*Crack: termine usato nel giornalismo sportivo americano per definire i giocatori, solitamente nel basket e nel football, che rompono gli equilibri con elementi di novità

«Vattene all’Est da Mosetti e guarda un po’ cosa ci trovi». L’ordine, dalla redazione, era più o meno questo. L’anno scorso ce n’eravamo andati al Sud, quest’anno tocca dirigersi all’Est, quindi, verso le Alpi Giulie. Io, per inciso, abito all’Ovest, a Torino. Vado a sciare su cime alte più di tremila metri, a volte quattromila, molto spesso poi finisco in Francia dove bene o male mi ci ritrovo; al massimo il caffè fa un po’ schifo, ma le montagne hanno sempre la stessa forma. All’Est, invece, non mi ci ero mai fermato d’inverno e come tanti avevo la convinzione che l’Italia finisse a Venezia. Le montagne lì sono basse, squadrate e cattive, come i pugili che se le danno nel retro dei bar di periferia. La maggior parte di esse non arriva neanche a 2000 metri, per dare un’idea. Però proprio in mezzo a queste montagne è cresciuto uno degli scialpinisti italiani più fighi (si può usare il termine figo? Non mi vengono molte altre parole per descriverlo) del momento, Enrico Mosetti, detto il Mose. Classe 1989, sponsorizzato da quel marchio molto hipster di Chamonix che ne riflette in pieno l’immagine, quattro spedizioni all’attivo e discese pazzesche su giganti di cinque o seimila metri in Perù, Georgia e Nuova Zelanda, più un tentativo al Laila Peak in Pakistan, ovvero una delle più belle montagne del mondo. Tutto questo per dire che, insomma, se uno così impara a sciare da queste parti, allora le Alpi Giulie devono avere un qualcosa dentro di selvaggio. Oppure selvaggio lo è chi viene qua a scivolare sulla neve, chissà. Dopotutto è questo ciò che cerco, domande a cui trovare una risposta. Chi è quello lì. Cosa c’è dietro quella cresta. Credo che uno quando viaggia debba andare incontro a dei quesiti, a delle incertezze, altrimenti il tutto si riduce al trascorrere una settimana bianca in un posto diverso da dove si va ogni weekend.

© Federico Ravassard

A Sella Nevea, dove abita Enrico, ci arrivo alla sera. I fari illuminano a malapena il cartello bilingue che spunta dalla nebbia, la stessa che oggi ha fatto perdere Mose e compagni sul versante sloveno del comprensorio, alla ricerca di una linea teoricamente accessibile con una pellata dagli impianti. Dico teoricamente perché il pomeriggio l’hanno passato a vagare tra boschi e salti di roccia alla ricerca di un segno di civiltà sotto forma di traccia nella neve. Li incontro davanti allo Julia, un rifugio in centro al paese. Le loro facce suonate e gli scarponi ancora nei piedi a quest’ora testimoniano che effettivamente è stata una lunga giornata. L’appartamento del mio ospite è in linea con la sua persona. Il termosifone è scomparso sotto una catasta di piccozze appese, sopra la stufa ci sono pelli e scarpette ad asciugare mentre in balcone la rastrelliera comprende sci che vanno dai 70 ai 115 millimetri al centro; in un angolino, a tradire le origini pistaiole, ci sono anche delle aste da gigante. Enrico mette sul fuoco una minestra, si chiacchiera del più e del meno, di viaggi e di persone. Sin dall’inizio capisco che appartiene a quella piccola categoria di persone che hanno messo seriamente lo sci in una posizione piuttosto alta nella lista delle priorità della loro vita. Il curriculum alpinistico ce l’ha scritto sul corpo, sotto forma di tatuaggi. Una trota dell’Isonzo sul braccio, a testimonianza delle origini goriziane, città spaccata in due dal fiume e dalle carte della burocrazia. Due colibrì sul petto a rappresentare l’Artesonraju e il Tocllaraju, le due cime di seimila metri della Cordillera Blanca che ha sciato in solitaria in Perù. Dei cristalli di neve sul collo, questa non bisogna neanche spiegarla. E poi ci sono montagne, alberi, numeri a ricordare i viaggi in Pakistan e in Nuova Zelanda e persone che hanno lasciato un segno sulla sua persona.

DIVAGAZIONI CARNICHE

Il mattino seguente ci tocca svegliarci presto. Abbiamo appuntamento con Marco per andare verso la Carnia, dove lui ed Enrico devono fare un rilievo nivologico per l’AINEVA, l’ente che si occupa di monitorare le condizioni del manto nevoso e il conseguente pericolo valanghe. Io invece ho come obiettivo la cima del Monte Coglians, la più alta della zona, qualche centinaio di metri sopra il sito scelto dai due per i test. Non è che faccia proprio bello oggi, anzi. Alla nostra destra si trova il Crostis, un panettone con una salita che sarebbe dovuta essere teatro di un tappone del Giro d’Italia, in seguito annullata a causa della pericolosità della discesa. A poche valli da noi svetta invece il sacro Zoncolan, considerato dai ciclisti una delle salite più dure d’Europa: sei chilometri con una pendenza media del 15% e punte sopra il 20%, praticamente una lunghissima rampa di garage. L’avevo salito durante una vacanza pedalatoria qualche anno fa, mi ricordo che in alcuni punti la ruota anteriore impennava e qualcuno, dopo aver dovuto mettere il piede a terra, non era più riuscito a ripartire. Saluto i due mentre iniziano a scavare e continuo per i fatti miei, ma dopo un’oretta di lotta con il vento decido che forse ne ho abbastanza. Mi sento come il sacchetto di plastica di American Beauty, le raffiche a cento chilometri orari mi fanno perdere continuamente l’equilibrio. Non sono l’unico, almeno: raggiunti gli altri, il bollettino di guerra parla di uno sci volato a valle e vari oggetti che hanno tentato il decollo, tra cui uno zaino e la bilancia per la neve. Finito il rilievo e recuperati i dispersi torniamo giù, leggermente infreddoliti. Ci rifacciamo sulla strada del ritorno verso Sella Nevea, alla Rosticceria Buon Arrivo, conosciuta come Il Polletto: un’istituzione locale in fatto di grassi saturi e birra artigianale. Quando si tratta di cibo, da queste parti, non si va troppo per il sottile: la cena dell’indomani la facciamo da Surc, un ristorante poco oltre il confine sloveno dove la tartare di carne, che io da bravo piemontese sono abituato a vedere servita con giusto un filo d’olio, qui la servono con burro, cipolle crude, olive, peperoncini e cetrioli. Rende l’idea, no?

© Federico Ravassard

L’IMPORTANTE È SCIARE

Il mattino seguente l’appuntamento è al bar dello Julia con Beatrice, la fidanzata di Enrico, e i suoi amici. Lei, Nicole, Andrea e Samuele hanno tra i 21 e i 22 anni e nella vita, oltre a studiare, sono maestri di sci. Non sono molti i ragazzi della zona che vanno in giro con le pelli, mi confessa Bea. A dire il vero, continua, ci sono praticamente solo loro: la zona di Tarvisio, infatti, ha una solida tradizione di sciatori alpini, alimentata dalla presenza del liceo sportivo Bachmann, da cui escono continuamente atleti di altissimo livello nelle gare su pista, come l’azzurro Mattia Casse. Saliamo al sole sui pendii che portano alla Forcella dei Disteis, sotto la parete simbolo di Sella Nevea, quella del Montasio. Nei piedi i miei compagni hanno tutti assi e scarponi di una certa massa, si capisce che prima ancora di essere alpinisti loro sono sciatori. Prima di partire abbiamo incrociato un amico comune, più esperto, che ha voluto rassicurarsi delle loro intenzioni: non è da molto che salgono con le pelli fuori dalle piste battute, quindi – parole sue – a vederli andare via da soli oggi si è sentito un po’ come una mamma chioccia di fronte ai suoi pulcini. Saliamo con calma, il vento non dà fastidio e sarebbe meglio che la neve dura mollasse un po’, ma non mi importa più di tanto: sono qui per conoscere persone e guardarmi intorno, più che per sciare. La muraglia del Montasio si alza dritta sopra di noi, apparentemente insciabile. Con molta più neve su queste pareti scendono linee di sci ripido che si snodano attraverso cenge e canali. Anche le gite facili, qui, non sono da sottovalutare: a causa della morfologia dolomitica infatti i pendii fuori dai boschi cominciano da pendenze medie e spesso terminano in canali che si infilano in mezzo a muri di centinaia di metri, come l’Huda Paliza, la discesa simbolo delle Giulie. Arriviamo in cima e, dopo aver spellato al volo, Nicole e Beatrice partono davanti a me. Porca miseria se sciano secco! Mi arrabatto dietro di loro in qualche modo con i denti che vibrano per la neve che evidentemente non ha mollato e l’unica pausa che facciamo è per scattare qualche foto. Questi ragazzi sono l’esempio più chiaro di quello che sta succedendo ora allo scialpinismo, al quale si stanno approcciando sempre più sciatori di altissimo livello che hanno voglia di vedere posti nuovi, di tirare curve su pendii che non hanno mai visto la fresa di un gatto. L’importante per loro è questo, essere sciatori prima di tutto il resto. Quello che viene dopo sono dettagli, il dove e come lo si fa è un aspetto secondario, perché una curva è bella sempre, che sia fatta in un metro di polvere o sul ghiaccio barrato di un gigante. E infatti nella birra post-gita l’argomento di cui si discute è chiaro: chi viene martedì prossimo a vedere lo slalom di Coppa del Mondo a Schladming?

MONTE SART, UN ATTIMO DI INFINITO

Ci diamo appuntamento con Dade, al secolo Davide Limongi, alla partenza degli impianti. Dade è uno dei compagni di merenda di Enrico, nella vita fa il finanziere qui a Sella Nevea. L’idea di oggi è andare a sciare la parete sud del Monte Sart, una pala a pendenza costante che si vede anche dalla statale che va a Tarvisio. Non abbiamo fretta, anzi, nei nostri piani l’idea è di scenderlo al tramonto. Nello zaino abbiamo infilato anche un paio di scarpe comode perché non sappiamo bene fin dove arriveremo con gli sci. Prima tappa, colazione al Rifugio Gilberti, dove Mose lavora abitualmente insieme a Irene e Fabio, il cuoco. Fabio Tschurwald, soprannominato Tschurwi, è uno dei custodi di questi luoghi ed è lui a farmi una visita guidata del rifugio, tappezzato di foto e cimeli d’epoca. Molte stampe ritraggono scene di speleologia, una pratica che nelle Giulie trova uno dei parchi giochi più belli al mondo grazie alla natura carsica del terreno. In ogni momento dell’anno qui arrivano speleologi da tutto il mondo, soprattutto dall’Est Europa, che scendono per centinaia di metri nelle grotte di cui sono crivellate queste montagne, in qualsiasi stagione. Anzi, dice Tschurwi che d’inverno le condizioni sono ottime perché i flussi d’acqua sono assenti. C’è solo un piccolo problema da risolvere: prima di iniziare le calate bisogna spalare la neve dagli ingressi, e a volte ci vogliono giorni interi a causa dello spessore del manto: la quantità media di precipitazioni, qui, arriva ai 16 metri all’anno nonostante la bassa quota. Su una parete invece troneggia il ritratto di Ignazio Piussi, pioniere dell’alpinismo friulano e, a detta di Messner, il più forte alpinista degli anni Sessanta. Piussi firmò alcune ascese incredibili per quei tempi, come quelle sul vicino Mangart e sul Civetta in Dolomiti, e tentò per ben tredici volte la parete Nord dell’Eiger. Sono montanari cocciuti, i friulani. Usciamo dal Gilberti mentre il cielo comincia a coprirsi e mentre saliamo verso la Sella Ursic ci immergiamo inesorabilmente nella nebbia. Saliamo a testa bassa, devo tenere lo sguardo puntato sulle punte degli sci per non farmi venire la nausea a causa del white-out. Arriviamo al bivacco Marussich e decidiamo di aspettare lì che il tempo migliori. Mose fa sfoggio di grettezza slava tirando fuori dallo zaino gli avanzi della sera prima e, noncurante della temperatura sotto zero, banchetta allegramente con patate congelate e una fetta di Lubianska, una variante slava del cord-bleu. Momento di giubilo, nel cibo lasciato dai visitatori del bivacco troviamo anche un barattolo di senape: il Grand Hotel Nevea è qui. Ripartiamo mal volentieri, fuori continuano a esserci vento e nebbia. Ci portiamo sotto un canale che conduce alla cresta del Sart e calziamo i ramponi, sferzati dalla neve che, noncurante della gravità, sale dal basso verso l’alto a cause delle raffiche. Sbuchiamo proprio mentre sta succedendo qualcosa di maestoso: le nuvole si stanno diradando, lasciando spazio alla luce dorata del pomeriggio. Sembra di essere nella scena chiave di un film della Red Bull, noi siamo quei tre puntini che battono traccia su una cresta baciata dal sole da un lato e che sul versante opposto precipita in una parete sulla quale Emilio Comici aveva aperto nei primi anni del Novecento una via folle di più di 900 metri. È un momento magico, proprio quel tipo di momento per cui uno dovrebbe iniziare a fare scialpinismo e in cui i secondi si dilatano come polmoni. Le rocce delle montagne intorno a noi sono diventate coralli stuccati da meringhe di neve, mentre il fondovalle, duemila metri sotto di noi, sembra un paesaggio della Terra di Mezzo di Tolkien. La neve marmorea del mattino è stata addolcita dal calore del sole e pennelliamo curve che vorremmo non finissero mai. Come entriamo nei primi arbusti Mose tira fuori il gps: dobbiamo aggirare i salti di roccia che circondano la parte inferiore del pendio. Sento odore di ravanata, ma dopo il delirio di luce che abbiamo appena vissuto siamo tutti ben disposti a farci una scammellata a piedi per tornare a casa. Dade, che ha lasciato le scarpe in auto, accoglie con meno gioia il portage, ma rifiuta stoicamente la nostra offerta di vendergli le nostre comodissime scarpe. Un’ora più tardi veniamo salvati da Beatrice, partita da casa per darci uno strappo fino a un meritato spritz a Campo Rosso, in compagnia di un certo Tadei.

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TADEI, CHE VA SU VELOCE

Dalle Alpi Giulie non nascono solo scialpinisti forti in discesa: ce ne sono altri che il vento sulla faccia lo sentono anche in salita. Uno di questi è Tadei Pivk, residente a Camporosso, che zitto zitto negli anni si è portato a casa per ben due volte la maglia di campione del mondo di skyrunning senza essere un professionista. Di origini slovene, dopo un passato agonistico nel salto con gli sci, Tadei ha iniziato a correre per caso, dopo che degli amici lo avevano coinvolto nella staffetta del Lussari, una gara locale. In settimana lavora come impiantista sulle piste di Tarvisio e alla sera si allena sul Sentiero del Pellegrino, 900 metri di strada forestale che d’inverno sono l’unica pista consentita agli scialpinisti. Tra un sorso e l’altro Tadei mi spiega, un po’ rassegnato, la situazione da queste parti: la risalita a bordo impianti non è assolutamente tollerata e generalmente quello che oggi chiamiamo ski fitness qui è ancora un concetto sconosciuto. Completamente l’opposto di quello che succede pochi chilometri più in là, nel comprensorio austriaco del Dreiländereck (letteralmente, angolo dei tre paesi). Qui, dove Austria, Italia e Slovenia si toccano, l’apertura serale del giovedì si è rivelata un successo. Tadei mi racconta che la settimana prima a risalire le piste erano almeno in 400, con relative consumazioni nelle attività locali a far girare il tutto, la prova del nove che lo scialpinismo da resort è una forma di turismo che può effettivamente funzionare. Mose chiede a Tadei se quest’anno si schiererà in partenza alla Scialpinistica del Canin, la gara che viene organizzata a Sella Nevea. Lui sorride senza dare una risposta chiara, ma si vede che un pensierino lo sta facendo. E non è l’unico: Mose, divertito, confessa che quasi quasi correrà anche lui, perché alla fine, come abbiamo detto, l’importante è sciare.

© Federico Ravassard

WE ARE ALL SKIMOUNTAINEERS

Nel weekend Enrico mi invita ad aggiungermi al gruppo che con lui sta facendo un corso base di scialpinismo e con il quale ha programmato di andare due giorni in Carinzia, al confine tra Austria e Slovenia. È una banda eterogenea, che va dallo studente all’imprenditore. Tutti entusiasti di praticare questo giochino del salire in cima a una montagna per poi sciarla. La meta per la notte è la Klagenfurter Hütte, un rifugio frequentatissimo dagli scialpinisti locali, che spesso salgono qui senza andare oltre, una passeggiata in versione invernale con sci e pelli al seguito. Puro plaisir, come direbbero in Francia. Nonostante ciò, noto come il setup medio degli austriaci sia diverso da quello a cui siamo abituati, decisamente più improntato sulla sicurezza. Una buona metà di loro, infatti, utilizza ancora vecchi attacchi Diamir o comunque attacchini con sgancio certificato, e tantissimi sulle spalle hanno zaini airbag nonostante percorrano tranquilli itinerari di fondovalle. Passiamo due giorni di corsi tranquilli, a fare campi Artva e a chiacchierare alla sera davanti (ahimé) a un flusso ininterrotto di boccali di birra. Alla fine tra una Guida come Mose, abituato a sciare su pendii a 50°, e un principiante che sta imparando a fare le inversioni in salita non c’è poi così tanta differenza: il motivo per cui escono al mattino con gli scarponi nei piedi è lo stesso. Entrambi vogliono spostare un po’ più in là i propri limiti con le capacità che hanno a disposizione e quelle che sono disposti ad acquisire. Provare quel pizzico di brivido e di leggerezza, che non dipende da quanto è ripida la parete che stai sciando, ma da quello che ti senti dentro tu. In questi stessi luoghi cominciò a frequentare la montagna anche Steve House, uno dei più forti alpinisti al mondo, vincitore di un Piolet d’Or grazie alla salita della parete Rupal sul Nanga Parbat. Dall’America Steve arrivò in Slovenia per un programma di scambio con la sua università e poco dopo comincio a frequentare il Club Alpino Sloveno, iniziando così a maneggiare picche e ramponi. Da allora torna a scalare periodicamente sulle Giulie, come l’anno scorso quando Mose e Dade lo incontrarono alla base di una cascata di ghiaccio. Manco a dirlo, in quel periodo Dade stava leggendo proprio la sua biografia!

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TAKE A WALK ON THE WILD SIDE

Visitare il versante sloveno di Sella Nevea è un’esperienza che trascende dai vincoli del tempo e dello spazio. Noi ci arriviamo sciando il Krnica, un classico fuoripista che in mille metri di dislivello attraversa un ampio vallone e un bosco di faggi. La stazione intermedia della funivia che sale da Bovec sembra essere uscita da Blade Runner. Fuori dal piazzale è parcheggiata una berlina che ci chiediamo come abbia fatto ad arrivare fin lì. Poco più in là, in bella mostra, container e rottami arrugginiti ci accolgono mentre saliamo le scale che ci portano all’interno della stazione, il cui pavimento è ancora di legno. L’ovetto nel quale entriamo è poco più grande di un box doccia e sotto di noi vediamo scorrere il versante assolato, crivellato di cavità carsiche a poche decine di metri dalle piste. Mose mi spiega che è un po’ come sciare in ghiacciaio: alcune grotte sono enormi e ben visibili, ma altre, più piccole, possono essere coperte dalla neve e già più di una volta degli sciatori sono stati recuperati dopo esserci caduti dentro. Verso la fine passiamo a fianco del pendio dove fino a poco tempo fa veniva disputata una gara di freeride. Pendio per modo di dire, sarebbe più corretto definirla una specie di Rupe Tarpea, la scarpata dalla quale venivano gettati i bambini spartani: un centinaio di metri di dislivello di cui una buona parte è composta da barre rocciose. Praticamente il vincitore era colui chi arrivava al fondo sulle proprie gambe, o almeno con il minor numero di fratture. Nel fondovalle luccica l’acqua azzurra dell’Isonzo, la stessa che un secolo fa era tinta dal rosso del sangue dei ragazzi mandati a difendere il fronte dalle truppe austroungariche. La Prima Guerra Mondiale qui c’è stata per davvero: basti pensare che uno degli elementi decisivi della disfatta di Caporetto fu un tunnel poco sotto di Sella Nevea che gli austriaci utilizzarono per spostare armi e uomini senza farsi vedere dagli italiani appostati al colle. Più lontano, invece, a brillare è il Golfo di Trieste, anche lui testimone di storie di confine e di guerra. Penso per un attimo a quanto sia cambiato questo angolo di Alpi, dove una volta ci si sparava letteralmente addosso, e ora si passa da un Paese all’altro camminando con i ramponi su di una cresta.

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I RIGATONI AL SALTO DI ROBERTO

L’ultima sera andiamo a cena all’Alte Hütte a Campo Rosso. Con noi c’è la famiglia Cecon: Sandro, Daniela e il figlio Zeno. Zeno è stato un compagno di spedizione di Mose in Pakistan e normalmente fa il maestro a Tarvisio, dove ha fondato la scuola di sci Evolution3Lands nella quale insegna anche Beatrice. Qualche anno fa si è fermato a un soffio dall’élite mondiale del freeride arrivando sesto al circuito del Freeride World Qualifier. Suo padre Sandro è, in poche parole, un pioniere dello scialpinismo qui nelle Giulie, con più di quarant’anni di esperienza: basti pensare che i primi rilievi li ha fatti nel 1975. Poco dopo al tavolo ci raggiunge Roberto Del Negro, proprietario e cuoco del ristorante, che ci fa ordinare i suoi rigatoni al salto. Intorno a questa ricetta scorre buona parte della storia alpinistica della valle. Prima dell’Alte Hütte, infatti, Roberto gestiva una taverna che era di fatto un punto di riferimento fisso per i giovani scapestrati come Sandro che si divertivano ad andare su e giù dai monti con mezzi e tecniche a dir poco rudimentali, come degli sci lunghi mezzo metro importati dall’Austria con i quali cercavano di scendere nei canali sopravvivendo in qualche modo fino al fondo. Lo stesso Roberto era uno dei capisaldi della piccola ma agguerrita tribù, essendo presidente del CAI locale. I rigatoni al salto, con panna e ragù, sono la ricetta che si era inventato allora da cucinare alla sera, quando i novelli alpinisti rientravano alla base affamati come lupi, e più di una volta erano obbligati a dargli una mano ai fornelli data l’affluenza. I rigatoni di Sandro si raffreddano mentre lui non smette di parlare di quei tempi pionieristici: nei suoi racconti scorrono aneddoti sui mitici attacchi Zermatt, compagni di gita che lavoravano in segreto per lo spionaggio sovietico, sciatori sloveni che, anziché usare le pelli di foca, salivano a piedi con gli Elan RC da 2,10 sullo zaino. Alcuni dettagli mi fanno capire quanto all’epoca andare in montagna fosse un connubio perfetto tra spirito pratico e attrezzatura approssimativa; ad esempio, per aumentare la tenuta degli sci da fondo, che loro utilizzavano per gite scialpinistche, si usava riempire la soletta di puntine da disegno, una sorta di squama di pesce ante litteram degli attuali sci. Le pareti dell’Alte Hütte sono di per sè un pezzo di storia: nelle fotografie sono ritratti volti noti come Messner, Casarotto e Kukuckza, in mezzo a una miriade di altri ragazzi barbuti con occhiali da ghiacciaio, camicie a quadretti e volti sorridenti dopo l’ennesima giornata di esplorazione in montagna. Ripenso ai ragazzi con i quali ho sciato in questi giorni, negli stessi luoghi, perdendoci nel fare cose nuove esattamente come quarant’anni fa. Sorrido da solo, mentre davanti a me due generazioni di sciatori si raccontano storie di neve e di tracce che finiscono chissà dove. Lunga vita allo sci selvaggio.

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