Lo svizzero Marcel Kurz non è stato solo fra i primi a introdurre lo scialpinismo sulle Alpi a fine ottocento, ma ne ha influenzato più di ogni altro lo sviluppo a partire dagli anni venti in Svizzera, Francia e Italia, soprattutto grazie al suo libro Alpinisme Hivernal del 1925. Pubblicato in Italia nel 1928, questo poderoso volume è stato l’indiscusso punto di riferimento per più generazioni di sciatori alpinisti, compresa la mia. Kurz è stato, anzi è, il grande ispiratore dell’attuale scialpinismo classico. Mio padre, come ogni appassionato scialpinista, possedeva una copia di Alpinismo Invernale. Ora il libro, ingiallito dal tempo, impreziosisce la mia collezione di opere fondamentali sullo sci. È curioso come nel titolo non appaia la parola sci, mentre tutto il volume, a parte il primo capitolo dedicato ai precursori, che andavano in montagna d’inverno a piedi, è un vero inno allo sci come modo ottimale per vivere la montagna bianca.
Sono piuttosto il titolo e il sottotitolo del secondo capitolo, rispettivamente Il trionfo dello sci e La seconda conquista delle Alpi, a definire bene i contenuti dell’intero volume. Alpinismo invernale è innanzitutto un manuale tecnico denso di consigli e una guida preziosa sui grandi itinerari in sci delle Alpi Occidentali, percorsi per la prima volta da Kurz e destinati a diventare dei classici, come la haute route Bourg Saint Pierre-Zermatt, il circuito del Bernina, i quattromila intorno alla capanna Britannia. Alpinismo invernale però non è solo questo. È anche e soprattutto un saggio sulla bellezza e sul fascino della montagna vissuta con gli sci. Per Kurz lo scialpinismo è un fantastico modo di vivere, è entusiasmo puro, piacere di fermarsi per contemplare un panorama, per bearsi con calma della montagna bianca, per crogiolarsi al sole. Il tutto senza l’assillo delle lancette dell’orologio. La fatica, il gusto della performance e anche le disavventure sono sempre in secondo piano. Alpinismo invernale ci riporta insomma a valori dimenticati, a un modo sereno e gioioso di vivere lo sci. Il libro mette in evidenza molto bene le due diverse anime di Kurz, che si completano alla perfezione. Il Kurz passionale, che ama la montagna perdutamente e si abbandona a essa, e il Kurz razionale, l’ingegnere topografo pignolo, talvolta addirittura pedante, lo scrittore esigente, meticoloso. Perfette, sotto quest’ultimo punto di vista, le pagine dedicate agli albori dello scialpinismo, a Wilhelm Paulcke, Christoph Iselin, Arthur Conan Doyle. L’intera opera ha un valore letterario e fa parte a pieno diritto di quella letteratura dello sci che annovera opere di grandi scrittori, da Doyle a Hemingway, da Calvino a Parise, da Buzzati a Marchi, senza dimenticare Balzac…
Figlio d’arte
Marcel Kurz nasce a Neuchâtel nel 1887. È suo padre Louis, insegnante di violino e noto alpinista nonché autore di carte e guide del Monte Bianco, a trasmettere al figlio la passione per la montagna. A undici anni compiono insieme la prima al Grand Darrey (3.515 m). La famiglia Kurz possiede uno chalet a Saleina, campo base ideale per esplorare le Alpi del Vallese. Marcel inizia lì a fare seriamente scialpinismo, nel 1907, effettuando la prima salita invernale con gli sci del Grand Combin, insieme al professor François Frédéric Roget di Ginevra (autore del famoso e raro volume Ski runs in the high Alps del 1913) e alla guida Maurice Crettez. Per la verità gli sci vengono lasciati ai piedi del Col du Meitin (3.426 m). Laureatosi ingegnere topografo, nel 1913 inizia a lavorare per l’Ufficio Federale di Topografia. Nel 1921 partecipa, con la moglie Lilette Morand, a una spedizione al Monte Olimpo in Grecia, dove scala l’inviolato Trono di Zeuss e redige una pregevole monografia e una cartina.
Nel 1922 lascia l’impiego sicuro per dedicarsi anima e corpo alla montagna, alla redazione di carte e di guide come libero professionista. Una scelta non facile che gli permette però di organizzare spedizioni in Nuova Zelanda con Ned Porter nel 1926/27, con salite al Tasman e al Cook, e in Himalaya con Günter Dyhrenfurth nel 1930. In questa spedizione, che ha come obiettivo il Kangchenjunga, Kurz realizza la prima carta dettagliata della zona e raggiunge la massima altitudine di quegli anni: la vetta del Jongsong Peak (7.459 m). Gli sci non mancano mai nel suo bagaglio di grandi viaggi. Purtroppo però, a causa di una caduta da cavallo nella fase iniziale della successiva spedizione di Dyhrenfurth, in Karakorum, del 1934, non può dividere con l’amico Piero Ghiglione la vetta del Golden Throne (7.250 m). A un’intensa attività alpinistica e scialpinistica Kurz affianca una pregevole attività editoriale, pubblicando una versione aggiornata della guida e della cartina del padre sul Monte Bianco. Prepara inoltre le quattro guide sulle Alpi del Vallese che ancora oggi costituiscono una fonte di informazioni fra le più complete e apprezzate. Nel 1957 pubblica il volume Chronique Himalayenne, una ciclopica e fondamentale opera sulla letteratura himalayana. Negli ultimi anni ritorna a percorrere in veste estiva le grandi traversate in sci attraverso le sue adorate Alpi Pennine. Purtroppo la sua mente brillante si offusca tragicamente negli ultimi tre anni di vita. Muore a Neuchâtel nel 1967. Non avendo avuto figli, la moglie Lilette dona tutto il suo vasto archivio alla fondazione che porta il nome di Marcel e del padre: la fondazione Louis e Marcel Kurz, con sede a Neuchâtel.
Uno scialpinismo gioioso
Lo scialpinismo di Kurz non è certo quello veloce mordi e fuggi in giornata. Ma non è nemmeno quello dei grandi raid senza punti d’appoggio. Neppure quello delle tutine. È uno scialpinismo lento, segnato dal piacere della sobria ospitalità dei classici rifugi alpini. Ossia dei veri rifugi, custoditi o incustoditi ma sempre aperti, alla svizzera per intenderci. Per Kurz e compagni l’arrivo in un rifugio è sempre un momento felice e importante, il raggiungimento «di un tetto ospitale e della sognata (e meritata, ndr!) cena» fa parte a pieno titolo dei piaceri dello scialpinismo. Di mattina Kurz non ha mai fretta di partire per arrivare in cima. Quindi niente levatacce notturne: si parte piuttosto tardi, quando si è pronti, dopo una buona colazione. Ritornare al rifugio o concludere la gita con una lanterna con dentro una candela accesa è di conseguenza una cosa piuttosto normale. Le soste per le ‘belle pipate’ durante le salite, anche quelle impegnative, sono un’altra caratteristica dello scialpinismo di Kurz. Fumare fa parte del gioco. Non ho contato quante volte nel suo libro nomina la pipa, ma sono davvero tante. Ovunque c’è un bel panorama, si ferma e si accende la pipa per godere pienamente della magia della montagna bianca. In particolare le albe e i tramonti sono considerati spettacoli sublimi da assaporare lentamente con questa prospettiva, per poi lasciarsi andare a descrizioni particolareggiate di quei momenti unici che grazie allo scialpinismo si ha il privilegio di vivere. Sempre con il «fumo azzurro che sale verso l’azzurro del cielo» si sognano altri colli, altre vette, laggiù all’orizzonte «puntando il cannello della pipa» verso di loro.
Kurz non è un solitario, il suo è uno scialpinismo condiviso con amici fidati e con guide locali. Nei suoi scritti egli è molto discreto nel parlare dei compagni di gita, particolarmente avaro di notizie sulla loro vita privata, come sulla sua. Ad esempio, per mettere in evidenza l’autorevolezza di un certo Roget, premette sempre il titolo di signore o professore al suo nome, mentre per sottolineare l’amicizia che lo lega a De Choudens lo chiama affettuosamente Chouchou. L’atteggiamento da condottiero che contraddistingue la guida Crettez, nonché la sua forza e la sua determinazione, risultano invece da battute e comportamenti riportati nel volume. A proposito di guide e di portatori, Kurz si serve spesso di montanari locali. Ciò non significa che non sia esperto, forte e allenato. Prendendo a modello i grandi alpinisti inglesi di fine Ottocento è però favorevole a questa prassi, non solo per evitare la fatica delle marce di avvicinamento ai rifugi con zaini giganteschi ma anche per dividere con le guide locali le soddisfazioni di tante prime salite con gli sci. In quell’età d’oro dello scialpinismo le Alpi permettevano ancora l’emozione di essere i primi a scoprire stupendi itinerari ed era bello farlo condividendo queste emozioni con i montanari locali.
Nello scialpinismo di Kurz sono assenti le donne. È pur vero che siamo agli albori dello scialpinismo, ma grandi scialpiniste erano già in attività sulle Alpi, da Nini Pietrasanta a Livia Bertolini Magni, da Ella Maillart a Paula Wiesinger. Kurz dedica pochissime righe al gentil sesso nelle sue pubblicazioni. Abbiamo trovato una sola citazione di sua moglie, a proposito dell’acquisto di un quadro di montagna del pittore Abrate, nello chalet di Saleina. C’è poi un unico riferimento al fascino femminile quando si trova fra le tante belle donne presenti a una festa danzante presso l’hotel Kronenhof di Pontresina, alla fine del circuito del Bernina. Qui Kurz, stanco ma felice, si rende conto che l’attrazione irresistibile, la «malìa», come la chiama lui, che esse esercitano è «tanto quanto ve n’era lassù nelle solitudini ghiacciate». Infine notiamo la metafora donna-montagna utilizzata a proposito del Blindenhorn in Val Bedretto, paragonato alla «più bella ragazza del mondo» che non si dà interamente: egli non serba infatti un buon ricordo di questa bellissima montagna a causa della neve troppo dura! A parte queste eccezioni, in generale per Kurz le donne non sembrano per nulla interferire con le sensazioni forti che gli vengono offerte dalla montagna e dallo scialpinismo. Occorre però tener presente la discrezione e il pudore nel parlare di sensazioni e di passioni diverse da quelle per la montagna, come se queste ultime non fossero in alcun caso influenzate da altre pulsioni.
Lo sciatore Marcel Kurz
Secondo Walter Amstutz, che scrisse il necrologio di Kurz per la rivista dell’Alpine Club, non era uno sciatore raffinato. Probabilmente si tratta di un giudizio oltremodo severo, in quanto Amstutz, nativo di Mürren e grande amico di Arnold Lunn, fu uno dei più talentuosi ed entusiasti sciatori della sua epoca, vincitore di moltissime gare nonché imprenditore di successo ed editore di Der Scneehase, l’annuario dello Schweizerischer Akademischer Ski Club da lui fondato. Per Kurz invece gli sci erano soprattutto un mezzo per raggiungere un obiettivo, per salire le montagne e non solo per scenderle. Questo non significa che non fosse un appassionato sciatore. Nei suoi scritti non mancano molti apprezzamenti alla ‘scivolata’. Ecco alcuni esempi tratti da Alpinismo invernale. La discesa dalla Rosablanche è stata effettuata in «dieci-quindici centimetri di polvere leggera nella quale i volteggi diventano un gioco inebriante». Dai 4.206 metri dell’Alphubel, «appena calzati gli sci, addio contemplazioni: ognuno s’abbandona al piacere della sciata. La neve favorisce tutte le audacie… .era un gioco eccitante e voluttuoso che finiva per inebriare». Il gioco continua al Basodino, con un gran finale «tra le ombre allungate del crepuscolo, … sulla neve scricchiolante e leggera, una fuga indiavolata, stordente…». Anche nella parte finale della discesa dal Grand Combin, mentre «il crepuscolo scendeva lentamente sulla montagna stendendo il suo velo uniforme, chiaroscuro… descrivemmo lunghe curve e questo movimento cadenzato ci inebriò deliziosamente». Il piacere della lentezza si ripete nella bellissima discesa sulla Cabane d’Orny dal Plateau du Trient dove, a differenza di Crettez che va «velocissimo, dritto verso il fondo del pendio», Kurz preferisce «le larghe serpentine così da protrarre il piacere il più lungamente possibile»: si tratta di un’affermazione importante, sulla quale i veloci scialpinisti del giorno d’oggi dovrebbero meditare… Infine c’è la discesa in neve brutta, che Kurz chiama cattiva, sulla quale «tutti i mezzi per discendere diventano buoni», sulla quale è «inutile fare dello stile come quando si vuol far colpo sulla platea di un Kurort». Quando la neve è cattiva meglio mettere «i bastoni tra le gambe» e andar giù diritti con l’intramontabile raspa. Con riferimento alla prima discesa in sci in pessima crosta dal Monte Leone, scrive: «io non dirò che la discesa sia stata deliziosa: sarebbe fare alla neve un complimento che non meritava». Malgrado grandi sforzi, non siamo riusciti a trovare una foto di Marcel Kurz in discesa con gli sci. Gli unici scatti in cui appare con gli sci sono quelli pubblicati in questo articolo: statiche, più o meno nella stessa posizione e con il medesimo abbigliamento, seppur in luoghi diversi.
L’inverno alpino
Secondo Luciano Ratto, curatore dell’ultima edizione di Alpinismo Invernale (Vivalda Editori, 1993), il capitolo più bello, più poetico del libro è il terzo, intitolato L’inverno alpino. Ha perfettamente ragione. In esso si trovano alcune pagine da antologia e alcune verità che tutti coloro che amano o si interessano di sci, compresi gli strateghi e gli operatori del moderno turismo invernale di massa, dovrebbero conoscere. L’inverno alpino, dice Kurz, è molto più lungo di quello del calendario. Esso conta tre fasi principali: una «di innevamento preliminare» spesso insufficiente; una centrale caratterizzata da periodi di «massima secchezza», da neve polverosa che viene lavorata e portata via dal vento; una terza e ultima fase con «un innevamento definitivo» che «precede immediatamente la prima estate alpina». Durante tutto l’inverno di calendario, cioè le prime due fasi, secondo Kurz «le alte Alpi (oltre i 2.500 metri, ndr.) non offrono nulla di molto seducente per lo sciatore propriamente detto, il quale farà meglio a evitare queste alte regioni fino a marzo». È invece la terza fase quella di gran lunga più adatta allo sci ed essa coincide con la primavera. La neve si consolida per effetto dell’azione del sole e del gelo notturno, diventando più facile e sicura, la superficie nevosa diventa un potente riflettore che, anziché assorbire il calore solare, lo respinge nell’aria, rendendo più gradevole la sciata. È quindi la primavera la grande stagione dello sci. Anche Arnold Lunn è d’accordo su questo: «mai le Alpi sono più meravigliose che in maggio, quando la loro bellezza è fatta di contrasti… non vi è vagabondaggio in sci paragonabile a quello di primavera sui ghiacciai». Kurz riporta nel suo volume questi pensieri dell’amico inglese, oltre al suo racconto di una traversata dell’Oberland Bernese, un massiccio che stranamente Kurz non visitò.
Un’eredità importante
Kurz descrive uno scialpinismo ricco di emozioni che sono in gran parte dimenticate ma non per questo superate. La scoperta della lentezza, della bellezza dei «campi di neve che giammai sciatore abbia sognato», le «partenze senza sveglia», l’atmosfera dolce del rifugio, le soste «deliziose» durante le gite, «l’apoteosi dello sci di primavera», il piacere di «crogiolarsi al sole» sulla neve e quello di «potersi attardare sulle vette, osservando le ombre della sera”, le sensazioni di libertà e di nostalgia che irrompono prepotenti quando meno ce l’aspettiamo, i piaceri dello sci di traversata, l’ottimismo dei «cuori gonfi di speranza». L’eredità importante che ci ha lasciato non è però solo questa. Il suo è uno scialpinismo basato su alcuni principi fondamentali anch’essi troppo spesso dimenticati dalla visione moderna che si possono riassumere in tre parole: riconoscenza, elasticità, ricerca.
Riconoscenza
Scrive nel capitolo Prime esperienze: «Io, allora, avevo diciannove anni. Mio padre mi aveva iniziato ai segreti della montagna e, a poco a poco, la passione ingigantiva dentro di me». Tre anni dopo, un Kurz in piena forma durante la traversata del Bernina, aggiunge: «Quanta riconoscenza noi dobbiamo a coloro che ci hanno fatto conoscere le montagne e le loro meraviglie». Il valore dimenticato della riconoscenza permea tutta la sua vita e dà spessore al suo scialpinismo.
Elasticità
Un altro messaggio importante che un Kurz maturo ci propone, prendendo lo spunto dalla salita non programmata alla Dent d’Hérens insieme a Crettez a fine gennaio 1920, è quello relativo all’elasticità dei programmi. Ecco cosa scrive: «Nella notte avevo cambiato i miei piani. Più corro attraverso le montagne, più constato che bisogna sapere adattarli alle circostanze del momento… una volta sul posto, bisogna essere molto elastici e non attaccarsi ciecamente alla prima idea». Se ne deduce che la vera avventura non è quella minuziosamente programmata, frutto di prenotazioni di mezzi di trasporto, rifugi e servizi vari, ma quella che, secondo esploratori del calibro di Eric Shipton e Bill Tillman, si può sintetizzare sul retro di un qualsiasi pezzo di carta».
Ricerca
Kurz ci invita a non ripeterci, a ricercare sempre nuove mete. «Lo confesso – scrive parlando delle gite effettuate fra il Sempione e il Gottardo nel gennaio 1911 – i miei sci hanno una tendenza spiccata a lasciare le tracce note; essi paiono calamitati: l’ignoto li attira ed essi si volgono volentieri verso luoghi nuovi». Per questo considera importante «estendere l’esplorazione invernale delle Alpi fino alla loro estremità… tracciare una haute route invernale, che si sviluppi lungo la cresta più alta delle Alpi, da Grenoble a Innsbruck, e verrà il giorno senza dubbio in cui qualche entusiasta percorrerà le Alpi from end to end, come ha fatto Sir Martin Conway». Ci penserà, non molti anni dopo, nel 1933, uno solitario sciatore vagabondo chiamato Leon Zwingelstein…
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SUL NUMERO 112 DI SKIALPER, INFO QUI