In questi giorni in cui siamo costretti a casa abbiamo pensato di proporvi qualche articolo sui viaggi più belli pubblicati da Skialper. Per tornare presto in questi incredibili luoghi. 

Fiona, si chiama. Volevamo darle il nome di una donna grande. Fiona è una Ford F250 4×4 del 1996 con in groppa uno slide in camper degli anni Ottanta. Abbiamo percorso più di 20.000 chilometri attraversando la foresta boreale e le montagne di British Columbia, Alberta e Alaska. In inverno. Fiona è stata la nostra casa per otto mesi. Io ed Hector ci eravamo appena innamorati. Non avevamo vissuto da nessun’altra parte insieme, eravamo quasi due sconosciuti. Lui era in Cile e io in Italia. Lui Guida alpina e io fotografa. Devo andare in Canada. Vengo con te! Se dopo otto mesi in un camper fossimo ancora andati d’accordo, ci saremmo pure potuti sposare un giorno.

Stavo vivendo nello stesso posto da qualche mese, volevo fotografare storie nuove, e mi stavo noiosamente abituando ad avere l’acqua corrente. Era tempo di tornare sulla strada e ripartire. Non sciavo da quindici anni. Non sapevo niente del mondo dello sci. Non avevo attrezzatura. Un tizio mi ha derubata in un fast food il settimo giorno di viaggio. Non avevo più le mie macchine fotografiche. Mettersi davanti a sfide e ostacoli e cercare di superarli è la storia della mia vita. Non sono un’alpinista e non ero nemmeno una sciatrice, ma credo che quello che spinga tutti noi sia fatto della stessa materia. Darwin diceva che se gli animali fossero continuamente appagati non avrebbero più una motivazione per compiere azioni di sopravvivenza. Nemmeno gli animali vivono senza desiderio. Il desiderio che mi ha spinto a vivere in un camper in inverno è lo stesso di chi dopo vent’anni di esperienza in montagna si pone un obiettivo e attacca una foto alla parete, poi non sa come andrà. Pensavo che riuscire a mettersi gli sci ai piedi per raggiungere le cime delle montagne camminando fosse qualcosa che vale la pena imparare. Fiona non era altro che un vecchio camper senza vita, parcheggiato nel cortile di un capannone a Vancouver. Una volta deve essere stata usata per la caccia al caribù. Non aveva muffa o perdite ed era di fibra di vetro, ma il riscaldamento non funzionava e l’interno era spoglio e triste. Mi ricordo il giorno in cui l’abbiamo vista e siamo entrati. Mi sono seduta sul letto e ho provato a immaginare quello che sarebbe successo. Una casa, la neve fuori dai finestrini, la condensa sui vetri, gli sci appesi alla parete e l’odore del caffè la mattina prima di andare in montagna. Aprire la porta ogni giorno ed essere in un posto diverso, ma dentro essere sempre noi. Una scatola magica. Ho guardato Hector e ho detto: credo sia lei.

Era ottobre ed eravamo pronti per partire. Alaska in aprile, l’unica cosa certa, e prima di allora, ovunque lungo la Powder Highway, l’autostrada della polvere della British Columbia, senza un vero e proprio piano. Ricordo la prima notte a Vancouver, in una baia, pensavamo sarebbe stato romantico passarla vicino al mare. La mattina mi sono rannicchiata tra i cespugli dei condomini, nascondendomi per pisciare lontano dalla gente che andava a fare una corsetta. Sarebbe stato più semplice vivere lontano dalla città, dove nessuno ti può vedere. La cosa bella di avere una casa con le ruote è che ci si può fermare ovunque, parcheggiare e passare la notte. Le possibilità sono infinite in primavera o in autunno. Poi è arrivato il freddo. A novembre abbiamo iniziato a dormire nei sacchi a pelo da spedizione con il cappello di lana. I nostri respiri diventavano nuvole e il termometro segnava già parecchi gradi sottozero. Alcune sere ci siamo scaldati con il forno a gas propano, e abbiamo scoperto che anche molte candele accese possono far salire la temperatura di un grado o due. Abbracciavamo le nostre Nalgene bollenti. Senza saperlo stavo imparando il winter camping e tecniche di alpinismo invernale. Era come dormire in tenda, fuori fanno -15 °C e dentro -12 °C. Ci siamo accorti della necessità di una stufa a legna. Ne abbiamo trovata una piccola, in realtà fatta per le barche, ma un camper è simile a una barca e ha talmente tanti spifferi da far circolare abbastanza ossigeno da tenerci vivi la notte. Tagliare la legna è diventato un rituale, fatto a turni. Una stufa piccola ha bisogno di pezzetti di legna piccoli, che non la tengono accesa nelle ore in cui dormi. Quando è mattina presto e devi uscire dal letto tutto è congelato. Avevamo un’accetta e una sega. Con i giorni che passavano diventavamo coscienti di quanta energia serva per sopravvivere. Quanta acqua, quanta legna, quanta elettricità.

© Elena Adorni

Le poche luci del camper erano collegate a una batteria che si caricava guidando la macchina. Ci svegliavamo assetati e tutta l’acqua era diventata un blocco di ghiaccio. Avevamo un contenitore da 20 litri, arancione, da riempire ogni due giorni, spesso nei distributori di benzina, nei bagni pubblici. All’inizio cercavamo di non dare troppo nell’occhio. Soprattutto a Whistler, il centro commerciale dello sci. A Revelstoke ci sentivamo come tutti gli altri. Fare i piatti e lavarsi alla hot tub dei bagni pubblici era diventato normale. Lavare i piatti dentro il camper, invece, era chiamato il momento della terapia di coppia. Si faceva bollire un po’ di acqua per versarla poi lentamente sui piatti e infine dentro a una bacinella. Uno versa, l’altro lava. Tre volte, come si fa nei rifugi canadesi. L’essere umano si adatta davvero a tutto.

Nei parcheggi innevati abbiamo incontrato molte altre persone che vivevano come noi. Dopo un mese nello stesso posto, impari a conoscere i tuoi vicini di casa. Spesso ci siamo sentiti fortunati, la nostra scatola magica ci sembrava un hotel a cinque stelle in confronto a quello che vedevamo. Alcuni dormivano in auto, riscaldandosi i piedi e asciugando i calzini con l’aria calda. Una ragazza dormiva da sola con il cane in una vecchia auto, sulla portiera una scritta a pennarello: el condor libre. Un ragazzino dell’Alaska una notte ci ha aiutati a uscire dai guai, quando la Fiona era finita in un buco. Non voleva aprirci la porta, pensava fossimo della polizia. La mattina alle sette bussano alle porte di tutti i camper e i van dei parcheggi. Se sanno che ci sei, la multa è di cento dollari. A volte bussavano così forte che pensavamo che avrebbero rotto la porta. Noi ci abbracciavamo sotto le coperte e non facevamo rumore. Trattenevamo il respiro, aspettavamo che i poliziotti se ne andassero, e ci alzavamo, mettendoci le calzamaglia sotto il piumino. Anche quello è diventato abitudine. Solo a Whistler, un paese a 125 chilometri da Vancouver dove l’industria dello sci sopravvive grazie alla passione dei ragazzini appena usciti da scuola, australiani ed europei, che accettano condizioni lavorative discutibili per poter sciare ogni giorno, eravamo fuorilegge. Natale stava arrivando e io ancora non avevo gli sci. Ho passato molto tempo sola nella Fiona. Mi piaceva guidarla verso posti sconosciuti, senza mappe, seguire una strada, un animale, il mio istinto. Mi sono messa in situazioni pericolose. Non avevo nient’altro. Sono sempre stata bene sola, ho imparato ad amare la solitudine e il silenzio ancora di più. Ma guardavo le montagne, a volte seduta sul tetto, congelandomi il sedere, e sentivo che mancava qualcosa. Sono riuscita a rimediare un paio di sci di seconda mano e un paio di scarponi da alpinismo per trenta dollari. Non sapevo che mesi dopo mi avrebbero distrutto i piedi e fatto talmente male da non riuscire a sfilarli.

Avevo pochissimi giorni nelle piste per imparare quello che forse il mio corpo si era dimenticato. Ho iniziato il primo giorno dell’anno, la mattina presto. Un giorno di sole e di neve buona, perfetto. Hector mi ha guardata, indossavo la sua giacca a vento di riserva di due taglie più grandi, gli sci usati in spalla, una mascherina di terza mano pagata cinque dollari e senza casco. Sembri quasi una seria. Scoppiamo a ridere. Appesa sulla seggiovia, con il freddo sulla faccia, mi prende una gioia violenta. Inizio a guardare le figure piccole scendere dalle piste e penso che l’essere umano è proprio strano a mettersi degli stecchini di legno sotto i piedi e a scendere da una montagna a tutta velocità. Ok, ora a spazzaneve arriviamo fino a quella collinetta lì, poi ci fermiamo. Parto, vado subito in parallelo, non mi fermo alla collinetta, inizio a fare qualche curva, il mio corpo si ricorda tutto. Inizio a scendere e, continuando a ridere per il senso di euforia provocato dalla velocità, non mi riesco a spiegare perché avessi smesso per tutto quel tempo. Il secondo giorno eravamo su una doppia nera. Il terzo a fare un fuori pista in mezzo agli alberi.

Il quinto scendevo da una parete così ripida che a ogni curva buttavo fuori la paura urlando. Spingevo fin dove potevo, rimanendo in confini sicuri. La parola steep stava entrando a far parte del mio vocabolario. Prima di quel giorno ciò che conoscevo del mondo dello sci l’avevo imparato fuori dalle piste, camminando per le strade e parlando con le persone nei bar. Ho iniziato a capire che lo sci è una grande industria che può cambiare la conformazione socioeconomica dei luoghi e anche che gli sciatori bevono moltissimo, molto più degli arrampicatori. A Revelstoke, un paese di ferrovieri e immigrati cinesi ed italiani, si scia dal 1890. Oggi è il posto più importante della British Columbia per l’heliski e il fuoripista. È anche la base operativa della Canadian Avalanche Association ed Avalanche Canada. Tutto grazie a Rogers Pass, il passo di montagna più importante per l’economia della British Columbia, dove si muovono tir e treni giorno e notte, trasportando merci dal porto di Vancouver verso l’interno. Rogers Pass deve rimanere aperto a tutti i costi e il governo investe milioni di dollari in controllo valanghe ed esplosivi. A Revelstoke gli affitti e il costo della vita sono altissimi, gli abitanti di classe medio bassa fanno fatica, ma gli sciatori fanno di tutto per rimanere, a volte scambiando lavoro gratis per un ticket giornaliero al resort. Golden invece, tra le Selkirks e Purcell Mountains, è molto più sotto copertura. La chiamano East Revelstoke. Circondata da cinque parchi nazionali, i pochi sciatori stranieri vivono insieme a chi lavora nell’industria del taglio e trasporto di legname. Chi ci abita è lì da generazioni, pionieri e amanti delle montagne che difendono il territorio.

© Elena Adorni

A inizio marzo sono riuscita a rimediare un paio di attacchi da alpinismo. Ho imparato a usare ARTVA, pala e sonda e siamo partiti per la prima gita, a Rogers Pass. Non dovevo più guidare per miglia, senza una meta, su strade pericolose. Non guardavo più i paesaggi e le montagne dal finestrino del camper o dalla strada. Ci entravo. In profondità. Pochi giorni dopo le temperature hanno cominciato a salire e la neve ha iniziato a sciogliersi. Il rischio valanghe è diventato elevatissimo. Ci siamo fermati qualche giorno in una falesia per un po’ di arrampicata su roccia. Camminando ci sorprendevamo nel vedere il terreno sotto i piedi, nel sentirne gli odori. Ci sembrava un lusso poter raccogliere rami secchi dagli alberi per il fuoco, senza dover comprare la legna. In quegli stessi giorni, gli allarmi valanghe sono diventati quotidiani, molte strade e passi chiudevano e grandi valanghe hanno compromesso a lungo termine lo scialpinismo in alcune zone. Per Hector era una tragedia e voleva fuggire a Nord. Io ero contenta dell’arrivo della primavera anticipata, poi ne ho capito l’anomalia. Siamo partiti per l’Alaska. Alla fine di marzo.

In una settimana abbiamo guidato da Jasper a Valdez, percorrendo la strada più lunga, quella che attraversa lo Yukon. Durante quei 2.954 chilometri ci siamo lavati in un fiume che veniva dal ghiacciaio del Mount Robson. Un rito per lasciare in Canada quello che apparteneva al Canada e arrivare con energie pulite alla frontiera. Abbiamo salvato un’aquila investita da un camion, abbiamo camminato su un lago ghiacciato e visto il nostro primo caribù. Un topo ci ha fatto visita una notte, ma poi se ne è andato, da solo, quando abbiamo caricato l’aquila con un’ala rotta dentro la cassetta della legna, avvolta in una coperta. L’aquila è il simbolo delle terre del Nord. Siamo riusciti a guardarla dritta nei suoi occhi e ad accarezzarla. Per le popolazioni native è un uccello sacro, è quello che vola più in alto. Sulla strada, ci sono molti paesi fantasma, con un solo abitante e due o tre cani e un distributore di benzina. Qualche casa abbandonata, forse vecchi insediamenti nativi, poi il nulla. Nessuna traccia dell’essere umano per 300 chilometri o più. La natura selvaggia e qualche renna o capra. Siamo arrivati a Valdez il 2 aprile, parcheggiando davanti al lodge Rendezvous. La sera ci sarebbe stata una grande festa intorno a un falò per ricordare le vittime in montagna e il cane da alpinismo più figo al mondo che contava molte delle prime discese di Valdez e che viveva al lodge. Per me, un rito di passaggio. Da outsider sono diventata insider. Solo che non lo sapevo ancora. Ero un po’ stordita dalle birre e dallo shock sociale dopo aver passato una settimana guidando otto ore al giorno nei posti più selvaggi del mondo senza vedere nessuno. Ho chiacchierato con una ragazza di nome Anne, una guida della Nuova Zelanda. Quando le ho detto che cosa facevo mi ha risposto: Meno male, non ne potevo più di parlare di sci. Parliamo di arte?.

Quella comunità stava diventando la mia comunità. Hector a Valdez ci era già stato. Mi ha sempre raccontato di come abbia cambiato il suo modo di leggere le montagne. Quando pensava di fare una prima discesa, stava in realtà sciando una delle grandi classiche. Finalmente capivo di cosa stesse parlando. Solo passando sulla strada attraverso Thompson Pass si percepiscono la vastità e la verticalità del terreno, con pendii di oltre 55 gradi. Siamo arrivati in piena primavera, aveva appena smesso di nevicare. C’era molto sole e il bianco era accecante. Non sei mai da solo. I parcheggi sono pieni di camper e di tende. C’è sempre un elicottero che vola. Gli sledders, quelli in motoslitta, sono dappertutto. Si sente prima il ronzio fastidioso del motore che si avvicina e poi la puzza di benzina ti arriva alle narici. Non sciano nemmeno, stanno sulla motoslitta, rovinano la neve con qualche acrobazia idiota e se ne vanno. Una volta erano addirittura sopra di noi, rischiando di far staccare una valanga o più di una. Abbiamo urlato molte volte ma non ci hanno sentiti. Nei primi giorni la neve non era per niente buona. Abbiamo chiesto informazioni sulle condizioni al bar. Aveva piovuto fino a 1000 metri, poi in alto si trovava roba buona. Le montagne mi intimorivano, ero nervosa. Persone che sciano per una vita intera sognano di venire in questo posto, e magari non ci riescono. Io ero lì, dopo qualche giorno sulle piste e uno fuori. Mi sentivo una privilegiata senza essermelo meritato. Era da pazzi. Il livello di stress era alto per entrambi. Hector non sapeva se fosse stata una buona idea portarmi lì. Forse sarei dovuta andare a lavorare in quella fattoria. Ma quando condividi una casa con le ruote, non è sempre facile prendere decisioni individuali. È come andare al lavoro fuori città portandoti dietro la cucina e il letto che condividi con un’altra persona nel bagagliaio della macchina.

A Valdez è meglio non cadere, soprattutto con quelle condizioni. Ma volevo salire. Volevo essere lì anche se era pericoloso. Non volevo più guardare i paesaggi dal finestrino. Non mi piaceva nemmeno essere un peso per il gruppo, essere debole o goffa. Le mie esperienze sportive erano di corsa competitiva su lunghe distanze, trail e strada. Arrivata a un buon livello avevo lasciato perché non sopportavo più le pressioni della performance e i chilometri ogni giorno in solitudine. Lo sci era diverso dalla corsa, meno solitario. Con la stessa estasi di discesa dopo chilometri in salita e migliaia di metri di dislivello, ma senza competizione. Come succede spesso nella vita, le soluzioni arrivano da sole. Stavamo sciando con un gruppo di aspiranti Guide americane in preparazione agli esami. C’era un’altra donna, Erin, una ragazza del Colorado. Mi era simpatica, mentre salivamo con le pelli metteva musica country dal telefonino. Forse aveva capito tutto senza conoscermi. Vieni con noi, è solo un po’ di esercizio. Quel primo giorno le condizioni erano difficili. Tre di noi hanno provato a salire su per un canalone ma sono scesi quasi subito perché avevano persone sopra. Non ero mai stata in montagna con una donna. Le energie cambiano. C’è meno pressione. Siamo diventate amiche, ci siamo sostenute. Lo stress è sceso rapidamente. Siamo riusciti a trovare della buona neve nelle ore più calde della giornata. Morbida, con un pochino di crosta. Siamo scesi sorridendo a ogni curva. Tornati alla macchina abbiamo tirato un sospiro di sollievo, il rischio valanghe era stato molto elevato per tutta la giornata e sapevo che mi stavano tenendo d’occhio. Poi è arrivata la tempesta. Abbiamo lasciato Valdez per andare verso l’interno e siamo tornati dopo una settimana per sciare con il team di Livigno: Gerry, Sam e Lele. Ci siamo trovati una sera nel loro camper a noleggio, parlando delle discese ancora da fare, mangiando pasta al sugo. Girls, Diamond, Phyton, Berlin Wall, Meteorite, Books, Pyramid, RFS (Really Fucking Steep), Iguana Backs, Crudbusters.

I nomi delle classiche di Valdez come nomi di punk bands. Ne ho scese alcune. Altre volte non me la sentivo, ma non me la prendevo con me stessa. Lasciavo che i ragazzi andassero su e si divertissero senza dover preoccuparsi di me. Li aspettavo sotto il couloir facendo un picnic nella neve e fotografando, poi scendevamo insieme. La fortuna di sciare in Alaska in primavera è avere giornate interminabili, con la luce che se ne va alle dieci di sera. Si può iniziare tardi e finire tardi. O iniziare presto e finire tardi. Ci alzavamo, camminavamo su, sciavamo giù, tornavamo ai camper e programmavamo la discesa del giorno dopo, davanti a un fuoco o per terra, con una birra sotto il sole. Ho sciato in cinquanta centimetri di polvere, ho imparato a fare inversioni su terreno molto ripido. Sono caduta molte volte. Di faccia. Ho mangiato la neve. Ho fatto schifo, ho sciato bene. Ho avuto così paura da non riuscire a scendere, bloccandomi immobile su una cresta. Ho provato così male da urlare e piangere, cercando di non farmi vedere, rimanendo indietro. Ho giurato a me stessa che mi sarei fermata e non avrei mai più proseguito e poi non l’ho mai fatto. Ho giurato a me stessa che non avrei più sciato, e non l’ho mai fatto. È la natura dei salti nel vuoto. Partiamo con grandi idee, il cuore pieno, poi tutto diventa difficile. Lo sci, le relazioni, il freddo, dormire nei parcheggi. Tutto sembra essere difficile, preghiamo che finisca e dopo un milione di fallimenti ci ritroviamo. Ci guardiamo indietro, capiamo che non ci manca niente. Poi guardiamo avanti e ricominciamo un’altra volta.

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© Elena Adorni