Certe persone, più di altre, hanno la capacità di complicarsi meravigliosamente la vita, portando avanti progetti che, presi singolarmente, basterebbero già a riempirti la giornata. Adriano Favre è una di queste: Guida alpina, tecnico e responsabile del Soccorso Alpino, viaggiatore, alpinista himalayano, organizzatore del Mezzalama e una delle menti dietro al successo de La Grande Course, rifugista. Probabilmente da piccolo doveva essere uno di quei bambini iperattivi con le ginocchia perennemente sbucciate. Per intervistarlo sono andato a intercettarlo direttamente sulle montagne di casa, a Champoluc.
Ciao Adriano, come sei diventato Guida Alpina?
«Sono diventato Guida 45 anni fa, il primo della mia famiglia ma di sicuro non l’ultimo, visto che mio nipote Emrik è aspirante in questo momento. Gli anni passano, certo, ma la passione rimane forte lo stesso. A quell’epoca ci si arrivava quasi unicamente dall’alpinismo, anche se io ho avuto la fortuna di avere Giorgio Colli come mentore, che già allora praticava molto lo scialpinismo».
Quando hai cominciato a organizzare spedizioni?
«La prima è stata nel 1980 sul Churen Himal, per cercare di completare una via tentata da una spedizione di Paolo Consiglio una ventina di anni prima. Tornammo a casa senza la vetta, dopo aver provato a salire la via normale. Per completarla ci sono poi tornato nel 1993 e nel 2012: è stata una lunga storia! La prima spedizione su un Ottomila, invece, è stata al Kanchenjunga nel 1995, e la prima vetta il Manaslu nel 1996. Poi ne sono seguite altre, non sempre arrivando in cima: K2, Shisha Pangma, Dhaulagiri, Annapurna e per finire l’Everest, nel 2005. Dopo ho continuato a vivere l’Himalaya in modo più tranquillo, portando i clienti a fare trekking o alpinismo a quote inferiori. Ho cominciato a lavorare con i viaggi organizzati in Nepal nel 1988 e oggi posso considerarla una seconda casa. Ora ho terminato il mio mandato da direttore del Soccorso Alpino Valdostano, ma continuo ad occuparmi del coordinamento di alcuni settori a livello nazionale, tra cui quello cinofilo».
Ci sono margini di miglioramento nell’attività del Soccorso Alpino?
«Sì. Per esempio nell’applicazione delle tecnologie di geolocalizzazione: si può migliorare ulteriormente nonostante i grandi progressi di questi anni. Come elicotteri e macchine l’Italia è a un livello altissimo, mentre invece stiamo lavorando molto su quelli che chiamiamo non-technical skills, vale a dire l’allenamento mentale e la capacità di fare squadra, che sono di grande aiuto in missione, per evitare ad esempio che si verifichi una delle peggiori circostanze in assoluto: l’incidente ai soccorritori. Come dicono i francesi, bisogna essere malin: svegli, attenti. Nel corso degli anni abbiamo poi gestito la formazione di squadre di soccorso estere, tra cui i peruviani e i nepalesi».
Hai ancora un’altra anima, quella del rifugista, vero?
«Sì, ho cominciato nel 1987 con la co-gestione del Rifugio Quintino Sella al Felik e anche lì ho vissuto i cambiamenti in prima persona. Sono aumentate le esigenze dei frequentatori (non li chiamerei mai clienti), i quali sono sempre più spesso stranieri. Proprio al Quintino è nato il progetto Highlab di Ferrino, più di 25 anni fa. Collaboravamo già grazie alle spedizioni ed è venuto spontaneo venirci incontro nel momento in cui cercavano un luogo dove poter testare veramente i loro prototipi: un campo allestito per tutta la stagione estiva, ad esempio, subisce la stessa usura di una spedizione alpinistica. Vedere una tenda sbriciolarsi o resistere a 150 chilometri all’ora di vento costituisce un test importante. Inoltre insieme abbiamo portato avanti diversi progetti, perlopiù legati alla sicurezza: lo zaino Airsafe è uno di questi».
E poi, come se non bastasse, è arrivato il Mezzalama.
«Sì, quella è un’avventura cominciata nel 1995. La prima edizione organizzata da noi è stata nel 1997, dopo quelle tenutesi fra il 1933-39 e quelle del 1972-78. L’idea del Mezzalama moderno fu del consorzio turistico del Monte Rosa e all’epoca, lavorando per Monterosa Ski, venni incaricato della questione. Non ero assolutamente pratico di quel mondo e mi sono fatto le ossa poco alla volta. Sono state determinanti la conoscenza di queste montagne e – diciamolo – un pizzico di fortuna per arrivare a far correre la gara anche con condizioni avverse. Fin dalla prima edizione, poi, è stata fondamentale la collaborazione con il meteorologo Luca Mercalli, capace di prevedere le finestre meteo giuste nelle quali far correre gli atleti. L’edizione 2015, ad esempio, si è disputata in un intervallo di nove ore tra le perturbazioni, basti pensare che gli atleti di testa indossavano il piumino anche in salita. Nel 2003, invece, abbiamo dovuto evacuare degli atleti in ipotermia e da quel momento abbiamo introdotto regole più severe per l’attrezzatura».
Cosa è cambiato nel corso delle varie edizioni?
«I partecipanti, ora, sono più preparati tecnicamente, sia perché è evoluto lo scialpinismo, sia perché la voce si è sparsa e ormai tutti hanno bene in mente quali siano le difficoltà aggiuntive del Mezzalama che ne fanno una gara unica: non è assolutamente sufficiente avere il motore e basta. Sono cambiate anche le condizioni della montagna, un fatto che si è palesato nell’edizione 2015, quella corsa in senso inverso da Cervinia a Gressoney; molte discese, a causa dello scioglimento dei ghiacciai, presentavano tratti tecnici con ghiaccio vivo e dubito che si ripeterà l’esperimento, a meno che non ci sia un’inversione di tendenza».
Qual è il focus principale del Soccorso Alpino nel giorno della gara?
«L’attenzione dei soccorritori è rivolta principalmente a ciò che potrebbe succedere in ghiacciaio, quindi nel tratto dal Colle del Breithorn fino ai rifugi Gnifetti e Mantova. La traccia viene balisata nei giorni precedenti, ma ciò non vuol dire che sia sicura al cento per cento: si sono già verificati crolli di ponti nelle ore successive al passaggio degli atleti, quindi il procedere in cordata non è una questione di folklore, ma una reale necessità. Noi come organizzatori ce la mettiamo tutta, ma l’ultima parola spetta sempre alla montagna. Ho introdotto due delfini, ai quali presto passerò la responsabilità, perché comunque non sono più un ragazzino: François Cazzanelli ed Emrik Favre. Con loro spero di migliorare ulteriormente l’organizzazione della gara e seguire anche l’evoluzione dello scialpinismo e dell’ambiente».
Quali sono gli obiettivi comuni de La Grande Course?
«Con gli altri organizzatori stiamo cercando di creare e seguire una traccia unica per tutti, collaborando per uniformare regolamenti e standard di gara, ma anche, ad esempio, la logistica, con una piattaforma unica di iscrizione. Ci si confronta e ognuno assiste alle gare dell’altro. Vogliamo anche riavvicinarci alla ISMF, per armonizzare i calendari e non penalizzare gli atleti. Credo che il formato delle gare di Coppa del Mondo sia complementare a quelle de La Grande Course, anche perché sarebbe l’unico tipo di evento replicabile in un possibile calendario olimpico. Sono anche favorevole allo scialpinismo alle Olimpiadi, tutto ciò che fa bene allo sport è sempre ben accetto. L’ingresso dell’arrampicata sportiva è un ottimo stimolo per noi. Gli atleti a livello da Coppa del Mondo sono un centinaio, quelli de La Grande Course sono 5.000: bisogna favorire il ricambio generazionale e la diffusione dell’attività agonistica fra i giovani».
Quali sono i momenti più emozionanti del Mezzalama?
«Il momento più bello è quando ci si vede tutti all’arrivo. Quello più emozionante, invece, è la partenza, durante la quale i mesi di preparativi giungono a una concretizzazione e sai che da lì devi stare sull’attenti. Ci sono stati episodi di tensione fortissima, come nel 2005 quando al momento della partenza il vento in quota non voleva attenuarsi e abbiamo dovuto ritracciare parte del percorso, posticipando il via di un paio d’ore. Contemporaneamente dovevamo anche gestire l’evacuazione di un gruppo coinvolto in una valanga al Castore la sera prima. O nel 2019, quando abbiamo dovuto cambiare il percorso abbassandolo di quota la mattina stessa, ritracciando e bonificando i pendii all’alba. Tra Guide, medici e volontari ci sono 120 persone sul percorso: credo che anche per un professionista sia un’esperienza formativa, perché si è tutti dentro una grande macchina e ognuno deve fare la sua parte».
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