Ora, dopo le medaglie Mondiali, dopo gli exploit a Zegama, dopo che nello scorso fine settimana ha vinto la classifica assoluta della Camignada poi siè refuge di Auronzo di Cadore (35 km, 1.200 iscritti), battendo gli uomini e rifilando 13” a Ivan Geronazzo, è la donna copertina. Con un altro primato non da poco: oggi è in prima pagina sul Corriere della Sera. Ma Silvia Rampazzo è forte perché è forte soprattutto dentro, e lo ha dimostrato da subito. La sua è una di quelle belle storie, di persone normali, con un lavoro impegnativo, che hanno iniziato a correre con la maglietta di cotone e che riescono a liberare la mente mettendo un piede davanti all’altro, sempre più velocemente. Silvia è stata testatrice della nostra Outdoor Guide per diversi anni e nel giugno 2016 l’abbiamo intervistata per la prima volta. Ecco le risposte più significative e come è nata la sua grande passione per la corsa tra i monti. E se volete conoscerla meglio, c’è anche il bel capitolo scritto da Simone Sarasso in Trail Rock Girls, appena pubblicato dalla nostra casa editrice.

Silvia, oggi sei una tra le più affermate runner off-road a livello nazionale, ma come hai iniziato a correre?

«Sono ingegnere ambientale e passo tanto tempo al computer oppure in viaggio. Per questo sento il bisogno di muovermi. Però a correre ho iniziato una decina di anni fa, in pianura, sull’asfalto, in un difficile momento famigliare. Mi aiutava a scaricarmi e a liberare la testa. Correvo tutti i giorni, senza cardio, con i pantaloni e la maglietta di cotone, senza pensare al tempo né mai gareggiare. Per me era una valvola di sfogo. Che purtroppo è durata poco perché dopo qualche mese ho iniziato ad avere male alle ginocchia. Se facevo una corsetta zoppicavo per giorni…».

Come mai?

«La diagnosi è stata subito impietosa: sublussazione a entrambe le ginocchia, infiammazione e consumo delle cartilagini. Così per anni ho smesso di correre, a volte zoppicavo anche solo a camminare. Mi avevano detto che non avrei più potuto correre, al massimo venti minuti la domenica. Ho sempre amato la montagna e appena potevo me ne scappavo sulle Dolomiti, a volte salivo a piedi e tornavo con gli impianti per non sollecitare le ginocchia. Poi ho conosciuto Michele, il mio ragazzo. Lui correva, su strada e qualche skyrace. Un giorno mi ha proposto una corsetta sui sentieri e da lì è nato tutto. Forse il terreno diverso mi ha aiutato. Alla fine del 2010 ho rimesso le scarpe, qualche garetta, a partire dalla Transcivetta – con tempo eterno… – fino alla stagione 2013 quando ho iniziato a ottenere risultati di soddisfazione».

Poi è stato un crescendo…

«Sono riuscita ad allenarmi bene e i risultati sono venuti, ma inaspettati. Mi è sempre piaciuto il senso di libertà della corsa e amo la montagna pur essendo di pianura, ma non ho mai avuto spirito agonistico. Improvvisamente mi è sembrato di vivere un sogno».

Poco spirito agonistico allora aiuta a vivere le gare con meno stress…

«Non lo so, diciamo che per me le gare sono uno stimolo perché sono di indole pigra, così mi pongo degli obiettivi per correre nella natura e tra le montagne. Delle gare amo la fatica e la soddisfazione che premia il raggiungimento di un obiettivo, la sfida contro me stessa e i miei limiti».

La montagna, una grande passione?

«Sì e anche gli sport di montagna, al liceo e all’università mi piaceva andare anche ad arrampicare. All’inizio camminavo, poi ho iniziato a correre con addosso il pesantissimo equipaggiamento dettato dal ‘non si sa mai’, con il solo scopo di abbattere i tempi di avvicinamento e andare più lontano».

Come ti alleni?

«In settimana solo in pianura, riesco a fare salita e discesa esclusivamente nei week-end. La salita è un toccasana per le mie ginocchia perché lavoro molto di muscoli e si rinforza la struttura della gamba, ma abito in pianura…».

Raccontaci qualche corsa insolita, visto che fai un lavoro che ti porta spesso in giro per il mondo.

«Sì, sono ingegnere ambientale nel campo oil&gas e spesso ho viaggiato in posti lontani. Mi è capitato di correre, naturalmente tutta coperta dalla testa ai piedi, con un caldo pazzesco, in Iran. Oppure in Kazakistan, o anche in Congo».