, provocando danni di entità improponibili. A quel tempo noi allietavamo il nostro nuovo van con il riscaldamento a gasolio, ma il timer che avevamo impostato, quel giorno non è scattato. L’alternativa di cui disponevamo, una stufa a gas chiamata Truma che tendevamo a trascurare per il consumo eccessivo di bombole che imponeva, non era allertata. E così, durante la nostra assenza sciistica, il termometro è sceso. Fino a sbloccare la ghigliottina delle acque. Lasciandoci al freddo e a bocca asciutta.
Viaggiare, e passare del tempo, su un van d’inverno richiede una certa attitudine allo sgamo. Bisogna essere svegli e imparare i trucchi che possono salvare le penne e il portafogli. Capire perché quella volta al Monginevro il Webasto non si fosse innescato, cosa che può accadere a chiunque, è stato un esercizio teorico e scientifico che ha richiesto tempo al mio compagno. Ma alla fine la soluzione è arrivata. E sta nella legge che in Europa impone la presenza di una percentuale di biodiesel, ovvero di olio vegetale, nel gasolio. A temperature molto basse, la paraffina contenuta nel diesel congela, questo si sa. E questo è il motivo per cui noi avevamo messo l’apposito additivo: quel che non sapevamo è che anche il biodiesel tende a diventare gelatinoso. E che nei piccoli tubi del Webasto ne bastava davvero poco perché il filtro si intasasse. Da allora, svelato l’arcano, ad ogni pieno invernale uniamo un antialghe per evitare l’inconveniente. E ci sacrifichiamo a spendere di più per usare solo il diesel migliore, che con meno zolfo tende a risparmiare altri guai.
Se a questo punto pensate che gestire un van, soprattutto al freddo, sia cosa da meccanici specializzati, sappiate che avete ragione. Anche io nel tempo ho imparato cose che voi umani nemmeno potete immaginare. Ho imparato ad esempio che sono meglio le gomme termiche delle quattro stagioni e che bisogna sempre avere con sé due paia di catene, da posizionare davanti e dietro, perché su mezzi così pesanti le discese e le curve possono diventare anche molto critiche. Ho imparato che due batterie servizi sono il minimo sindacale, perché il riscaldamento a gasolio va sempre lasciato acceso basso, accettando che ciucci elettricità come certi ciucciano tracce a tradimento. Ho imparato che i pannelli solari sono irrinunciabili per sostare in libera. Per caricarsi devono ricevere i raggi in modo perpendicolare, quindi tutto va ben calcolato, soprattutto se sono montati su un tetto a soffietto. E devono essere tenuti puliti, magari spazzolati con una scopa telescopica se ha nevicato. E se fa brutto per giorni, devono essere rimpiazzati con un’alternativa, perché al frigo e al Webasto non importa da dove arrivi la corrente: una colonnina, un piccolo generatore, alla peggio il motore acceso. Ma qualcosa va studiato. Ho imparato che ingegnarsi per trovare soluzioni innovative e intelligenti è divertente, oltre che utile. Un esempio? Un colpo di genio, e il mio compagno ha trasformato il portabici in un portasci verticale sul retro del van. Doppia resa, mezza spesa. E ho imparato anche che nei casi estremi, quando il pilota è anche un viaggiatore invernale di quelli duri e puri, bisogna investire per dotare il van delle soluzioni giuste. Assetto 4x4, gomme chiodate e thermotop, ovvero il kit per tenere caldo il motore. Il mio amico Elia Bertozzi, che si è sparato un viaggio invernale in solitaria nella Lapponia finlandese sul suo James Cook del 1997, era perfettamente equipaggiato. Eppure in un giorno di tormenta a -34 gradi si è ritrovato per ore prigioniero del suo van, con i portelloni ghiacciati che non si aprivano più. E ha dovuto inventarsi la vita per tenere calda la meccanica contro la ferocia del vento artico.
Le soluzioni da rivista di design? Quelle che scintillano nelle fotografie di Instagram al suono dell’hashtag vanlife? Interni in perline, arredi da baita luxury, stufa a legna: quelle restano idee estetiche più che pratiche. Bellissime, ma non esattamente efficienti. Pensate solo alla stufa a legna, d’inverno. Girando in libera, magari sotto la neve, dove procacciarsi ciocchi secchi? Meglio portarli da casa, direte voi. Ok, ma quanti? Si rischia di riempire il gavone solo con quelli. E durante il giorno, mentre siete intenti a godervi la vostra lunga scialpinistica, come tenere caldo il van per evitare che le acque si scarichino? O più banalmente, che tutto congeli? La stufa va alimentata, non vive di vita propria. E se non amate il profumo della caligine, sappiate che non è comunque cosa che fa per voi. Oltre a questo mare magnum di insegnamenti in continua evoluzione, il van mi ha regalato anche qualcosa di diverso. Ed è forse la cosa più importante. Obbligandomi a guardare la vita da uno spazio minimale poggiato su quattro ruote, mi ha costretta a rivedere gesti normali. E a dare una nuova visione a tutto quello che sembra banale. Parcheggiare è la cosa più normale del mondo. Un gesto che compiamo tutti migliaia di volte. Ma pensate di dover badare alle inclinazioni, a far sì che la posizione della testa sia più alta dei piedi, che non ci siano piani obliqui che impedirebbero di lavorare e cucinare.
Tutto diventa più complesso. Bisogna pensarci su. A Rothwald, anni fa, abbiamo fatto l’errore di posizionarci proprio a bordo strada, in una bella serata di neve fitta. Niente di più stupido: al mattino lo spazzaneve ci aveva impalato un metro e mezzo di calcestruzzo sulla porta. Uscire è stata un’impresa da titani… e spalare via per ore la colata lavica ormai marmorizzata, beh, una figata proprio. Ma chi ci avrebbe mai pensato? Pensate invece alla doccia. Forse riderete, ma farla sul van d’inverno è qualcosa che va pianificato e attuato con perizia. Bisogna accendere per tempo il boiler, tenendo presente che i litri d’acqua che si scaldano - almeno nel nostro caso - sono una decina in tutto. Bisogna esser certi di aver parcheggiato in piano, o al più in discesa nella direzione dello scarico, per evitare allagamenti interni che sarebbe difficile risolvere. Bisogna allargare con cura la tenda impermeabile, per far sì che gli interni del bagno, le guarnizioni e i bocchettoni del riscaldamento non prendano acqua inutilmente. Bisogna essere capaci di lavarsi in fretta per non sprecare acqua preziosa, chiudendo il getto quando ci si insapona e limitando al minimo i canti spensierati sotto la cascata bollente. Bisogna poi asciugarsi senza bagnare troppo in giro, e a operazione conclusa ripulire tutto quanto al meglio. Magari sfruttando il riscaldamento del bagno per togliere acqua dalla tenda.
E, last but not least, specie per noi donne, bisogna tenere presente che poter usare un phon non è cosa così scontata. Io, ad esempio, non posso usare il mio sul van: l’inverter che abbiamo fatto montare porta corrente a 220V solo fino a 600 watt, il che significa che il mio MacBook gode, ma i miei capelli piangono. Soprattutto ora che sono di nuovo lunghi. Dovrei dotarmi di un phon a potenza inferiore, ma ci impiegherei forse un quadriennio a farmi la piega. E allora, meglio evitare di lavarli d’inverno, se fa molto freddo e non si ha modo di accedere a un bagno con una presa vera. Consiglio che sembrerà poco chic, ma che è comunque molto concreto. Caricare e scaricare le acque e il wc resta un’altra questione mica da ridere. D’inverno, quando tante strutture sono chiuse, è importante essere informati fin dalla partenza sui punti nei quali è possibile farlo. La Svizzera, in cui io ho viaggiato al freddo, ad esempio, non è esattamente camper-friendly. E oltre a essere un susseguirsi di divieti di sosta libera, obbligando spesso a posizionarsi in modo illegittimo o a optare per un camping, è anche poco dotata di servizi discharge&refill. Oggi le app vengono incontro bene a queste problematiche, consigliano aree, indicano dove trovare appoggio. Quel che ancora nessuno sa fare, e forse saprà fare mai, è dare indicazioni su come affrontare psicologicamente tutto questo. Dalla prima all’ultima riga che finora avete letto. Quando mi capita di fare serate con il mio compagno per raccontare alla gente la bellezza della vanlife, a volte concludo leggendo un testo che ho scritto tempo fa. Quel testo, a un certo punto, suona così: sono le parole con cui riaccendo il mio Thor e mi rimetto in partenza, verso una nuova avventura.
Viaggiando ho capito che quello che ti serve per vivere può stare in quattro metri quadri. E probabilmente avanzi ancora spazio. Puoi anche avere i tuoi hobby, portarti dietro le tue attrezzature, ma più di un armadietto non c’è bisogno per infilare te stesso. E se hai un frigorifero, anche piccolo piccolo, e un bagnetto grande come una cabina telefonica, allora quella in cui ti trovi puoi considerarla tranquillamente una casa. Viaggiando ho capito che non è facile viaggiare. Che se sei su un van, non puoi prendere le cose alla leggera. Che l’epoca degli hippy era bella. Ma non portava a nulla se non alla pace di quel momento. Ho capito che devi fare le pulizie come se fossi a casa, forse ancora più spesso. Che devi rifare il letto ogni mattina perché altrimenti sarebbe solo un gran casino. Che quando fai la doccia devi avere la tanica dell’acqua piena. Devi asciugare tutto alla perfezione se non vuoi vivere nell’umidità. E devi rimettere via le cose con precisione, perché se no rischieresti di non girarti più. Ho capito anche che se viaggi a lungo, devi avere persone a casa che ti capiscono e a cui puoi sempre guardare. E devi avere un buon compagno. Uno con cui ti capisci al volo. Che sa fino a dove arrivi tu, e tu sai dove arriva lui. Uno su cui puoi contare. Che sa cosa fare se succede qualcosa, specie se sei un po’ svanita come me. Ma anche che apprezza il tuo essere un giorno qua e un giorno là, sempre in viaggio con la tua mente, perché considera questo il bello di te. Viaggiando ho capito che ci vuole coraggio a partire. Se vuoi, anche follia. Ma c’è una cosa che, più di tutte, devi avere per andare davvero. La curiosità di sapere che cosa ci sia là fuori. Perché solo una volta che conosci, puoi davvero fartene un parere. E quindi parlare. O magari, questo potrai valutarlo solo tu, startene completamente zitto.
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Dani Arnold, la paura per amica
Le piccozze divorano la via con fame inesauribile. Si alternano veloci a mordere il ghiaccio sottile. Poi a graffiare la roccia nascosta appena sotto. È freddo. Ripido. Pauroso. Ed è solo l’inizio. Potrebbe essere tutto lì, davanti e sopra di lui. Potrebbe non servirgli altro che quella parete di vetro, il gesto che ripete e la tensione che lo affila per sentirsi vivo. E invece la velocità per un attimo rallenta, perde il dominio. Dani si ferma. Quasi scordasse di essere lassù, artigliato al velo di acqua solida che gli impone massima rapidità, si volta indietro. Si prende il suo tempo, sorride. There it is… the Alaskan sun, dice piano. Il giallo arancio del sole sboccia dal buio dell’orizzonte ancora assonnato. Tende un nastro lunghissimo sopra tutte le valli e lo annoda sulla fronte infreddolita di Dani e dell’amico, che da qualche ora salgono la parete Est del Mooses’s Tooth, nel cuore dell’Alaska Range.
Loro sono Dani Arnold e David Lama, uno svizzero, l’altro austriaco, e non hanno tempo per commuoversi. Buttano quello sguardo al sole, giusto il tempo di sentirsi felici, e poi via. Ancora su. Perché nelle quarantott’ore che stanno per vivere, in questa primavera 2013 già densa di alto alpinismo, firmeranno un’impresa destinata a farsi ricordare. Bird of prey, Uccello rapace. Una nuova via sull’inviolata Headwall di questa montagna tanto estetica quanto sperduta, posata nel mezzo di un ghiacciaio che solo i monomotore osano sfiorare. Millecinquecento metri di linea importante. Qualcosa che neppure loro si aspettavano di trovare. E forse di saper affrontare.
«Perdere David è stato durissimo» mi confessa Dani senza aggiungere tante parole. È passato ormai un anno da quando il compagno di avventure è volato verso la sua cima più alta, rapito da una valanga nel parco nazionale di Banff. Dani è da poco tornato dalla Siberia, dove ha vissuto nuove esperienze e ha risollevato il sipario sullo spettacolo che deve andare avanti, ma le cose restano difficili da accettare. «Quando è morto non ho voluto crederci, è stata una cosa che mi ha devastato». Eppure, in questo continuo filo di rasoio, restano pur sempre eventualità da mettere in conto. Succedono, e spesso. «È stato un dolore enorme dire addio anche all’amico Hansjörg Auer, che era con David quel giorno. Ma questa è la vita. E ho dovuto accettare e ingoiare anche il male che mi ha fatto salutare per sempre una persona come Ueli Steck». La montagna usa terapie d’urto per dialogare con gli umani, si sa. Tutti ne sono coscienti. Ma quella volta di Ueli, la perdita è andata oltre. Ha separato, verrebbe da dire, due parti del tutto. Ueli e Dani, due svizzeri, due velocisti della montagna. Due amici. Due rivali. Due talenti che si inseguivano e si raggiungevano, poi si sfuggivano, si cercavano e si osservavano. Si stimolavano a vicenda e non si invidiavano mai. «Non l’ho mai visto come un concorrente e ho sempre cercato di fare la mia strada» ricorda oggi Dani. Ma le cronache non possono nascondere quell’eterno rincorrersi sulle stesse cime. L’ossessione per le stesse pareti.
Era il 2011 quando Dani Arnold, allora ventisettenne, rubò per qualche tempo lo scettro all’amico sulla Nord per eccellenza. Due ore e ventotto minuti per lasciarsi alle spalle tutta la via Heckmair, superare una ventina di cordate e mettere piede sulla cima di sua maestà l’Eiger. Venti minuti in meno del record che già era di Ueli. E che poi, nell’affannoso vortice, a lui sarebbe tornato senza altri rivali per poco più di cinque minuti. Un niente. Oggi la Guida alpina Dani Arnold da Urner di Bienne, villaggio montano della Schächental, Canton Uri, tiene in pugno tre delle sei grandi pareti Nord d’Europa. Cervino, Grandes Jorasses, Cima Grande di Lavaredo. Su ognuna il suo è il tempo più rapido di chiunque nella storia. Sono i tasselli di un puzzle fatto di speed record conquistati con la sola fisicità. Nessun dispositivo di sicurezza, niente corde né imbraghi, nessun friend, niente moschettoni, niente di niente. Solo scarpette e casco. E gas aperto a mille, nel puro stile di quel free solo che ha stregato anche il cinema di Hollywood.
«La rinuncia consapevole alla sicurezza è qualcosa di speciale - mi confida Dani - Nella nostra vita cerchiamo di rendere tutto sempre più sicuro, il che è positivo. E gli alpinisti che rinunciano al materiale di sicurezza solo perché lo ritengono fonte di rischi si espongono a un gioco molto, molto pericoloso. Per me è diverso. Quando io arrampico in free solo devo sentirmi sicuro al cento per cento di poterlo fare: la fiducia è un punto chiave». Anche la sicurezza, a pensarci bene, lo è. Da una deriva l’altra, in fondo, e viceversa. «Sì. La sicurezza è in assoluto la cosa più importante. Ogni persona deve decidere fino a che punto vuole spingersi. Tuttavia, esiste sempre un rischio residuo di cui ognuno deve essere consapevole. Il segreto per affrontarlo? Formazione, preparazione ed esperienza. Le montagne sono belle, ma non bisogna mai scordare che sono anche pericolose».
E se qualcuno si lascia vincere dal desiderio di emulare? «Ognuno ha il diritto di fare le cose come vuole. Ma a un solo patto: che la vita di nessun altro sia messa a rischio». Resta il fatto che quel che dicono è vero: la pericolosità affascina. E infatti per Arnold la via più bella di sempre è un nome quasi sconosciuto che però gli ha fatto passare le pene dell’inferno. Anubis, in Scozia. Un 8a+ di misto aperto da Dave MacLeod nel 2010. «Perché è la mia preferita? Perché è molto difficile e non è ancora stata ripetuta. Ci sono pochissimi percorsi al mondo che sono così tecnicamente impegnativi. Naturalmente anche i free solo e i tentativi in velocità sono molto importanti per me. Ma sono un alpinista e ogni tanto voglio fare non solo salite rapide, ma anche nuove vie o percorsi molto difficili». E allora naturale che col tempo il cuore si sia posato sulle grandi classiche. Sulla ricerca di un nuovo primato proprio dove le leggende dell’alpinismo avevano scritto la storia. Cervino, via Schmid, parete Nord. Nell’anno del secolo e mezzo dall’ascesa di Whymper, Dani è svolazzato in cima, questa volta aggiungendo all’attrezzatura piccozze e ramponi, nel tempo di una libellula, un’ora e quarantacinque minuti dove gli umani impiegano una mezza giornata buona. E poi la Cima Grande di Lavaredo lungo la mitica via, classe 1933, Comici-Dimai. Cinquecentocinquanta metri di linea impegnativa, simbolo dell’arrampicata in Dolomiti, sfrecciati via nel tempo di una messa, e neppure solenne. Quarantasei minuti e trenta secondi. Circa due in meno del record precedente e quanto i nomi qualunque impiegherebbero sì e no per fare qualche tiro. Ma neanche poi tanti.
Dani ogni volta arriva in cima senza sorrisi. Quasi fosse irrispettoso ridere lassù, a celebrare un tempo alla portata di nessuno. Non sorride, ma trasmette felicità. Ferma il cronometro e si accuccia, riposa, si guarda intorno e tiene un po’ la testa fra le mani. A pensare cosa, solo lui lo sa. «L’Eiger per me è stato come un trampolino di lancio. La Cima Grande, dal canto suo, è stata un’ottima esperienza. Speravo di essere così veloce, ma non pensavo fosse possibile. Delle Jorasses invece sono particolarmente orgoglioso: è una parete davvero grande». Il ricordo sul Massiccio del Monte Bianco è datato fine luglio 2018. Lungo la via Cassin sullo Sperone Walker, Dani Arnold volteggia ancora una volta al ritmo di una farfalla, per poi pungere come una vespa. Proprio come insegnava Muhammad Ali. Alle dieci meno venti del mattino è a 3.300 metri d’altitudine, alle 11 è a 4.000. Alle 11.27 il pungiglione si conficca sulla Punta Walker, a un’altezza di 4.208 metri. In due ore e quattro minuti Arnold chiude il cerchio e firma un nuovo successo sotto l’egida del Pro Team di Mammut. Ma la domanda resta: perché? «È più una sfida personale. Questa dell’arrampicata leggera e veloce è una tendenza che si sta sviluppando sempre più, ma io la vedo come una forma di lotta contro me stesso. Per me è molto importante essere bravi in tutte le discipline degli sport di montagna e credo che ci voglia un ottimo livello in ogni ambito per avere la sicurezza di arrampicarsi senza una corda».
Già. Ma come arrivare tanto in alto? Dani ci scherza quasi su. E racconta di uno stile di allenamento molto freestyle, che non bada a mode o teorie e si alimenta solo delle proprie necessità. «A volte mi alleno molto, a volte faccio fatica a impegnarmi. L’obiettivo è importante per me: se non ho alcun obiettivo, non vedo alcun motivo per allenarmi. Ecco perché trovo fondamentale avere uno scopo nella vita. Quando lo raggiungi, puoi godertelo e festeggiare, e questa fase fa parte proprio del tuo personale traguardo». La pozione magica, comunque, non conta ingredienti segreti. Nessuna dieta specifica (anche se non mangio fast food ogni giorno) e tante ore nel letto: «Ho bisogno di dormire molto. Sono una persona mattiniera e la sera sono per lo più inutilizzabile». Ma neppure l’integralismo porta successo. E infatti, lui lo ammette, «spesso infrango le regole del mio stile di vita. Adoro il cambiamento. E penso che le nuove situazioni ti rendano creativo». La compagnia della moglie Denise, in tutto questo, non è di secondo piano. Con lei Dani arrampica spesso e con lei ha condiviso scalate di alto profilo. «È bellissimo quando possiamo fare grandi esperienze insieme in montagna. Per me gli amici, la famiglia e un posto dove mi sento a casa sono estremamente importanti». Eppure, paradossalmente, partire resta il pallino cruciale. Il chiodo fisso da battere finché ce n’è. Ieri il Broad Peak, primo Ottomila di una carriera giocata tutta su altezze minori, oggi la Siberia. Domani chissà. «Quella in Himalaya è stata una bella esperienza per me, ma non ne sono uscito soddisfatto. Tecnicamente non è assolutamente nulla di impegnativo. Ogni persona con un Ottomila nel cassetto è celebrata come un eroe, ma ci sono molte montagne di duemila metri che richiedono molta più preparazione di una via normale laggiù».
In Siberia, dove Dani è stato da poco con l’amico Martin Echser e dove sono state scattate le foto di questo servizio, le altezze sono ben lontane da quelle dei giganti della Terra. Ma lì il senso di infinito vince su ogni cosa e raggiunge il cielo senza alcuno sforzo. «L’obiettivo di questa spedizione era l’inverno freddo, quello giusto per tentare l’arrampicata su ghiaccio. Il riscaldamento globale sta rendendo le cose sempre più difficili alle nostre latitudini, quindi volevamo esplorare un nuovo posto, dove nessuno avesse mai scalato il ghiaccio». Un obiettivo raggiunto sul lago Bajkal, nella Siberia meridionale, dove di rado se si cerca il freddo ci si imbatte in qualcos’altro. «Abbiamo trovato esattamente quello che cercavamo, un freddo ben più intenso di quello che avevo provato sugli Ottomila: è stato fantastico. Ma anche la curiosità per il Paese, le persone e la cultura è stata un elemento importante di questo viaggio. L’ha arricchito molto».
Insomma: partire, per poi tornare e ripartire ancora. Alla ricerca infinita di qualcosa che non si afferra mai. Ecco la vita di Dani Arnold. «Certo, il periodo della quarantena da Covid-19 mi ha fermato, per forza di cose. Ma non è stato poi così male per me. Ovviamente ho dovuto posticipare una spedizione in Perù, ma la cosa più importante è che sono sempre rimasto in salute. Ora però sono molto felice che tutto stia tornando alla normalità». Un modo per dire, magari eufemisticamente, che quel che giaceva in pentola stia tornando a bollire? «Ho ancora molti progetti - chiude Dani, tra l’ermetico e lo scaramantico - Diciamo che non prevedo un futuro noioso». Insomma, non resta che stare a guardare: qualcosa lascia scommettere che la vespa dalle ali di farfalla si prepari a pungere ancora. Ma non chiedetegli se abbia paura, perché la risposta vi spiazzerà. «La paura è una buona amica, mi protegge» sorride lui. E a pensarci bene, Dani Arnold da Urner di Bienne un qualche segreto doveva pur nasconderlo. Che sia proprio questo, però, nessuno lo sa. E forse non lo saprà mai.
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Il cielo in una stanza
Lui dice che così si gioca il jolly. Uno a settimana, il sabato. Quel giorno può andare, può fare quel che vuole. Ma la domenica no: quella è tutta per Anna. E a lei non si può negare nulla. Ma a Roberto Munarin un giorno basta e avanza. Per anni e anni, con un jolly ogni sette giorni ha fatto cose che tanti umani neppure in una vita. E comunque, ora che è tempo di abbassare le luci sul lavoro da consulente tessile esperto di stile, chissà che qualche altra matta esca dal mazzo. Che ci sia tempo per fare ancora di più. Chissà. Fra un settebello e un asso di cuori, la carta che vince non cade mai troppo lontano. Munarin la getta sempre lì. Intorno alle montagne di casa, quelle di sempre. Per lui, 59 anni, gragliese trapiantato a Muzzano, gioiellino dell’Alta Valle Elvo biellese, l’ombra del Mucrone è il cielo nella stanza. Il tetto sulla testa. E una vita intera a pestare rocce, neve, ghiaccio e terra fra questi stessi punti GPS non è bastata a stancarlo. Né, è sicuro, lo stancherà mai. Da San Carlo al colle Carisey, dal Giassit al Camino, alla Nord del Mars, al Mombarone, fino alla valle Oropa e poi ancora e ancora, se un Pollicino avesse raccolto tutte le briciole lasciate a terra da Munarin in quasi quarant’anni di strada, ne avrebbe fatto una montagna. Una grande montagna ripiena di dieci, cento, millemila avventure.
Di scalate, chiodature, salite con gli sci, ravanate, scoperte, linee nuove e discese ripide. Farcita di aperture, sistema- zioni, bonifiche, camminate e ciaspolate. E insaporita di piccozzate, vie ferrate, escursioni e sciate in solitaria. Una ricetta che nessun altro da queste parti, sulle Pennine che guardano a Biella, ha mai saputo amalgamare fino a questo punto. E che per Munarin, con la modestia che da sempre si porta nello zaino, altro non è stata che un viaggio fatto in punta di piedi. Nel silenzio. E nel rispetto di un ambiente che, lo ripete come un mantra, di ogni alpinista resta sempre più forte.
Lui le chiama le scolastiche. In un mondo in cui le tentazioni strizzano l’occhio alla vanità e offrono palcosce- nici di parole, Munarin torna con la mente alla scuola. I banchi in cui ci si sedeva e da cui si ascoltava, si imparava. E si cresceva. Ogni uscita, anche con quattro decenni di montagna alle spalle, anche con un curriculum che conta un titolo da istruttore sezionale del CAI di Biella, nonché uno da vicecapo della stazione Valle Elvo del Soccorso alpino, oltre a lunghi anni da chiodatore e apritore di vie, realizzatore di progetti inediti, attività invernali e più di 120 salite e discese in solitaria, anche con tutto questo in tasca Munarin continua a sentirsi uno scolaretto. «Le mie non sono imprese, ma una ricerca vera. Un modo profondo e sincero di apprendere gli insegna- menti della montagna ed entrare a far parte del suo mondo. Esperienze che vivo in punta di piedi per cogliere le più piccole sfumature, con umiltà. Nella coscienza delle mie paure, compresa quella di non essere accettato, di sentirmi un estraneo e dover tornare sui miei passi, e nella consapevolezza che saprei sempre accomiatarmi con profondo rispetto».
Guidato da questo approccio slow, quasi meditativo, Roberto Munarin con il tempo si è reso uno dei più originali e innovativi alpinisti della scena biellese. Uno sportivo sui generis. Che non ha guardato alla montagna per farne reddito e pure ne ha percorso i tratti con la stessa intensità di un professionista. Anni di lavoro partiti quasi in sordina con la formazione classica del Club Alpino, poi il primo gradino istituzionale. Istruttore di alpinismo, arrampicata, cascate di ghiaccio per la scuola Guido Machetto del CAI concittadino di Quintino Sella. Quasi vent’anni da docente e, nel frattempo, l’esperienza nel soccorso e l’incontro folgorante con Tito Sacchet, precursore dell’arrampicata in quella mecca diventata la bassa Val d’Aosta. Con lui Munarin inaugura la stagione delle chiodature, rigorosamente dal basso. Mettono per primi il trapano tra le fessure di Mitico Vento a Machaby, poi si spostano ad esplorare i settori inediti di Outrefer e Albard. Per Roberto è il colpo di fulmine, lo sbocciare di una passione che a tutti i costi sente di dover trasferire ai suoi monti. Alla sua casa. Nasce così l’idea: un gruppo chiodatori tutto biellese, da mettere all’opera nella verticalità che ha visto perfezionarsi talenti unici. Da Guido Machetto a Nito Staich. «Quanto mi impressionavano quei salti di roccia che scendono dal monte Tovo e che raccontano decenni di storia alpinistica della mia terra - ricorda Munarin - Strutture e sentieri gloriosi lasciati in stato di abbandono, non solo per la scarsa conoscenza dei luoghi, ma anche per il pionierismo delle lontane chiodature. Qualcosa di ormai troppo distante dalle esigenze di sicurezza degli arrampicatori moderni». Insomma, è tutto da rifare.
Tutto da sistemare. Tutto ancora da inventare. E così, nel 2005, la macchina si accende.
La prima via, Ai Event, chiodata con l’amico Aldo Echerle, apre il gas. E poi via, come siluri. In appena cinque anni, con centinaia di giornate di lavoro, nella sola Conca di Oropa quasi centosettanta tiri di corda vengono chiodati in undici settori e decine di vie diventano realtà. Rinascite. Battesimi ex novo. Sono linee che si disegnano sulla misura di chiunque. A disposizione di chi le voglia provare e rivivere, dalle più classiche alle grandi novità.
Brevi e lunghe, facili e difficili, tutte sono unite dal filo di un nome che inizia sempre allo stesso modo: Ai. Come Ai Gat ad Piumb, il gruppo di questi nuovi chiodatori. Stesso prefisso, due vocali, in una forma di rispetto anche simbolico verso la montagna. «Un modo di chiedere il nostro permesso» chiarisce Munarin. È un’attività senza alcuno scopo di lucro. Lui, il fondatore, non vuole lasciare che ci siano sospetti su questo. Con gli aiuti dei sostenitori e degli amici, che donano materiale, e con spese annue di poche centinaia di euro, la Conca si arricchisce di tutto ciò che non aveva mai ricevuto da nessuno. Per Roberto Munarin - che all’attivo oggi tiene nel cassetto oltre 1.200 tiri di corda, ben più del solo progetto realizzato nell’area protetta del Santuario mariano - è la ciliegina sulla torta. La soddisfazione, sapendo che il dolce vero resta fatto di tanti altri ingredienti. Lasciato il trapano, dal mazzo spuntano i jolly giocati con la corda. Con le piccozze. Con i ramponi.
E soprattutto con gli sci. Nel corso degli anni Munarin colleziona un numero spropositato di salite e discese. Misto, ripido, invernale puro, nella lunga ricerca ce n’è per tutti i gusti.
E il poker scende con le realizzazioni più ardite: quelle inedite e le solitarie. Solo di queste ultime il biellese ne colleziona oltre un centinaio. E ancora non si ferma. «Sono i momenti in cui sono più me stesso. Da solo, con le mie montagne. E per forza di cose è lì che la preparazione diventa quasi maniacale. Soprattutto nel periodo invernale, quello che di gran lunga prediligo, è tutto un pianificare. Ricercare la linea della salita, della discesa, individuare il passaggio impossibile fra le rocce, il pendio più addomesticabile, l’attacco, l’uscita». Non sempre tutto è facile. Spesso è un gran gioco di incognite e difficoltà. A volte, anche di rinunce. Ma lui lo dice: «Qui non c’è niente di commerciale. Niente da vendere. Questo modo di vivere la montagna va semplicemente oltre il gesto atletico e rappresenta un mio modo di stare a stretto contatto con l’ambiente e la natura selvaggia che mi circonda». Niente di più.
L’unica vetrina verso il mondo è un sito web. Raccolte con la cura di un padre, tutte le immagini delle avventure di Munarin si srotolano lungo una stessa pellicola. Fotogrammi di un unico sogno. La solitaria alla parete Nord del Mombarone, la vedetta della Valle Elvo, quella alla Nord-Est della Punta Tre Vescovi, quella alla Nord del monte Roux. Lui racconta che ogni volta è un crescendo di emozioni. «La settimana prima del grande giorno i collegamenti web non si contano. Controllo continuamente l’evoluzione del meteo, analizzo tutti i siti che conosco. Incrocio i dati. E intanto tengo sempre fra le mani le foto del mio progetto. In auto, a pranzo, a cena, sul desktop del computer: ogni momento è buono per ripassare i compiti. Poi arriva il momento delle riflessioni. È quasi ora. E io divento taciturno, assente. Anna lo sa. E ogni volta capisce al volo che qualcosa bolle in pentola». Ma la scolastica vince sempre. È lei la più forte. Il grande giorno l’essenziale è fatto di poche cose: una colazione che è quasi un pranzo, uno zaino che riduce al minimo i pesi e un cuore tormentato di emozioni. «Me lo chiedo ogni volta. Ma chi me lo fa fare?».
E nessuno la risposta la sa. «Poi arrivo all’attacco, indosso l’imbrago, calzo i ramponi, metto gli sci nello zaino, controllo di avere tutto. E parto. È il momento in cui divento una cosa sola con la mia montagna: la tensione si allenta, sento l’abbraccio della parete e non mi sembra più di essere solo». È l’apoteosi dell’alpinismo introspettivo. Una specie di catarsi. Che però non fa sconti, e impone di mantenere sempre le antenne dritte. «Alterno passaggi facili che supero in conserva ad altri più alpinistici, che affronto in autoassicurazione - spiega Munarin -. È un’armonia fatta di perfetta concentrazione e veloce progressione: i due requisiti fondamentali per conquistarsi il diritto, a patto che la montagna lo voglia, di toccare la cima».
Una vetta, però, non è mai in tasca finché non si torna dove si è partiti. Così dice la storia. E Munarin a queste parole crede dal profondo. «Non deve essere cima a tutti i costi. Non mi importa. L’essenziale è coltivare un’idea, immaginarla, farla propria e tentare il possibile per realizzarla». Ecco perché, al di là delle uscite solitarie, ogni jolly giocato dal Maestro - come tanti amici ormai lo chiamano - è il punto di arrivo di uno studio. Di una proiezione mentale. E mai di una banale esecuzione meccanica di gesti. Anche l’ultimo asso calato è figlio di questa logica, Ai fil di cresta. Sempre Ai. Sempre una linea. Sempre un’idea nuova alla base. Una traversata a fil di cresta dalla Colma del Mombarone al Monte Barone, l’Ovest e l’Est delle Alpi Biellesi, passando per la locale Alta Via e per la montagna regina, il Mars (2.600 m) e poi ancora per il Cresto e la Valle Cervo, il Bo e le linee fra Valsessera e Oasi Zegna. Un sogno nuovo, da rendere vero a puntate. Con calma. Con i compagni giusti, la preparazione adeguata e con sci e pelli. E se qualcosa, a dirla tutta, è già diventato realtà, altro lo diventerà nei tempi a venire. Quando il destino lo vorrà. Per Munarin, in effetti, non conta correre, conta solo vivere. E ora che i jolly spunteranno dal mazzo senza più obblighi di lavoro a intralciare, ogni singolo giorno potrà finalmente essere quello buono. Pronto a spargere il profumo della vita da divorare. Dell’ossigeno da inseguire. E dei sogni da coltivare.
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La Promenade
In questi giorni in cui siamo confinati in casa, ecco il racconto del giro della Valle d'Aosta con gli sci ai piedi. Un'avventura per la quale saremmo tutti pronti a partire, ma che dovremo rinviare. Le montagne rimarranno lì ad aspettarci...
Fra i legni lunghi due metri e dieci e i palettoni da 106 millimetri sotto il piede scivolano via cinquant’anni. Come niente fosse. Decenni di vite, senza che la montagna se ne sia neppure accorta. Corse, salite, discese, gare, neve, pioggia e sole. E lei sempre uguale a se stessa. Sempre lì, a due passi da casa. Corrono via cinquant’anni, ma gli orizzonti restano immobili. Vicinissimi a tutto, ma lontanissimi dal mondo. E i ricordi di allora si fondono con quelli di oggi. Raccontando come tutto sia cambiato. È il 1970, i legni sono altissimi e stretti, fardelli sugli attacchi capaci di alzarsi non oltre un paio di dita. Pelli fissate a tre ganci laterali, una tenuta approssimativa, nello zaino l’attrezzatura per sistemarle nei momenti peggiori. Nello sconfinato bianco della Val d’Aosta, in condizioni di neve perfette e abbondanti, tre ragazzi. Guido, Ruggero, Carlo. Ad aprile, primi di sempre, tracciano il loro sogno: attraversare la regione sugli sci, da Champorcher a Gressoney. Tredici tappe, due giorni di sosta per maltempo, 37.000 metri di dislivello. Quando arrivano alla meta, il giorno della Festa del Lavoro, a unirli non è solo la sensazione di aver fatto qualcosa di mai visto. È la certezza di aver fissato un’amicizia. Di averla messa alla prova. Nelle difficoltà e nelle risate. «Resterà sempre uno dei ricordi più belli della mia vita» dirà uno di loro.
Cinquant’anni si dileguano in vapore. Ma le cose belle diventano cemento. Anno 2017, mese di maggio. La storia si ripete. Sulle stesse linee che ogni anno decine di persone ripercorrono, sugli stessi passi che gli atleti del Tor des Géants inanellano frenetici, il sogno di Guido, Ruggero e Carlo rinasce. È lo spirito a dettare le regole: nessuna sfida contro il tempo, nessun bisogno di leggerezza per correre più veloci. Lì, a due passi da casa, Shanty Cipolli e Simon Croux decidono semplicemente di ripercorrere quel che qualcuno ha già fatto. Per raccontare a tutti, senza esibizionismi alpinistici, che «per esplorare non si deve per forza andare lontano». Perché quando parti, come puoi apprezzare quello che trovi, se non sai quello che lasci?. Sono le montagne su cui si affaccia la camera da letto, rimaste lì nel tempo ad osservare, senza dire parola. I luoghi di una vita. Shanty Cipolli, nome sanscrito portato in dono da un viaggio paterno in Nepal, qui ci scia da sempre. Ventisei anni, maestro di sci di Antey, porta sulle gambe giganti e gare di skicross con i colori della nazionale, prima di approdare al mondo freeride e ai Qualifier per il World tour. «Studiavo da geometra, ma ho lasciato perché non era compatibile con tutti questi impegni» ammette. E lo sguardo a un futuro professionale si è ridisegnato di conseguenza: «Ora punto alle selezioni per diventare Guida alpina» non nasconde. E intanto, si scia. Un po’ la stessa storia di Simon Croux, ventunenne di Courmayeur, nato in Svizzera e posato sugli sci all’età di tre anni da una famiglia titolare di un locale sulle piste ed erede di una lunga tradizione di Guide alpine (il trisnonno Laurent era fra i consueti accompagnatori del Duca degli Abruzzi). Anche per lui gare di gigante, poi un salto alle competizioni freestyle e l’arrivo a soli 14 anni al Freeride World Tour junior. «Anche io ho dovuto lasciare la scuola: frequentavo il liceo sportivo, ero riconosciuto come atleta nell’ambito di una classe de neige. Ma niente: la mia attività non era vista alla pari dell’agonismo più classico, da sci club. E questo non mi ha aiutato». Oggi, tanto per chiarire com’è finita, è nei Qualifier del Freeride World Tour.
Per Shanty e Simon, stuzzicati dal filmaker Michel Dalle, di Grobeshaus Production, l’idea di ripercorrere quel sogno lungo cinquant’anni, ritrovando lo spirito di quei lontani giorni scoperto per caso in un libro, è la scintilla. L’innesco di un’avventura diventata film con la voglia di mostrare a tutti cosa c’è là dietro. Dietro le cime di sempre. Oltre lo sguardo. A due passi da casa. Ma tra il fare per conservare e il fare per raccontare passano differenze immense. E dove Guido, Ruggero e Carlo scivolavano senza guardarsi indietro, pensando solo alla loro avventura, Shanty e Simon si trasformano in protagonisti. Accompagnati dal regista-snowboarder in split e illuminati dal volo di perlustrazione effettuato con l’amico Cesare Balbis, pezzo di storia del Soccorso Alpino valdostano, cercano soluzioni, inquadrature, momenti, luci e pensieri da cristallizzare. I chilometri si susseguono, i metri di dislivello scattano. «Ma i pesi dell’attrezzatura sono di per sé il segno che quel che si voleva non era la performance, piuttosto una forma di ricerca» chiarisce Michel. Il desiderio di dire qualcosa. Di vivere i luoghi della vita in modo diverso. Venti chili di materiale foto-video, sacco a pelo, fornellino, bombole, attrezzatura alpinistica, tende, cibo, acqua, sci, scarponi. Addosso a ciascuno c’è più di una ventina abbondante di chili. E da Courmayeur Arp, dove tutto inizia, le giornate si fanno pian piano sempre più dure. Sveglia alle 6 del mattino o giù di lì, pelli e sciolina fino alle 16, poi sosta. Se serve in tenda, dove la zanzariera deve restare aperta per evitare che tutto condensi, se si può in rifugio. Giorno dopo giorno, per ventidue albe e tramonti, corrono sotto le lamine La Thuile, il Rutor, la Valgrisa e il col Bassac Déré, il rifugio Benevolo, la Val di Rhêmes con la Punta Basei, la Valsavarenche con i Piani del Nivolet, il Miserin e Champorcher, Gressoney e il Colle Bettaforca, Champoluc e il Col di Nana, Torgnon, Saint Denis, Saint Barthélemy e il col Vessona, la Valpelline, il Gran San Bernardo e il Col Malatrà. La birra finale evapora qui, seduti fianco a fianco ad ammirare i 4.810 metri che sovrastano ogni cosa. E la mente corre veloce a tutto quel che è stato in così poco, ma anche tanto tempo: la salita durissima verso La Thuile e il Deffeyes, la volpe che curiosava in tenda e poi accettava uno spuntino, il caldo opprimente della Valgrisa. La giornata di relax totale sul ghiacciaio Goletta, all’ombra del Granta Parey. La voglia di uscire di rotta e salirlo, la decisione di farlo davvero. La fatica della parete dura e ripida. La bellezza della sciata fuori programma. E poi la polvere che solleticava le ginocchia sotto il Città di Chivasso, la durezza della salita al Miserin, la tappa a Chamois e Antey, con la grigliata a casa di Shanty e la parentesi di una notte nel letto di sempre. La polverella fine al Vessona, le tracce di lupi verso la Valpelline. Tutto si accavalla, tutto torna. Ma è tutto troppo caldo ancora. E giù dal Bonatti scalpita la voglia di dire basta alla fatica. «Era ora di arrivare - ricorda Simon -. E ho tirato giù una linea dritta sulle pigne del bosco. Era fatta».
Venticinque minuti di film, poco più di un minuto per ogni giorno, un anno dopo sintetizzano e fermano nel tempo quelle emozioni. Campi larghi, silenzi, parole scelte con attenzione. E un racconto che non risparmia dettagli sulle difficoltà. Shanty e Simon che osservano la mappa, che scendono a fuoco nell’immenso del bianco. Che attendono in tenda. Che scherzano sul cibo. Sono i momenti televisivi. Dietro ai quali si nascondono le discussioni sulla scelta dell’itinerario, le rotte decise in base alle condizioni del momento, i consulti con gli amici di ogni valle, gli sguardi ai bollettini valanghe. La consapevolezza di percorrere una linea logicamente contraria all’usuale, sempre in partenza da ovest per scendere ad est, dal cemento del mattino alle insidie del pomeriggio. La speranza che il tempo regga, la fortuna di vedere che sarà così. I tratti più critici, i traversi a rischio. I momenti di confronto sulla scelta delle inquadrature. I tempi di assetto del regista nei punti strategici e più magici. Ma la neve si offre stabile. Perfetta. Ed è lei a legare ogni pezzo all’altro. Un giorno, due. «La camminata fin da subito si rivela più lunga e faticosa del previsto - recita Shanty, voce narrante sullo sfondo delle immagini -. Ma ormai non si torna più indietro. Adesso siamo qui, solo noi con le nostre forze». Ed è lì, nell’attimo della consapevolezza, che il vero sogno di Guido, Ruggero e Carlo riprende forza. «Gli spazi si fanno sempre più ampi - spiega Shanty -. E noi ci sentiamo piccoli». Puntini nel bianco. Proprio come cinquant’anni prima, pur sorretti da materiali, idee, attitudini e propositi molto lontani, i pupilli del CAI Guido Fournier, Carlo Vettorato e Ruggero Busa avevano immaginato. «Il nostro non voleva essere solo un esercizio fisico - ricorda Guido quasi cinque decenni dopo -. Era qualcosa di più. Che aveva in sé anche una componente estetica e naturalistica». Un’esperienza. «Un ricordo fantastico - chiarisce Carlo -. Che se avessi cinquant’anni meno, o anche solo 30 o 40, rifarei subito. Anche se so che non sarebbe più la stessa cosa».
Anche Shanty e Simon lo dicono. È passato un solo anno, ma la voglia di rifare tutto è già forte. «Un rewind? Potendo farlo, mi muoverei a tappe - spiega il maestro di Antey -. C’è tanto, così tanto da sciare in quei luoghi che scorrere via veloci, in una sola linea di passaggio, sembra un peccato». E allora, chissà. Forse sarà domani, forse tra qualche tempo. Forse ci penserà di nuovo qualcuno tra cinquant’anni. Intanto il bello è ormai dentro al cuore e alla memoria. Una lotta contro il «freddo, il vento, la stanchezza, la fame, la condensa, gli scarponi ghiacciati». Con un finale che non ti aspetti. Perché «quando sei lassù a guardare le stelle, a sentire il silenzio, a vedere la luce del mattino, ti rendi contro che, nonostante tutto, ne è valsa la pena». E forse, a due passi da casa, ne varrà sempre la pena.
1.300 metri al giorno
La traversata scialpinistica della Val d’Aosta portata a termine nel maggio 2017 da Shanty Cipolli e Simon Croux è durata 22 giorni. Queste le tappe: Courmayeur Arp la Balme; La Thuile e Rutor; Valgrisa e Col Bassac Déré; Rhemes e Punta Basei; Valsavarenche e Piani del Nivolet; Miserin e Champorcher; Gressoney e Colle Bettaforca; Champoluc e Col di Nana; Torgnon; Saint Denis; Saint Barthelemy e Colle Vessona; Valpelline e Valle del Gran San Bernardo; Col Malatrà e Courmayeur. I due freerider valdostani hanno coperto circa 1.300 metri di dislivello al giorno, con alcune varianti e soste rispetto al classico percorso del Tor des Géants, facendo affidamento su mappe, cartine e telefonino, oltre a un GPS che però è stato utilizzato solo nei punti più critici. Membri del team Mammut, supportati da alcuni sponsor, hanno percorso la traversata con sci da freeride: per Simon Croux i Line Francis Bacon (104 mm sotto il piede) con attacchi Marker Kigpin; per Shanti Cipolli i Movement Go Strong (106 mm), sempre con Kingpin. Con loro il filmaker Michel Dalle, che ha seguito la traversata con una tavola split. Al seguito, quattro batterie da un chilo l’una, un corpo camera da cinque chili, un computer, caricatori, treppiedi e ottiche, per un totale di circa 20 chili di materiale video. Nel 1970 un itinerario analogo era stato percorso da Carlo Vettorato, Guido Fournier e Ruggero Busa: partiti da Champorcher il 17 aprile, arrivarono a Gressoney il primo maggio, chiudendo la linea in tredici tappe, con una sosta di due giorni per maltempo. Percorsero 37.257 metri di dislivello, di cui 17.842 in salita e 19.415 in discesa.
Il film
Disponibile online su YouTube, La Promenade (25’ 48”) è il film che racconta i 300 chilometri e 20.000 metri di dislivello percorsi da Shanty Cipolli e Simon Croux nella loro avventura scialpinistica. Prodotto da Grobeshaus Production di Aosta, il video è stato scritto e diretto dal filmaker Michel Dalle, maestro di snowboard. Al suo attivo da un paio d’anni anche il film cAPEnorth, realizzato con la comproprietaria di Grobeshaus, Francesca Casagrande, per raccontare il viaggio su un’Ape Piaggio di due giovani aostani fino all’estremo nord della Scandinavia.
La Promenade
Fra i legni lunghi due metri e dieci e i palettoni da 106 millimetri sotto il piede scivolano via cinquant’anni. Come niente fosse. Decenni di vite, senza che la montagna se ne sia neppure accorta. Corse, salite, discese, gare, neve, pioggia e sole. E lei sempre uguale a se stessa. Sempre lì, a due passi da casa. Corrono via cinquant’anni, ma gli orizzonti restano immobili. Vicinissimi a tutto, ma lontanissimi dal mondo. E i ricordi di allora si fondono con quelli di oggi. Raccontando come tutto sia cambiato. È il 1970, i legni sono altissimi e stretti, fardelli sugli attacchi capaci di alzarsi non oltre un paio di dita. Pelli fissate a tre ganci laterali, una tenuta approssimativa, nello zaino l’attrezzatura per sistemarle nei momenti peggiori. Nello sconfinato bianco della Val d’Aosta, in condizioni di neve perfette e abbondanti, tre ragazzi. Guido, Ruggero, Carlo. Ad aprile, primi di sempre, tracciano il loro sogno: attraversare la regione sugli sci, da Champorcher a Gressoney. Tredici tappe, due giorni di sosta per maltempo, 37.000 metri di dislivello. Quando arrivano alla meta, il giorno della Festa del Lavoro, a unirli non è solo la sensazione di aver fatto qualcosa di mai visto. È la certezza di aver fissato un’amicizia. Di averla messa alla prova. Nelle difficoltà e nelle risate. «Resterà sempre uno dei ricordi più belli della mia vita» dirà uno di loro.
Cinquant’anni si dileguano in vapore. Ma le cose belle diventano cemento. Anno 2017, mese di maggio. La storia si ripete. Sulle stesse linee che ogni anno decine di persone ripercorrono, sugli stessi passi che gli atleti del Tor des Géants inanellano frenetici, il sogno di Guido, Ruggero e Carlo rinasce. È lo spirito a dettare le regole: nessuna sfida contro il tempo, nessun bisogno di leggerezza per correre più veloci. Lì, a due passi da casa, Shanty Cipolli e Simon Croux decidono semplicemente di ripercorrere quel che qualcuno ha già fatto. Per raccontare a tutti, senza esibizionismi alpinistici, che «per esplorare non si deve per forza andare lontano». Perché quando parti, come puoi apprezzare quello che trovi, se non sai quello che lasci?. Sono le montagne su cui si affaccia la camera da letto, rimaste lì nel tempo ad osservare, senza dire parola. I luoghi di una vita. Shanty Cipolli, nome sanscrito portato in dono da un viaggio paterno in Nepal, qui ci scia da sempre. Ventisei anni, maestro di sci di Antey, porta sulle gambe giganti e gare di skicross con i colori della nazionale, prima di approdare al mondo freeride e ai Qualifier per il World tour. «Studiavo da geometra, ma ho lasciato perché non era compatibile con tutti questi impegni» ammette. E lo sguardo a un futuro professionale si è ridisegnato di conseguenza: «Ora punto alle selezioni per diventare Guida alpina» non nasconde. E intanto, si scia. Un po’ la stessa storia di Simon Croux, ventunenne di Courmayeur, nato in Svizzera e posato sugli sci all’età di tre anni da una famiglia titolare di un locale sulle piste ed erede di una lunga tradizione di Guide alpine (il trisnonno Laurent era fra i consueti accompagnatori del Duca degli Abruzzi). Anche per lui gare di gigante, poi un salto alle competizioni freestyle e l’arrivo a soli 14 anni al Freeride World Tour junior. «Anche io ho dovuto lasciare la scuola: frequentavo il liceo sportivo, ero riconosciuto come atleta nell’ambito di una classe de neige. Ma niente: la mia attività non era vista alla pari dell’agonismo più classico, da sci club. E questo non mi ha aiutato». Oggi, tanto per chiarire com’è finita, è nei Qualifier del Freeride World Tour.
Per Shanty e Simon, stuzzicati dal filmaker Michel Dalle, di Grobeshaus Production, l’idea di ripercorrere quel sogno lungo cinquant’anni, ritrovando lo spirito di quei lontani giorni scoperto per caso in un libro, è la scintilla. L’innesco di un’avventura diventata film con la voglia di mostrare a tutti cosa c’è là dietro. Dietro le cime di sempre. Oltre lo sguardo. A due passi da casa. Ma tra il fare per conservare e il fare per raccontare passano differenze immense. E dove Guido, Ruggero e Carlo scivolavano senza guardarsi indietro, pensando solo alla loro avventura, Shanty e Simon si trasformano in protagonisti. Accompagnati dal regista-snowboarder in split e illuminati dal volo di perlustrazione effettuato con l’amico Cesare Balbis, pezzo di storia del Soccorso Alpino valdostano, cercano soluzioni, inquadrature, momenti, luci e pensieri da cristallizzare. I chilometri si susseguono, i metri di dislivello scattano. «Ma i pesi dell’attrezzatura sono di per sé il segno che quel che si voleva non era la performance, piuttosto una forma di ricerca» chiarisce Michel. Il desiderio di dire qualcosa. Di vivere i luoghi della vita in modo diverso. Venti chili di materiale foto-video, sacco a pelo, fornellino, bombole, attrezzatura alpinistica, tende, cibo, acqua, sci, scarponi. Addosso a ciascuno c’è più di una ventina abbondante di chili. E da Courmayeur Arp, dove tutto inizia, le giornate si fanno pian piano sempre più dure. Sveglia alle 6 del mattino o giù di lì, pelli e sciolina fino alle 16, poi sosta. Se serve in tenda, dove la zanzariera deve restare aperta per evitare che tutto condensi, se si può in rifugio. Giorno dopo giorno, per ventidue albe e tramonti, corrono sotto le lamine La Thuile, il Rutor, la Valgrisa e il col Bassac Déré, il rifugio Benevolo, la Val di Rhêmes con la Punta Basei, la Valsavarenche con i Piani del Nivolet, il Miserin e Champorcher, Gressoney e il Colle Bettaforca, Champoluc e il Col di Nana, Torgnon, Saint Denis, Saint Barthélemy e il col Vessona, la Valpelline, il Gran San Bernardo e il Col Malatrà. La birra finale evapora qui, seduti fianco a fianco ad ammirare i 4.810 metri che sovrastano ogni cosa. E la mente corre veloce a tutto quel che è stato in così poco, ma anche tanto tempo: la salita durissima verso La Thuile e il Deffeyes, la volpe che curiosava in tenda e poi accettava uno spuntino, il caldo opprimente della Valgrisa. La giornata di relax totale sul ghiacciaio Goletta, all’ombra del Granta Parey. La voglia di uscire di rotta e salirlo, la decisione di farlo davvero. La fatica della parete dura e ripida. La bellezza della sciata fuori programma. E poi la polvere che solleticava le ginocchia sotto il Città di Chivasso, la durezza della salita al Miserin, la tappa a Chamois e Antey, con la grigliata a casa di Shanty e la parentesi di una notte nel letto di sempre. La polverella fine al Vessona, le tracce di lupi verso la Valpelline. Tutto si accavalla, tutto torna. Ma è tutto troppo caldo ancora. E giù dal Bonatti scalpita la voglia di dire basta alla fatica. «Era ora di arrivare - ricorda Simon -. E ho tirato giù una linea dritta sulle pigne del bosco. Era fatta».
Venticinque minuti di film, poco più di un minuto per ogni giorno, un anno dopo sintetizzano e fermano nel tempo quelle emozioni. Campi larghi, silenzi, parole scelte con attenzione. E un racconto che non risparmia dettagli sulle difficoltà. Shanty e Simon che osservano la mappa, che scendono a fuoco nell’immenso del bianco. Che attendono in tenda. Che scherzano sul cibo. Sono i momenti televisivi. Dietro ai quali si nascondono le discussioni sulla scelta dell’itinerario, le rotte decise in base alle condizioni del momento, i consulti con gli amici di ogni valle, gli sguardi ai bollettini valanghe. La consapevolezza di percorrere una linea logicamente contraria all’usuale, sempre in partenza da ovest per scendere ad est, dal cemento del mattino alle insidie del pomeriggio. La speranza che il tempo regga, la fortuna di vedere che sarà così. I tratti più critici, i traversi a rischio. I momenti di confronto sulla scelta delle inquadrature. I tempi di assetto del regista nei punti strategici e più magici. Ma la neve si offre stabile. Perfetta. Ed è lei a legare ogni pezzo all’altro. Un giorno, due. «La camminata fin da subito si rivela più lunga e faticosa del previsto - recita Shanty, voce narrante sullo sfondo delle immagini -. Ma ormai non si torna più indietro. Adesso siamo qui, solo noi con le nostre forze». Ed è lì, nell’attimo della consapevolezza, che il vero sogno di Guido, Ruggero e Carlo riprende forza. «Gli spazi si fanno sempre più ampi - spiega Shanty -. E noi ci sentiamo piccoli». Puntini nel bianco. Proprio come cinquant’anni prima, pur sorretti da materiali, idee, attitudini e propositi molto lontani, i pupilli del CAI Guido Fournier, Carlo Vettorato e Ruggero Busa avevano immaginato. «Il nostro non voleva essere solo un esercizio fisico - ricorda Guido quasi cinque decenni dopo -. Era qualcosa di più. Che aveva in sé anche una componente estetica e naturalistica». Un’esperienza. «Un ricordo fantastico - chiarisce Carlo -. Che se avessi cinquant’anni meno, o anche solo 30 o 40, rifarei subito. Anche se so che non sarebbe più la stessa cosa».
Anche Shanty e Simon lo dicono. È passato un solo anno, ma la voglia di rifare tutto è già forte. «Un rewind? Potendo farlo, mi muoverei a tappe - spiega il maestro di Antey -. C’è tanto, così tanto da sciare in quei luoghi che scorrere via veloci, in una sola linea di passaggio, sembra un peccato». E allora, chissà. Forse sarà domani, forse tra qualche tempo. Forse ci penserà di nuovo qualcuno tra cinquant’anni. Intanto il bello è ormai dentro al cuore e alla memoria. Una lotta contro il «freddo, il vento, la stanchezza, la fame, la condensa, gli scarponi ghiacciati». Con un finale che non ti aspetti. Perché «quando sei lassù a guardare le stelle, a sentire il silenzio, a vedere la luce del mattino, ti rendi contro che, nonostante tutto, ne è valsa la pena». E forse, a due passi da casa, ne varrà sempre la pena.
1.300 metri al giorno
La traversata scialpinistica della Val d’Aosta portata a termine nel maggio 2017 da Shanty Cipolli e Simon Croux è durata 22 giorni. Queste le tappe: Courmayeur Arp la Balme; La Thuile e Rutor; Valgrisa e Col Bassac Déré; Rhemes e Punta Basei; Valsavarenche e Piani del Nivolet; Miserin e Champorcher; Gressoney e Colle Bettaforca; Champoluc e Col di Nana; Torgnon; Saint Denis; Saint Barthelemy e Colle Vessona; Valpelline e Valle del Gran San Bernardo; Col Malatrà e Courmayeur. I due freerider valdostani hanno coperto circa 1.300 metri di dislivello al giorno, con alcune varianti e soste rispetto al classico percorso del Tor des Géants, facendo affidamento su mappe, cartine e telefonino, oltre a un GPS che però è stato utilizzato solo nei punti più critici. Membri del team Mammut, supportati da alcuni sponsor, hanno percorso la traversata con sci da freeride: per Simon Croux i Line Francis Bacon (104 mm sotto il piede) con attacchi Marker Kigpin; per Shanti Cipolli i Movement Go Strong (106 mm), sempre con Kingpin. Con loro il filmaker Michel Dalle, che ha seguito la traversata con una tavola split. Al seguito, quattro batterie da un chilo l’una, un corpo camera da cinque chili, un computer, caricatori, treppiedi e ottiche, per un totale di circa 20 chili di materiale video. Nel 1970 un itinerario analogo era stato percorso da Carlo Vettorato, Guido Fournier e Ruggero Busa: partiti da Champorcher il 17 aprile, arrivarono a Gressoney il primo maggio, chiudendo la linea in tredici tappe, con una sosta di due giorni per maltempo. Percorsero 37.257 metri di dislivello, di cui 17.842 in salita e 19.415 in discesa.
Il film
Disponibile online su YouTube, La Promenade (25’ 48”) è il film che racconta i 300 chilometri e 20.000 metri di dislivello percorsi da Shanty Cipolli e Simon Croux nella loro avventura scialpinistica. Prodotto da Grobeshaus Production di Aosta, il video è stato scritto e diretto dal filmaker Michel Dalle, maestro di snowboard. Al suo attivo da un paio d’anni anche il film cAPEnorth, realizzato con la comproprietaria di Grobeshaus, Francesca Casagrande, per raccontare il viaggio su un’Ape Piaggio di due giovani aostani fino all’estremo nord della Scandinavia.
Courtney Dauwalter, la trail runner con il vizietto di battere gli uomini
She did it. Courtney Dauwalter, statunitense del Team Salomon, nel 2018 prima donna alla Western States, ha vinto lo scorso fine settimana la classifica femminile alla MIUT-Madeira Island Ultra Trail (115 km, 7.200 m D+) del circuito Ultra-Trail World Tour, piazzandosi al decimo posto assoluto. Per 17 minuti e 5 secondi (15h17’05’’ il suo tempo) non ha battuto il record di gara di Caroline Chaverot (anche se le due prestazioni non sono confrontabili in quanto il percorso 2019 era leggermente più lungo e con circa 300 metri di dislivello in più), ma si tratta di un’altra prestazione nella top ten assoluta per la trentaquattrenne che in ben undici gare della sua carriera è arrivata prima assoluta, davanti agli uomini. Veronica Balocco l’ha intervistata per noi. Un'intervista inedita, realizzata qualche mese fa, che pubblichiamo a seguire.
Quando la filosofia incontra gambe e muscoli, grandi cose possono succedere. In una donna, poi, ancora di più. Le scarpe che per cento miglia pestano veloci la terra, poi rallentano all’improvviso. Quando il traguardo è tagliato e la vittoria decisa. Le ore di gara che scorrono con un senso, ben oltre la banale e semplice voglia di arrivare prima. Courtney Dauwalter lo sa, che lei è così. Incapace di correre solo per competizione, assetata di profondità anche quando fa ciò che di più fisico esista al mondo. E poi brava. Dannatamente brava. Talmente oltre da stupire tutti: prima lo scorso giugno alla storica Western States 100 californiana, la gara mito dell’endurance, chiusa con le sue 100 miglia in 17 ore e 27 minuti, secondo tempo femminile di sempre, oltre un’ora prima della seconda classificata e solo venti secondi dietro all’undicesimo uomo. E poi, alla Run Rabbit Run 100 e alla Moab 240. Nella seconda delle due, una molotov lanciata oltre dieci ore prima del maschio più veloce.
Gare mitiche e massacranti, leggende del mondo della corsa di lunga distanza, andate ad arricchire l’infinito curriculum della figlia del Minnesota che, a 33 anni, è ormai considerata una delle top ultrarunner mondiali: oro in 28 classifiche femminili su 53 dal 2011, con il piacere di guardare dall’alto di un tempo migliore il vincitore maschile in ben 10 di queste gare.
Insomma, un fenomeno. Che oggi vince e stravince senza fare della fisicità e del fanatismo la sua religione. E affascinando il mondo intero con un approccio all’endurance tutto personale. Intimo. Estremamente femminile. Assetato di ricerca e risposte, ad esempio sui limiti del corpo umano. Sulle possibilità estreme dell’agonismo spinto ai più alti livelli. E soprattutto, sui riscontri mentali di uno sport capace di sollecitare le fibre oltre ogni capacità. Sui dubbi più umani e normali. Fino a che punto è consentito spingersi? Esiste un confine?
Courtney, è per dare risposta a queste domande che corri? Oppure per cosa?
Sono molto curiosa di capire ciò che il nostro corpo può fare. Ma ancora di più, cerco di comprendere ciò che possiamo mentalmente raggiungere. Quanto lontano possiamo correre? Quanto veloce possiamo andare? Quali barriere possiamo sconfiggere o attraversare? Non credo che abbiamo ancora scoperto tutto ciò di cui gli uomini sono capaci, e io ho intenzione di continuare ad investigatore sulla parte “corsa” di tutto questo. Continuerò a correre per trovare questi limiti del corpo e della mente umana.
Dove nasce il tuo amore per lo sport?
Sono stata competitiva tutta la vita. Quando ero piccola facevo un sacco di sport. Ho due fratelli e spesso mi ritrovavo a fare le loro stesse attività. Il calcio, ad esempio. Dopo il liceo mi sono trasferita in Colorado per frequentare l’Università di Denver, dove studiavo biologia e facevo parte della squadra di sci nordico. Ho iniziato a correre sin da giovane per tenermi in forma per il calcio, ma col tempo ho capito che gli allenamenti e le gare del cross-country e dello sci nordico avevano un fascino incredibile su di me.
E il salto all’ultratrail? Com’è successo?
Dopo il college è stato naturale cercare un modo per continuare ad allenarmi e gareggiare. Ho tentato un paio di maratone su strada e mi sono piaciute. Ma con mio stupore ho scoperto che c’erano gare ancora più lunghe: nel 2011 ho provato un trail da 50 chilometri e da allora il mondo ultrarunning mi ha rapita.
Ma da lì a capire che eri una vincente?
Nel 2016 ho corso la Run Rabbit Run 100 a Steamboat Spring, in Colorado. C’erano molte donne forti e nessuno si aspettava vincessi. Nemmeno io. Ma ho vinto. Quella gara mi ha aiutata a capire che potevo competere nell’ultratrail, se ci avessi lavorato su.
Un processo difficile?
È stato molto lungo arrivare a farmi un’idea precisa di questa disciplina. Ci ho messo del tempo per smettere di pensare ai chilometri e fare mie le gare più lunghe. È stato difficile catturare davvero questo sport. E non ho ancora finito di imparare.
Come ti alleni?
Il cuore del mio allenamento sono la coerenza e l’autodisciplina. Esco ogni giorno a correre. Questo mi aiuta a rafforzarmi fisicamente ma anche mentalmente. Una volta fuori, non so quale allenamento seguirò: lascio che il mio corpo mi guidi. Quarantacinque minuti o 4 ore... dipende da come mi sento là fuori.
Che rapporto hai con il cibo?
Non seguo diete specifiche. Mangio quel che mi va e lascio che il mio corpo mi dica ciò di cui ha bisogno. Può andare da insalata e hamburger a valanghe di nachos e caramelle. Non faccio molta attenzione al concetto di ‘junky food’: a volte mi strafogherei di carne e uova, a volte non posso smettere di pensare al gelato. Qualunque cosa sia, penso che in quel momento il mio corpo ne abbia bisogno. E seguo i miei desideri.
In molte gare hai superato gli uomini più forti. È solo una leggenda che le donne siano il sesso debole?
Più le gare diventano lunghe, più uomini e donne si trovano a competere su un terreno paritario. Conosco donne molto forti che danno filo da torcere a tanti uomini nelle gare più lunghe. Io competo con chiunque allo stesso modo: credo che per le donne sia concretamente possibile reggere il confronto.
Eppure le differenze fra i due sessi sono innegabili. L’approccio alle gare è diverso, da un punto di vista mentale?
Penso di sì. Ci sono studi specifici su questo e trovo sia un campo molto affascinante. Dal mio punto di vista, il lato mentale dell’ultrarunning è un fattore determinante per essere vincenti.
Come ti confronti con la fatica?
Cerco di ignorarla. È fondamentale assumere questo atteggiamento.
Dunque a cosa pensi mentre corri?
A tante cose. La mia famiglia, i miei amici. Le grandi domande della vita. Penso a quanto sia fortunata ad essere lì a correre un trail, in un posto bellissimo, facendo ciò che amo. Penso alla birra che berrò al traguardo. O a volte non penso affatto. E lascio che tutto sia silenzioso.
Il momento cruciale in una gara?
Ognuna ha il suo. Alla Western State, ad esempio, il momento nevralgico è stato il miglio 25. Non mi sentivo così forte e il mio corpo non rispondeva al meglio. Il segreto è stato restare positiva: ho pensato che la gara era ancora lunga e potevano cambiare ancora molte cose. E in effetti così è stato.
Resta il fatto che affrontare certe distanze è una sfida continua, dall’inizio alla fine.
Bisogna affrontare un momento per volta. Non guardo mai il quadro completo, ma lo suddivido sempre in pezzi più piccoli.
Il tuo futuro sportivo. Come lo vedi?
Spero di continuare a far parte di questo mondo ancora per lungo tempo. Continuerò a spingere oltre i miei limiti e a giocare duro finché posso. E quando tutto questo finirà, troverò un modo diverso per farmi coinvolgere. Amo la comunità dell’ultratrail e non voglio abbandonare questa grande famiglia. Per ora, comunque, continuo ad affrontare nuove sfide, sperando di migliorare sempre più le mie capacità. Poi si vedrà.