Dani Arnold, la paura per amica

«L’obiettivo di questa spedizione era l'inverno freddo, quello giusto per tentare l'arrampicata su ghiaccio. Il riscaldamento globale sta rendendo le cose sempre più difficili alle nostre latitudini, quindi volevamo esplorare un nuovo posto, dove nessuno avesse mai scalato il ghiaccio». Un obiettivo raggiunto sul lago Bajkal, nella Siberia meridionale, dove di rado se si cerca il freddo ci si imbatte in qualcos’altro. «Abbiamo trovato esattamente quello che cercavamo, un freddo ben più intenso di quello che avevo provato sugli Ottomila: è stato fantastico. Ma anche la curiosità per il Paese, le persone e la cultura è stata un elemento importante di questo viaggio. L’ha arricchito molto».

Dani Arnold ha raccontato a Skialper la sua ultima spedizione in Siberia, della quale pubblichiamo anche le belle foto scattate da Thomas Monsorno. Ma a Veronica Balocco l’alpinista svizzero ha raccontato molto di più: della perdita di compagni d’avventura come Lama, Auer e Steck, della paura e del rischio, di quando va ad arrampicare con la moglie, dei free solo. E dell’Himalaya: «Quella in Himalaya è stata una bella esperienza per me, ma non ne sono uscito soddisfatto. Tecnicamente non è assolutamente nulla di impegnativo. Ogni persona con un Ottomila nel cassetto è celebrata come un eroe, ma ci sono molte montagne di duemila metri che richiedono molta più preparazione di una via normale laggiù».

Ne parliamo su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.

© Thomas Monsorno

Io e Ueli

«Era tanto un maniaco della precisione quanto, talvolta, completamente fuori dagli standard e anche un po’ impacciato in quelle che sono le cose quotidiane, a noi più normali» scrive Simone Favero nell’articolo su Ueli Steck (Io e Ueli) che apre Skialper 130 di giugno-luglio. Ueli Steck è il mantra che ricorre in tutte le pagine di Skialper perché è l’ispiratore di tutti gli alpinisti che abbiamo intervistato nel numero dedicato all’alpinismo e a The Swiss Machine abbiamo dedicato anche la copertina, una bella foto di Jonathan Griffith scattata su Supercouloir. Però di Steck è stato scritto già tanto e volevamo un ritratto diverso, più intimo. Dell’uomo prima ancora che del recordman alpino. Così Simone Favero, che ha lavorato gomito a gomito con Ueli nel reparto marketing di Scarpa, ha scritto parole che lo rendono (un po’) più umano.

«Dormivamo spesso nello stesso appartamento, tre stanze messe a disposizione da Scarpa quando facevo tardi in ufficio (sempre, in pratica) che condividevo con gli ospiti che venivano in azienda. Con alcuni era divertente, con Ueli era uno spasso e accadeva sempre qualcosa di assurdo: uno dei must era l’allarme che partiva la mattina a causa delle sue uscite a orari impossibili per andare a fare allenamento: anche venti chilometri di corsa attorno ad Asolo prima dell’alba. Poi una doccia, dieci ore con il team prodotto, e quasi sempre guidava la sera stessa fino a casa, per non perdere l’alba della mattina dopo e andare a provare i prototipi che aveva appena sviluppato. Ricordo che tutti i discorsi erano incentrati sui materiali, ogni dettaglio doveva essere più leggero; un’ossessione quella verso la leggerezza che non era mai fine a sé stessa, ma racchiudeva anzi una necessità ed era un primigenio stimolo a migliorarsi, darsi obiettivi in cui l’asticella doveva sempre alzarsi di almeno due tacche». Questo è solo uno degli episodi che troverete in Io e Ueli, su Skialper 130, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.

© photo courtesy Suunto

La Sportiva estate 2021: arrivano Karacal, Cyklon e Aequilibrium

Una scarpa per medie distanze, una per le lunghe e una nuova linea che accetta ramponi semi-automatici. Sono queste le principali novità dell’estate 2021 di La Sportiva, alle quali si aggiunge la versione mid cut della storica Ultra Raptor. Gli highlight sono stati presentati oggi alla stampa internazionale in una video conferenza in diretta dallo show room di Ziano di Fiemme.

Karacal e Cyclon, due idee di mountain running

Negli ultimi anni la gamma di calzature per le lunghe distanze La Sportiva si è ampliata e alla storica Akasha si è aggiunta Jackal l’anno scorso. Dal 2021 arriverà anche Karacal, pensata per allenamenti prolungati off-road su medie e lunghe distanze ma anche per il recupero post gara. La calzata è ampia e l’obiettivo cushioning e comfort. La tomaia seamless mono-strato in 3D Mesh è pensata per la traspirazione, i rinforzi posteriori in microfibra inglobati sotto una pellicola termo-poliuretanica supportano la stabilità generale. L’intersuola è in EVA a doppia densità, mentre il puntalino thermo-form sagomato protegge dagli urti contro rocce e radici. Supporto e stabilità posteriore sono bilanciati da una buona flessibilità anteriore. La suola è in mescola FriXion blu durevole con tasselli a spessore differenziato Impact Brake System.

Karacal

Ha un’anima diversa Cyklon, calzatura performance ideale per skyrace e corse off-road su terreni tecnici a media distanza. Frutto del lavoro di ricerca e sviluppo tra La Sportiva e Boa, che fa la sua apparizione dopo la VK Boa di questa estate, è un prodotto con focus su stabilità, precisione e avvolgenza grazie al nuovo sistema di chiusura Dynamic Cage con BOA Fit System integrato che lavora in sinergia con tre diversi elementi della tomaia. Il cuore del sistema di allacciatura è il Dynamic Flap interno che avvolge la calzatura e permette la regolazione dinamica della tensione agendo direttamente sul Boa Fit System con un movimento one-hand. Il puntalino in TPU protettivo e il pannello laterale multi-strato e termo-adesivizzato forniscono ulteriore struttura e stabilità. Il battistrada mud-ground, per utilizzo su terreni morbidi e fangosi, è in mescola La Sportiva FriXion White ultra aderente e prevede la possibilità di integrare chiodi AT Grip Spike in caso di utilizzi su terreni ghiacciati. L’intersuola è in EVA a bi-densità con inserto stabilizer.

Cyklon

Aequilibrium, la scarpa che mancava

Più che di singola scarpa si tratta di una nuova linea per l’alpinismo leggero e veloce, che accetta ramponi semi-automatici. Si posiziona idealmente tra Nepal e Trango e da questa ultima differisce soprattutto per la camminabilità e maggiore leggerezza. In pratica la suola è stata smussata al tallone per favorire la rullata e gli inserti dell’intersuola in PU permettono ai singoli tasselli di lavorare autonomamente. Il top di gamma è Aequilibrium Top GTX, pensato per gli impieghi più tecnici e a suo agio sui quattromila estivi. Ci sono poi le versioni ST GTX e LT GTX. La geometria a doppio tassello posteriore molto pronunciato aumenta l’effetto frenante in discesa e permette una rullata più fluida riducendo l’affaticamento muscolare. Durabilità e leggerezza convivono in armonia grazie al nuovo pacchetto suola/intersuola con costruzione a guscio Rubber Guard esterno e materiale espanso interno per un cushoning accentuato e leggerezza derivata da un minor utilizzo di strati di gomma. La versione Top GTX ha scarpa esterna con allacciatura Boa e ghetta esterna in Cordura. La suola è in mescola Vibram Mont.

 

Aequilibrium Top GTX
Aequilibrium ST GTX
Aequilibrium LT GTX

Ultra Raptor, il mito continua

Ultra Raptor Mid II GTX è la versione mid-cut del modello trail running Ultra Raptor II, è ideale per utilizzi fast hiking ed escursioni con carichi leggeri. Impermeabile e traspirante grazie alla membrana Gore-Tex Extended Comfort. La tomaia è in tessuto mesh resistente alle abrasioni e traspirante, perfetta per utilizzi in tutte le condizioni. La tallonetta stabilizzatrice posteriore permette un perfetto controllo sui traversi. Il sistema di allacciatura è integrato con la tomaia a mezzo di passanti cuciti sul tessuto elastico interno e con rinforzi in alta frequenza sul mesh esterno: tale sistema permette di ripartire la tensione dell’allacciatura su tutta la tomaia ed avvolgere al meglio il piede per un perfetto comfort di calzata. Ultra Raptor Mid II GTX è disponibile anche in versione comfort wide-fit dedicata ai runner con piede a pianta larga. Il risultato è una calzatura da ultra running indossabile per molte ore consecutive ed adatta per utilizzi off-road su qualsiasi tipo di terreno.

Ultra Raptor II Mid

Il sogno di Franco Collé: Gressoney-Monte Rosa andata e ritorno in quattro ore e mezza

Crolla un record che durava dal 1997. Ieri alle prime luci dell’alba Franco Collé ha scritto la sua firma sul libro delle salite in velocità sul Monte Rosa. Partenza alle 4,30 da Gressoney, a quota 1.635, per arrivare alla Capanna Margherita (4.554 m) e rientrare in 4h30’45’’, 14’15’’ meno di Bruno Brunod nel 1997. Rimane però di Brunod il record di salita, che vede Collé dietro di 4’. «La neve nell’ultimo tratto dal Colle del Lys alla Capanna Margherita era polverosa e mi ha creato molte difficoltà, ma in discesa le condizioni erano ottimali» ha commentato Franco. La linea seguita da Collé copre 31 chilometri passando per il rifugio Mantova, Gnifetti e Colle del Lys. Erano tre anni che Franco pensava a questo FKT e l’assenza di gare in questa stagione estiva ha permesso di concretizzare il sogno di andare e tornare dalla montagna che vede dalle finestre di casa in quattro ore e mezza.

In un lungo post su Facebook, Marino Giacometti, padre dello skyrunning, ha riassunto la storia dei record sul Monte Rosa, dai vari versanti: «Nel 1988 un notiziario RAI riportava che un certo Valerio Bertoglio aveva salito il Monte Rosa in 4 ore. Da alpinista che ha salito molte volte il Monte Rosa, inclusa la parete est, uno dei miei pallini diventa farlo in meno di 4h. Ci riesco nel 1989 da Alagna, 3h53’. Solo qualche anno dopo scopro che il primo record di 4h (5h29’ a/r) era però da Gressoney, vale a dire circa 400 metri di dislivello e qualche chilometro in meno. La storia continua con le gare da Alagna dove Fabio Meraldi nel 1994 porta il record-gara a 3h14’ in salita e 4h23’27’’a/r. Nello stesso anno ci scappa il mio record da Genova alla vetta 16h30’ (tuttora imbattuto dal lato di Alagna). Nel 1997 in un ritaglio di tempo avevamo organizzato a Gressoney con Bruno Brunod, RAI Aosta e un cronometrista che certifica la salita in 3h05’ e ar 4h45’. La storia prosegue con il ritorno della gara a coppie da Alagna in cui si sfiora il record di Meraldi nel 2018 mentre come prestazione individuale (FKT) ci riesce per un soffio Marco De Gasperi, salita in 3h10’ e ar in 4h20’34’’ (3’ sotto il tempo di Fabio Meraldi in gara). Nel 2019, dal mare, ci prova Nico Valsesia passando però da Gressoney in 14h31’. Nel 2020 da Gressoney, Franco Collé abbassa il record a/r di 4h30’45’’ ma la miglior salita da questo versante resta di Bruno Brunod, 3h05’ contro 3h09’ impiegate da Collé».


Outdoor Italia: i produttori di articoli sportivi adottano rifugisti e Guide

Un gemellaggio tra le aziende che producono articoli sportivi outdoor e gli operatori turistici, dai rifugisti alle Guide alpine ed escursionistiche. Per fare conoscere il territorio dove dare sfogo alla nostra passione outdoor e chi di outdoor vive. Un’iniziativa per fare sistema. È la campagna social e digital #OUTDOORITALIA voluta da IOG Italian Outdoor Group di Assosport, l’associazione nata nel 2000 che raggruppa le principali aziende italiane leader nella produzione, importazione e distribuzione di abbigliamento, calzature e attrezzatura per l’attività outdoor e gli sport di montagna, con un totale di oltre 40 aziende associate. Un’iniziativa che vuole essere la rinascita dopo #IORESTOACASA, quanto di più in contrasto possibile con la ragione di esistere dell’industria outdoor, che ha tuttavia risposto in maniera responsabile, contribuendo nei mesi scorsi a promuovere attraverso i propri canali di comunicazione le misure di contenimento, raccomandando agli appassionati di rimanere in casa e di sospendere le attività sportive a contatto con l’ambiente.

In pratica i marchi italiani leader del mercato dell’outdoor che aderiscono a IOG Italian Outdoor Group hanno adottato alcuni operatori e strutture sul territorio che verranno presentati sul sito dell’associazione e sui canali social. «Siamo una delle destinazioni turistiche outdoor più amate nel mondo: dal mare, alla collina, alla montagna, il nostro ambiente naturale rappresenta la dimensione ideale per una vacanza rigenerativa a contatto con la natura. Pensiamo che sia nostro compito impegnarci per promuovere questo straordinario patrimonio, rendendo protagonisti quegli operatori che da questo ambiente traggono la propria fonte di sostentamento, aiutandoli a farsi conoscere meglio, in Italia e nel mondo, fornendo un aiuto concreto per la ripresa» ha dichiarato Luca Pedrotti, amministratore delegato del brand Lizard e presidente di IOG. «Abbiamo trovato un’intesa solida con una parte importante dei nostri associati, fra i quali figurano tutti i marchi Italiani leader nel mercato dell’outdoor, per portare avanti un’iniziativa che vorremmo diventasse un esempio su come si possa e si debba reagire con spirito pragmatico e solidale di fronte a un problema che ci deve vedere uniti, oggi più che mai».

La campagna, iniziata dal 15 giugno, si protrarrà fino a tutto il mese di luglio e agosto. «Ogni azienda socia di IOG ha attivato la propria rete di contatti sul territorio, offrendo loro la possibilità di fornire un messaggio promozionale sotto forma di video o di testo corredato da immagini, da diffondere attraverso il sito web e i canali social di IOG e attraverso i canali di comunicazione delle stesse aziende associate, per dare ancora maggiore eco al messaggio».


Ortovox continua a sostenere i rivenditori fisici tramite l'online shop

Con la campagna Support Your Local Ortovox Dealer, lanciata durante la chiusura forzata dei negozi imposta dall’emergenza Covid-19, il marchio outdoor ha versato ai rivenditori locali il 25% del fatturato ottenuto tramite l’online shop ortovox.com. Come annunciato lo scorso anno, Ortovox punta a unire il commercio al dettaglio specializzato con il proprio online shop. La nuova piattaforma del negozio digitale continuerà a fungere da base tecnica per i servizi B2B, garantendo numerosi vantaggi per i rivenditori locali.
A questo scopo, Ortovox, attraverso il nuovo online shop, si affida anche a Outtra. Questo strumento consente di verificare la disponibilità dei prodotti presso il negozio più vicino all’utente. In questo modo i negozianti collegati a Outtra possono contare su una vetrina digitale e hanno la possibilità di integrarla nella propria pagina web. Per proseguire questa collaborazione attiva con i rivenditori, Ortovox ha deciso inoltre di prolungare la campagna Support Your Local Dealer anche dopo la riapertura dei negozi e di continuare a sostenere i rivenditori specializzati versando il 10% del valore di tutti gli ordini (non resi) effettuati tramite l’online shop. Prima di confermare l’acquisto il cliente dovrà selezionare uno dei dieci rivenditori più vicini all’indirizzo di fatturazione che appariranno automaticamente sulla schermata. In questo modo il consumatore finale potrà quindi scegliere liberamente il rivenditore da sostenere. Il nuovo online shop incoraggia infine il consumo responsabile. Chiunque desideri acquistare un prodotto in negozio, infatti, può verificarne la disponibilità nell’online shop e successivamente contattare il negoziante di fiducia. Al fine di evitare il più possibile resi eccessivi degli ordini effettuati online e allo stesso tempo per contribuire alla tutela ambientale, Ortovox addebita ai consumatori finali una quota di cinque euro per ogni reso. Per ogni ordine non reso Ortovox dona cinque euro al fondo per la conservazione di Tarkine, l’ultima foresta vergine della Tasmania, terra natale delle pecore di razza Merino di Ortovox. Inoltre tutti i cartoni utilizzati per gli imballaggi vengono realizzati con carta riciclata.


Arriva Scott Supertrac RC 2

Scott lancia ufficialmente oggi la nuova Supertrac RC 2, la versione aggiornata della scarpa per medie distanze nata nel 2016. La v2 del modello della linea RC, pensata per gare su terreni anche tecnici e runner evoluti, mantiene la caratteristica suola radiale che è stata migliorata sotto il punto di vista della tenuta e della durata e aggiunge un rockplate in carbon-kevlar nella zona mediale per migliorare la stabilità e la protezione dal basso. La tomaia è realizzata con materiali Schoeller, per la precisione Coldblack e 3XDry. Il peso complessivo è di 270 grammi e il drop di 5 mm. L'intersuola è in Aerofoam Infinity che restituisce il 14% in più di risposta rispetto a strutture più tradizionali e garantisce un buon assorbimento. Scott Supertrac Rc 2 è già in vendita a 159,90 euro.

https://youtu.be/g416of6LHpI


È in arrivo Skialper 130

Un numero da leggere e conservare, come un libro. Con tanti capitoli dedicati all’alpinismo e agli alpinisti, ma, come nel nostro stile, alla ricerca della novità e della velocità. Ecco Skialper 130 di giugno-luglio, in arrivo nelle edicole a partire dal prossimo 23 giugno. In copertina un tributo a Ueli Steck firmato da Jonathan Griffith.

IO E UELI - Non poteva che essere dedicato a Ueli Steck l’articolo introduttivo del numero perché Ueli è il padre e il mentore di un certo modo di intendere l’alpinismo. Un ritratto inedito di Simone Favero che l’ha conosciuto da vicino quando lavorava nel reparto marketing di Scarpa. Un Ueli Speed Machine, ma anche umano, nella vita di tutti i giorni. Soprattutto un Ueli maestro più che idolo.

© Roberta De Min

STEVE HOUSE - L’impresa con Vince Anderson sulla Rupal Face al Nanga Parbat, ma anche la sua teoria dell’allenamento, così ben spiegata in Allenarsi per un nuovo alpinismo e Allenarsi per gli sport di montagna, appena pubblicati in italiano dalla nostra casa editrice. Alessandro Monaci ha intervistato l’alpinista americano partendo dall’attualità e dalle difficoltà di allenamento durante il lockdown, per arrivare al passato più lontano.

DANI ALRNOLD - Nell’ultimo inverno è stato in Siberia, dove ha trovato «un freddo ben più intenso» di quello che aveva provato sugli Ottomila. Veronica Balocco ha intervistato Dani Arnold, ripercorrendo i suoi record di velocità, ma anche aspetti più intimi come il rischio, la paura, la perdita dei compagni di avventura. L’articolo è illustrato dalle splendide foto realizzate in Siberia da Thomas Monsorno, pubblicate in esclusiva da Skialper.

© Thomas Monsorno

HEINI HOLZER - La rivalità per l’apertura di una nuova via. Flashback negli anni Sessanta con il racconto della prima sulla via degli amici, al Civetta, quando la cordata composta da Heini Holzer, Sepp Mayerl, Reinhold Messner e Renato Reali beffò altri team.

FABIAN BUHL - Prima Ganesha (8c) con uno stile purissimo: dal basso, in solitaria, autoassicurandosi, con appena quattro spit su sette tiri. Poi il volo in parapendio dal Cerro Torre, primo a gettarsi nel vuoto dopo avere scalato la vetta sudamericana. Non c’è dubbio che Fabian Buhl sia uno dei climber più creativi e Federico Ravassard l’ha sottoposto a una raffica di domande, dal boulder al parapendio, passando per… la cucina.

© Dani Arnold

ALLA RICERCA DI TOM BALLARD - Uno straordinario reportage di Michael Levy sulla vita di Tom Ballard, morto sul Nanga Parbat nel 2019 insieme a Daniele Nardi. Il racconto della sua vita, delle sue imprese, da quella in invernale sulle grandi pareti Nord delle Alpi, sulle orme di Rébuffat, all’apertura di A Line Above the Sky in dry-tooling. Soprattutto il racconto della sua vita sulla scia di quella della madre, la grande alpinista Alison Hargreaves, morta sul K2 quando Tom era bambino. Un articolo pubblicato anche sulla rivista Rock and Ice, frutto di un dettagliato lavoro di ricerca, con tante testimonianze di ha conosciuto Ballard. Venti pagine da leggere come un romanzo.

© Gloria Ramirez

FRANÇOIS CAZZANELLI - L’alpinismo classico in velocità, è questa la mission di François che abbiamo già intervistato su Skialper. Ma questa volta dalla Guida alpina della Valtournenche ci siamo fatti raccontare non solo del suo stile, ma soprattutto dell’ultima impresa, il concatenamento invernale delle Catene Furggen, Cervino, Grandes Murailles e Petites Murailles chiuso nell’ultimo inverno insieme a Francesco Ratti. Lo ha intervistato Andrea Bormida.

© Damiano Levati/Storyteller-Labs

ALEX TXIKON - È rientrato appena prima del lockdown dall’Everest, che non è riuscito a scalare, e dalle Isole Shetland Meridionali, dove era arrivato in barca a vela dal Cile appena prima di partire per l’Himalaya, con solo un paio di giorni di break tra le due avventure. Con Alex Txikon abbiamo parlato di Nanga Parbat, Everest, K2, di salite invernali, Antartide, droni, igloo, testa, fisico, Edurne Pasaban…

KILIAN A NUDO - Se Steck è il padre dell’alpinismo in velocità, Kilian lo è delle imprese in quota arrivando dal trail running. Andrea Bormida lo ha intervistato chiedendogli quello che avremmo sempre voluto chiedere al re del fast & light. Abbiamo parlato di materiali, dalle scarpe, agli sci e alle piccozze, di rischio, di allenamento, di Stéphane Brosse, della sua idea di alpinismo, di Ueli Steck e di tanto altro. E Kilian non si è sottratto a nessuna domanda.

© Jordi Saragossa

L’ARTE DEL CONFINO - Una riflessione sulle montagne, sull’alpinismo e il lockdown di Ben Tibbetts, chiuso nella sua casa di Chamonix nei giorni difficili dell’emergenza pandemia a disegnare le grandi pareti Nord delle Alpi. Una riflessione sulla bellezza dell’andare in montagna, ma anche sulle sensazioni che si provano a tornare ad assaporare sprazzi di quella libertà perduta.

© Ben Tibbetts

MUST HAVE - Ben 23 pagine di prodotti per l’alpinismo selezionati dalla redazione e fotografati dal nostro fotografo di fiducia Daniele Molineris.

E POI… - Le discese di sci ripido sul Monte Bianco appena finito il lockdown, albe in quota, grandi Quattromila alpini e le imprese alpinistiche di Andrea Lanfri, atleta diversamente abile, sono gli argomenti del nostro portfolio fotografico. Mattia Salvi invece traccia un romantico parallelo tra la solitaria di Gian Piero Motti al Pilier Gervasutti e il primo passo dell’uomo sulla Luna, separati solo da poche ore, nei pensieri a inizio rivista.

Skialper 130 sarà in vendita in edicola dal 23 giugno ed è prenotabile qui

© Ilaria Cariello

 

 

 

 

 

 

 


Masters Trecime Fix Carbon per il trail

Nella Outdoor Guide ora in distribuzione nelle edicole, tra i bastoni da trail running, abbiamo provato anche Masters Trecime Fix Carbon, che nei test si è a volte inaspettatamente chiuso sotto forti pressioni perché, probabilmente, in flessione accentuata, il tasto poteva aprirsi. L'azienda ci ha segnalato che quella fornita e testata era una vecchia versione e che ora il problema è risolto ed è cambiato anche un po' il look. Masters Trecime Fix Carbon è in carbonio. A seguire riportiamo la scheda tecnica e le foto aggiornate del prodotto. www.masters.it

In 4 sezioni, i tubi sono rispettivamente: ø 14mm x 1pz in fibra di carbonio 100%, ø 12mm x 2pz in CaluTech, ø 12 mm x 1 pz in AluTech 7075 e il sistema di fissaggio della prima sezione è Push-Pull.

Le altre sezioni sono collegate da una resistente corda che può essere tensionata attraverso un sistema di regolazione ad avvitamento.

La manopola Falco nella nuova finitura nera, il passamano morbido e particolarmente leggero e il supporto filettato con puntale in tungsteno, fissato al supporto in alluminio anodizzato, completano le elevate caratteristiche tecniche del Trecime Fix.

In dotazione: 1 paio di rotelle ad avvitamento del diametro di 50mm e il pratico sacchetto in PE per riporre i bastoni dopo l'uso.

Il peso al paio è pari a 301 gr nella misura 100 cm.

Misure disponibili: 100 cm (chiuso 33 cm), 110 cm (chiuso 35 cm), 120 cm (chiuso 38 cm), 130 cm (chiuso 40 cm).

Prezzo: 129,95 euro


Pomoca, sotto la pelle

Dopo una porticina, che apriamo senza chiedere permesso, c’è un corridoio di una quindicina di metri. Lungo la parete di destra sono esposti in ordine cronologico una dozzina di set sci più pelli Pomoca. Si parte dalle più antiche pelli di foca-foca fissate con i cinturini sotto sci stretti e lunghi, per arrivare alle attuali Race e Climb Pro Glide, dieci metri più avanti. Come succede in simili occasioni a chiunque si ritrovi ampiamente dopo gli anta, resto vagamente spiazzato notando che le pelli che scandiscono le mie, di stagioni, iniziano subito dopo le prime. Quelle dei Flintstones. Che oltretutto facevano parte dell’armamentario di papà e alle quali diedi personalmente il colpo di grazia, lasciandole ammuffire.

Tutti pazzi per gli sci, per qualcuno solo status symbol o almeno segnale visibile di appartenenza. Le pelli invece sono alla base dello skialp, anche fisicamente, ma vengono trascurate dalla maggioranza. Si sta sopra le pelli mediamente per l’80% del tempo di un’uscita touring e dalle pelli dipende molto del successo della salita. Sicuramente dipende dalle pelli il piacere dello sci come ineguagliato mezzo di trasporto human powered sulla neve, ma ancora più sicuramente possono dipenderne un sacco di dispiaceri se vengono trascurate. Comunque 85 anni di ricerca e sviluppo Pomoca non sono trascorsi invano. Anche se il principio di base resta quello del pelo orientato nel senso che permette lo scivolamento in avanti e poi si aggancia alla neve fornendo appoggio al passo, le cose sono molto migliorate per tutti. Sciatori, sciatori distratti e foche.

© Federico Ravassard

Ricerca e sviluppo sono sempre stati condizionati, e sempre lo resteranno, dalla completa variabilità dei fattori. La neve prima di tutto; le caratteristiche della lana Mohair dalla capra d’Angora, che variano secondo l’età dell’animale e la sua alimentazione (la lana Merino invece è costante); la tendenza della colla all’instabilità in relazione soprattutto alla temperatura, elemento difficile da controllare così come la direzionalità finale della pelle (avete presente le pelli, rotoli interi, che traslano a destra o a sinistra rispetto all’avanzamento frontale?). Tutto sommato, i fattori stabili e ripetibili si limitano alle scelte nel processo di tessitura del semilavorato, alla membrana di rivestimento impermeabile e ai trattamenti. Il plush – vello, velluto, felpa – determina presa e scorrevolezza secondo la materia prima utilizzata e la tessitura delle fibre. È il momento in cui si decide la struttura della pelle, che pelle sarà. Fibre più fitte o più rade, più spesse o più sottili, più o meno angolate, lunghe o corte. Il principio generale è: più scorrevolezza uguale meno grip e viceversa. Il trattamento Everdry si fissa a tutta la lunghezza del pelo e, oltre agli effetti idrorepellenti contro la formazione di zoccolo o ghiaccio, migliora il fissaggio del tessile, l’angolazione delle fibre, l’aspettativa di vita utile, scorrimento e grip.

Il rivestimento deve separare il tessile e l’adesivo, formando quello strato impermeabile che impedisce a umidità e acqua di bagnare la colla, con tutte le conseguenze che chi c’era prima ricorda ancora molto bene. La produzione delle pelli resta un processo con forte componente manuale. Sicuramente non si tratta di artigianato puro perché posizionatori, macchinari e sistemi di controllo sono tipici strumenti industriali, ma l’automazione si ferma alla produzione in tessitura del plush in grandi tappeti in rotoli. Pomoca interviene poi con taglio laser, marcatura, spazzolatura, trattamenti vari, applicazione della colla e dei fissaggi, più i controlli qualità in diverse fasi. In estate e fino a settembre si concentra la gran parte della produzione, con l’impiego stagionale di circa il 50 per cento di lavoratori in più rispetto allo standard. Nell’estate 2018 il picco, con 50 giorni di produzione su 24 ore. Lo sci di montagna sta crescendo ancora. Sulle pareti della sede di Pomoca campeggiano immagini di azione dei testimonial, ma quelli più evidenti, quelli che ritornano con più frequenza, magari affiancati nello stesso spazio, sono Kilian Jornet e Jérémie Heitz. Anche sulla homepage pomoca.com. Tecnicamente lontani, antropologica- mente vicini, storicamente dirompenti. L’elemento dell’attrezzatura che condividono veramente, che potrebbero realmente scambiarsi, che li accomuna a ogni sciatore di montagna old /new school, sono solo le pelli. Con un po’ di attenzione tutte quelle nel corridoio all’entrata, comprese quelle della foca nata troppo presto rispetto al Mohair della famiglia Dufour, potrebbero ancora portarci su tutti quanti.

© Federico Ravassard

CURIOSITÀ

Quante pelli?

Si stima che nel mondo, in 25 Paesi, si vendano ogni anno circa 300.000 units, set di pelli. Pomoca ne distribuisce 100.000, un terzo del totale, quota che la posiziona largamente come leader del mercato.

All’origine degli sport invernali

Dal 1867 la storia della famiglia Dufour è legata al turismo e agli sport invernali. Louis Dufour, albergatore di Les Avantes, è il primo a utilizzare gli sci nella Svizzera romanda. L’albergo di famiglia ospita la clientela prestigiosa di Montreux in un ambiente che oggi sarebbe all’avanguardia fitness & outdoor, organizzando anche gare di sci e di bob. Con il contributo del figlio Éric, ingegnere e sciatore di fondo, negli anni ’30 vengono ideate e prodotte dalla famiglia Dufour numerose attrezzature da montagna, una futuristica slitta di soccorso in tela che utilizza sci e bastoni dell’infortunato e le pelli antislittamento. Il marchio Pomoca viene registrato nel 1937 come acronimo di Peau (pelli, la pronuncia) - Mohair - Caoutchoutée (gommato). Le suole dei Dufour per scarpe da montagna e da città, in caucciù come precursore della gomma, vengono lanciate con successo nel 1941. La famiglia prosegue nello stesso settore anche con la generazione successiva, sviluppando l’impermeabilità delle pelli. Nel 2011 Pomoca entra nel gruppo Oberalp: nuovo capitolo, sfide inedite. Gli scarponi Dynafit, per restare in contesto ski touring, sono oggi gommati Pomoca.

Sci di fondo skin

Le pelli stanno rivoluzionando lo sci di fondo. Nella tecnica classica, per gli amici l’alternato, c’è sempre stato un cancello vero e proprio chiuso a quattro mandate davanti ai neofiti e agli occasionali: la sciolinatura di tenuta, quella che lascia penetrare il cristallo nello spessore ceroso al momento della spinta, e lo lascia fuori durante lo scorrimento. Se la sciolina è quella giusta per quella neve. Equilibrio delicato dipendente anche da un’infinità di altri elementi fisici, dalla tecnica dello sciatore alla struttura dello sci. In condizione zero (gradi), attorno al punto di fusione della neve, la situazione diventa ingestibile per la maggior parte. Ma proprio in queste condizioni di neve umida variabile le pelli danno il meglio. Sottili strisce di pelli race vengono applicate in produzione nelle sedi fresate al centro del ponte dello sci per lunghezze attorno ai 40 centimetri. Pomoca fornisce gli inserti di pelli sagomate ai migliori costruttori (che puntano molto sul sistema e ci stanno lavorando), gli sci da fondo skin sono già finiti sul podio ai massimi livelli. Chissà che anche nel mondo skialp race non si accenda qualche lampadina rispetto a pelli la cui zona utile è meno della metà del totale.

di Guido Valota

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 128

© Federico Ravassard

 


Desert Love Affair

Quando chiudo gli occhi e lascio divagare la mente, mi ritrovo sulla vetta di una montagna innevata e illuminata dai raggi del sole, con il riverbero e una leggera brezza che penetra nel casco e fa vibrare ogni capello. Essere su una vetta mi trasmette una sensazione di familiarità, ma anche di passione e avventura. Ma ora, con gli occhi chiusi e il vento che fa svolazzare i capelli, sento come un prurito sulla pelle. Attraversa la faccia e arriva ai denti. Sabbia. Sabbia negli scarponi, sotto gli sci e nella pelle. Questa volta, sulla vetta di una grande duna del Sahara, con una linea vergine da sciare sotto di me, mi ritrovo immerso in un corteggiamento con il deserto.

Il sole aveva assunto una tonalità rossastra filtrato da quelle nuvole di sabbia. Non c’erano alberi, né moto che rombavano per le strade e neppure negozi illuminati fino a notte fonda come a Marrakech. Era una città piatta che pullulava di vita e di commerci che si adagiava sulle colline. Le colline piano piano diventavano montagne e le montagne si perdevano nel cielo sporco. Dai ciliegi in fiore ai pini, dalla neve alla sabbia: avevamo viaggiato nove ore verso Sud-Ovest attraverso il Marocco e le valli dell’Atlante fino al villaggio di Merzouga, nella regione di Erg Chebbi, deserto del Sahara. Dietro di me c’erano i pro skier Chad Sayers e Tof Henry e il fotografo Daniel Rönnbäck che stavano sorseggiando una calda tazza di tè del deserto e sgranocchiando i biscotti che avevano trovato alla stazione di servizio. Un viaggio fino in Marocco per sciare dove quasi tutti non l’avrebbero fatto. Chad cercava la curva perfetta nella powder con profumo di deserto, Tof nuovi couloir in stile Chamonix e Daniel di catturare quell’allure esotica di un viaggio con gli sci in Africa attraverso l’obiettivo. E poi io, che mi sono unito all’avventura di una vacanza sciistica diversa in qualità di quarto nomade. Davanti a noi c’era Muhammad, la nostra guida del deserto. Ci siamo seduti sotto il cielo nuvoloso con la sabbia che stava ancora depositandosi al suolo dopo due giorni di tempesta. La luna piena bucava le nubi con la sua luce chiara e illuminava le sagome dei cammelli di Muhammad, Mali e Jimmy. Stavamo per lasciare il comfort della casa di Muhammad per un accampa- mento da dove il giorno successivo saremmo partiti per la nostra pellata sulle dune del deserto.

© Daniel Rönnbäck

Ora il pulviscolo della sabbia era sparito dall’aria, lasciando trasparire in tutta la sua potenza il contrasto tra il bronzo della sabbia e il blu intenso del cielo. Le nuvole correvano sopra di noi, creando un filtro ai potenti raggi del sole. Alle 8 il termometro segnava 22 gradi e la pelle iniziava a scottare. Con i turbanti ad avvolgere i capelli, gli sci sulla schiena e i bagagli ridotti al minimo siamo partiti in groppa ai cammelli verso un infinito di sabbia. Le tracce tra i granelli raccontavano le storie di altri viaggi. Nonostante il vento che aveva soffiato da Sud a Nord erano rimaste le tracce di altri cammelli passati prima dei nostri, di pesci delle sabbie (una specie di lucertola tipica del deserto) che scappavano dai topi del deserto e le piccole orme degli scarabei. Piccoli e paffuti, tutti neri con dei puntini sul guscio, gli scarabei avevano rimescolato la sabbia facendola sembrare ancora vergine e il Sahara si era fatto bello per noi dopo giorni di tempesta.

Eravamo da poco arrivati al campo che Tof stava già scrutando la sua prima discesa. Le dune di sabbia circondavano l’accampamento e creavano dei miraggi fatti di spine e couloir. Il vento del Sud aveva deposi- tato granelli di sabbia sui versanti Nord, creando delle piccole valanghe sui pendii oltre i 40 gradi. Con gli sci sugli zaini e gli scarponi ai piedi, eravamo pronti per la nostra avventura sulle montagne più alte che vedevamo. Jimmy e Mali salivano veloci nella sabbia lasciando impronte grandi il doppio di una mano umana. Eleganti e potenti allo stesso tempo, i cammelli ci hanno fatto guadagnare quota al comando di Chad e Tof. Siamo passati dalle valli di sabbia alle creste. Stare in groppa a un cammello è simile a cavalcare un cavallo, con la differenza che sembra di essere tre volte più alti ed è un ottimo punto di osservazione alla ricerca delle migliori linee. Man mano che salivamo di quota, aumentava la pendenza e a un certo punto abbiamo dovuto scendere e proseguire con gli sci ai piedi. La sabbia era calda e abrasiva e non abbiamo avuto bisogno delle pelli per scalare questi pinnacoli di 350 metri. Ogni duna cambiava mentre la guardavi, trasformata dalle forti folate di vento che arrivavano dall’Algeria, distante solo 17 chilometri. La serie di dune era diversa da come me la sarei aspettata: solo cinque chilometri di larghezza, ma ben 50 da Nord a Sud.

© Daniel Rönnbäck

Le più grandi erano al centro di quella striscia e le loro creste proiettavano ombre nere sulla sabbia più in basso. I miei sci per fortuna salivano senza nessun problema su quella sabbia così grippante e quasi non mi sono accorto di essere arrivato in cima e avere tutto il deserto ai miei piedi. Tof si è messo la sua maglietta e ha aperto le zip di ventilazione dei pantaloni mentre Chad serrava bene gli scarponi  e chiudeva gli attacchi. C’era eccitazione nell’aria ed eravamo in vetta al Sahara. Ero curioso di vedere Tof disegnare la prima discesa su una spina di 200 metri rivolta a Nord. Con le braccia larghe come ali e la nuvola di sabbia dietro come se fosse neve, si è messo sulla linea di massima pendenza. Chad ha infilzato i bastoni nella sabbia per spingersi e guadagnare velocità. La sabbia creava uno strato appiccicoso che frenava gli sci, come quando l’acqua ti rallenta sulla neve marcia. Il trucco era quello di riuscire a trovare lo strato più compatto dove potere scivolare piuttosto che sprofondare nella soffice polvere e impantanarsi. Chad è riuscito a disegnare una perfetta C dietro di lui, lasciando una scia esile. Sulla neve ti giri per guardare con soddisfa- zione i tuoi otto, sulla sabbia hai solo un momento per dare uno sguardo, prima che il vento cancelli i segni del tuo passaggio. Ho scritto la mia storia sulle dune, ma l’unica prova che è rimasta è stata la sabbia che si è infiltrata negli scarponi.

Giro dopo giro, salita dopo salita, Tof e Chad hanno preso confidenza e il sorriso sui loro volti ne era la prova più evidente. Hanno sciato spine e versanti aperti fino a quando il sole ha iniziato a tramontare. Il bagliore della luce si è trasformato in un arancione vivo quando finalmente il vento da Sud è diventato fresco. In vetta, con gli occhi chiusi e la faccia illuminata dagli ultimi raggi, con il vento che accarezzava la pelle e la sabbia soffice sotto i piedi, mi sono sentito a casa, proprio come su una vetta innevata. Tof ci ha lasciati per godersi un’ultima discesa fino all’accampamento mentre i turisti erano saliti sulla duna più alta per vedere il tramonto. La sera è stata allietata dal calore delle braci di tamerice che hanno rosolato una pizza del deserto, carne e verdure. Muhammad e i suoi portatori ci hanno trasmesso tutto il loro amore per l’Africa battendo le mani sui tamburi e cantando. Muhammad è uno di noi.

Ha viaggiato 52 giorni in groppa a un cammello da Timbuktu, dove vive la sua famiglia, in cerca di legno di frassino da bruciare, nuove opportunità e vino. Il Marocco è la creazione di un nomade. La sua cultura, la religione e le abitudini sono il risultato del vagabondaggio di Berberi, Arabi e viaggiatori che hanno traversato il più grande deserto del mondo fino alle vette innevate dell’Atlante o al Mediterraneo alla ricerca di commerci, viveri e amore. Con la sabbia intrappolata tra gli interstizi del mio attacco Kingpin e il turbante rosa legato allo zaino, anche io ho lasciato un segno nel Paese dei nomadi. Mentre le tracce sparivano nella sabbia e le dune venivano modellate dal vento, mi sono sentito a casa. Gli sciatori sono dei nomadi. Ogni montagna è una nuova avventura da scrivere. Giriamo il mondo in cerca di linee ancora da sciare, grandi pareti e nuovi tipi di neve. O sabbia. Siamo una tribù di entusiasti girovaghi. Senza uno stile di vita precostituito, solo un’avventura dietro l’altra. Dando il benvenuto a nuovi nomadi da fare entrare nelle nostre vite e nuove discese nel nostro viaggio.

Donny O'Neill

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© Daniel Rönnbäck

Enrico Brizzi, partire adesso

Scusa Sarax, imprevisto con le ragazze, 15 minuti e ci sono.

Il messaggio aleggia azzurrino sullo schermo del mio smartphone da quattro soldi. Avevamo appuntamento mezz’ora fa, ma il telefono suona a vuoto. Sorrido sornione e digito:

Don’t worry, man. Io, nel frattempo, butto sotto la doccia il mio bimbo. A frappé!

È così che va per noi papà separati: quando sei coi piccoli, loro vengono prima di tutto. Non c’è santo che tenga. E se io ho vita abbastanza facile col mio Alberto che, durante l’intervista telefonica (presto trasformatasi in un fiume in piena), ascolta divertito, legge Topolino e gioca col Lego, Enrico, lo scrittore che c’è dall’altro capo del telefono, ha un ménage un po’ più movimentato nella sua casa di Rimini: insieme a lui, in questa ventosa giornata di fine giugno, ci sono le sue quattro figlie e la nipotina.

Enrico Brizzi, da che lo conosco e mi nutro delle sue pagine (e son quasi cinque lustri) è una meravigliosa scoperta. Come narratore, certo. Ma, soprattutto, come strepitoso essere umano. Autore da un milione di copie a poco meno di vent’anni - il suo Jack frusciante è uscito dal gruppo è stato il romanzo culto di almeno tre generazioni (una era la mia) - tradotto in più di venti lingue, oggetto di studio di cattedratici e laureandi, Enrico fa parte della storia della letteratura italiana. Brizzi non si è crogiolato sul successo degli esordi, ha saputo costantemente reinventarsi surfando tra i generi: dal noir precocissimo di Bastogne alla trilogia ucronica di Lorenzo Pellegrini, ambientata in un dopoguerra immaginario in cui l’Italia fascista ha rotto l’alleanza con Hitler ed è uscita vittoriosa (con tanto di impero coloniale intatto) dalla Seconda Guerra Mondiale; dai geniali saggi sportivi che raccontano le sue passioni, calcio e ciclismo su tutte (il recente Nulla al mondo di più bello, sulle stagioni calcistiche a cavallo dell’armistizio, è appena uscito per i tipi di Laterza; col glorioso Di furore e lealtà, biografia del campione Vincenzo Nibali, ha vinto il Premio bancarella Sport 2015) all’ultimo strepitoso romanzo sulla Bologna dei primi Novanta divisa tra curva, droghe, ribellione, punk e l’immancabile struggente amore adolescenziale. Tu che sei di me la miglior partechiude il cerchio aperto da Jack Frusciantequasi un quarto di secolo fa (nel libro compaiono sia Alex che Martino, protagonista e antieroe del fortunato proemio brizziano) in un poderoso crescendo di chitarre distorte e colpi sotto la cintura. In mezzo a questo florilegio di pagine da antologia, c’è un punto di svolta. Una fase sorprendente della produzione letteraria dell’artista che entusiasma e continua a spiazzare: dal 2004 Enrico Brizzi scrive di viaggi a piedi. Insieme ai suoi buoni cugini, i pellegrini con cui ha fondato il gruppo degli Psicoatleti (perché è il polpaccio che spinge, ma è la testa che ti porta a fine tappa, c’è poco da fare…), ha compiuto alcuni straordinari cammini: dal Tirreno all’Adriatico, da Canterbury a Roma lungo il percorso della Via Francigena e poi da Roma fino a Gerusalemme. E ancora: ha percorso l’Italia da Nord a Sud durante i festeggiamenti per il centocinquantesimo anniversario del tricolore, ha camminato da Torino a Finisterre, calpestato ogni singolo miglio del Vallo di Adriano e, di recente, calcato palmo a palmo i terreni carichi di storia delle Residenze Reali Sabaude col patrocinio dell’omonimo consorzio.

Da ognuno di questi viaggi è nato (o sta per nascere) un libro, un racconto, una entusiasmante giustapposizione di parole, pagine, passi, immagini, musica ed emozioni. E pensare che tutto è nato quando l’autore era stanco di scrivere. Enrico me lo racconta appeso alla cornetta mentre il vento di Rimini sferza il ricevitore. Io e Alberto ascoltiamo rapiti. L’anno di svolta, s’è detto, è il 2004, ma in realtà il richiamo della strada e dei sentieri viene da molto più lontano. Il primo grande viaggio risale a quando Enrico aveva vent’anni: da Bologna a Cervia, cinque giorni in autonomia tra le colline: nel cuore quella voglia matta di libertà germinata da bambino, ai piedi d’una montagna povera e generosa. E maturata con pazienza nei campi scout. Enrico parte con un amico, Giovanni, destinato anch’egli a guadagnarsi il pane battendo sui tasti (Giovanni Cattabriga, a.k.a. Wu Ming 2, membro fondatore del collettivo di scrittori Wu Ming). È un viaggio fatto di stupore e ingenuità: «Ci portammo dietro un’ascia. Si sa mai, magari si fan brutti incontri, pensavamo…». Gli scappa da ghignare. «Oh, hai in mente quanto pesa un’ascia? Mai più nella vita! Però finché non prendi due misure non impari nulla. È là che abbiam cominciato a capire cosa significa andare a piedi». La conferma della meraviglia arriva al ritorno, in autobus, verso casa: le colline che sembravano infinite scorrono veloci via dal finestrino. I due giovani viandanti riconoscono i bivacchi dove hanno passato le notti avvolti in una coperta di stelle e intuiscono che il mondo, per essere conosciuto davvero, va misurato un passo alla volta.

La famiglia di Brizzi ha radici profonde, che fan sognare e profumano d’avventure salgariane. «La mia gente ha campato di farina di castagne praticamente per mille anni. I miei zii, bisnonni e trisavoli, fin dal primo momento che è stato possibile imbarcarsi su una nave e solcare l’Oceano, per scansar la fame han preso a imbarcarsi. Partivano: si faceva la naja e poi via, da Genova verso il Nuovo Mondo, a cercar fortuna. Le loro mani forti e ingombre di calli hanno costruito le ferrovie del Missouri. Son tornati cinquantenni con le tasche piene e han preso mogli giovani, nate molti anni dopo la loro partenza». Enrico a camminare è avvezzo fin dalla culla. «La montagna dove son cresciuto, dove mamma ci portava a fare le prime escursioni, è la stessa che Francesco Guccini ha scelto come casa. Ho imparato a masticare dislivello perché mamma ci diceva: se volete la merenda, bambini, bisogna arrivare al rifugio! e noi dietro, senza paura. S’impara così ad andare». E sta tirando su le sue ragazze con lo stesso spirito con cui è diventato grande: «La prima notte in tenda, in quota, le più grandi l’han fatta che avevano neanche sei anni e ancora ne parlano come di una delle più belle esperienze della loro vita. Le ho portate sul Corno alle Scale, la montagna classica di noi bolognesi».

A far sul serio coi viaggi a piedi, però, Brizzi inizia in quel mitico 2004, con la Tirreno-Adriatico. Quella traversata ormai mitica, da cui scaturisce il romanzo Nessuno lo saprà, coincide con un turning point della vita dello scrittore. È l’autentico momento di svolta. A dieci anni esatti dall’inizio della sua avventura editoriale, per la prima volta, Enrico si ritrova a provare una sensazione mai sperimentata prima: «Stavo scrivendo una storia per Mondadori e non provavo nessuna emozione. Mi pareva di scrivere semplicemente perché dovevo ottemperare a un contratto. Era scioccante: è come accorgersi, di punto in bianco, che la donna con cui stai da una vita non prova più niente per te». La scrittura, che prima era piacere puro e autentico, è di colpo diventata fatica. È allora che Enrico decide di prendere una pausa dalla tastiera. Di staccare andando a fare qualcosa che ama da sempre: perdersi per le montagne con uno zaino in spalla. Dopo la Bologna-Cervia ci sono stati altri viaggi, sia con Giovanni che con altri ex compagni scout del Bologna 16. Ma è tempo di alzare l’asticella. E allora perché non realizzare quel sogno tante volte immaginato in classe, durante i giorni più noiosi, fissando la cartina d’Italia? Attraversare lo Stivale nel senso stretto, proprio come gli eroici ciclisti della Tirreno-Adriatica tante volte acclamati per le strade dell’infanzia. Ma a piedi.

Il viaggio dura quasi tre settimane e ad accompagnare Enrico ci sono suo fratello e altri amici, che fanno piccoli pezzi di strada con lui, alternandosi lungo il cammino. L’unica tappa prefissata è l’approdo a Perugia da un sodale bolognese trasferitosi colà. Ed Enrico ci sbarca quando è tempo, senza avvisare, seguendo la poesia dei passi. L’amico riparte con lui dopo una cena luculliana e insieme raggiungono l’Adriatico. Quel viaggio è seminale. Per la scrittura, per il ritrovamento della pace interiore e della nuova direzione da prendere. Quel viaggio non sarà l’ultimo. Soltanto il primo di moltissimi. L’asticella prende a volare, tanta è la fretta che ha d’essere alzata ancora, e ancora. Nel 2006 Brizzi parte da Canterbury alla volta di Roma, proprio come un pellegrino medievale, e il racconto di quell’avventura inestimabile diventa un reportage a puntate per L’Espresso. Due anni più tardi il sogno di proseguire il cammino, proprio come facevano i fratelli pellegrini del passato, diventa realtà, e i buoni cugini partono da Roma per raggiungere Gerusalemme. È uno di quei voli pindarici che, solo a pensarli, fanno battere il cuore e tremare i polsi. E di solito, quando racconti l’itinerario c’è sempre qualcuno che dice: «Sì, ma c’è l’acqua in mezzo». Enrico risponde sorridendo: «C’era anche nel 1200… e noi l’abbiamo attraversata come si faceva allora».

Da Roma a Brindisi a piedi: niente Via Appia che è troppo trafficata, ma dritti sui monti d’Abruzzo, poi Molise, Isernia, Benevento e giù fino al mare, in mezzo alla natura beatamente desolata. A Taranto c’è un amico che lavora per la Marina Militare, e per passione ha riarmato un relitto alla vecchia maniera: niente radio, niente tender, niente giubbotti di salvataggio. A questo punto dovrebbe comparire la scritta lampeggiante in sovrimpressione do not try this at home, ma per i buoni cugini quel legno è quello giusto. Peccato che il nocchiero, a pochi giorni dalla partenza, sia richiamato dalla Madre Patria ai propri doveri militari, e di colpo la nave si ritrova senza capitano. A quel punto sì che la storia prende un’autentica piega salgariana: Brizzi e i compadres girano ogni bettola del porto finché non s’imbattono in Nicola, un marinaio d’esperienza, con l’accento di Lino Banfi e il volto di Ernest Hemingway (C’hai presente la foto di Hem sui Meridiani Mondadori? Uguale!), folle a tal punto da imbarcarsi nell’avventura. È lui che li traghetta di là del mare stretto. È grazie a lui se i pellegrini approdano festanti a Gerusalemme dopo più di due mesi dalla partenza. Quel viaggio è una consacrazione. Enrico e soci decidono di organizzarsi e fondano la Società di Psicoatletica (che a oggi conta all’incirca ottanta membri) e immaginano e percorrono itinerari sempre più ambiziosi:

Nel 2010, anno del centocinquantenario dell’Unità Nazionale, viaggiano dalla Vetta d’Italia fino a Capo Passero, marciando letteralmente lo Stivale da Nord a Sud. Nel 2012 viene varato il nuovo circuito per camminatori denominato Gran Giro Psicoatletico d’Italia: i buoni cugini ne percorrono la prima tranche calpestando i sentieri del Giro delle Tre Venezie: da Venezia a Riva del Garda via Trieste e Trento. Nel 2014 ripartono da Limone sul Garda alla volta di Torino attraverso Lombardia, Canton Ticino, Piemonte e Valle d’Aosta. Nel 2016 è la volta del cammino tanto rimandato, quello di Santiago. Enrico decide di percorrerlo ancora una volta sulle orme dei pellegrini medievali e parte da Torino per approdare, dopo milioni di passi, a Finisterre. Da questa magnifica classica scaturisce un reportage in sedici puntate per il sito della Gazzetta e, soprattutto, il libro Il sogno del drago, entusiasmante volume inaugurale della collana di Ponte alle Grazie in collaborazione col CAI, magnificamente vergato in seconda persona. Il resto, come si suol dire, è storia.

Enrico e i buoni cugini non si sono fermati, e continuano a camminare con il ritmo costante di due viaggi all’anno. Uno in primavera e uno alla fine dell’estate. C’è chi, camminando, cambia vita: Maurizio Manfredi - per tutti, Manfro - decide viaggiando con Brizzi e soci che l’esistenza è troppo breve per negarsi la felicità. E molla un lavoro sicuro per realizzare il proprio sogno: diventare tatuatore. Oggi Manfro vive d’arte e inchiostro ed è, ça va sans dire, il tatuatore ufficiale degli Psicoatleti. Un bel po’ di quell’inchiostro decora il corpo snello e muscolare di Enrico: «Han fatto il conto le ragazze qualche giorno fa qui al mare. Ne ho quindici, pare. E, a parte i nomi delle mie figlie e un vecchio tributo d’onore alla mia squadra del cuore, son tutti ricordi dei nostri grandi viaggi».

Prima di congedarmi annoto le ultime imprese per sacrosanto dovere di cronaca: il Grand Tour del Vallo di Adriano, la risalita del Reno che sta per cominciare in Olanda, e lo splendido tracciato patrocinato dal Consorzio delle Residenze Reali Sabaude: un giro di 300 chilometri circa, delimitato a nord dal Castello di Aglié e a Sud da quello di Govone. Enrico e i buoni cugini lo hanno percorso in nove giorni, terminando la marcia nel cuore di Asti. La telefonata volge al termine: è durata un paio d’ore ma a me e Alberto sembra d’aver viaggiato per un milione di miglia. La stretta al cuore che proviamo sa d’invidia e di promesse d’avventura.

«Papà, quando sarò più grande andiamo anche noi, vero?» dice il mio bimbo.

«Dove, amore? Dove andiamo?» domando io.

«Dappertutto» risponde lui.

E davvero non c’è chiosa più bella. È questo l’effetto che fan le parole e il ricordo delle impronte lasciate da Enrico Brizzi sui sentieri di mezzo mondo: fan voglia di partire. Di non aspettare le ferie e neppure la primavera. Partire domani, anzi no. Partire e basta. Partire adesso.

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