Suunto 5 fa sul serio
Per chi non ha bisogno di un orologio GPS multisport molto orientato alla performance come Suunto 9, ma è motivato oltre il fitness supportato dai programmi personalizzati proposti da Suunto 3, è da poco stato lanciato dalla finlandese Suunto il nuovissimo Suunto 5. Il target è ben definito: utilizzatori sportivi evoluti, non solo occasionali ma anche very addicted, magari col vizietto dei carichi intensi e dei grandi volumi, alla ricerca di uno strumento allo stato della tecnologia ma dall’ingombro limitato. Oltre che di un buon rapporto qualità prezzo. E pure bello, portabile 24/7. Operazione impossibile? Sicuramente non facile, ma sotto molti punti di vista Suunto 5 centra l’obiettivo.
In pillole
Il cuore di Suunto 5 è il monitoraggio dell’attività sportiva e di quella extra-sportiva, con rilevazioni davvero complete per atleti anche evoluti. È quasi come avere un person al trainer che, in base all’indicazione di obiettivi e livelli, monitora tutte le attività fisiche 24/7, qualità del sonno compresa, e rileva gli stati di forma e di affaticamento fornendo indicazioni sull’alternanza carico-recupero. Anche il singolo allenamento viene guidato in tempo reale per intensità e durata. I dati che servono durante le attività ci sono tutti e sono pre-configurate 80 modalità sport diverse, che si possono poi personalizzare ulteriormente. È possibile perfino crearne di originali, casomai vi inventiate un nuovo sport. In più ci sono rilevazioni e statistiche utili nel quotidiano, oltre allo sport e al pari dei più evoluti activity tracker: dal grafico della frequenza cardiaca 24/24 alla spesa calorica, fino agli orari di alba e tramonto e alle fasi lunari. La rilevazione cardiaca avviene tramite sensore ottico al polso, ma per utilizzi che richiedono massima precisione e valutazioni funzionali dell’attività elettrica del cuore è utilizzabile la fascia cardio Suunto Smart Sensor, acquistabile a parte. Suunto 5 è implementato dalla app Suunto, piattaforma per mobile iOS e Android sincronizzabile con numerosi altri servizi sportivi tra i quali Strava, Training Peaks e Relive.
Sì
- Il prezzo: 329 euro per un prodotto completo, con un software affidabile
- Il celebre design finlandese Suunto sobrio e pulito, sia con la ghiera color acciaio che bronzo, e le dimensioni accettabili anche su polsi piccoli
- La completezza delle funzioni che ne fa un vero e proprio monitor del nostro stato di allenamento e di salute, con tanti dati e funzioni molto dettagliate
- L’usabilità: dopo una veloce ricognizione delle funzioni disponibili (consigliabile, vista la loro quantità), la navigazione nei menù risulta semplice. Ma ci sono anche tanti tutorial su YouTube - Suunto Channel, molto immediati.
- App Suunto completa e intuitiva, facile il collegamento, utilissime le heat map che mostrano gli itinerari di altri utenti nelle vicinanze
- Profili di sport praticamente infiniti, inclusi alpinismo, scialpinismo, trail e trekking
Nì
- La ricerca della posizione GPS non è sempre velocissima, ma in ogni caso negli standard di orologi simili e più che accettabile.
- La leggibilità del display risulta difficoltosa in penombra se non viene attivata l’illuminazione (costante dallo start per tutto il move, oppure con un click al bisogno)
No
- Non c’è altimetro barometrico, quindi le misurazioni verticali sono rilevate tramite satellite. La parte meteo è un plus integrato in Suunto 9 per chi si muove molto in montagna, ma incide sensibilmente su peso e dimensioni. Suunto 5 punta su compattezza e leggerezza.

Paul Bonhomme, lo sci ripido come esplorazione
Dieci maggio 2018. La luce in fondo al tunnel è quella che ci coglie al termine del traforo del Frejus. Piove a dirotto sul lato francese, il che ci fa buttare un occhio alla temperatura riportata nel cruscotto della macchina: «Bene! Questa in alto attacca…». In primavera inoltrata, durante i giorni di pioggia, spesso il pensiero dei malati di sciva infatti alla neve che, con zeri termici abbastanza elevati, riesce a incollarsi sulle pareti tipicamente glaciali e rocciose. Oggi dopotutto stiamo andando a intervistare un personaggio che, senza temere di sbagliarci di molto, starà pensando esattamente la stessa cosa guardando tutta questa acqua che cade dal cielo sopra Annecy.
Come tutte le volte che capita di andare a conoscere davvero qualcuno di cui hai sentito parlare in maniera indiretta o attraverso i canali social, spesso ti immagini il primo istante in cui te lo troverai di fronte. Nessuna ansia particolare, per carità, solo un gioco che cerca di anticipare il tempo. Arriviamo ad Annecy nel luogo in cui ci siamo dati appuntamento probabilmente imboccando una corsia riservata ai bus; piove a manetta e questo non aiuta a interpretare le indicazioni di una circolazione urbana non esattamente ben studiata. Per farci riconoscere molliamo l’auto sul marciapiede di fronte al negozio di articoli sportivi dell’appuntamento: siamo gli inviati di una testa di sci italiana dopotutto, ed è più pratico che scrivere su Facebook un messaggio a Paul.
Dall’altra parte della strada un uomo non troppo alto e minuto, piumino rosso e cappellino con la visiera, ci si fa incontro. È lui! È Paul, quello che vuole concatenare in giornata con partenza da Chamonix le quattro pareti dell’Aiguille Verte: sci de pente raidee alpinismo, per un viaggio di oltre 4.000 metri. Roba da atleti e mega allenamento, pensiamo. «Salut, je suis Paul!». Paul lascia uscire una boccata di fumo sotto la pioggia: sta fumando una sigaretta. Lo seguiamo in un caffè del centro non distante dalle rive del lago di Annecy, è mattina, non c’è quasi nessuno e possiamo stare tranquilli e chiacchierare. La skilometratada Torino per venire fino a incontrare questa Guida francese ha una ragione ben precisa.
Sconosciuto forse ai meno attenti, Paul Bonhomme, classe 1975, è un alpinista a tutto tondo e sta portando avanti una sua particolare idea di sci. Si è allenato tutto l’inverno sui pendii più difficili degli Aravis, seguendo le orme di Pierre Tardivel per un grande e personalissimo obiettivo: percorre a piedi in salita e in sci i quattro versanti di una delle montagne simbolo dell’alpinismo nel massiccio del Monte Bianco, l’Aiguille Verte. Proprio quella cima marcata indelebilmente da una delle più celebri imprese della storia dell’alpinismo ad opera di Gaston Rebuffat. «Avant la Verte on est alpiniste, à la Verte on devient montagnard» giusto per capirci. L’ambizioso progetto 4Faces* prevede la partenza da Argentière, la salita in cima alla Verte per il Couloir Couturier, la discesa sul versante sud-orientale della montagna per il canalone Whymper, la risalita per il Couloir à Y e la discesa della parete più austera e difficile: il Nant Blanc. Il tutto in giornata. Ecco perché i chilometri per venire a conoscere Paul li abbiamo fatti più che volentieri!

Chi è Paul Bonhomme? Cosa fa? Presentati ai nostri lettori.
«Allora, sono una Guida di alta Montagna, nato in Belgio ma con origini Olandesi, un bel mix! Con la mia famiglia ho vissuto fino a 18 anni a Parigi per poi trascorrere circa dieci anni con mio fratello Nicolas nel Briançonnais. Ho iniziato con l’arrampicata a tredici anni, gareggiando anche nel campionato nazionale. Gli sci li ho messi a due anni, ma non ho mai preso lezioni fin verso i 19, quando ho deciso di diventare maestro. Così mi sono avvicinato alla montagna, mi ritengo un appassionato prima di tutto. I primi compagni sono stati mio fratello Nicolas e il nostro migliore amico, Jean Noel Urban, due sciatori e alpinisti. Purtroppo Nicolas ha perso la vita sui pendii del Gasherbrum 6 nel 1998, mentre Jean Noel mentre era con gli sci sul Gasherbrum 1 nel 2008. Ecco perché il 2018 per me ha un significato particolare. Dopo la morte di mio fratello, nel 2000, ho deciso di diventare Guida alpina e ho di nuovo contattato Jean Noel, che era un po’ restio a venire in montagna e a sciare con me per quanto era successo a Nico. Insieme avevano sciato nel 1996 la Wickersham Wall sulla parete nord del McKinley: un versante pazzesco. Ho poi iniziato a sciare sul ripido. Non una passione totalizzante, mi piace fare diverse cose in montagna e variare».
Sciatore, alpinista, un appassionato a tutto tondo…
«Sì, assolutamente. Ad esempio ho fatto anche traversate come l’Annecy - Chamonix in meno di due giorni con alcuni compagni, però non mi piace pensare alla montagna solo come a uno sport. Anzi, non è uno sport, ma è esperienza, sperimentazione, è vita! C’è una grossa differenza rispetto alla performance pura».
Sei stato anche in Himalaya, vero?
«Ben nove volte. Quattro per dei trekking con i clienti. Nel 2005 con Jean Noel Urban e Nicolas Brun per provare a sciare il Cho-Oyu (8.201 m, sciato dal solo Jean Noel) e lo Shishapangma (8.027 m) per la parete Sud-Ovest. Nel 2007 sono stato sul Dhaulagiri. Come ti dicevo a Jean Noel non piaceva molto sciare con me per via dell’incidente di mio fratello. Su quel tipo di terreno ho iniziato a sciare con Nicolas Brun. E poi da quando non sono più vice-presidente del SNGM (Syndicat National des Guides de Montagne) per sciare ho più tempo!».
L’anno scorso il Couturier in giornata, poi grandi allenamenti di fondo, quindi gli itinerari più difficili degli Aravis… qui si fa sul serio.
«Devo dire che non mi alleno in modo specifico. Solo per questo progetto 4Faces, nelle giornate in cui tornavo in rifugio con i clienti, mi è capitato poi di rimettere le pelli e salire ancora e scendere per conto mio. Ma solo per il progetto! Ti basti pensare che fumo. L’anno scorso, durante il concatenamento con gli sci tra Annecy e Cham, mi sono sentito bene su terreno ripido e così ho iniziato a immaginare questo progetto. Ho partecipato all’UTLO (Ultra Trail Lago d’Orta) e mi sono allenato per quello, da novembre a gennaio ho avuto più tempo e ho curato forse un po’ di più questo aspetto. Poi ho iniziato la mia stagione normale con i clienti».
Hai altri progetti per il futuro?
«Non so, ho molti altri progetti, ma non ho niente da dimostrare agli altri. Ho una mia idea un po’ pazza, un viaggio con gli sci, ma su terreno ripido: è il mio concetto di evoluzione di questa disciplina. Il gioco consiste nell’essere sufficientemente preparato per salire, ma il vero obiettivo è essere ancora abbastanza concentrati per discese di quel tipo. Questo è il vero goal che mi sono preposto! È solo sci in fondo, ma dove la componente alpinistica diventa sempre più importante. Come scalare su terreno d’avventura. Poi per me lo sci estremo è in solitaria».
Cosa cerchi in una linea ripida, ti interessa più aprire o ripetere?
«Devo ammettere che non ho preferenze. Nel ripetere mi piace pensare a chi ha aperto e scovato quella determinata linea. Un modo per rendere omaggio al primo. Per esempio durante la mia recente ripetizione del Couloir Lagarde sulle Droites ho ripensato ad Arnaud Boudet nel 1995 e alla storia degli altri sciatori che ci sono passati. Vogliamo parlare di quando si è sulle discese di Pierre Tardivel?».
La mentalità è davvero cambiata oggi?
«Sì, a partire dai materiali, basti pensare all’avvento e alla diffusione della tecnologia low-tech degli attacchi e agli sci fat. Insomma, una serie di contributi derivanti sia dallo skialp classico che dal freeride. E poi circolano più informazioni sulle condizioni delle discese. È un insieme di fattori. Generalmente però per emergere nelle diverse discipline alpinistiche occorre essere più settoriali, mentre nello ski de pente è importante essere il più completi possibili, non solo buoni sciatori. Che per me vuol dire essere uno sciatore buono in tutte le condizioni che puoi incontrare. Quindi non solo tecnicamente. Alcuni dicono persino che Jean Marc Boivin non sciasse in modo eccelso, eppure… Sulla tecnica mi concentro molto quando sono su terreno ripido ed esposto, quando devo curvare».
Ti ispiri a qualcuno?
«È la storia stessa dell’alpinismo che mi affascina, per esempio personaggi come Berhault. In fondo questo mio progetto 4Faces è proprio un viaggio in montagna».
Credi di poter ispirare qualcuno?
«Innanzitutto penso che sia fondamentale dire la verità quando racconti le tue esperienze. Mi piace molto poter condividere ciò che faccio, ma trovo importante spiegare bene tutto, per esempio gli aspetti tecnici, in modo che chi legge capisca bene le difficoltà e la mia impresa non diventi un incentivo a cimentarsi su certe pareti sottovalutandole. Come dicevo all’inizio, non è uno sport questo tipo di sci. Se uno ti chiede quando andare su determinati pendii, vuol dire che non è pronto perché non ha l’esperienza necessaria per valutare lui stesso quando trovare il giusto momento».
Da una parte Kilian, da una Jérémie Heitz e poi gente semi-pro che scia tutto, tutti i giorni e in qualsiasi condizione, come si vede dopo ogni nevicata su discese come la Mallory: tu dove ti collochi in questo universo?
«In mezzo, almeno così penso!». (ride)
Domanda classica, che materiali usi?
«Sci White Doctor LT10, 98 mm al ponte, 175 cm per circa 3,4 kg al paio. Sono prodotti da Eric Bobrowicz a Serre Chevalier. Non propriamente leggeri, cercavo uno sci robusto, in modo da non doverlo cambiare ogni anno! Un attrezzo polivalente che uso durante tutta la stagione con i clienti. Poi attacchi low-tech e scarponi Scarpa F1».
In conclusione, il sogno nel cassetto?
«Mah, molti in realtà: tornare a sciare sul Pumori prima di tutto. Ci avevo già provato nel 2011 e 2016, ma ero troppo stanco, quarantacinque minuti per calzare gli sci sull’enorme pendio finale per poi rendermi conto che con quella neve durissima non avrei potuto fare una curva e tenerla. Sarei morto. Ho fatto un traverso di cento metri e poi altri quaranta minuti per togliere gli sci e rimettere i ramponi: ero esausto. Mi piacerebbe riprendere con le spedizioni in quota, ma ho superato i cinquanta, ho quattro figli e devo pensare a loro. Il sogno sarebbe sciare il Couloir Hornbein all’Everest dopo averlo risalito. Lo ritengo fondamentale per capirne tutte le insidie. E poi il Laila Peak magari, una montagna dalle forme bellissime. Qui sulle Alpi? L’evoluzione passerà secondo me per pareti con tratti di misto che potranno essere percorse magari in condizioni di neve difficile, o non propriamente bella, perché solo in quel momento ricopre certi passaggi. Qualche idea futura? Preferirei non…».
* Il 18 maggio 2018 (poco prima che questa rivista andasse in stampa) Paul ha fatto un primo tentativo per realizzare il progetto 4Faces: partito poco prima delle 23 da Argentière ha risalito il Couloir Couturier, quasi 2.800 metri di dislivello e, alle prime luci dell’alba, dopo un piccolo riposo in cima, ha sceso il Couloir Whimper sul versante Telafrè della montagna. Una volta alla base, accompagnato da Vivian Bruchez, giovane Guida e sciatore di gran classe di Chamonix, ha risalito il Couloir à Y sul versante Ovest della montagna: terreno tecnico e alpinistico per ritrovarsi una seconda volta sui 4.121 metri della Verte. A quel punto è iniziata la loro discesa del Nant Blanc, discesa mitica del 1989 a opera di Jean Marc Boivin, ripetuta solo dieci anni dopo da Marco Siffredi in tavola. Terreno d’elite che ha visto cimentarsi, specie negli ultimi anni, i più fini sciatori del panorama europeo, a partire da quel Tardivel che ne ha aperto una variante più sciistica. Purtroppo le condizioni non sono state giudicate sufficientemente sicure per poter completare la discesa in quanto la neve dei giorni precedenti non aveva incollato a sufficienza. Paul e Vivian, ritornati in cima, sono scesi a valle per il Couloir Couturier (5.4 E4) a fine giornata con quasi 5.000 metri di dislivello nelle gambe… non un gioco da ragazzi.
Questo articolo è stato pubblicato sul Skialper 118, info qui

Luca Papi stravince il primo Tor des Glaciers
Il Tor des Glaciers, 450 km x 34.000 metri, ha il suo primo vincitore. Luca Papi, varesino naturalizzato francese, non solo ha tagliato il traguardo di Courmayeur ieri con il tempo di 134 ore e 10 minuti, ma ha lasciato il suo più diretto avversario, il belga Richard Victor, una ventina di chilometri più indietro. «Un viaggio faticoso ma bellissimo, dove ho visto paesaggi meravigliosi e ho incontrato sempre persone molto gentili - sono state queste le sue prime parole - Le difficoltà maggiori le ho provate in discesa, alcune davvero dure, ripide». E le prime notti di neve e vento? «Ho la fortuna di non soffrire Il freddo, sono sempre andato avanti in maglietta e pantaloncini; qualche volta ho indossato una giacca a vento e solo una volta i pantaloni lunghi». Percorso complicato? «Anche a fare gare seguendo semplicemente le tracce di un Gps sono piuttosto abituato, pure se in questi giorni ho attraversato territori davvero immensi e selvaggi e non sempre è stato facile individuare la strada giusta al primo colpo. Comunque Il Tor des Glaciers è una superba esperienza, da ripetere». Incontri lungo il percorso? «Tantissima gente gentile ai rifugi e anche sui sentieri alti. Al Rifugio Coda ho incontrato Olivero Bosatelli, Mi è stato poi di grande aiuto fare un po’ di strada con lui, fin quando i nostri sentieri si sono divisi».
A Giuliano Cavallo il Tot Dret, Silvia Trigueros sesta assoluta al Tor des Géants
Il Tot Dret è di Giuliano Cavallo. Il valdostano del Team Salomon – Courmayeur Trailers ha sempre tenuto le posizioni di vetta, alternandosi con Henri Grosjacques e Dino Melzani (ritiratisi entrambi a Oyace), ed ha poi preso il largo, arrivando al traguardo di Courmayeur in 23h01'25" e facendo segnare il record della corsa, scendendo sotto il muro delle 24 ore. «È stata dura - ha detto con la voce rotta dall’emozione- Non sapevo se ce l’avrei fatta, ho saltato anche le ferie per prepararmi, togliendo del tempo alla mia famiglia, anche perché ho avuto un infortunio a giugno e ho potuto allenarmi solo in bicicletta. Volevo arrivare, potevo spingere anche di più, ma ho imparato dall’errore commesso lo scorso anno, quando ero partito troppo forte. Spiace per i ritiri degli altri, io oggi in discesa andavo veramente forte». Al secondo posto Marco Bethaz e al terzo Michael Dola. Il podio femminile vede invece, nell’ordine, Marina Cugnetto, Marie Berna e Kaz Williams.
Intanto nel pomeriggio si è completato anche il podio del TOR X con gli arrivi del canadese Galen Reynolds, poco dopo le ore 18 (77h06’12”) e di Danilo Lantermino, alle 19.09 con il tempo di 79h09’49”. E ha tagliato il traguardo la prima donna, Silvia Trigueros, autrice di una prestazione impressionante che la posiziona al sesto posto assoluto. La sorpresa della giornata è rappresentata dal terzo posto di Danilo Lanternino, conquistato praticamente al fotofinish alle spese del francese Romain Olivier, andato in forte crisi nella discesa dal Col du Malatrà verso Courmayeur. Negli ultimi 20 km il cuneese che corre per l’ ASD Valle Varaita, 38 anni, ha letteralmente cancellato lo svantaggio che aveva nei confronti di Olivier, circa 1h30 al rifugio Frassati. Il francese ha invece chiuso al tredicesimo posto.
Bosatelli nella leggenda: seconda vittoria nella decima edizione del Tor
Oliviero Bosatelli ha vinto la decima edizione del Tor des Géants, bissando il successo del 2016 e raggiungendo Franco Collé in questa speciale classifica dei plurivincitori (in palmarès anche un secondo posto). Il gigante bergamasco, portacolori del Team E-Rock e atleta Scott, ha tagliato il traguardo di Courmayeur questa mattina all’ora di pranzo, chiudendo in 72 ore 37 minuti e 13 secondi. Sul traguardo la moglie Nadia con una torta e due candeline. «Ho rischiato due volte di ritirarmi - ha spiegato Bosatelli all'arrivo - la prima notte a causa di un occhio appannato, il destro, e poi in seguito per una brutta bronchite e la conseguente difficoltà a respirare. Abbiamo tutti patito il grande freddo della prima notte in particolare». Il vigile del fuoco bergamasco ha stretto i denti e ha continuato la sua gara concentrandosi su ogni singolo metro da percorrere. «Ho capito che avrei vinto veramente solo qui, sul traguardo: molte persone ieri mi hanno detto che avevo un gran vantaggio ma io non ci ho creduto fino alla fine».
Per i primi 100 chilometri Bosatelli è rimasto a ruota dei battistrada Franco Collé e Peter Kienzl, entrambi poi costretti al ritiro dopo la prima notte di corsa per problemi fisici. Alla base vita di Donnas, appena prima del giro di boa del percorso, la svolta: il Bosa entra secondo, dietro il francese Romain Olivier, ma si ferma solo un quarto d’ora ed esce dal punto di ristoro al comando. Ha provato a dargli filo da torcere, fino a due terzi di gara, il canadese Galen Reynolds, capace di ridurre il suo distacco a un’ora soltanto, alla base vita di Valtournenche, per poi essere costretto a rallentare ieri a causa di grossi problemi respiratori. Ora è atteso a Courmayeur nel pomeriggio, viaggia con un ritardo di quattro ore dal leader della corsa. Al terzo posto il francese Romain Olivier, in recupero con un distacco che si attesta a un’ora da chi lo precede.
Al femminile resta sempre al comando una grande Silvia Trigueros Garrote, settima assoluta, con un vantaggio di svariate ore su Jocelyne Pauly, seconda, e Sonia Furtado, terza. Il suo arrivo è previsto all’alba di domani, giovedì 12 settembre.


Tor des Géants, Bosatelli verso Courmayeur
MERCOLEDÌ 11 SETTEMBRE, ORE 10,30 - Oliviero Bosatelli ha superato la Porta del Paradiso e ora per lui è iniziata la lunga discesa verso il traguardo di Courmayeur. Il bergamasco è transitato al Col du Malatrà alle 9.29 di questa mattina, saldamente al comando della decima edizione del Tor des Géants®. Dietro di lui il canadese Galen Reynolds, rallentato ieri da problemi respiratori e ora staccato di oltre quattro ore dal leader della corsa. Al terzo posto il francese Romain Olivier, in recupero con un distacco che scende a un’ora da chi lo precede. Quarto un Danilo Lantermino in grande spolvero, quinto la sorpresa di questo TOR, il sudafricano Erwee Tiaan, che ha approfittato del ritiro di Gianluca Galeati a Oyace, nella notte, per guadagnare un’altra posizione. Al femminile resta sempre al comando una strepitosa Silvia Trigueros Garrote, settima in posizione generale, con un vantaggio di svariate ore su Jocelyne Pauly, seconda, e Sonia Furtado, terza.
MARTEDÌ 10 SETTEMBRE, ORE 17,30 - Oliviero Bosatelli tiene: il bergamasco è l'unico concorrente arrivato a Cuney, alle 16.12. Da Valtournenche era uscito con un'ora circa di vantaggio su Galen Reynolds e tre ore su Olivier Romain. A seguire Lantermino e Galeati. Tra le donne Silvia Trigueros è l'unica arrivata a Champoluc. Alla base precedente aveva circa tre ore di vantaggio su Jocelyne Pauly e circa sei su Sonia Furtado.
MARTEDÌ 10 SETTEMBRE, ORE 8 – Continua la marcia di Oliviero Bosatelli al Tor des Géants. Il bergamasco è arrivato alle 6.19 a Champoluc, seguito alle 7.25 da Reynolds Galen. I due erano usciti da Gressoney con una decina di minuti di distacco in più. Il terzo concorrente, Olivier Romain, è arrivato a Champoluc alle 8.08. Più distanti e non ancora transitati da Champoluc Gianluca Galeati, Sebastien Raichon e Danilo Lantermino, mentre al settimo posto c’è John Kelly, seguito da Enzo Benvenuto, Tiaan Erwe e Cristian Ionel Manole. È abbastanza delineata la situazione nella gara femminile con Silvia Trigueros che a Balma aveva tre ore di vantaggio su Jocelyne Pauly e oltre cinque su Sonia Furtado. La Trigueros è l’unica ad essere transitata da Niel, alle 6.44. A seguire nella top ten: Chiara Boggio, Kaori Niwa, Melissa Paganelli, Elisabetta Negra, Patrizia Pensa, Zoe Salt, Darcy Piceu.
LUNEDÌ 9 SETTEMBRE, 0RE 16 - Altri cambiamenti nella testa della gara con Oliviero Bosatelli che è uscito per primo dalla base di Donnas, dove era arrivato dopo di Olivier Romain: una ventina i minuti di vantaggio, che si sono però assottigliati all'ingresso a Sassa a soli quattro minuti. Al terzo posto Reynolds Galen, attardato di un'altra ventina di minuti abbondante. Ha dovuto ritirarsi Franco Collé per problemi alla vista. L'unica donna arrivata a Donnas è Silvia Trigueros che aveva più di un'ora su Jocelyne Pauly e più di due ore su Sonia Furtado a Champorcher.
LUNEDÌ 9 SETTEMBRE, ORE 9,30 - Cambio alla testa della gara. Alle 9,12 l'unico arrivato a Champorcher era Olivier Romain. Da Cogne, al secondo posto, con 20 minuti di distacco, era uscito Galen Reynolds, seguito a sette minuti da Oliviero Bosatelli. Franco Collé è invece uscito da Cogne alle 6.59, con circa un'ora e 45 minuti di ritardo. Si è ritirato Peter Kienzl. Cambio anche tra le donne con Silvia Trigueros uscita da Cogne alle 8.01 con circa un'ora di vantaggio su Jocelyn Pauly. Terza Sonia Furtado, arrivata a Cogne alle 9.16 ma non ancora uscita.
DOMENICA 8 SETTEMBRE, ORE 19 - Il via questa mattina alle 12 da Courmayeur. Dopo il Tor des Glaciers, è partita anche la gara regina, il Tor des Géants e nelle prime sette ore di gara, in parte anche sotto la neve, la testa della corsa è per Franco Collé, uscito alle 18.56 dalla base di Valgrisa, seguito da Peter Kienzl (19.08) e da Oliviero Bosatelli (19.13). Da Valgrisa sono usciti anche Romain Olivier, Glen Reynolds e Francesco Cucco. Tra le donne al rifugio Deffeyes è passata per prima Sonia Furtado, seguita da Silvia Trigueros Garrote a circa 8 minuti e da Jocelyne Pauly a circa 12 minuti. Nella top ten anche Darcy Piceu, Amy Sproston, Giuditta Turini, Scilla Tonetti, Denise Zimmermann, Patrizia Pensa e Zoe Salt. Ritirata Lisa Borzani a causa di problemi al ginocchio. Edizione record quella del 2019 con 920 concorrenti al via. Intanto prosegue anche il Tor des Glaciers, la nuova gara di 450 km e 32.000 m D+. In testa Luca Papi su Javier Puit e Masahiro Ono. Tra le donne conduce Marina Plavan, seguita da Licia Madrigal, da Anouk Baars e da Ita Marzotto.
Bargiel e Jornet sull’Everest
Si incrociano sulla montagna più alta della terra le storie di Andrzej Bargiel e Kilian Jornet. Mentre il primo è partito a fine agosto per tentare la discesa con gli sci dell’Everest (la spedizione si chiama Everest Ski Challenge), Kilian si trova in Nepal, in marcia verso l’Everest. Se il primo progetto era noto da tempo, sulla presenza di Kilian ai piedi dell’Everest non ci sono informazioni ufficiali anche se da qualche settimana iniziavano a circolare rumour. Secondo quanto ha potuto sapere desnivel.com l’idea di Kilian sarebbe quella di salire dal versante nepalese e non più tibetano, facendo base a Gorak Shep,a quota 5.164 metri, e non al campo base. Così affronterebbe la vetta più alta della terra in velocità, riducendo al minimo il materiale e senza bisogno della tenda per il campo base. Secondo alcune fonti interpellate dai colleghi spagnoli di Desnivel Kilian avrebbe anche un permesso per il Lhotse, mentre altre fonti parlano di una nuova via dal campo 2. Kilian era già stato all’Everest a maggio 2017, salendo due volte, la prima dal monastero di Rongbuk in 26 ore e cinque giorni dopo in 17 ore dal campo base avanzato, senza tuttavia battere i record di velocità da quel punto di Kammerlander (16h45’) e Stangl (16h42’). Sulle salite di Kilian all’Everest, come spesso avviene per gli ottomila, si sono anche succedute una serie di polemiche e dubbi sul fatto che il catalano sia realmente arrivato in vetta, in particolare da parte dell’alpinista statunitense Dan Howitt.
Al Delicious Festival Dolomiti c'è il primo Women's Trail by Scarpa
Appuntamento il 21 settembre a Cortina d’Ampezzo per il primo trail dedicato al mondo femminile. L'azienda di Asolo organizza in occasione di Delicious Festival Dolomiti la prima edizione di Women’s Trail. Il programma di Women’s Trail si snoderà in un percorso di 7 km con 100/150 metri di dislivello positivo e sarà aperto a tutte le donne che si vorranno misurare con la meravigliosa cornice delle Dolomiti. Un trail non competitivo, che partirà dal PalaDelicious, procederà nella Valle d’Ampezzo e ha in previsione due tappe davvero invitanti. La prima a Malga Peziè de Parù, la seconda alla Baita Resch, dove gli chef dei rifugi prepareranno dei ristori speciali da assaporare e gustare con vista sulle Dolomiti.
Il Delicious Festival Dolomiti
Il Women’s Trail di Scarpa si inserisce, infatti, nel programma di Delicious Festival Dolomiti e ne rafforza lo spirito originario legato allo sport e alla cultura locale. L’Associazione Sportiva Dilettantistica L5T Sport organizza, nei due giorni 20 e 21 settembre 2019, il Delicious Festival Dolomiti, evento sportivo, culturale e gastronomico all’insegna dello sport e del divertimento. L’obiettivo è di valorizzare il patrimonio storico, naturale, alpinistico ed enogastronomico di Cortina d’Ampezzo. Un evento che l’azienda di Asolo vuole valorizzare seguendo il suo stile imprenditoriale e innovativo attraverso un’iniziativa totalmente dedicata alle donne. Scopo dell’iniziativa è anche unire verso un obiettivo comune, la sensibilizzazione per la lotta contro il tumore al seno, sostenendo ADOS – Associazione Donne Operate al Seno Sezione di Cortina – Cadore – Comelico. Le iscrizioni al primo Women’s Trail di Scarpa sono ufficialmente aperte dal primo settembre sul sito www.delicioustrail.it. Il costo di partecipazione è di 20,00 €. Parte del ricavato verrà devoluto all’ ADOS – Associazione Donne Operate al Seno Sezione di Cortina – Cadore – Comelico.
Catherine Poletti, la mia UTMB è come un rock
Non ci sono solo le note di Conquest of Paradise di Vangelis nella compilation di Catherine Poletti, meglio conosciuta come la signora di ferro del trail. Madame UTMB è una che le suona a tutti e infatti nel suo passato e in quello del marito Michel, che sta sempre un passo indietro come il principe consorte, ma è in perfetta sintonia con Catherine, ci sono tante note. «Siamo imprenditori e abbiamo sempre lavorato insieme, gestendo per 20 anni un negozio di musica e dischi - dice mentre parla seduta alla scrivania del 36 di Avenue du Savoy, quartier generale dell’UTMB, naturalmente a Chamonix - Siamo complementari sia come forma mentis che a livello decisionale e questa nostra sintonia si è subito palesata anche nell’avventura dell’UTMB». Un’avventura iniziata lontano e accompagnata per 17 lunghissimi anni dalle note di Conquest of Paradise. «Agli inizi degli anni 2000 le competizioni sulle ultradistanze erano pochissime, almeno qui in Europa. E mio marito, appassionato fondista, le inseguiva da un luogo all’altro. E io seguivo lui, accompagnandolo e facendogli assistenza. È stato proprio dopo una di queste gare che io e lui, di rientro a Chamonix, abbiamo pensato sul serio, per la prima volta, all’UTMB». Ma se Michel era l’atleta, perché proprio Catherine è la direttrice di gara della più importante (e ricca) gara del mondo ultradistance? «È ridicolo, ma delle nove persone che facevano parte del comitato organizzatore, io ero l’unica che non l’avrebbe corsa e quindi quella che avrebbe potuto tenere, anche durante la gara, le redini della situazione». La fama non sempre fa rima con simpatia e questo Madame UTMB lo sa. Spesso le decisioni targate UTMB sono state impopolari e criticate, ma alla fine si sono rivelate giuste. «Non proprio tutti ci amano, ma la maggior parte sì, noi facciamo il nostro e lo facciamo al meglio, del resto poco importa, o meglio, non ci preoccupa. Quando per la prima volta abbiamo introdotto materiali obbligatori, molti non ci hanno visti di buon occhio. Fino a che tutti sono convenuti alla nostra stessa conclusione: correre leggeri come Kilian è il sogno di tutti, peccato che non tutti siano veloci quanto lui e quindi i materiali obbligatori non sono qualcosa di superfluo, ma un vero e proprio salvavita in caso di emergenza». La mente va ancora alle note di Vangelis, a Catherine che balla, incurante della folla e dello stile, a Catherine che abbraccia i concorrenti all’arrivo. «Alla sua prima vittoria all’UTMB Rory Bosio per la fatica si lasciò cadere a terra. Io andai a sollevarla e i media dissero che mi ero intromessa e che avrei dovuto lasciarle vivere questo momento da sola. Sulla scorta di queste critiche, l’anno successivo mi guardai bene dall’andarle incontro. Lei, memore di quanto accaduto l’anno prima, appena tagliato il traguardo mi fece l’occhiolino e si gettò letteralmente tra le mie braccia!». Da donna a donna, in un triangolo perfetto: Catherine, Rory, io. Ma qual è la differenza tra i due sessi in gara? «Non è durante la gara, ma soprattutto al traguardo. Dopo una fatica immensa le donne arrivano composte, dignitose. Sono più eleganti, più attente anche al lato estetico. Ricordi il poster di dell’edizione 2018? Quella è una finisher, una finisher vera: sorridente, raggiante, bellissima… Non abbiamo voluto appositamente usare Photoshop né alcun altro ritocco proprio per non rovinare l’immagine luminosa di questa donna fantastica». Lo scettro della scena internazionale del trail è saldamente nelle sue mani, ma chi sarà il delfino? «Io e Michel non ci saremo per sempre, questo è ovvio, non abbiamo ancora designato uno e dei successori, ma sicuramente ci stiamo già lavorando». Intanto si pensa già alla prossima UTMB perché, alla domanda su quale sia stata l’edizione migliore, Catherine ha risposto senza esitazioni: «La prossima!». Cento di queste UTMB, Madame Poletti.
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Salomon, arrivano Supercross e Alphacross
Non più solo Speedcross. Dopo il lancio della versione 5 del fortunato modello Salomon, arriva la nuova collezione Cross che comprende anche Supercross e Alphacross. Tutti e tre i modelli sono disponibili nelle versioni uomo e donna (W) e in diverse soluzioni colore.

Supercross è una calzatura adatta a ogni terreno, con grip aggressivo. Che si tratti di una corsa quotidiana al parco, di una fuga per un sentiero locale o di un percorso più difficile, questa scarpa leggera (310 g) ha un preciso punto di appoggio e una perfetta ammortizzazione. La suola Contagrip è pensata per offrire la migliore trazione su qualsiasi superficie, mentre la protezione anti fango appositamente modellata permette di accumulare chilometri senza rovinare scarpa e piedi. La struttura Salomon SensiFit e il sistema di allacciatura in kevlar Quicklace assicurano una calzata aderente; l’intersuola EnergyCell offre una grande ammortizzazione. Il prezzo consigliato al pubblico è inferiore a Speedcross 5 (130 euro):110 euro (130 euro la versione GTX).

Alphacross, in arrivo in autunno, è una scarpa da corsa ispirata all’outdoor per l’allenamento quotidiano ed è stata progettata per i runner che trovano pace nella natura, che si tratti di un breve allenamento al parco o di sessioni più difficili. Con l’obiettivo di offrire un comfort immediato fin dal primo utilizzo, la calzatura vanta una trazione e una protezione aggressive, ma è leggera (300 g) e abbastanza confortevole da poter essere usata ovunque. La suola Contagrip è caratterizzata da un disegno dell’aletta versatile, ideale per qualsiasi superficie (bagnata o asciutta); l’intersuola EnergyCell assorbe gli urti mentre si corre. Prezzo consigliato al pubblico: 110 euro GTX; 90 euro.
Tof Henry, 100% chamoniard
Chamonix è la capitale. Non ci sono scuse, tanto più se si parla di sci. I più forti e ambiziosi sciatori di tutto il mondo vengono da sempre sul versante francese del Monte Bianco. Il paese è una fucina di talenti e meteore che ogni anno spingono lo sci libero verso qualcosa sempre oltre. Questo luogo ha generato il mito stesso dello sci estremo. Tutte le nuove tendenze, i materiali e i modi di interpretare lo sci sono partiti da qui.
L’ambiente è dinamico a Cham: ogni anno arrivano nuovi skier affamati di affermazione. Alcuni si fermano addirittura in pianta stabile. A Cham ci sono gli skibum che vengono a fare la stagione e sciare tutti i giorni vivendo con lavoretti occasionali la sera, a Cham ci sono i local, e poi i super local, ci sono gli inglesi, gli ammerigani che vivono qui da vent’anni, ci sono i finnici dannati mangia pesce che sono dei duri e ogni anno spaccano qualcosa proprio in faccia a qualcuno. Ci sono i pro, i fotografi, i fotografi pro, ci sono un sacco di #hashtag che rompono la quiete di quelli che sciano solo il fine settimana, ma che prima o poi vengono qui per confrontarsi con qualche big line… e trovarla con le gobbe magari.
Sponsor, ambassador, gente che fa pubblicità gratis ai brand per sentirsi un po’ pro. Cham è irresistibile per il mondo del freeskiing. E i marchi lo sanno e qui trovano il miglior laboratorio possibile per innovarsi e progredire nella ricerca di tecniche, materiali e tendenze. Descritta così ci si sente quasi mancare il fiato, sembrerebbe un posto infernale: caotico e competitivo. Ma oggettivamente per lo sci su grandi linee è il posto più bello del mondo. Non c’è niente di paragonabile che offra una tale concentrazione di linee, terreno tecnico e possibilità come l’area del Monte Bianco. E con accessi spesso serviti da impianti che ti catapultano nel cuore del massiccio.
Tutto questo fa sì che la Chamonix che scia sia una vera e propria comunità. Con le proprie regole, con le proprie crew e le proprie rivalità. Ci si saluta sempre tutti certo, ma più per quieto vivere. A volte, venendo a conoscenza di alcuni retroscena, cresce in me la convinzione che l’abusato ritornello There are no friends in a powder day sia stato coniato proprio da queste parti. La febbre che si respira, quell’aria vibrante delle lunghe code della stazione di partenza della Mama Midi nei giorni post nevicata, non sono una leggenda. Il posto sulla prima cabina e la corsa all’uscita della grotta ghiacciata e al suo cancellino che immette sulla cresta sono la prassi da queste parti anche per chi ha la possibilità di sciare tutti i giorni e magari ci si aspetta viva più tranquillamente la pressione della prima traccia.
Tof Henry, classe ’84, fa parte di questa comunità da anni. Anzi, ci è proprio nato a Cham e in un ambiente così competitivo ha saputo imporre il proprio modo radicale di sciare senza snaturarsi, ma evolvendo come sciatore e come persona. Prima di metterci in viaggio e attraversare il traforo del Monte Bianco, nutrivo il sospetto che mi sarei trovato davanti a uno skier senza compromessi, non solo per il modo di sciare, ma per il suo respirare neve durante tutto l’anno. Sono poche quelle persone che sono davvero un tutt’uno con un qualche elemento naturale. Per certi versi Tof mi ha ricordato i surfisti che si nutrono delle sensazioni che sanno dare le onde. Una volta arrivati davanti all’Elevation Bar, giusto dopo Moo, ci troviamo davanti a questo ragazzone mentre sta finendo la sua birra. Tof è alto. Almeno 190 cm per 85 kg, giusto per sfatare il mito che quelli alti non possono sciare bene. Un saluto, quattro chiacchiere lungo la strada e siamo nel suo appartamento in un ambiente cordiale e rilassato. Niente di sfarzoso tipo chalet, ma la casa di uno sciatore con assi dietro la porta del salotto e diversi modelli di Armada ancora da forare per la nuova stagione vicino alla finestra. Una mountain enduro nell’ingresso e qualche immagine storica del Monte Bianco con alcuni ritratti della famiglia.

Forse lo avrete capito: Tof Henry è uno Chamoniard. Vero.
E noi siamo qui perché scia forte, molto forte. Come pochi in giro oltralpe, come nessuno o quasi qui a Sud delle Alpi. Il suo marchio di fabbrica è la velocità, la fluidità portata ai massimi livelli su linee classiche e le grandi pareti glaciali del Monte Bianco con le migliori condizioni possibili. La ricerca della polvere e di quella neve che ti permetta di osare a fondo linee ripide ed estreme per pendenza e ambiente. Anello di congiunzione tra freeride puro e sci estremo come pochi personaggi, Tof interpreta lo sci in maniera totalizzante seguendo quella sensibilità per l’elemento bianco sviluppata negli anni sui più bei pendii del massiccio italo-francese.
Tof Henry un vero Chamonix kid! Per iniziare la nostra chiacchierata è sempre giusto conoscersi un po’ meglio: raccontaci chi sei, da dove arriva la tua famiglia.
«Assolutamente! CHX 100%, da quattro generazioni almeno. Essendo dell’84 ormai non proprio un kid, ma un vero Chamoniard. Non arrivo però da una famiglia di montanari: mia madre lavorava in un ufficio turistico, i miei genitori non sono mai stati dei veri appassionati della montagna pur essendo nati e vissuti qui. Ovviamente a sciare, come ogni ragazzino di Cham, ho iniziato con gli sci club, poi verso i quindici o sedici anni mi sono avvicinato al freeride con l’arrivo degli sci fat. Tutto normale insomma. Mi sono fatto un po’ il giro con cui andare in montagna. Ma se devo ricordare una persona in particolare, ti dico il mio amico Pif, creatore dei monosci Snowgun. Ho iniziato a girare con lui e devo dire che ho imparato molto da quel modo di sciare e dalle sensazioni che si provano con un monosci. Poi ho conosciuto Nathan Wallace. Lui è un americano che si è trasferito in paese nel 1998 per sciare. Forse la persona con il migliore fiuto per le condizioni di neve di tutta Cham. Era molto più grande di me e io ero solo un ragazzo. C’era un po’ di diffidenza inizialmente. Poi abbiamo imparato a fidarci l’uno dell’altro. In fondo abbiamo avuto una storia simile come skier perché ci siamo un po’ fatti da soli. Nat è stato il mio padre spirituale, Daddy Nat lo chiamo: mi ha aiutato moltissimo a capire le condizioni della neve, a essere nel momento giusto nel posto giusto. Mi portava con lui, capivo come sceglieva i posti e le pareti. Ora abbiamo lo stesso punto di vista su molti aspetti. E adesso sono io che a volte porto lui (ride), ci fidiamo molto uno dell’altro in montagna».
È così che nasce la tua passione per il freeski?
«Esatto, in quegli anni! Ho sempre adorato essere nella neve. Trovarmici dentro nel vero senso della parola. Ho bisogno della neve. È il mio elemento. Lavoro presso una scuola sci, ma mi prendo il mio tempo per sciare in stagione, per essere pronto al cento per cento quando arriva il momento giusto. Se sto fermo o non mi prendo il tempo per sciare, avverto che poi ci vuole un po’ di tempo per ritornare al top della forma. Quando in inverno esco dalla stazione di Helbronner durante una nevicata, mi basta sentire la sensazione che mi restituisce il bastone quando lo infilo nel manto nevoso per capire che neve troverò e le condizioni che ci sono. Mi capita spesso, non sempre, qualche spavento lo si prende e c’è comunque qualcosa da imparare: per esempio adesso, anche nei giorni di polvere, ho sempre dietro una corda».
Un dare e avere con la montagna che vivi, senza tirarti indietro
«Eh sì! Al Pavillon durante e dopo le nevicate si deve sempre sciare sulle creste, sulle spine. Mantenendosi sul filo il più possibile, nei catini è molto pericoloso. Il terreno sottostante è brutto. Un giorno c’erano condizioni pessime. È superfluo dire che siamo stati troppo confident conoscendo molto bene il posto. Tutti dopo dieci curve, anche gli inglesi, sono risaliti giudicando l’uscita troppo pericolosa. Per noi è stato un mettersi in gioco in modo totale, quasi un combattimento cercando di dare fondo a tutta la nostra esperienza per arrivare in basso. Ci siamo assicurati agli alberi con la corda in alcuni punti per bonificare i pendii. Siamo stati sempre sulle creste. Un gioco, senza dubbio pericoloso, lo so».
Questo gioco vale la candela? In caso di errore il prezzo è alto.
«Concordo nel parlare di errore dello sciatore in caso di valanga. Se succede, vuol dire che si è sbagliata qualche valutazione in merito alla neve, al percorso o al timing. È un gioco per cui il prezzo potrebbe essere altissimo, lo so. Ad esempio non azzardo più sulle discese della Midi, tipo il Glacier Rond, in inverno. Però i giorni di neve fonda sanno regalare sensazioni uniche per le quali vivo. È una domanda difficile».

Infatti, specie all’inizio della stagione, la ricerca della polvere, per esempio all’Helbronner, porta a muoversi alla ricerca della prima traccia su certe linee… Come ti poni di fronte al rischio, andando a sciare linee come i Cavi, Cesso, Passerella già durante la nevicata.
«È vero, a volte capita che scendiamo quelle linee nelle prime schiarite durante una perturbazione, nella yellow light: quella luce che filtra tra i fiocchi che formano le nuvole, una luminosità che sa regalare una visibilità e un’atmosfera uniche. C’è da dire però che conosciamo molto bene il terreno. Sciamo quelle linee quasi tutti i giorni precedenti la perturbazione e anche durante. In questo modo sappiamo come era la neve e ne percepiamo i minimi cambiamenti, quanta ne ha fatta e come. Spesso sul finire della perturbazione il vento non ha ancora agito. Visti da fuori sembriamo imprudenti, ma calcoliamo molto e spesso torniamo indietro. Ripercorriamo per lo più le tracce nostre del giorno prima e aspettiamo di avere la visibilità. Questo è fondamentale, e l’ho imparato sulla mia pelle»
Qualche brutta esperienza?
«Risale all’anno scorso. Ci siamo buttati sotto ai cavi di Helbronner con poca visibilità e abbiamo imboccato il pendio in un posto non corretto. Confesso che non mi sentivo a mio agio ed ho sbagliato a insistere. Stavo sciando quando ho sentito urlare il mio compagno, mi sono girato, ho visto un’onda di neve arrivare ma non potevo che continuare a sciare il pendio verso destra. Mi ha preso le code, trascinandomi verso il basso. Mi sono trovato trenta metri sopra la barra alta cento che sorregge il pendio. Abbiamo commesso un errore che ci poteva costare caro, molto caro e non ne vale la pena. Sono stato fortunato. È giusto cercare di prendere tutte le possibili precauzioni per ridurre il rischio. Tanto più che le condizioni ormai sono assai più mutevoli dei decenni scorsi: bisogna stare più attenti a trovare il momento ideale per fare determinate cose» .
Il clima sta cambiando davvero?
«Purtroppo sì: le condizioni super che si possono trovare in momenti anomali dell’anno sono solo una manifestazione davvero tangibile di ciò che sta accadendo. Quindici anni fa non si percepiva che qualcosa stava cambiando, ma nelle ultimi cinque o sei stagioni è davvero davanti agli occhi di tutti. Durante l’inverno si passa nello stesso giorno da -5° a +15°. Ci sono escursioni molto grandi e inverni sempre meno freddi, perturbazioni più calde e precoci. Le pareti glaciali erano verdi fino ad aprile solitamente, ora non è raro trovarle ben innevate anche in pieno inverno, come mi è successo sul Couturier alla Verte nel 2018. Diventa sempre più importante il tempismo. Un altro esempio sono le discese dell’Helbronner: qualche anno fa la regola era che fino a febbraio si poteva sciare durante tutto il giorno, dopo solo fino a prima di mezzogiorno, essendo tutto a Sud ed Est. Ora capita di doverselo ricordare anche in pieno gennaio. Lo dico con un certo rammarico. È tempo che ognuno ne prenda coscienza e cerchi di fare il possibile, anche se mi accorgo che è solo un piccolo gesto. Vivendo a Cham per esempio cerco di non prendere la macchina per tutta la stagione invernale. Uso la bici. Ma è difficile cambiare. Basti pensare al problema dell’inquinamento dovuto al riscaldamento che c’è ogni inverno qui in valle».
Tornando alle sensazioni che sa regalare la neve vissuta senza compromessi: si capisce da come interpreti le tue discese, traspare la tua passione estrema per questo elemento e la ricerca della polvere migliore.
«È incredibile la sensazione che regala la neve se sciata veloci. La velocità che cerco ti porta a planare sopra grazie alla superficie larga degli sci, le curve le fai driftando sul manto nevoso, ottenendo sensazioni uniche. Ti senti leggero. E puoi sciare a fondo sul pendio».
Sciare veloci diminuisce alcuni rischi?
«Secondo me in parte sì. I tratti più pericolosi delle linee generalmente sono in alto, sotto i colli o le creste. Spesso con tanta neve mi sforzo di percorrere dritto questi passaggi, il più leggero possibile, avendo cura di individuare preventivamente una via di fuga sicura. Oltre certe velocità plani sulla neve, il drift che ti dicevo prima. Però non è facile e ci si deve esercitare prima su terreni che si conoscono bene , ci vuole tempo per acquisire sensibilità, con tante giornate sulla neve. Inoltre spesso su linee che conosciamo e che prendiamo con gli impianti ormai ragioniamo su come tagliare il pendio preventivamente in determinati punti, per farlo scaricare. Ma… don’t try this at home!».
Cham, i pendii del Monte Bianco, la neve, la velocità, la fluidità, qual è lo stile che preferisci e il terreno ideale?
«Innanzitutto è più corretto fare una distinzione all’interno del mio modo di sciare: specie d’inverno preferisco definire il mio stile full speed, e poi c’è lo steep skiing sulle grandi pareti. Per quanto riguarda il primo, sono tutti quei giorni tra Midi, Helbronner e Grands Montets di sci in polvere. Dove si attendono le nevicate e ci si tuffa a sciare a fondo e al massimo ogni singolo fazzoletto di neve polverosa. Con amici, in modo totale, approfittando delle condizioni. Per quanto riguarda lo steep, sono quelle giornate in cui cerco di sciare una parete ripida con la miglior neve possibile per il mio stile. Il pendio che ritengo perfetto per questo tipo di discesa si trova nel bacino d’Argentière. È il Col de la Verte. È assolutamente fantastica: continua per linea e pendenze, ripidissimo per lunghi tratti. Spesso su altre discese i tratti oltre i 50° si riducono a qualche metro, al massimo qualche decina. Al Col de la Verte queste pendenze si trovano per qualche centinaio di metri. E poi è tecnico. Sempre nella Mecca dell’Argentière, anche il Col de Droite mi piace molto. Mentre sul versante italiano per me la linea più bella è il Couloir du Diable al Mont Blanc du Tacul. Una linea pura, evidente eppure spesso trascurata e poco frequentata contrariamente alle discese del bacino d’Argentière».
Un grosso exploit dell’anno scorso è stato la Nord del Triolet, quella resa mitica dalla foto del compianto Philippe Fragnol durante la prima discesa in snowboard del giugno 1995 a opera di Jerôme Ruby e Dedé Rhem. Discesa ripresa in sci solo nel 1998 dalla Guida alpina svizzera Marcel Steurer.
«Che giornata sul Triolet! Se devo essere sincero, io e Jonathan Charlet eravamo saliti in Argentière con l’idea di provare il Nant Blanc, pendio mitico che ancora ci mancava. Osservando la parete, ci siamo accorti che alcuni sciatori avevano iniziato la discesa, o meglio a buttar giù doppie collegando tratti in cui curvavano molto controllati. In sostanza, non c’erano le condizioni che cercavamo e comunque, se fossimo andati anche noi, avremmo già trovato delle tracce. Detesto le tracce. Se non sono il primo a scendere un pendio, allora cambio piano. Non mi interessa più. È come se perdesse la purezza. Odio seguire le tracce. Allora siamo andati verso il Refuge d’Argentière con alcune idee in testa, tra le quali guardare il Couloir Lagarde. Però, una volta al rifugio, la vista della parete Nord del Triolet ci ha catturato totalmente con il suo bianco perfetto. Siamo saliti eccitati sul tetto per binocolarla: ci è sembrata in condizioni perfette. Allora abbiamo chiamato Daniel Rönnbäck per organizzare le riprese dall’elicottero. Al mattino presto abbiamo risalito il Col des Courtes e, una volta in cima, ci siamo trovati davanti al tratto più tecnico e spaventoso della giornata: la cresta che porta in cima al Triolet. Sono poche centinaia di metri, ma espostissimi. Un filo dove è impossibile proteggersi e dove si deve procedere con cautela legati a tutta corda, facendola passare dietro a spuntoni di roccia e neve per avere un minimo di sicurezza. Alle 11 eravamo in cima, ma dovevamo aspettare l’elicottero perché fossero possibili le riprese. Dopo mezz’ora però ci stavamo raffreddando e la tensione della discesa saliva: abbiamo chiamato Daniel dicendo che avremmo iniziato subito la discesa, in fondo eravamo lì per sciare. Il mio socio in tavola davanti, in modo che fosse facilitato, potendosi fermare frontalmente al pendio con le due picche durante l’installazione delle doppie nel ghiaccio sopra ai seracchi. Bisognava scavare nella neve per arrivare al ghiaccio. Quindi le doppie, poi il ripido pendio esposto sotto ai seracchi. L’elicottero nel frattempo era arrivato mentre sciavamo: non amo il suo rumore, è difficile concentrarsi. Poi le curve sempre più veloci insieme sul pendio basale. Una volta sul ghiacciaio, ci siamo girati indietro insieme a guardare la parete ed è stato bellissimo. La neve che abbiamo trovato è stata meravigliosa e ho provato la stessa sensazione della discesa del Col de la Verte. Sono linee che guardavo da anni, dove ho potuto capire i progressi fatti».
Immagino che però ci siano ancora alcune big line che vorresti sciare qui nel Bianco?
«Mi piacerebbe prima o poi trovare le condizioni ideali sul Nant Blanc. Poi, passando all’altro versante del massiccio, la Diagonale al Tacul e una linea sulla parete della Brenva, la Sentinella Rossa magari. Fuori da Chamonix ho grosse aspettative per sciare in Kashmir o in Pakistan. Vedremo. Intanto in questi Paesi cerco di scovare delle linee, magari su Fatmap… ma non come quelli che lo usano per scovarle a Chamonix, ahah!».

Allora non ti piace solo il Monte Bianco!
«No, no, assolutamente. Forse quando ero giovane ero più radicale. Poi ho capito che il mondo è grande ed è troppo bello per non visitarlo sciando. Specie con l’esperienza fatta qui a Chamonix. Non ho bisogno di Guide, sono diventato abbastanza autonomo anche nelle manovre alpinistiche. Discorso a parte per il mio socio preferito Jonathan Charlet, che è una Guida. Ma è soprattutto uno che in montagna ha due palle enormi! E poi abbiamo lo stesso modo di pensare: per sciare le big line non devi pianificare troppo, farti delle liste. Non ti lascia tranquillo e perdi lucidità».
Qui a Chamonix quando arriva la primavera deduco che ci sia molto fermento per sciare le pareti più belle e prestigiose: storie da ghetto, rivalità e competizione?
«Sì, è vero. In inverno è un po’ differente: durante i powder day si è per lo più tutti cordiali, si scia con in amicizia. In primavera il discorso cambia. Ci sono tanti team, tante crew o piccoli gruppi di sciatori. Gira un sacco di testosterone e più mistero. Come dicevo, odio trovare i pendii tracciati. Voglio essere il primo. Anche su linee che conosco a memoria come il Glacier Rond alla Midi, se uno degli amici che è con me chiede di poter andare per primo, lo lascio andare, ma dentro di me soffro un po’. Per questo spesso arrivo tra primi a mettermi in coda alle funivie, anche solo per essere davanti a tutti sulla cresta della Midi, oltre il cancelletto. È liberatorio! Purtroppo qui a Cham non tutti sono corretti. Chi ha soldi e sponsor ha diritto a priorità sulle cabine. Per non parlare poi degli elicotteri. In tanti hanno la coscienza sporca e a me piace troppo dire le cose come stanno. Per esempio quanto accaduto durante una discesa dell’Aiguille du Plan l’anno scorso, quando dei pro skier con una Guida sono stati portati su in elicottero: ho discusso, come è possibile che delle Guide propongano questo modo di andare in montagna a cercare le linee? C’è da vergognarsi».
Veniamo ai tuoi modelli: uno sciatore che ti ha ispirato?
«Se devo fare il nome di un pro skier, posso dirti Seth Morrison. Lo seguivo da ragazzino, poi l’ho visto a Cham e lo guardavo con rispetto e diffidenza. Ma poi siamo tutti skier, ci si capisce e adesso capita addirittura di sciare insieme!».
Veniamo alle domande tecniche: per lo sci che pratichi quali sono i tuoi materiali preferiti?
«Mi piace utilizzare materiali che mi permettano di sciare bene e forte. Sono supportato da Armada e per i giorni di polvere full speed da quest’anno uso il Tracer da 118 mm sotto al piede e 195 cm di lunghezza, essendo alto e volendo cercare la velocità. Sogno una mia versione lunga 205 cm. Attacchi Look Pivot e scarponi Dalbello Krypton o Lupo: preferisco materiale solido e senza sorprese. Adoravo i JJ del 2015, adoro i Tracer e mi hanno sorpreso i Magic J. Per i pendii ripidi utilizzo un prototipo che sto sviluppando con Armada: 192c m di lunghezza, 115 mm al ponte, camber normale, rocker e bello rigido. La prima versione era meno intuitiva di quello che uso adesso, che è più confortevole. Non mi piacciono gli sci leggeri, perché leggerezza è sinonimo di sciare soft e a me piace sciare duro a tutta. Come attacchi uso i Marker Kingpin. Negli ultimi anni c’è stata una grossa evoluzione delle calzature: per la massima trasmissione devono avere la punta piatta e non stondata anche se facilita la rullata e poi non devono essere troppo basse come quelle da skialp puro. Ma per sciare la cosa più importante è l’asse e poi lo scarpone: prendi degli sci veri, solidi anche se più pesanti. Restituiscono migliori sensazioni e sicurezza. La leggerezza a tutti i costi va a discapito della sicurezza, specie se ami sciare veloce».
Cosa ti piace degli sci che usi e come ti trovi nel team Armada?
«Mi trovo molto bene, ormai da quasi sette anni. Seguono il rider nella costruzione e nello sviluppo di nuovi modelli. E poi hanno un team che tocca tutte le discipline, dal pipe al backcountry, dal big mountain skiing fino allo street. E c’era JP Auclair: un punto di riferimento che dava un bel supporto ai nuovi, aiutandoli e seguendoli. Infine, se devo essere sincero, quando vedo gli sci con quelle grafiche aggressive… sogno subito di essere in powder! È stato uno dei primi brand a capire l’importanza di creare grafiche emozionali oltre che ottimi attrezzi sviluppati da chi in montagna ci va per sciare davvero».
Ok, ora è il tempo di fare qualche foto, magari un po’ urban style, dove andiamo Tof?
«Beh, alla Midi, che adesso non c’è coda!»
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 121 DI DICEMBRE 2018, INFO QUI

La Grande Muraglia Camuna
«La Grande Muraglia Camuna, così soprannominata per la somiglianza a colpo d’occhio con quella cinese, non ha nulla a che fare con l’Oriente. Come nel caso di quella cinese fu costruita a scopo difensivo, ma, diversamente dai territori che si trovano tra il Passo del Castellaccio e il Passo di Lago Scuro, che durante la Prima Guerra Mondiale costituirono la linea di confine tra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico, le fortificazioni camune di Valmassa non furono mai terreno di battaglia. Bombardamenti, spari e diversi caduti, ammazzati a volte dalla pallottola nemica, a volte dal freddo inteso, dalla neve e dalle valanghe che travolgevano soldati e ripari. Ma a Valmassa no, questo fortunatamente non accadde». Scrive così Tatiana Bertera nel reportage sul bel trekking in Valcamonica, nel comprensorio Pontedilegno-Tonale che pubblichiamo sul numero 125 di Skialper, di agosto-settembre. Valmassa era la seconda linea, perfettamente fortificata dai militari del Genio militare ma operativa solamente in caso di sfondamento della prima. Le trinceesi innalzano per circa 200 metri verso Ovest per poi fare un evidente angolo retto e inerpicarsi sul versante occidentale della valle. E sono perfettamente conservate. Una scusa in più per partire per un’escursione su queste bellissime montagne.
Tutti i dettagli su Skialper 125 di agosto-settembre.













