Soccorso alpino della Guardia di Finanza a pagamento?
Lo prevede un articolo del DDL di Bilancio della nuova manovra
La richiesta di soccorso alla Guardia di Finanza, in montagna ma anche in mare, dovrà essere giustificata e motivata, altrimenti le operazioni di salvataggio saranno a pagamento. Questo, in sintesi, il contenuto dell’articolo 129 del DDL Bilancio che potrebbe diventare legge dal 2026. Il contributo, oltre alle richieste di soccorso immotivate e ingiustificate, punisce anche chi procura, per dolo o colpa grave, un incidente o un evento che richiede l’impiego di uomini e mezzi delle Fiamme Gialle. Una norma che andrà analizzata anche in base ai costi previsti che dovrebbero essere stabiliti dal ministero dell’Economia e delle Finanze e che dovrebbero venire aggiornati su base annua in base agli indici Istat.

Se sulla carta sembra una novità importante, nella realtà la situazione è già simile in diverse regioni (per esempio Valle d’Aosta, Piemonte, Lombardia, Trentino, Alto Adige e Veneto) che prevedono un costo per gli interventi motivati da comportamenti imprudenti (mancanza delle attrezzature necessarie, sottovalutazione delle difficoltà e delle proprie capacità, violazione di divieti). La regola generale è che gli interventi tramite il 112 sono a carico del SSN, al netto di eventuali ticket, se comportano il ricovero o accertamenti in pronto soccorso e determina casistiche diverse da regione a regione che possono prevedere anche dei ticket per l’utilizzo dell’elicottero, tariffe orarie e costi di chiamata. In alcuni casi le leggi regionali prevedono il pagamento anche in caso di ricovero, se si ricade nella casistica dei comportamenti imprudenti e della mancanza dell’attrezzatura necessaria. Il sistema ha finora fatto emergere una criticità nella riscossione dei pagamenti, soprattutto quando si tratta di stranieri.
© Guardia di Finanza
Piolets d’Or 2025
Tre grandi ascensioni e un riconoscimento speciale per l’alpinismo femminile
La giuria internazionale dei Piolets d’Or ha annunciato le tre ascensioni premiate per l’anno 2025, onorando ancora una volta il valore dell’esplorazione alpina, dello stile pulito e della scalata che va oltre la semplice vetta. La cerimonia si terrà dal 9 al 12 Dicembre a San Martino di Castrozza (Trentino) che ospita per la seconda volta questo prestigioso evento.
I Piolets d’Or sono molto più di un premio: sono un segnale. Un segnale che dice: l’alpinismo è ancora vivo, l’esplorazione ha senso, lo stile semplice ma audace è fondamentale. Con la scelta di salite simili, e con la speciale menzione all’alpinismo femminile, la manifestazione rivolge l’attenzione a valori come: impegno morale, leggerezza, scelta di vie inedite e rispetto per la montagna. In un momento in cui alcune spedizioni commerciali predominano, questi riconoscimenti ribadiscono che «fare di più con meno» non è solo uno slogan, ma una direzione.
Una novità di questa edizione: la Special Mention for Female Mountaineering, pensata per promuovere e valorizzare il ruolo delle donne nell’alpinismo.
Special Mention for Female Mountaineering
La menzione speciale è andata all’ascensione della cima Lalung I (6.243 m), nel Zanskar, India, salita dalla cresta est (2.000 m di dislivello, grado M6+ e AI5+) dal 9 al 14 settembre 2024, con traversata integrale e discesa per la cresta ovest e la parete nord.
Le alpiniste slovene Anja Petek e Patricija Verdev, facenti parte di una spedizione femminile di quattro elementi, hanno stabilito il campo avanzato a 4.800 m, superando giornate di maltempo e delicati bivacchi, e infine raggiunto la vetta alle 9:00 del 14 settembre.
La giuria ha motivato la scelta sottolineando “un’esplorazione in area poco frequentata, in puro stile alpino, su terreno tecnico, con pieno impegno” — parametri che incarnano lo spirito dei Piolets.
Questo riconoscimento diventa un segnale forte: l’alpinismo femminile merita visibilità e merito autonomo, e questa menzione lo conferma.
Le tre salite premiate
Kaqur Kangri (6.859 m), Nepal
Gli americani Spencer Gray e Ryan Griffiths hanno aperto la cresta sud-ovest del Kaqur Kangri (Kanti Himal), sviluppando una via di 1.670 m (grado 5.10 A0 M7 WI5), e completando la traversata fino alla cresta nord-ovest, mai salita prima. Per la giuria, una delle linee più difficili e ispirate nel Nepal occidentale.
Una prestazione che conferma quanto anche territori meno frequentati possano riservare grandi opportunità di esplorazione.
© Spencer Gray / AAJ
Gasherbrum III (7.952 m), Pakistan
Lo sloveno Aleš Česen e il britannico Tom Livingstone hanno completato la prima salita della cresta ovest del Gasherbrum III, con la via battezzata Edge of Entropy, quasi 3.000 m di scalata in stile leggero tra il 31 luglio e il 4 agosto. La discesa è avvenuta per la via normale del Gasherbrum II, in un gesto che unisce purezza della salita e senso della montagna.
Un esempio di impegno alto, su una delle montagne più alte del mondo e tuttora poco battute.
© Jacek Wiltosinski / AAJ
Yashkuk Sar (6.667 m), Pakistan
La cordata americana formata da August Franzen, Dane Steadman e Cody Winckler ha realizzato la prima salita del Yashkuk Sar lungo il pilastro nord, via Tiger Lily Buttress (2.000 m, AI5+ M6 A0). In quattro giorni, affrontando seracchi instabili e bivacchi aerei, hanno compiuto una traversata completa della montagna.
La giuria ha messo in luce la loro determinazione e lo spirito di esplorazione: vecchi articoli, immagini satellitari e l’idea di cercare ispirazione in territori non battuti.
Una scalata che richiama l’essenza dell’alpinismo: chiedersi “E se…” e andare.
© Dane Steadman / AAJ
Palestre d’arrampicata, un boom inarrestabile
Il giro d’affari globale è di oltre 3 miliardi di dollari e potrebbe sfiorare i 6 miliardi nel 2030
Non c’è dubbio che il climbing sia uno degli sport più cool del momento, almeno nelle grandi città, dove le palestre indoor sono sempre più numerose e sono diventate dei veri e propri ritrovi di appassionati, ma soprattutto di un nuovo pubblico che si avvicina al mondo dell’arrampicata con curiosità. Si può discutere sul fatto che l’arrampicata su plastica e con un auto-belay sia qualcosa di diverso dalla falesia e ancor di più da una via dolomitica, ma non si può ignorare il fatto che la grande notorietà che il climbing riscuote sempre più passi soprattutto dai ritrovi urbani. Il sales meeting di La Sportiva, organizzato nei giorni scorsi presso la palestra Rockspot di Milano, 4.000 metri quadrati con lead, boulder, speed, moon board, tension board, campus board e circuit board, è stato l’occasione per fare il punto sui numeri e i trend del fenomeno.
Secondo Grand View Research il mercato globale delle palestre d’arrampicata nel 2024 valeva 3,32 miliardi di dollari e raggiungerà i 5,67 miliardi nel 2030. In Europa Verified Market Research prevede una tasso annuo di crescita composto dell’8,9%. Dal 2017 Rockspot ha fatto registrare un aumento costante degli ingressi annui - se si esclude la parentesi della pandemia nel 2020 - passando da 40.000 a 120.000, valore stimato per il 2025. Anche gli abbonamenti sono in crescita, da circa 4.000 a 13.000.

Ma che tipo di utilizzatore è quello delle palestre? Una prima risposta arriva dalla mappa dei percorsi di Rockspot, dove i gradi più rappresentati sono quelli inferiori al 5a, che sfiorano la settantina, e il 6a (poco meno di una sessantina).
Sono una decina quelli di 7c, per poi scendere sempre di più man mano che si sale fino all’8c. «Il nostro pubblico acquista in maggioranza il pass singolo d’ingresso e circa la metà di chi fa i corsi sparisce dai radar, un quarto abbandona l’arrampicata dopo qualche tempo, mentre un quarto diventa climber e si appassiona alla pratica» dice Mirko Masè, co-fondatore di Rockspot.
Altre ricerche di mercato indicano nei ‘newcomer e beginner’ una delle fasce in più forte crescita e anche quello delle famiglie e dei bambini è un bacino di utenza importante. Quanti di questi climber calcheranno mai la roccia vera? Questo è un altro discorso.
© Rockspot Milano
Cento staffettisti a cento giorni dalle Olimpiadi
Per festeggiare il conto alla rovescia verso i Giochi, Salomon ha organizzato un insolito evento nel cuore di Milano
Cento runner in una staffetta simbolica. A cento giorni dalla cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici e Paralimpici Invernali Milano Cortina 2026. È l'idea di Salomon, Premium Partner dei Giochi, per festeggiare il countdown. Mercoledì 29 ottobre, il Salomon Store Milano Portanuova ha ospitato un evento speciale dedicato alla community per celebrare i 100 Days to Go, con un susseguirsi di attività, giochi e momenti di incontro. Tra le altre, i 100 selfie per Milano Cortina 2026, che saranno raccolti in una video installazione collettiva, e tante challenge con premi e gadget personalizzati. La serata ha visto protagonisti 100 runner, guidati dai coach della community Salomon Gravel Milano, che hanno animato la Biblioteca degli Alberi con sfide e divertimento. Nessuna gara, nessuna classifica: solo il piacere di correre insieme, condividendo energia e passione per lo sport outdoor. La festa è stata inoltre la cornice ideale per presentare la Collezione Ufficiale Milano Cortina 2026, di cui Salomon è licenziatario ufficiale, disponibile nella sua forma più completa proprio nello store di Portanuova. È una linea di abbigliamento, calzature e accessori che celebra lo spirito dei Giochi Olimpici e Paralimpici Invernali, unendo performance, funzionalità e stile, nel segno dei valori di inclusione, determinazione e rispetto. Ora si attende il 12 novembre per svelare le divise disegnate da Salomon per gli oltre 20.000 volontari.

© Salomon
Il Bivacco tessile
È stato da poco inaugurato il nuovo bivacco Aldo Frattini, in Val Seriana, lungo il Sentiero delle Orobie. La struttura, realizzata grazie alla collaborazione tra GAMeC (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo) e CAI di Bergamo nell’ambito di Pensare come una montagna – Il Biennale delle Orobie, è stata progettata da EX., laboratorio di ricerca e progettazione che unisce arte, paesaggio e tecnologia sostenibile attraverso l’architettura. Il bivacco, a quota 2.300 metri, è un progetto innovativo sotto diversi aspetti.


È concepito come un rifugio leggero, reversibile e tecnologico. Il suo design richiama la forma della tenda alpina, che rievoca le prime esplorazioni in alta quota, e punta a ridurre al minimo l’impatto ambientale. La struttura è realizzata in legno, con rivestimento interno in sughero naturale che garantisce isolamento termico e acustico. La copertura esterna però è una pelle tessile innovativa, resistente agli agenti atmosferici, studiata in collaborazione con Ferrino. Il sistema costruttivo, sviluppato ad hoc, consente l’installazione in contesti estremi grazie a un peso complessivo di soli 2.500 kg e a una superficie di appoggio ridotta, di circa 2,5 mq. Le dimensioni compatte (3,75 x 2,60 x 2,60 m) e la forma svasata della scocca riflettono un approccio progettuale attento alla funzionalità e al minimo impatto sul suolo. Progettato per accogliere fino a nove persone, è dotato di panche perimetrali e letti pieghevoli ispirati ai portaledge alpinistici, convertibili in barelle d’emergenza.

© T. Clavarino
Tomba, il gatto alpinista
Secondo la leggenda i corvi sarebbero la reincarnazione delle Guide alpine morte in montagna. Si può crederci oppure no, ma è difficile pensare che Tomba non fosse la reincarnazione di una saggia Guida alpina. Non stiamo ovviamente parlando dello sciatore bolognese, ma di un gatto vissuto tra il 1988 e il 1993 nelle Alpi Svizzere, più precisamente a Kandersteg, nel Vallese. Il nome che i proprietari dell’hotel Schwarenbach diedero a quel grazioso gattino è dovuto in parte all’Albertone, ma anche a quello della madre, Tomassa.

Tomba iniziò subito a fare capire le proprie intenzioni a dieci mesi quando alcuni alpinisti che soggiornavano in hotel se lo trovarono tra le gambe mentre salivano al Rinderhorn (3.453 m) e qualche giorno dopo al Balmhorn (3.699). Tomba non solo li seguì, ma arrivò in cima come se avesse i ramponi sotto le unghie. Si dice che abbia ripetuto le salite alle vette più alte del circondario più volte e che la sera amasse annusare gli zaini degli ospiti dell’hotel e scegliersi i compagni di avventure per il giorno successivo. L’episodio più interessante della storia di Tomba riguarda il miracoloso salvataggio di una coppia di sposini da una valanga. Durante la salita a un certo punto si fermò, riluttante a proseguire, e iniziò a miagolare insistentemente, rifugiandosi dietro un masso. I due, incuriositi, lo seguirono e subito dopo il percorso che stavano seguendo fu investito da una valanga. Alla fine degli anni ’80 Tomba diventò una star internazionale con fotografie e notizie nei tabloid dal Giappone al Sud Africa e servizi sulla televisione Svizzera. Purtroppo la sua vita fu corta perché nel 1993, a quattro anni e mezzo, morì insieme alla madre a causa della AIDS felino. La sua storia è raccontata il un libretto della famiglia Stoller, che gestiva l’hotel Schwarenbach, scritto da Hedy Sigg e con le fotografie di Max Piffner.

Casco obbligatorio per tutti (anche gli scialpinisti)
È passata un po’ in sordina, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale di sabato 9 agosto scorso, ma la modifica dell’articolo 17 del decreto legislativo 28 febbraio 2021, n. 40, inserita nel decreto-legge 30 giugno 2025, n. 96 ha delle conseguenze importanti per il mondo dello sci e della montagna.
Con la nuova norma viene infatti estesa a tutti gli sciatori l’obbligatorietà del casco e non solo ai minori di 18 anni.

A prima lettura, un obbligo (che ci risulta esistere solo in Italia, almeno nel continente europeo) che riguarda poco gli scialpinisti ma, a parte che un giro in pista prima o poi lo fanno tutti, non è proprio così. Basta anche solamente passare per un comprensorio sciistico nella fase di avvicinamento alla meta per dover considerare questa ipotesi. Senza considerare che il popolo di chi si allena in prossimità delle piste per poi usarle in discesa è una fetta importante del mercato.
La nuova norma obbliga tutti questi scialpinisti all’utilizzo del casco, perché in pista non ci può essere nessuno che ne sia sprovvisto. La ratio è la stessa dell’assicurazione RC: per utilizzare le piste è obbligatoria. La mancata osservanza? Una multa che può raggiungere i 150 euro, ma il problema principale non è la sanzione, quanto la conseguenza alla quale ci si potrebbe esporre in caso di incidente. L’inosservanza della legge, infatti, potrebbe avere una serie di conseguenze legali, a partire dai risarcimenti.
E allora qualche casco usare, che vada bene sia fuoripista che nel comprensorio? «Il modello ideale, perché versatile per entrambi gli utilizzi, leggero e areato, è quello con la doppia omologazione per sci e scialpinismo, sul quale abbiamo puntato da tempo, con due prodotti diversi in catalogo, Hailot e The Peak» fanno sapere in Julbo, il marchio francese specializzato in caschi, maschere e occhiali. La doppia omologazione fa riferimento alle norme EN-1077 (sci e snowboard) ed EN 12 492 (alpinismo e arrampicata). La norma EN-1077 prevede le classi A e B: la prima è solitamente più protettiva (prevede per esempio anche la protezione delle orecchie) ma porta alla realizzazione di prodotti più pesanti e meno ventilati. I caschi a doppia omologazione sono generalmente inseriti nella categoria B e hanno pesi di circa 300 grammi.

© Julbo
Védrines e Jean: prima salita del Jannu Est
Lo scorso 15 ottobre i due francesi hanno salito il settemila himalayano in stile alpino alla parete Nord.
Ci sono montagne che non vengono semplicemente scalate. Si attraversano come esperienze, si vivono come viaggi interiori. Il Jannu Est, 7.468 metri nel massiccio del Kangchenjunga, è una di quelle. Uno degli ultimi enigmi himalayani, una delle vette non ancora salite. Una parete nord di 2.250 metri, un muro che sembra custodire il senso più puro dell’alpinismo. È qui che Nicolas Jean, 26 anni, e Benjamin Védrines, 33, hanno deciso di misurarsi, con un obiettivo tanto semplice quanto radicale: salire in stile alpino, senza ossigeno, senza corde fisse, senza aiuti esterni. Solo due uomini, una linea, e la volontà di andare leggeri.

L’idea e il ritorno
L’autunno 2024 aveva già lasciato un segno. Un primo tentativo finito troppo presto, il sogno rimasto sospeso. Ma la montagna, come spesso accade, concede una seconda possibilità a chi sa aspettare. Così Jean e Védrines sono tornati, con un piano ancora più essenziale: niente squadra, niente supporto, solo loro due.
Nei mesi precedenti avevano costruito la fiducia e la forza dove tutto è iniziato: sul Monte Bianco. Una traversata in sci di tre giorni, poi le quattro pareti del Bianco in un solo giorno, quasi 8.000 metri di dislivello. Un modo per allenare il corpo, ma anche per rafforzare quella connessione mentale che tiene insieme una cordata.
La salita
Il 12 ottobre si mettono in marcia verso la base della parete. Il meteo concede una finestra stretta ma buona, e la scelta è fatta: partire. Due notti sospesi nel vuoto, tra ghiaccio e roccia, fino a raggiungere la cresta sommitale. È lì che capiscono che la vetta, quella vera, è ancora oltre. Un falso picco li aveva illusi, e davanti resta un ultimo tratto estenuante: neve instabile fino al bacino, pendii verticali, la stanchezza che si fa totale. Alle 13:40 del 15 ottobre, però, i due raggiungono la cima. In silenzio. Perché a quell’altitudine, le parole servono a poco.
«Gli ultimi 500 metri sono stati i più duri» racconta Jean. «Eravamo esausti, ma dovevamo restare lucidi. La discesa, in quelle condizioni, è stata una battaglia».
Per Védrines, è la salita di una vita. Non solo per la difficoltà, ma per l’armonia nata con Nicolas: due velocità diverse, due generazioni diverse, ma una sola idea di montagna.

Il valore della leggerezza
In un’epoca di spedizioni pesanti e commerciali, questa ascensione riporta l’ago della bussola verso l’essenza. Leggerezza non significa semplicità: è una scelta consapevole, che comporta rischio, autonomia e responsabilità. La loro attrezzatura, sviluppata insieme al marchio Simond, è il riflesso di questa filosofia: piccozze e ramponi alleggeriti al massimo, imbraghi e tende ridotti all’essenziale. Ogni grammo tolto, un po’ di libertà guadagnata.
Una traccia che resta
Il Jannu East è ora segnato da una nuova via, ma la montagna resta intatta. Jean e Védrines hanno lasciato poco più che il segno dei loro passi, e forse è proprio questo il valore di un certo alpinismo oggi: fare tanto, lasciando poco.
Nei prossimi mesi arriveranno le relazioni tecniche, le immagini, il racconto completo. Ma il senso di questa salita si può già leggere: il ritorno a un alpinismo di ricerca, dove la prestazione si intreccia con l’etica e la bellezza con il rischio.

© Simond, Quentin Degrenelle, Thibaut Marot
L’incredibile storia di Urban Zemmer, primo uomo sotto i 30’
Nel 2014 l’altoatesino è stato il primo a scendere sotto la barriera della mezz’ora
Fully, Vallese (Svizzera), sabato 25 ottobre 2014. Cielo coperto, temperatura 11,5 gradi, umidità 76%, vento quasi assente. I dodici rintocchi dei campanili hanno già segnato l’arrivo del mezzogiorno. Lungo il percorso di una vecchia funicolare immersa tra i vigneti e i boschi centinaia di persone si accalcano per fare il tifo. La partenza è a Belle-Usine de Fully, a 500 metri. L’arrivo a Garettes, esattamente mille metri più in alto. Se si potesse tendere un filo in orizzontale sarebbero 1.920 metri. La pendenza media è superiore al 50%. In questo angolo di Vallese c’è il chilometro verticale più corto e ripido del mondo, tanto che è obbligatorio indossare un casco. Senza bastoni è quasi impossibile salire. Si parte uno per volta, prima gli amatori, poi gli atleti élite. Il pettorale numero uno è quello del vincitore dell’anno precedente e parte per ultimo.
Castelrotto, Bolzano, venerdì 24 ottobre 2014. Cinquecentocinquantotto chilometri separano una fattoria sui pascoli ai piedi dell’Alpe di Siusi, da quella vecchia rotaia che corre su dritta per la montagna del Vallese con il sole che trasforma i binari in specchi.
Un’auto parte per la Svizzera. Salgono un uomo e una donna, Urban e Astrid. Lui si è appena tolto la tuta da lavoro. Si è alzato alle sei di mattina, è andato in stalla a controllare i vitelli. Poi si è messo gli abiti dell’idraulico e infine è tornato a casa ed è passato ancora per la stalla. Sopra casa ci sono prati e boschi ripidi, è tutto un vertical, basta decidere dove andare. E capire quanto tempo è rimasto prima che sia buio. Nonostante questo in estate fa qualcosa come 100.000 metri di dislivello tra bici e vertical.

Tra i vigneti di Fully la tensione sale, l’adrenalina dei concorrenti è alle stelle. Arriva il turno del pettorale numero uno. È proprio lui, Urban, contadino e idraulico, per hobby uomo verticale. All’anagrafe la sua nascita è stata registrata nel 1970, 44 anni fa. Ogni cento metri c’è un cartello a indicare il dislivello percorso. Lo sforzo è sovraumano, la fatica impossibile. Ogni metro il tifo si fa più forte. Salire per che cosa? Per fare la fine del toro nell’arena, con il pubblico impazzito come in un baccanale e il cuore a mille? No, 178, i battiti di soglia sono 178. Non perché Urban usi un cardiofrequenzimetro, ma perché alla visita medica per l’abilitazione sportiva il medico si è reso conto di avere tra le mani un motore da fuoriserie. Contano la testa e il cuore, quel cuore che pompa, quella testa che ogni tanto vorrebbe mollare. «Ci sono sempre quei momenti quando pensi che devi calare il ritmo, ma prima o poi vanno via e comunque ci vuole la testa dura, altrimenti non faresti mai questa fatica». Ci vuole un motore che ‘canta’, ma senza la caparbietà di Urban non funzionerebbe così bene. Strategia? «Partire subito a tutta». I minuti passano e ogni istante sembra eterno. Il tempo si ferma, come cristallizzato, tra le urla di incitamento del pubblico. Di prima mattina faceva fresco, ma ora, nel bel mezzo della giornata, fa caldo, forse troppo per una fatica da Ercole.
Si dice che le imprese sportive negli sport di fatica siano favorite dal clima fresco. Quel calore e quell’umidità dell’aria e del tifo riportano invece la lancetta indietro di due anni, a un altro clima, quello dell’estate 2012. Faceva caldo anche allora, a fine giugno. Ma a un certo punto qualcosa è andato storto e improvvisamente Urban non ha più sentito una parte del corpo. Un ictus, o qualcosa di simile. Tanto spavento, un ricovero in ospedale, esami approfonditi. E la paura di non potere salire più veloce. Per uno che ha scoperto l’arena agonistica per caso, un po’ per rinforzare le ginocchia dopo un infortunio, un po’ dopo avere vinto una garetta goliardica organizzata dagli amici tanto per divertirsi, per uno che ha messo le scarpe da mountain running solo a 34 anni, scoprire che a 42 devi fermarti è una doccia gelata. Ma lui non sa stare fermo e non lo ha mai fatto. Ha continuato ad allenarsi dolcemente. E ora è qui su questa salita infinita. Quei momenti, quegli istanti in cui il suo corpo non lo sentiva più, gli passano davanti agli occhi mentre una goccia di sudore cola dal naso. Mancano cento metri.
Cento metri verticali. Eppure le sensazioni non sono buone. Un paio di settimane fa, a Limone sul Garda, il vertical non è andato come sperava. Fa caldo. Le mani spingono a tutta sui bastoni. I passi si fanno un po’ più corti. Anche i suoi. Sì, perché Urban ha una tecnica tutta sua. Nel vertical non esiste, in realtà, una tecnica ‘ortodossa’, però la maggior parte degli atleti fanno passetti corti, altri continuano a corricchiare anche quando la pendenza sale. Lui no, lui non corre e fa i passi lunghi. Li ha fatti anche quando a Canazei è diventato campione del mondo e ha dovuto riacchiappare gli altri big che erano scappati via sul primo pratone dove si corre. Li ha fatti anche quando è diventato campione europeo.
Il tabellone del cronometro sul traguardo si ferma. Tutto si blocca, anche le bocche spalancate del pubblico che incita sembrano immobili, come in un fermo immagine. Il mondo si ferma. 29’42’’741. Per la prima volta un uomo ha percorso mille metri verticali in meno di mezz’ora. Quell’uomo si chiama Urban Zemmer, contadino e idraulico di Castelrotto, non Usain Bolt o Carl Lewis. Non è un atleta professionista, ma un working class hero. Non ha tabelle da seguire e gel nella tasca, ma la sua benzina sono le lasagne cucinate con amore dalla compagna Astrid. Non va al caldo ad allenarsi in inverno, la sua preoccupazione, quandolascia casa per una gara, sono i vitelli: chi li curerà? Mezz’ora vuol dire tutto e niente. È stato calcolato che l’uomo medio passa circa 54 minuti in viaggio per andare a lavorare, impiega 77 minuti per mangiare, trascorre 177 minuti davanti allo schermo dello smartphone e 168 davanti a quello della televisione. Tutti multipli del record di Urban.
«Sono venuto a Fully per vincere, non pensavo al record, in realtà non avevo nemmeno sensazioni così buone, a Limone un paio di settimane fa non è andata come volevo, il clima non era così fresco e poi quando non sai mai quanto tempo hai per allenarti e non puoi fare programmi non puoi neppure programmare un record» dice Urban. Sapeva che poteva andare sotto i 30 minuti, voleva andare sotto i trenta minuti, ma solo Dio può decidere quando.
(Il testo è tratto da La Sportiva 90, monografia realizzata da Mulatero Editore per il novantesimo anniversario del marchio)

© La Sportiva 90 - Mulatero Editore
Bonnet stupisce ancora: 27’21’’
Nuovo record del mondo nel chilometro verticale a Fully, ritoccato anche il primato femminile.
He did it. Rémi Bonnet, dopo l’oro nel vertical ai Mondiali ferma il cronometro a 27 minuti e 21 secondi nel Kilomètre Vertical de Fully. È nuovo record del mondo, ritoccato di un minuto e 32 secondi a distanza di otto anni. Il primato infatti era di Philipp Götsch e non veniva battuto dal 2017: 28’53’’. È successo tutto sabato scorso, sul percorso del vertical nel quale sono stati registrati quasi tutti i record nelle gare con utilizzo di bastoncini. «Sono partito molto veloce, all’inizio ho pensato che il ritmo fosse un po’ troppo sostenuto, ma poi mi sentivo bene e ho capito che poteva essere una giornata speciale» ha dichiarato un ancora incredulo Bonnet dopo la gara.
Il percorso del Kilomètre Vertical de Fully è particolarmente ripido: mille metri secchi su 1,9 km di lunghezza, con una pendenza media del 50%. È il tracciato di una vecchia funicolare tra i vigneti. Bonnet si è imposto su Henri Aymonod (30’08’’) e Aurélien Gay (30’32’’).
Non finisce di stupire anche Axelle Mollaret che, dopo il record a Nantaux dello scorso settembre (33 minuti esatti), ritocca ancora il tempo, fermando il cronometro a 32’52’’ e rifilando quasi sette minuti a Victoria Kreuzer (39’43’’). Indubbiamente due atleti che, dallo scialpinismo al chilometro verticale, non finiscono di stupire.

© Baptiste Fauchille / Red Bull Content Pool
L’attacco ibrido con il freno davanti
La curiosa proposta del marchio californiano AlpenFlow Design
E se l’attaco ibrido, il modello più chiacchierato del momento, avesse il freno al puntale, invece che alla talloniera? È la prima curiosità di AlpenFlow 89, della start-up californiana AlpenFlow Design. Il modello, non ancora in commercio, è pre-ordinabile dal sito del marchio al costo di 760 dollari e le prime consegne, se verranno raggiunti 500 pre-ordini, inizieranno nell’autunno 2026. La proposta prevede, oltre allo ski brake (da 90, 100, 110 o 120 mm) anteriore, che si apre e si chiude semplicemente inserendo lo scarpone nei pin o togliendolo, una talloniera step in in alluminio lavorato con macchine CNC e il passaggio dalla fase ski a quella walk avviene aprendo e chiudendo con una rotazione verticale la stessa talloniera, permettendo la chiusura e riapertura senza dover togliere lo sci in situazioni che richiedono scalettatura o per brevi discese con le pelli. I valori di sgancio dichiarati sono 5-13, sia laterali che verticali e, oltre alla modalità flat, ci sono due aiuti salita. Risulterebbe inoltre nullo il drop in fase di sciata. Il puntale LockTurn, per il quale è stata depositata una richiesta di brevetto, ruota liberamente con lo scarpone durante l'intera corsa elastica, assicurando che lo scarpone sia bloccato meccanicamente nell'attacco. Solo quando l'intera corsa elastica è esaurita, consente allo scarpone di sganciarsi, impedendo lo sgancio anticipato e consentendo un’apertura controllata in modalità sci. AlpenFlow 89 non è però certificato TUV.

Tom Evans: la vittoria e il pannolino di Phoebe
Intervista esclusiva al vincitore dell’ultima UTMB Mont Blanc
C’è una nuova luce negli occhi di Tom Evans. E no, non è soltanto la soddisfazione per aver vinto l’ultima UTMB. È qualcosa di diverso. È la luce di chi, negli ultimi mesi, ha conosciuto una stanchezza diversa da quella delle gare. L’abbiamo incontrato in occasione del meeting organizzato da ASICS, suo sponsor tecnico, a Zinal, in Svizzera, a fine settembre.
Tom ci ha raccontato del suo anno più intenso: non solo per la preparazione della gara, ma per l’arrivo della prima figlia, Phoebe. Perché diventare padre è stato un cambiamento più radicale di qualsiasi protocollo di allenamento.
«Diventare padre mi ha reso un atleta migliore»

© UTMB® Marta Baccardit
Chiedergli come abbia fatto a preparare una gara come l’UTMB a pochi mesi dalla nascita di sua figlia sembra quasi una domanda retorica. Ma Tom ci risponde con molta naturalezza.
«È stata una nuova sfida, senza dubbio. Ma ho avuto dalla mia parte una persona speciale: Sophie, mia moglie. È una madre fantastica e una compagna incredibile. E poi ho avuto la fortuna di poter contare su una rete di supporto che ci ha tenuti a galla: amici, parenti, tecnici. Ma soprattutto, Phoebe mi ha insegnato qualcosa che nessun allenatore avrebbe mai potuto darmi: una prospettiva diversa sulle cose».
Poi ci racconta un momento che ha del tenero, quasi comico: lui già pronto per la partenza dell’UTMB, zaino in spalla, pettorale indossato… e un pannolino da cambiare all’ultimo minuto.
«Ero lì, completamente in assetto gara e ho cambiato Phoebe. Niente panico, nessuna tensione. Anzi, ero felice. Quel momento mi ha aiutato ad affrontare la partenza con più leggerezza. Non perché non fosse importante, ma perché avevo capito che non era tutto».
Durante la gara, gli bastava vedere il volto di Sophie o di Phoebe per ritrovare motivazione.
«In quei momenti, non pensi al cronometro o al distacco da chi ti segue. Vuoi solo correre al meglio, per loro».
E se parliamo di giornate no, quelle che ogni atleta conosce fin troppo bene, la sua risposta è semplice:
«Anche se un allenamento va male, basta tornare a casa, vedere il sorriso di mia figlia e tutto il resto sparisce. Ti rimette al tuo posto, ti ricorda cosa conta davvero».
Una casa piena di passione (e di tabelle di allenamento)
Quella di Tom è una famiglia di atleti. Sophie Coldwell è una triatleta di altissimo livello e, come ci ha raccontato Tom, questo è stato un vantaggio, ma anche una sfida.
«Da un lato è stato più facile: lei capisce perfettamente di cosa ho bisogno per allenarmi. D’altro canto, quando entrambi in famiglia sono atleti professionisti, che hanno bisogno di tempo e spazio per allenarsi, non è facile accettare che, in certi momenti, uno dei due debba avere la priorità. È una dinamica complicata da gestire per entrambi, e ha reso le cose più difficili sia durante la gravidanza che nei primi mesi dopo la nascita di Phoebe»
Allenarsi insieme, come facevano un tempo, ora è quasi impossibile.
«Mi manca quel quality time condiviso. Ora lei ha allenamenti fissi con la squadra, mentre io, post-UTMB, sono più flessibile. Ma sappiamo che è una fase e che torneremo ad allenarci fianco a fianco».
E poi c’è stata Chamonix, nelle ultime otto settimane prima della gara:
«Portarle con me è stato un privilegio. Vivere insieme quel blocco di lavoro è stato un regalo. Non tutti possono permetterselo, e ne siamo consapevoli».
Oltre gli allenamenti virali: la verità sul successo
Dopo la vittoria, molti media hanno acceso i riflettori su un aspetto in particolare del suo allenamento: la strength-endurance con il giubbotto zavorrato. Ma Tom ci tiene a rimettere le cose in ordine.
«Credo che l’aspetto più importante della mia preparazione sia stato individuare con onestà le aree in cui ero carente e lavorarci sopra con un approccio mirato. Dopo UTMB, però, ho provato un certo dispiacere nel vedere come molti media abbiano concentrato tutta l’attenzione su un solo elemento: l’allenamento in salita con la weight vest, quasi fosse l’ultima rivoluzione del trail running.
In realtà, sono certo che atleti come Jim Walmsley o Vincent Bouillard non abbiano mai fatto una singola sessione di quel tipo. Eppure, sia io che Ruth Croft utilizziamo da anni quel genere di protocolli: semplicemente, solo quest’anno sono finiti sotto i riflettori perché abbiamo vinto.
Un altro aspetto che secondo me viene spesso frainteso è l’uso dei dati. Leggendo certi articoli sembra che tutto ruoti attorno ai numeri, ma la verità è che io mi alleno quasi sempre basandomi sulle sensazioni e sul metodo RPE – rate of perceived exertion. Anche durante gli esercizi a variazione di intensità uso solo un allarme sull’orologio per segnare l’inizio e la fine dell’intervallo, nient’altro. E in gara difficilmente guardo i dati. Credo davvero che l’approccio basato sulle sensazioni sia parte integrante del successo di molti atleti in questo sport. Non è una tabella Excel a fare la differenza, ma la capacità di ascoltarsi e conoscere il proprio corpo».
Mondiali sì, ma non così: «C'è tanto da cambiare»

© UTMB® Quentin Iglesis
L’ultima volta che Tom ha corso un mondiale di trail è stato sette anni fa. Ci chiediamo se tornerà mai a farlo.
«È bello vedere World Athletics interessarsi al trail. Ma organizzare un mondiale a poche settimane dall’UTMB è un errore. E 80 km non rappresentano il vero long trail, credo che gare e lunghezze come quelle della Western States e della LUT siano più in sintonia con il concetto di Long Trail. Il nostro sport è un’altra cosa».
Parla anche con franchezza delle difficoltà nel rappresentare il team della Gran Bretagna:
«Non c’è supporto governativo. E sei obbligato a correre con un kit che non è quello del tuo sponsor. È un sistema che, per un professionista, non funziona. Il premio per vincere un mondiale è il 10% di quello che ricevi per UTMB. E questo, per me, è un lavoro. «Credo che quest’anno l’organizzazione dei vari team internazionali abbia fatto un ottimo lavoro nel selezionare i migliori atleti per ciascuna distanza dei mondiali. Tuttavia, non sono convinto che tutti fossero davvero coinvolti al 100% nell’evento, mentre all’UTMB ho percepito una motivazione decisamente più alta da parte degli atleti.
La Top-5 dei mondiali, in ogni disciplina, era sicuramente di altissimo livello, ma se guardiamo alla profondità del campo partenti, la Top-10 delle UTMB Finals era molto più competitiva.
Mi auguro che, già dalle prossime edizioni, venga fatto un lavoro serio sull’accesso alla gara, in modo che i podi possano realmente rappresentare i migliori atleti del mondo nella loro specialità. Al momento, però, credo ci sia ancora un divario importante: UTMB rimane l’evento che attrae più interesse da parte di sponsor, brand e atleti di punta».
Il suo sogno? Un organo indipendente e unico per tutte le gare che possa radunare davvero i migliori al mondo, senza vincoli nazionali, con la visibilità e il rispetto che meritano.
Prossima fermata: Hardrock. E magari anche La Réunion
Nel mondo dell’ultra trail, si parla sempre più spesso di un Monte Rushmore delle gare leggendarie: Western States, UTMB, Hardrock e Grand Raid de La Réunion. Tom ha già vinto le prime due.
Alla domanda su quale sarà la prossima, sorride e svela una notizia in anteprima.
«Ufficialmente? Fresh off the press: entrambe! È la prima volta che ne parlo con la stampa. Stasera apre la lottery per Hardrock e mi iscriverò subito: ho buone probabilità di entrare, quindi sto già pensando di trasferirmi in loco e prepararmi in quota, lavorando su quelle altitudini che saranno decisive in gara. Abbiamo già fatto diversi test quest’anno, so esattamente su quali aspetti devo concentrarmi. L’idea è quella di prendere un bel van, girare la zona e fare parecchi soft-rock, ovvero percorrere il tracciato a ritmo di fast-hiking per abituarmi a terreno e quota – un approccio simile a quello che ho seguito negli ultimi anni per UTMB.
Hardrock è una gara che desidero da tempo. È meno corribile di altre, forse meno adatta al mio stile, ma negli ultimi anni ho lavorato molto sulla camminata in salita e credo di avere buone possibilità. Anche La Réunion mi affascina: magari non è perfetta per le mie caratteristiche, ma è quel tipo di sfida che mi motiva e mi spinge ad allenarmi con determinazione per ottenere un buon risultato.
E poi, nel mezzo, mi piacerebbe anche difendere il titolo all’UTMB: sarebbe qualcosa di davvero speciale. Ma su quello, si vedrà».
















