Sono nato ai piedi delle Alpi e all’età di quattro anni mi sono stati regalati i miei primi sci. Le nevi di Bardonecchia e di Sestriere sono state la mia prima scuola sinché, verso i 12 anni, non ho sentito il richiamo delle nevi non tracciate. Mio padre, che pure mi aveva iniziato a ogni forma di frequentazione della montagna, non era uno sciatore. Comprendeva tuttavia che non mi sarei accontentato di andare a sciare sugli impianti, per cui mi iscrisse a un corso di scialpinismo del CAI UGET. I primi anni furono terribili, lo scialpinismo mi sembrava una disciplina veramente disumana. Non ero allenato e, sciisticamente parlando, avevo una tecnica assai approssimativa. A ogni gita mi sembrava di andare in guerra ma, gradatamente, le mie gambe divennero più resistenti e imparai, come si faceva un tempo, a cavarmela in ogni situazione. Dopo la morte di mio padre lasciai il CAI e mi unii a un altro gruppo di amici che mi iniziarono a uno scialpinismo più ambizioso. Negli anni precedenti alla mia conversione all’arrampicata, parlo quindi della fine degli anni ‘70, divenni uno scialpinista maniacale. Mettevo gli sci a novembre per toglierli a fine giugno. Cominciai a fare qualche discesa di sci ripido e iniziai anche ad andare da solo, la montagna solitaria è sempre stata una mia grande vocazione. Anche quando ho iniziato ad arrampicare, da appassionato scialpinista – potrei anche dire ex – non ho mai rinunciato alle mie quattro/cinque gite l’anno. In buona parte da solo, o con la mia fidanzata conosciuta in Sardegna, che avevo naturalmente iniziato subito allo scialpinismo, come fosse ovvio che questa attitudine dovesse far parte della sua dote. Ma quando mi trasferii definitivamente sull’isola, la rinuncia alla neve fu dura da digerire.

Mi accorsi presto che nel centro dell’isola c’era un mottarozzo che rispondeva al nome di Gennargentu. La mia attitudine per la geografia, e in particolare l’altimetria delle montagne, mi permise di ricordare subito, senza andare a rispolverare il sussidiario, che si trattava di una montagna alta 1.834 metri. In quegli anni, era il 1986, in inverno nevicava ancora abbondantemente e avevo notato che i versanti settentrionali che davano verso Fonni rimanevano a lungo innevati. La cosa più ovvia fu quindi tentare una salita in scialpinismo da questo lato. Una strada si avvicinava alla vetta del Bruncu Spina e permetteva di arrivare a circa 1.400 metri, quota che avrebbe garantito un minimo di fondo. A questo punto occorre fare una premessa: mentre sulle Alpi si cerca di combinare una salita nei giorni seguenti la nevicata, a queste latitudini, forse per paura che la neve si sciolga prima di averla toccata, si parte durante la nevicata stessa. Questo costringe già a tragicomici avvicinamenti in auto, su strade ovviamente non spazzate (in Sardegna si mormora di un fantomatico maialetto delle nevi che ripulisce le strade dopo la nevicata, ma noi non lo abbiamo mai visto!). Dunque, tornando alla prima volta, riuscii a coinvolgere la mia fidanzata, sì e no tre gite all’attivo, e niente meno che il primo alpinista sardo, che non so quante volte avesse messo gli sci, ma comunque li possedeva.

© Maurizio Oviglia

Si aggregò inoltre la fidanzata di lui, che gli sci li aveva comprati per l’occasione. L’improbabile doppia coppia si avviò quindi sui pendii spazzati dalla tormenta su un terreno che invero assomigliava più a un falsopiano. Dopo circa un’ora e mezza eravamo già in vetta. A stento nella bufera riuscimmo a levare le pelli e nella nebbia cominciammo a scendere lungo il versante settentrionale del Bruncu Spina, che ci sembrava l’unico che potesse garantire un minimo scivolamento sui venti centimetri di neve che avevamo a disposizione. L’alpinista sardo mi seguiva impavido mentre le due donne cercavano di scendere limitando i danni: sicuramente si stavano divertendo moltissimo e a casa avremmo fatto i conti… A un certo punto una delle due perse uno sci che mi passò a fianco come un missile. A quel tempo si usavano ancora i laccetti, ma probabilmente si era dimenticata di chiuderli. Fatto sta che da quel momento iniziò un calvario. Tornammo in primavera a cercare lo sci disperso, ma non fu mai ritrovato. Alcune leggende narrano che sia sotto sequestro in qualche ovile della zona, appeso come trofeo proprio sopra il caminetto. Gli anni seguenti ritornai varie volte da solo (non volevo più far ulteriori danni a terzi), provando a salire da vari versanti sulla stessa cima. Ricordo una salita al Bruncu Spina da Nord dove, prima di raggiungere un pendio degno di questo nome, dovetti combattere per un’ora su un sentiero a ostacoli costituiti da filo spinato e muretti a secco. Alla base del pendio mi misi la cuffia, attaccai l’iPod con un pezzo di potente jazz rock, e mi sparai i 500 metri per cui ero venuto, tutti d’un fiato. Mi ero finalmente sfogato, ma sulla discesa meglio calare un pietoso velo. Gli anni seguenti provai dal versante opposto, Desulo.

Sulla cartina una strada penetrava nella valle sotto Punta La Marmora e provai a farla in auto. A quei tempi possedevo una Tipo, che quel giorno quasi scomparve, inghiottita in un mare di fango. Non ero sicuro di riuscire a ritornare, ma mi incamminai lo stesso. La neve sembrava essersi sciolta tutta nelle due ore precedenti e camminavo con gli sci in spalla in direzione dell’unico pendio innevato. Ricordo però un ambiente solitario di grande bellezza con branchi di mufloni che mi passavano a fianco, rapaci che volteggiavano nel cielo. Verso le 11 ero all’attacco del pendio di Su Sciusciu, che in sardo vuol dire la pietraia. I 20 centimetri di neve rimasti erano ormai una pappa bianca e la discesa fu un disastro. Buttai gli sci, ma miracolosamente riuscii a riguadagnare la strada asfaltata, sciando con la Tipo nel fango. L’ultima volta non fu migliore. Ma fu davvero l’ultima, chi vi sta narrando ormai ha smesso e può accontentarsi di ammirare da lontano il Gennargentu imbiancato di neve. Non rimaneva che provare dal versante di Correboi, che ancora non conoscevo. La neve era poca, come al solito e al contrario da quanto dichiarato dall’Unione Sarda, e raggiunsi una curva della strada che più si avvicinava alla cresta Est del Bruncu Spina. Mi cambiai di nascosto (non avrei mai potuto entrare in un bar della Sardegna vestito da sci) e incominciai a camminare nel bosco fittissimo e intricato. Avevo sottovalutato la distanza e anche la pendenza, insomma era l’ennesima gita completamente insciabile che mi ero regalato. Raggiunta la cresta, a 1.500 metri, ne avevo abbastanza. Ci saranno stati 5 centimetri di neve e avevo oltrepassato 45 muretti di pietre con filo spinato; non ci crederete ma li avevo contati. In discesa mi si ruppe il vecchio scarpone come fosse un uovo di cioccolato (del resto l’attrezzatura buona l’avevo lasciata a Torino) e cercai di scendere alla meglio nella macchia mediterranea, mirando alla macchina. A un certo punto un cinghiale mi si parò davanti agli sci. Rimasi un attimo interdetto, ero sempre armato di bastoncini, avrei reso cara la pelle. Per fortuna con uno scatto si infilò nel bosco: provai a inseguirlo, a quel punto speravo in un ingresso in paese da eroe. Ma sapeva sciare meglio di me e lo persi…

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© Maurizio Oviglia