Dynafit, nel 2021 arriva la collezione DNA per il trail running

La lotta contro il tempo fa parte del DNA di Dynafit e i prodotti da gara sono parte imprescindibile di quella che è la filosofia del brand. A partire dall’estate 2021 il marchio dedicherà particolari attenzioni al settore delle competizioni di trail running lanciando sul mercato la prima collezione estiva Dynafit DNA. Una linea di prodotti da gara ultraleggeri, tecnici, ridotti all’essenziale e altamente funzionali che rispecchiano i valori del brand. La collezione è composta da undici prodotti, da uomo e donna, che comprendono scarpe, abbigliamento e attrezzatura.

SCARPA DYNAFIT ALPINE DNA: LEGGERA E IDEALE PER LE DISTANZE MEDIO-LUNGHE

È il fiore all’occhiello della nuova collezione DNA. Leggera, con un peso di soli 240 grammi (200 grammi nella versione da donna), è stata creata appositamente per i trail veloci e tecnici, ed è ideale per le gare su distanze medio-lunghe. Una calzatura che ha mantenuto i punti di forza e i pregi della Alpine Pro, la bestseller da cui prende spunto. In questo nuovo modello gli sviluppatori hanno mantenuto quanto già comprovato e, basandosi sulle esperienze raccolte negli ultimi anni, hanno apportato miglioramenti alle caratteristiche tecniche, così da rendere la scarpa molto più leggera e performante rispetto alla precedente. La Alpine DNA ha una calzata più aderente e ancora più precisa grazie al nuovo plantare e al DNA Volume Reducers che consentono alla scarpa di diventare ancora più reattiva e sfruttare al meglio la potenza delle gambe. Il drop dinamico è di 6 millimetri. La costruzione Alpine Rocker consente una rullata fluida e armonica dal tallone alla punta delle dita, diminuendo la necessità di energia richiesta. La tomaia in mesh è molto leggera e traspirante. Il sistema di allacciatura tradizionale, insieme alla particolare costruzione della linguetta, consente alla scarpa di adattarsi perfettamente al piede. I lacci, inoltre, sono coperti da una fascetta elastica così da evitare che possano impigliarsi. Il battistrada Vibram Megagrip promette una presa ottimale sui suoli alpini, sia sul bagnato che sull’asciutto. La costruzione intelligente dei tasselli consente un passo veloce e una trazione eccellente, anche sui terreni più impegnativi.

Taglie: 6 – 12,13 UK (uomo) / 3 – 9 UK (donna)

Peso: 240 g (uomo) / 200 g (donna)

Drop: 6 mm

Prezzo consigliato: 165 euro

GIACCA A VENTO DYNAFIT DNA, ULTRALEGGERA E ANTIVENTO

Per tagliare l’aria anche quando il gioco si fa duro. È la giacca ultraleggera e antivento Dynafit DNA che offre la massima protezione a fronte di un peso minimo di 112 grammi. Il materiale funzionale senza PFC è antivento e idrorepellente ma anche molto traspirante. Le perforazioni laser poste sotto le braccia e sulla schiena assicurano un’ottimale circolazione dell’aria e la regolazione della temperatura corporea, anche durante le salite più impegnative. Il taglio atletico e aderente e il materiale elastico garantiscono una vestibilità ottimale e la massima libertà di movimento. La giacca può essere indossata e tolta nel minor tempo possibile grazie alla zip frontale posta su tutta la lunghezza. Gli inserti riflettenti migliorarono la visibilità in caso di maltempo o di uscite serali. Grazie all’ingombro ridotto, la giacca a vento DNA può essere portata con sé durante ogni gara.

Taglie: S – XXL (uomo) / XS – XL (donna)

Peso: 112 g (uomo) / 90 g (donna)

Prezzo consigliato: 130 euro

PANTALONCINO SPLIT 2IN1 DYNAFIT DNA: PERFORMANCE E COMFORT

Ideale nelle gare più impegnative, il pantaloncino split 2in1 DNA di Dynafit pesa solo 115 grammi (90 grammi nella versione femminile) e saprà conquistare tutti grazie alla funzionalità e alla costruzione intelligente 2in1. Il tight integrato è elastico, così da garantire la massima libertà di movimento su ogni tipo di terreno. Il tessuto morbido e senza PFC trasporta velocemente l’umidità lontano dal corpo, è molto gradevole sulla pelle e riduce efficacemente gli attriti, un fattore decisivo per arrivare a destinazione senza soffrire, soprattutto nelle lunghe distanze. Sia il tight interno aderente che il più ampio pantaloncino esterno sono perforati per consentire un’ottima circolazione dell‘aria. Il girovita elastico, regolabile in larghezza, offre una vestibilità aderente ma molto confortevole. Nella parte posteriore ci sono diverse taschine ove poter per riporre flask, gel o barrette da tenere sempre a portata di mano in caso di necessità.

Taglie: S – XXL (uomo) / XS – XL (donna)

Peso: 115 g (uomo) / 90 g (donna)

Prezzo consigliato: 90 euro

 

 


Paul Bonhomme, lo sci ripido come esplorazione

Dieci maggio 2018. La luce in fondo al tunnel è quella che ci coglie al termine del traforo del Frejus. Piove a dirotto sul lato francese, il che ci fa buttare un occhio alla temperatura riportata nel cruscotto della macchina: «Bene! Questa in alto attacca…». In primavera inoltrata, durante i giorni di pioggia, spesso il pensiero dei malati di sci va infatti alla neve che, con zeri termici abbastanza elevati, riesce a incollarsi sulle pareti tipicamente glaciali e rocciose. Oggi dopotutto stiamo andando a intervistare un personaggio che, senza temere di sbagliarci di molto, starà pensando esattamente la stessa cosa guardando tutta questa acqua che cade dal cielo sopra Annecy.

Come tutte le volte che capita di andare a conoscere davvero qualcuno di cui hai sentito parlare in maniera indiretta o attraverso i canali social, spesso ti immagini il primo istante in cui te lo troverai di fronte. Nessuna ansia particolare, per carità, solo un gioco che cerca di anticipare il tempo. Arriviamo ad Annecy nel luogo in cui ci siamo dati appuntamento probabilmente imboccando una corsia riservata ai bus; piove a manetta e questo non aiuta a interpretare le indicazioni di una circolazione urbana non esattamente ben studiata. Per farci riconoscere molliamo l’auto sul marciapiede di fronte al negozio di articoli sportivi dell’appuntamento: siamo gli inviati di una testa di sci italiana dopotutto, ed è più pratico che scrivere su Facebook un messaggio a Paul.

Dall’altra parte della strada un uomo non troppo alto e minuto, piumino rosso e cappellino con la visiera, ci si fa incontro. È lui! È Paul, quello che vuole concatenare in giornata con partenza da Chamonix le quattro pareti dell’Aiguille Verte: sci de pente raidee alpinismo, per un viaggio di oltre 4.000 metri. Roba da atleti e mega allenamento, pensiamo. «Salut, je suis Paul!». Paul lascia uscire una boccata di fumo sotto la pioggia: sta fumando una sigaretta. Lo seguiamo in un caffè del centro non distante dalle rive del lago di Annecy, è mattina, non c’è quasi nessuno e possiamo stare tranquilli e chiacchierare. La skilometratada Torino per venire fino a incontrare questa Guida francese ha una ragione ben precisa.

Sconosciuto forse ai meno attenti, Paul Bonhomme, classe 1975, è un alpinista a tutto tondo e sta portando avanti una sua particolare idea di sci. Si è allenato tutto l’inverno sui pendii più difficili degli Aravis, seguendo le orme di Pierre Tardivel per un grande e personalissimo obiettivo: percorre a piedi in salita e in sci i quattro versanti di una delle montagne simbolo dell’alpinismo nel massiccio del Monte Bianco, l’Aiguille Verte. Proprio quella cima marcata indelebilmente da una delle più celebri imprese della storia dell’alpinismo ad opera di Gaston Rebuffat. «Avant la Verte on est alpiniste, à la Verte on devient montagnard» giusto per capirci. L’ambizioso progetto 4Faces* prevede la partenza da Argentière, la salita in cima alla Verte per il Couloir Couturier, la discesa sul versante sud-orientale della montagna per il canalone Whymper, la risalita per il Couloir à Y e la discesa della parete più austera e difficile: il Nant Blanc. Il tutto in giornata. Ecco perché i chilometri per venire a conoscere Paul li abbiamo fatti più che volentieri!

© Federico Ravassard

Chi è Paul Bonhomme? Cosa fa? Presentati ai nostri lettori.

«Allora, sono una Guida di alta Montagna, nato in Belgio ma con origini Olandesi, un bel mix! Con la mia famiglia ho vissuto fino a 18 anni a Parigi per poi trascorrere circa dieci anni con mio fratello Nicolas nel Briançonnais. Ho iniziato con l’arrampicata a tredici anni, gareggiando anche nel campionato nazionale. Gli sci li ho messi a due anni, ma non ho mai preso lezioni fin verso i 19, quando ho deciso di diventare maestro. Così mi sono avvicinato alla montagna, mi ritengo un appassionato prima di tutto. I primi compagni sono stati mio fratello Nicolas e il nostro migliore amico, Jean Noel Urban, due sciatori e alpinisti. Purtroppo Nicolas ha perso la vita sui pendii del Gasherbrum 6 nel 1998, mentre Jean Noel mentre era con gli sci sul Gasherbrum 1 nel 2008. Ecco perché il 2018 per me ha un significato particolare. Dopo la morte di mio fratello, nel 2000, ho deciso di diventare Guida alpina e ho di nuovo contattato Jean Noel, che era un po’ restio a venire in montagna e a sciare con me per quanto era successo a Nico. Insieme avevano sciato nel 1996 la Wickersham Wall sulla parete nord del McKinley: un versante pazzesco. Ho poi iniziato a sciare sul ripido. Non una passione totalizzante, mi piace fare diverse cose in montagna e variare».

Sciatore, alpinista, un appassionato a tutto tondo…

«Sì, assolutamente. Ad esempio ho fatto anche traversate come l’Annecy - Chamonix in meno di due giorni con alcuni compagni, però non mi piace pensare alla montagna solo come a uno sport. Anzi, non è uno sport, ma è esperienza, sperimentazione, è vita! C’è una grossa differenza rispetto alla performance pura».

Sei stato anche in Himalaya, vero?

«Ben nove volte. Quattro per dei trekking con i clienti. Nel 2005 con Jean Noel Urban e Nicolas Brun per provare a sciare il Cho-Oyu (8.201 m, sciato dal solo Jean Noel) e lo Shishapangma (8.027 m) per la parete Sud-Ovest. Nel 2007 sono stato sul Dhaulagiri. Come ti dicevo a Jean Noel non piaceva molto sciare con me per via dell’incidente di mio fratello. Su quel tipo di terreno ho iniziato a sciare con Nicolas Brun. E poi da quando non sono più vice-presidente del SNGM (Syndicat National des Guides de Montagne) per sciare ho più tempo!».

L’anno scorso il Couturier in giornata, poi grandi allenamenti di fondo, quindi gli itinerari più difficili degli Aravis… qui si fa sul serio.

«Devo dire che non mi alleno in modo specifico. Solo per questo progetto 4Faces, nelle giornate in cui tornavo in rifugio con i clienti, mi è capitato poi di rimettere le pelli e salire ancora e scendere per conto mio. Ma solo per il progetto! Ti basti pensare che fumo. L’anno scorso, durante il concatenamento con gli sci tra Annecy e Cham, mi sono sentito bene su terreno ripido e così ho iniziato a immaginare questo progetto. Ho partecipato all’UTLO (Ultra Trail Lago d’Orta) e mi sono allenato per quello, da novembre a gennaio ho avuto più tempo e ho curato forse un po’ di più questo aspetto. Poi ho iniziato la mia stagione normale con i clienti».

Hai altri progetti per il futuro?

«Non so, ho molti altri progetti, ma non ho niente da dimostrare agli altri. Ho una mia idea un po’ pazza, un viaggio con gli sci, ma su terreno ripido: è il mio concetto di evoluzione di questa disciplina. Il gioco consiste nell’essere sufficientemente preparato per salire, ma il vero obiettivo è essere ancora abbastanza concentrati per discese di quel tipo. Questo è il vero goal che mi sono preposto! È solo sci in fondo, ma dove la componente alpinistica diventa sempre più importante. Come scalare su terreno d’avventura. Poi per me lo sci estremo è in solitaria».

Cosa cerchi in una linea ripida, ti interessa più aprire o ripetere?

«Devo ammettere che non ho preferenze. Nel ripetere mi piace pensare a chi ha aperto e scovato quella determinata linea. Un modo per rendere omaggio al primo. Per esempio durante la mia recente ripetizione del Couloir Lagarde sulle Droites ho ripensato ad Arnaud Boudet nel 1995 e alla storia degli altri sciatori che ci sono passati. Vogliamo parlare di quando si è sulle discese di Pierre Tardivel?».

La mentalità è davvero cambiata oggi?

«Sì, a partire dai materiali, basti pensare all’avvento e alla diffusione della tecnologia low-tech degli attacchi e agli sci fat. Insomma, una serie di contributi derivanti sia dallo skialp classico che dal freeride. E poi circolano più informazioni sulle condizioni delle discese. È un insieme di fattori. Generalmente però per emergere nelle diverse discipline alpinistiche occorre essere più settoriali, mentre nello ski de pente è importante essere il più completi possibili, non solo buoni sciatori. Che per me vuol dire essere uno sciatore buono in tutte le condizioni che puoi incontrare. Quindi non solo tecnicamente. Alcuni dicono persino che Jean Marc Boivin non sciasse in modo eccelso, eppure… Sulla tecnica mi concentro molto quando sono su terreno ripido ed esposto, quando devo curvare».

Ti ispiri a qualcuno?

«È la storia stessa dell’alpinismo che mi affascina, per esempio personaggi come Berhault. In fondo questo mio progetto 4Faces è proprio un viaggio in montagna».

Credi di poter ispirare qualcuno?

«Innanzitutto penso che sia fondamentale dire la verità quando racconti le tue esperienze. Mi piace molto poter condividere ciò che faccio, ma trovo importante spiegare bene tutto, per esempio gli aspetti tecnici, in modo che chi legge capisca bene le difficoltà e la mia impresa non diventi un incentivo a cimentarsi su certe pareti sottovalutandole. Come dicevo all’inizio, non è uno sport questo tipo di sci. Se uno ti chiede quando andare su determinati pendii, vuol dire che non è pronto perché non ha l’esperienza necessaria per valutare lui stesso quando trovare il giusto momento».

Da una parte Kilian, da una Jérémie Heitz e poi gente semi-pro che scia tutto, tutti i giorni e in qualsiasi condizione, come si vede dopo ogni nevicata su discese come la Mallory: tu dove ti collochi in questo universo?

«In mezzo, almeno così penso!». (ride)

Domanda classica, che materiali usi?

«Sci White Doctor LT10, 98 mm al ponte, 175 cm per circa 3,4 kg al paio. Sono prodotti da Eric Bobrowicz a Serre Chevalier. Non propriamente leggeri, cercavo uno sci robusto, in modo da non doverlo cambiare ogni anno! Un attrezzo polivalente che uso durante tutta la stagione con i clienti. Poi attacchi low-tech e scarponi Scarpa F1».

In conclusione, il sogno nel cassetto?

«Mah, molti in realtà: tornare a sciare sul Pumori prima di tutto. Ci avevo già provato nel 2011 e 2016, ma ero troppo stanco, quarantacinque minuti per calzare gli sci sull’enorme pendio finale per poi rendermi conto che con quella neve durissima non avrei potuto fare una curva e tenerla. Sarei morto. Ho fatto un traverso di cento metri e poi altri quaranta minuti per togliere gli sci e rimettere i ramponi: ero esausto. Mi piacerebbe riprendere con le spedizioni in quota, ma ho superato i cinquanta, ho quattro figli e devo pensare a loro. Il sogno sarebbe sciare il Couloir Hornbein all’Everest dopo averlo risalito. Lo ritengo fondamentale per capirne tutte le insidie. E poi il Laila Peak magari, una montagna dalle forme bellissime. Qui sulle Alpi? L’evoluzione passerà secondo me per pareti con tratti di misto che potranno essere percorse magari in condizioni di neve difficile, o non propriamente bella, perché solo in quel momento ricopre certi passaggi. Qualche idea futura? Preferirei non…».

 

* Il 18 maggio 2018 (poco prima di scrivere questo articolo) Paul ha fatto un primo tentativo per realizzare il progetto 4Faces: partito poco prima delle 23 da Argentière ha risalito il Couloir Couturier, quasi 2.800 metri di dislivello e, alle prime luci dell’alba, dopo un piccolo riposo in cima, ha sceso il Couloir Whimper sul versante Telafrè della montagna. Una volta alla base, accompagnato da Vivian Bruchez, giovane Guida e sciatore di gran classe di Chamonix, ha risalito il Couloir à Y sul versante Ovest della montagna: terreno tecnico e alpinistico per ritrovarsi una seconda volta sui 4.121 metri della Verte. A quel punto è iniziata la loro discesa del Nant Blanc, discesa mitica del 1989 a opera di Jean Marc Boivin, ripetuta solo dieci anni dopo da Marco Siffredi in tavola. Terreno d’elite che ha visto cimentarsi, specie negli ultimi anni, i più fini sciatori del panorama europeo, a partire da quel Tardivel che ne ha aperto una variante più sciistica. Purtroppo le condizioni non sono state giudicate sufficientemente sicure per poter completare la discesa in quanto la neve dei giorni precedenti non aveva incollato a sufficienza. Paul e Vivian, ritornati in cima, sono scesi a valle per il Couloir Couturier (5.4 E4) a fine giornata con quasi 5.000 metri di dislivello nelle gambe… non un gioco da ragazzi.

Questo articolo è stato pubblicato sul Skialper 118, info qui

Bonhomme durante il tentativo di 4Faces ©Julien Ferrandez/UBAC Media

La Sportiva Stratos Mask sarà certificata come le mascherine chirurgiche

Terminata la fase di collaudo, La Sportiva passa all’industrializzazione e commercializzazione di Stratos Mask, svelando tutti i dettagli della mascherina igienica di protezione generica pensata per la nuova fase di convivenza con il Covid-19 e per la pratica dello sport.

La prima notizia è che Stratos Mask è certificata come una mascherina chirurgica. Lo è il filtro monostrato, facilmente sostituibile grazie a dei comodi strap, che permette di filtrare il 99% dei batteri e virus emessi dalla bocca secondo la norma EN ISO 14683:2019. Il filtro andrà sostituito quotidianamente (un foro permette di vedere se è stato inserito o no) o con maggiore frequenza a seconda dell’intensità d’uso della maschera da parte dell’utente (l’azienda ne consiglia un utilizzo per un massimo di circa quattro ore). Stratos Mask sarà in vendita a 19 euro con 30 filtri mono-uso e le ricariche da 90 filtri costeranno 9,90 euro. La mascherina vera e propria invece è lavabile a 40 gradi a mano o in lavatrice, ma non è necessario farlo tutte le volte. Il tessuto 3DMesh traspirante infatti ha subìto un trattamento anti-batterico e anti-virale Viraloff by Polygiene, che riduce del 99% batteri e virus, quali quelli dell’influenza A, influenza avaria, Norovirus, Corona (SARS) entro due ore.

Per quanto riguarda l’ergonomia, è stata studiata per evitare la dispersione delle goccioline sia in scia, sia in verticale perché quando si va in montagna potrebbe esserci dispersione di droplet anche in questa direzione. Ecco dunque che il copri naso e il copri mento sono molto avvolgenti, ma possono essere allentati quando serve più areazione. L’applicazione avviene tramite due elastici con possibilità di regolazione, anche se esistono comunque tre taglie (Kid, M, L ) e due varianti colore.

Tutti i tessuti della mascherina sono certificati da Oeko-Tex: Oeko-Tex® Standard 100 indica che il produttore è certificato come ecocompatibile sia nei processi che negli stabilimenti, oltre che testato per verificarne l'assenza di sostanze nocive. Stratos Mask è pensata per attività sportiva outdoor, dalla gita in montagna alla corsa moderata, e pesa 20 grammi. L’utilizzo di una mascherina lavabile e riutilizzabile rispetto a quelle mono-uso contribuisce alla salvaguardia dell’ambiente: la minore superficie del filtro rispetto a quella necessaria per produrre mascherine sanitarie contiene gli sprechi di materiale ed è quindi una soluzione maggiormente sostenibile.

La commercializzazione avverrà a partire dalla settimana 18-22 maggio tramite i canali commerciali tradizionali e sarà inoltre acquistabile dall’utente direttamente dall’e-commerce dell’azienda con consegne a partire da fine mese.


La Sportiva, il 18 maggio riaprono produzione e negozi monomarca

Mascherine, guanti e distanziamento sociale sono i nuovi mantra della fase due nella lotta all’epidemia da coronavirus e La Sportiva è pronta ad affrontarla in sicurezza: da lunedì 18 maggio riparte ufficialmente la produzione delle scarpette d’arrampicata e scarponi da montagna nella sede produttiva di Ziano di Fiemme e con sé tutta la filiera di produzione. Inizialmente gli oltre 200 operai (su una popolazione aziendale di oltre 360 persone) si alterneranno su due turni giornalieri di 4 ore mentre gli impiegati che possono lavorare in homeworking, proseguiranno con il lavoro da casa, allo scopo di ridurre il numero di persone contemporaneamente presenti in azienda. A queste misure si aggiungeranno il controllo della temperatura corporea e l’entrata e uscita dei dipendenti a turno in modo da garantire ulteriore sicurezza a tutti i lavoratori e minimizzare il rischio di assembramenti.

«Torniamo finalmente operativi anche se non ancora a pieno regime - ha detto Lorenzo Delladio, CEO & Presidente - c’è bisogno di rimettere in moto l’azienda e tutta la filiera dei fornitori con l’obiettivo di tornare al 100% della capacità produttiva a giugno. Sarà fondamentale vedere anche come risponderà il mercato ed un sentiment immediato ce lo darà anche la riapertura dei nostri store monomarca che riapriranno sempre da lunedì 18 maggio rispettando tutti i decreti emanati dal governo in materia di sicurezza. Avremmo potuto riaprire la produzione già il 4 maggio grazie al lavoro dei nostri responsabili della sicurezza che hanno recepito ed applicato a tempo di record tutte le misure finalizzate al massimo contenimento del contagio, tuttavia abbiamo preferito aspettare e riaprire contemporaneamente sia produzione che brand store».

Lo stabilimento di Ziano non si è in realtà mai fermato del tutto fatte salve le primissime due settimane di chiusura, una task force di 18 dipendenti richiamati dalla cassa integrazione infatti ha dato vita ad una linea di produzione di 5.000 mascherine sanitarie al giorno a favore della Protezione Civile di Trento e principalmente di aziende locali trentine, mentre il reparto R&D ha lavorato incessantemente per creare l’esclusiva Stratos Mask, un prodotto lavabile e riutilizzabile che pensa anche alla sostenibilità dei dispositivi protettivi in questa fase di convivenza con il virus. «Siamo ormai pronti per la commercializzazione di questa mascherina con filtro intercambiabile ed utilizzabile nel quotidiano ma anche per fare sport outdoor - precisa Delladio - entro maggio sarà possibile acquistarla sul nostro e-commerce e a giugno partiranno le prime consegne. È un lavoro che ha richiesto molto impegno e ci ha dato tanta motivazione, non è stato semplice per una fabbrica che normalmente produce calzature riconvertirsi alla produzione di dispositivi di protezione come Stratos Mask».


Monsieur Mezzalama

«Quella è un’avventura cominciata nel 1995. La prima edizione organizzata da noi è stata nel 1997, dopo quelle tenutesi fra il 1933-39 e quelle del 1972-78. L’idea del Mezzalama moderno fu del consorzio turistico del Monte Rosa e all’epoca, lavorando per Monterosa Ski, venni incaricato della questione. Non ero assolutamente pratico di quel mondo e mi sono fatto le ossa poco alla volta. Sono state determinanti la conoscenza di queste montagne e – diciamolo - un pizzico di fortuna per arrivare a far correre la gara anche con condizioni avverse. Fin dalla prima edizione, poi, è stata fondamentale la collaborazione con il meteorologo Luca Mercalli, capace di prevedere le finestre meteo giuste nelle quali far correre gli atleti. L’edizione 2015, ad esempio, si è disputata in un intervallo di nove ore tra le perturbazioni, basti pensare che gli atleti di testa indossavano il piumino anche in salita. Nel 2003, invece, abbiamo dovuto evacuare degli atleti in ipotermia e da quel momento abbiamo introdotto regole più severe per l’attrezzatura».

A parlare è Adriano Favre, anima del Mezzalama. E, come scrive Federico Ravassard, è una persona che ha «la capacità di complicarsi meravigliosamente la vita, portando avanti progetti che, presi singolarmente, basterebbero già a riempirti la giornata». Perché Adriano è «Guida alpina, tecnico e responsabile del Soccorso Alpino, viaggiatore, alpinista himalayano, organizzatore del Mezzalama e una delle menti dietro al successo della Grande Course, rifugista». Lo abbiamo intervistato su Skialper 129 di aprile-maggio. Ma come è cambiata la regina delle gare di skialp? «I partecipanti, ora, sono più preparati tecnicamente, sia perché è evoluto lo scialpinismo, sia perché la voce si è sparsa e ormai tutti hanno bene in mente quali siano le difficoltà aggiuntive del Mezzalama che ne fanno una gara unica: non è assolutamente sufficiente avere il motore e basta. Sono cambiate anche le condizioni della montagna, un fatto che si è palesato nell’edizione 2015, quella corsa in senso inverno da Cervinia a Gressoney; molte discese, a causa dello scioglimento dei ghiacciai, presentavano tratti tecnici con ghiaccio vivo e dubito che si ripeterà l’esperimento, a meno che non ci sia un’inversione di tendenza».

Skialper 129 è in distribuzione in edicola, oppure puoi ordinare la tua copia qui.


Lo scaldacollo Run Local di Dynafit a sostegno dei negozi specializzati

Uno scaldacollo limited edition #RunLocal - #ShopLocal per sostenere i rivenditori specializzati di articoli sportivi. È questa l’iniziativa Run for your local dealer lanciata da Dynafit, che ha distribuito 10.000 esemplari dell’accessorio tecnico ai negozi perché venga dato in omaggio ai clienti per acquisti di prodotti Dynafit superiori a 100 euro a partire dal prossimo 20 maggio. Lo scaldacollo funzionale, che ha un prezzo al pubblico di 22 euro, è particolarmente utile anche nella vita di tutti i giorni in quanto può essere utilizzato per coprire il naso e la bocca rispettando così l’obbligo presente in molti luoghi di indossare la mascherina. E lancia un segnale chiaro: correre e acquistare local. In supporto all’iniziativa Dynafit chiuderà il proprio sito di e-commerce online dal 20 al 27 maggio.

Numerosi atleti e ambassador Dynafit hanno aderito all’iniziativa Run for your local dealer e la promuoveranno sui loro canali social. Run for your local dealer non è però l’unica proposta di Dynafit per sostenere i rivenditori. Il brand del leopardo delle nevi riproporrà infatti l’80% della collezione estiva 2020 anche nell’estate 2021, così da non sovraccaricare i rivenditori ed evitare fondi di magazzino. Le novità per l‘estate 2021 saranno presentate il 20 maggio 2020 dalle ore 17.00 nell’ambito della Oberalp Convention che per la prima volta si svolgerà in versione completamente virtuale.

 


Mountains Within: la sfida di Michele Graglia

Non è facile abbandonare il mondo dorato delle sfilate di New York e Miami. O meglio, è facile uscire da quel mondo bello e finto allo stesso tempo, ma non è facile rinunciare ai privilegi di quella vita e ricostruirsene un’altra, ripartendo da zero. È la storia di Michele Graglia, ragazzo ligure catapultato per caso (un incontro fortuito in un negozio dove si riparava da un acquazzone) sulle passerelle yankee (di lui si dice che Madonna lo abbia soprannominato the abs per i suoi addominali) e poi fuggito da quelle passerelle per ritrovare la pace nella natura e nell’ultra running. La sua storia è stata raccontata da Fosco Terzani nel libro Ultra. La libertà oltre il limite e ora è diventata un cortometraggio, Mountains Within, il primo di una serie prodotti da La Sportiva che ha sviluppato il claim For your mountain. I prossimi saranno sulla climber egiziana Amer Wafaa e su Tamara Lunger.

Il significato di Four your mountain è quello della propria sfida interiore. Ci sono sfide che vanno oltre l’avversario, il traguardo, la cima, il tempo da battere. Sfide che chi pratica sport conosce bene: si basano sulle nostre motivazioni più profonde, ci portano ad intraprendere intense sessioni di allenamento, ad affrontare le nostre paure, a conoscere e possibilmente superare i nostri limiti. Chi corre, arrampica, scia, chi fa escursionismo, chi pratica una qualsiasi attività outdoor per stare bene prima di tutto con se stesso, affronta ad ogni uscita la propria sfida, la propria montagna.

Mountains Within dura 13 minuti ed è stato realizzato da Storyteller Labs con la direzione di Damiano Levati e Matteo Vettorel mentre i testi sono di Michele Graglia e Giovanni Spitale. È stato interamente girato in California, dove Michele vive, dalle colline di Hollywood tra le nebbie dell’alba alle dune del deserto, passando per la Walk of Fame. Graglia ha vinto molte delle sfide che si era posto all’inizio del suo percorso: nel 2016 la Yukon Artic 100 miglia nel gelo e nella solitudine dell’inverno canadese, nel 2018 è il primo italiano di sempre a tagliare il traguardo in prima posizione alla Badwater Marathon negli Stati Uniti, l’ultra maratona su strada di 217 km considerata dagli appassionati la più dura al mondo e ancora nell’ottobre 2019 entra nel Guinness dei primati con la traversata completa del deserto dei Gobi nella Mongolia meridionale, primo essere umano a percorrere, correndo, i 1.703 km del deserto ventoso nel tempo record di 23 giorni, 8 ore e 46 minuti.


Skialper amarcord

«L’equazione era piuttosto semplice: un giovane abituato a stramazzarsi di fatica nelle gare di fondo - Lenzi era forte in tecnica classica - avrebbe potuto fare sfracelli nello scialpinismo in cui la componente fatica e motore erano altrettanto importanti. A detta del suo allenatore, Vincenzo Trozzi, del Centro Italia, il ragazzo era piuttosto dotato e mal volentieri gli dava l’approvazione per praticare lo skialp, anche se verso fine inverno gli concedeva il nulla osta quasi come un premio per quanto si era impegnato nel fondo. E così Lenzi si era guadagnato la partecipazione agli Europei di Morzine-Avoriaz del 2007 con gli altri azzurrini a difendere i colori dell’Italia. Il giorno della Vertical ho raggiunto una postazione a metà percorso in un punto in cui presumevo che il plotone si fosse già sgranato e che gli atleti migliori avessero preso il largo. Idalba un po’ più in basso, appena fuori dal bosco. Pronti, via! Da dove ero piazzato potevo seguire dall’alto il serpentone che velocemente si avvicinava. Più gli atleti si avvicinavano e più si delineavano le posizioni di testa in base ai colori delle tutine. Qualcosa non quadrava: nella mia assoluta certezza che Lenzi dovesse mangiarsi tutti, proprio grazie al suo grande allenamento nel fondo, non era in testa… Davanti a me è transitato uno spagnolo pressoché sconosciuto seguito da un francese, un po’ staccato Damiano Lenzi, visibilmente provato dal forcing dei due battistrada. Lo spagnolo era Killian Jornet Burgada».

Ecco come è nato il mito di Kilian nello scialpinismo, ma allo stesso Europeo, nel vertical, ha vinto anche una sconosciuta francese con la tuta color prugna, Laetitia Roux. Sono solo due degli aneddoti raccontati da Enrico Marta su Skialper 129 di aprile-maggio. Un amarcord dello skialp race, da Gignoux in grave difficoltà al Mezzalama, perché aveva perso le lenti a contatto, alle imprese di Guido Giacomelli o della coppia Cazzanelli-Righi. Parole e foto di un pezzo di storia dello sci.

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Arianna Tricomi, go with the flow

«All’inizio l’ambiente del freestyle era super punk, ognuno faceva quello che voleva ed era libero di esprimersi liberamente, ma poi anche lì con l’arrivo della FIS e delle federazioni siamo tornati da capo: l’ambiente è cambiato e molti hanno mollato, come me e Markus Eder; con l’arrivo delle Olimpiadi sono apparsi sulla scena skier che non hanno mai costruito un kicker in vita loro, che non si sono sbattuti, attirati solo dai Giochi e dai benefici che possono portare. Ora questi park skier si allenano come matti in park e sui tappeti, ma poi se devono tornare a valle preferiscono montare in cabinovia piuttosto che sciare (ovviamente questo non vale per tutti i freestyler). Dov’è la passione per lo sci? Le leggende che hanno spaccato nel freeski, come Tanner Hall o Candide Thovex, presenti dal giorno uno di questa rivoluzione, non torneranno più probabilmente, ora è tutto più incentrato sulla prestazione, è un vero e proprio sport e la progressione è molto più veloce. Come dicevo riguardo le nuove leve del Tour, ad alcuni giovani sicuramente manca il background fatto di sperimentazione e passione».

Così parlò Arianna Tricomi. Alberto Casaro l’ha incontrata proprio prima del lockdown e che venisse incoronata per la terza volta regina del World Tour. L’intervista è stata l’occasione anche per un simpatico siparietto con la madre, Cristina Gravina, olimpionica di discesa libera a Lake Placid.

 «Arianna faceva incavolare gli allenatori perché o si faceva i fatti suoi o non si presentava agli allenamenti e poi alle gare andava forte e batteva gli altri bambini, figurati i genitori… Una volta aveva avuto la possibilità di andare col club a Les 2 Alpes a fare allenamento e nella sacca degli sci aveva nascosto quelli da park: un giorno l’allenatore mi chiama e mi chiede dove sparisce tutti i giorni Arianna alla fine degli allenamenti!».

Su Skialper 129 di aprile-maggio l'intervista completa. Skialper 129 è in distribuzione in edicola, oppure puoi ordinare la tua copia qui.

© Brett Wilhelm / Red Bull Content Pool

Mezzalama 2009, quando le avversità diventano opportunità

«Le Guide dislocate in quota mi annunciano che le condizioni meteo si sono aggravate, la perturbazione annunciata è arrivata in anticipo, il vento da stanotte sul Castore e sul Naso del Lyskamm sta creando pericolosi accumuli sui pendii. Mi dispiace dovervi dire che in queste condizioni il Mezzalama non può partire. Ipotizziamo di poter recuperare la gara sabato 2 maggio, ma ci sono grossi problemi organizzativi da risolvere. Vi daremo novità al più presto».

Un annuncio che avrebbe potuto essere accolto con rabbia, invece alle cinque del mattino di quel 19 aprile 2009, ai piedi del Cervino, la tensione si sciolse in un applauso liberatorio dei concorrenti del Trofeo Mezzalama. Uno dei momenti più difficili nella storia della maratona dei ghiacciai raccontato dalla penna arguta di Pietro Crivellaro su Skialper 129 di aprile-maggio. Riprogrammare la gara, dopo il riscontro positivo dei concorrenti, non sarà per nulla facile e, come in tutte le storie che si rispettano, c’è un episodio dietro le quinte che è cruciale e che Crivellaro racconta con dovizia di particolari. Uno di quei momenti di fratellanza che ha permesso di riprogrammare il Mezzalama proprio il 2 maggio, quando 798 atleti, ossia 266 cordate, hanno preso il via. L’innevamento del percorso era talmente ideale che gli alpini Eydallin, Reichegger e Trento hanno polverizzato il record della corsa, arrivando al traguardo di Gressoney in 4h1’22”, con ben 17 minuti in meno del record 2005. E le ragazze Martinelli, Pedranzini e Roux hanno migliorato il record femminile di quasi un’ora. Ma questa è un’altra storia.

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L’anno zero della tutina

«Io e Adriano Greco ne usavamo una da ginnastica della Panzeri, un normale spezzato, con la giacca e i pantaloni a parte: per certi versi funzionava visto che la neve non si attaccava, ma se cadevi erano dolori perché ti bagnavi tutto» dice Fabio Meraldi a proposito della prima tuta che ha usato per le gare di skialp. La parentela tra skialp e fondo ha portato a provare quanto usavano gli atleti degli sci stretti. «Le tutine dei fondisti erano fantascienza per noi, però c’era quell’apertura sulle spalle che le rendeva scomode perché dovevano essere infilate da sopra e non erano funzionali per lo scialpinismo, dove avremmo dovuto mettere le pelli?» continua Meraldi. Così è nata la prima tuta da skialp, dall’esigenza della coppia Meraldi-Greco e dall’esperienza di Valeria Colturi, che conosceva bene le tute che venivano utilizzate in quegli anni e aveva fatto anche le prime da short track perché la sorella Katia era una pattinatrice che ha partecipato a ben cinque Olimpiadi. Curiosamente i due primissimi esemplari erano neri con le bande gialle, una colorazione insolita. Il ragionamento è stato semplice: i colori scuri attirano maggiormente i raggi del sole… anche questa è storia dello skialp race. Ne parliamo su Skialper 129 di aprile-maggio.

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© Enrico Marta

Avevamo tutto e non lo sapevamo

«Dopo un caffè partiamo dal Valasco portandoci dietro un asse di legno, ci servirà ad attraversare un ruscello senza dover allungare inutilmente fino al ponte situato in fondo alla piana. Il canale è stretto, ma mai ripido. Si snoda attraverso pareti di granito rossastro che sono una delle caratteristiche della zona, ben riassunte dalla Cresta Savoia che si snoda qualche chilometro più a monte. Trecento metri, poco più o poco meno. Pochi per essere l’obiettivo di una giornata, ma abbastanza per rientrare in una concezione di scialpinismo che in Italia stenta ancora ad avere seguito: anziché voler programmare la gita in funzione di una cima precisa, in alcune aree ha più senso fare l’avvicinamento iniziale e solo dopo decidere dove puntare gli sci, in base all’appetito e al menù del giorno. Come, ad esempio, la valle del Valasco, dove sono presenti pendii di qualsiasi esposizione e inclinazione».

© Federico Ravassard

Scrive così Federico Ravassard nell’articolo di apertura di Skialper 129 di aprile-maggio, che ha regalato anche la copertina al numero attualmente in edicola. Avevamo tutto e non lo sapevamo il titolo. Sì, perché Federico si è ritrovato in uno degli angoli più selvaggi d’Italia, dove il distanziamento sociale è la norma, proprio nel momento in cui è stato dichiarato il lockdown nazionale. «Cis nel frattempo controlla nervoso il telefono, fino a quando arriva la notizia che cambierà il corso della nostra primavera, e per nostra si intende quella dell’intero Paese: in conferenza stampa il premier Conte ha appena dichiarato lo stato di lockdown in tutta Italia in risposta all’aggravarsi dell’epidemia. Ci guardiamo negli occhi consci che ora la situazione si farà parecchio complicata, per dirla con un eufemismo. In altre parole: siamo tutti fottuti». Così fare scialpinismo nel Parco Naturale Alpi Marittime soggiornando in un rifugio ex reale casa di caccia sabauda, guardando le vette e canali dove si snodano decine di itinerari, si è trasformata in un lusso e nella scusa per riflettere su quanto siamo stati fortunati fino a oggi ad avere tutto, anche se spesso non ce ne siamo resi conto fino in fondo.

© Federico Ravassard

«Scendiamo uno alla volta, dandoci il cambio alla guida del gruppo. Le pareti che ci circondano sono alte, si potrebbe credere di essere ben altrove. Anche se poi, a pensarci bene, le Marittime hanno ben poco da invidiare ad altri massicci, qui la quota relativamente modesta viene compensata dalle abbondanti nevicate, merito proprio della vicinanza con il Mediterraneo, e la morfologia complicata sembra essere studiata apposta per soddisfare desideri di pornografia scivolatoria». Se le vacanze torneranno a essere più local, come è probabile, qui in Valle Gesso, nel Parco Naturale Alpi Marittime, potrete vivere esperienze in un certo senso esotiche e quella sensazione di isolamento sempre più rara sulle Alpi. Sapevatelo e… se volete approfondire l’argomento, non rimane che leggere Skialper di aprile-maggio.

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© Federico Ravassard
© Federico Ravassard