C’è una gara che in 34 anni ha visto solo 18 volte un finisher (e mai nessuna donna) su oltre mille iscritti. La più difficile ultra al mondo è qualcosa di completamente fuori dagli schemi. E proprio per questo piace, per quanto sadico possa apparire il pensiero. Tra le colline insulse del Tennessee, nel cuore degli States più profondi, solo in 40 sono ammessi a correre ogni anno, ma le richieste sono molte di più. Già iscriversi è una prova a ostacoli: bisogna mandare un’email a un indirizzo che solo chi ha già fatto la gara può sapere e in un determinato giorno dell’anno. Un segreto che, come nelle più antiche confraternite, viene rivelato con molta parsimonia dai confratelli. Se la propria richiesta viene accettata bisogna pagare un dollaro e sessanta centesimi e si riceve un messaggio che suona più come una condoglianza: purtroppo sei stato ammesso ala Barkley Marathons. Non c’è nulla di particolarmente difficile nel percorso, non un versante nord, non l’alta quota, eppure le statistiche dicono che quella del Tennessee è la peggiore ultra al mondo. «A casa mia i bambini non li lasciavano vincere, se vincevano era perché la vittoria se l’erano meritata». È in questa frase di Lazarus Lake, l’ideatore, il perché filosofico, il comandamento più importante della Barkley Marathons. La ragione storica è diversa. Quando James Earl Ray evase dal vicino carcere di Brushy Mountain e rimase intrappolato in quel dedalo di cespugli e fitta vegetazione, Lazarus Lake disse che lui inello stesso tempo avrebbe percorso cento miglia sulle montagne che conosceva come le sue tasche. «La vera attrazione è che ogni anno arrivano diversi atleti forti e che quasi nessuno la finisce» ha detto Blake Wood, uno dei finisher.
Ne parliamo, con un ampio reportage di 14 pagine e le spettacolari foto di Alexis Berg su Skialper 125 di agosto-settembre.