Great Himalaya Trail, 24 giorni che ti cambiano la vita
In questi giorni in cui abbiamo tutti un po' voglia di evadere e andare lontano riproponiamo l'articolo sul Great Himalaya Trail e l'impresa del runner sudafricano Ryan Sandes. Per non smettere mai di sognare
Dopo ventiquattro giorni, quattro ore e ventiquattro minuti oppure 1.504 chilometri o ancora 70.000 metri di dislivello positivo su e giù per i sentieri dell’Himalaya con i tuoi piedi impari due lezioni che ti aiuteranno a trovare la strada giusta per il resto della vita. «Dobbiamo apprezzare le cose semplici, ci affanniamo per avere sempre di più e non ci godiamo la nostra famiglia e quello che abbiamo: se sei felice potrai inseguire i tuoi sogni, però se vivi per inseguire i tuoi sogni ma sei infelice, non li realizzerai mai». La prima lezione sembra (ed è) un insegnamento buddista. «Sono stato in villaggi minuscoli, lontani da tutto e da tutti, con tanta povertà, eppure sono felici e ti aprono la porta alle undici di notte, nel buio immenso, ti preparano da mangiare e ti fanno dormire senza chiederti chi sei, mentre noi abbiamo perso il giusto punto di vista e per ritrovarlo non ci rimane altro che scappare dalla civiltà e dal bombardamento di informazioni e social media, camminare nella natura, correre per ritornare in noi stessi». I Beatles andarono in India per ritrovare la loro ispirazione. Il trail runner sudafricano Ryan Sandes, il primo uomo a vincere tutte e quattro le 4 Deserts race, l’uomo che ha vinto una gara ultra-trail in ognuno dei sette continenti, tra le quali anche la Leadville e la Western States, non è nuovo a imprese da record nella natura, eppure il lungo viaggio del Great Himalaya Trail, da un confine all’altro del Nepal, lo scorso marzo in compagnia dell’amico e compagno di tante avventure Ryno Griesel, lo ha fatto tornare a casa diverso. È un viaggio incredibile, dalle vette più alte del mondo alla giungla. Ma è anche un viaggio alla scoperta di se stessi. «È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita, in positivo. Penso che sia stata la tappa finale di un percorso, la cosa più grande che abbia mai fatto e sono molto soddisfatto, ma non la ripeterei».
Il Great Himalaya Trail non è un solo sentiero, ma la combinazione di vari itinerari sia nella parte montuosa del Nepal (GHT High Route) che in quella più popolata e ricoperta dalla giungla (GHT Cultural Route) e va da un confine all’altro del Paese, lungo la direttrice Ovest-Est. Per questo, sebbene Ryan e Ryno abbiano fatto segnare il FKT (fastest known time), non si può parlare di vero e proprio tempo record in quanto un crono di riferimento non esiste data la possibilità di alternative lungo il percorso e le varianti imposte dai tanti imprevisti. Quello seguito dai due sudafricani ripercorre fedelmente le orme del connazionale Andrew Porter dell’ottobre 2016 ma, per esempio, Lizzy Hawker, nel 2016, ha fatto segnare un tempo di riferimento lungo la parte in quota del GHT, tra le montagne. «Quello che volevamo non era un record a tutti i costi, ma un’avventura che unisse la bellezza delle vette più alte del mondo alla possibilità di conoscere la cultura e le città perché per me, che vengo da Città del Capo, trail running significa correre nella natura, ma non in montagna». Una lunga avventura… «Dopo la vittoria alla Western States 100 dello scorso anno cercavo proprio qualcosa del genere e l’Himalaya mi ha sempre attirato, però mi spaventava la lunghezza del percorso perché voglio anche continuare a partecipare alle gare ultra e devo avere il tempo di recuperare». Già, la lunghezza: muoversi a piedi per 24 giorni consecutivi, con una media di 16 ore di attività e poco tempo per dormire e ancora meno occasioni per farlo in un letto, è stato l’aspetto più duro del Great Himalaya Trail di Ryan. «Il ritmo era lento, più lento di quanto sono abituato, e anche questa è stata una sfida: ci sono stati giorni nei quali abbiamo camminato per 20 ore e altri per 12, notti passate nelle case dei nepalesi in villaggi isolati dal mondo e momenti nei quali ci fermavamo giusto una ventina di minuti ogni tanto per dormire sul sentiero o su qualche tavola di legno usata dai pastori, piuttosto che nei loro ripari di fortuna». Impossibile pensare di dormire all’addiaccio nella prima parte del percorso, in quota e in parte ancora innevata, più pratico farlo verso la fine, negli ultimi 300 chilometri, quando Ryan e Rino hanno camminato e corso nella giungla, con temperature che superavano i 30 gradi. Per trovare la motivazione in quei 25 lunghi giorni Ryan si è inventato degli obiettivi giornalieri, ragionando step by step, ma non è sempre stato facile.
L’altro aspetto che ha reso difficile il Great Himalaya Trail, soprattutto nella prima parte, è stato l’orientamento. Faceva freddo e il percorso era ancora in parte ricoperto dalla neve. «Ci siamo affidati al GPS, ma di tanto in tanto dovevamo fermarci dieci minuti per ritrovare la traccia; abbiamo calcolato che ogni giorni, in media, perdevamo fino a tre ore per orientarci e in una di queste pause Ryno si è procurato il congelamento di alcune dita della mano perché siamo saliti fino a 5.500 metri di quota con temperature di - 15 gradi e il vento che accentuava la sensazione di freddo».
Quella del cibo è stata la sfida nella sfida. Per scelta e per alleggerire gli zaini è stato deciso di fare tutto il Great Himalaya Trail procurandosi da mangiare lungo il percorso, come dei normali turisti: acquistandolo o facendosi ospitare dai locali. Solo in tre punti c’è stata la possibilità di cambiare gli zaini e i vestiti e nelle tasche trovava spazio qualche barretta, gel o lattina di Red Bull. «Alla fine il mio corpo mi diceva che non ne poteva più di quell’alimentazione e sono stato male un paio di giorni: i nostri pasti consistevano di frittata, riso e lenticchie quando avevamo la fortuna di essere ospiti, oppure di biscotti e cioccolato comprati alle bancarelle e non era proprio l’ideale durante una traversata di 1.500 chilometri».
La mattina del 19 marzo, a 40 chilometri da Patan, Griesel ha iniziato a soffrire di spasmi muscolari nella zona del torace ed è andato in iperventilazione. «Ho veramente temuto che da un momento all’altro cadesse a terra sul sentiero: aveva i battiti del cuore molto alti e la febbre» ricorda Ryan. Mai come in questo momento la fine dell’avventura è stata vicina. «Da una parte non avrei mai voluto che Ryno avesse dei problemi seri di salute, dall’altra so quanto ci teneva a portare a termine il Great Himalaya Trail e che il ritiro sarebbe stata la più brutta notizia per lui, è stato il momento più difficile per tutti». Ci sono mali fisici e mentali e i fantasmi hanno iniziato a popolare il cervello di Ryan. «Ho iniziato a pensare a mio figlio di 19 mesi e a come fosse cresciuto durante questi 24 lunghissimi giorni: quanto mi fossi perso!». Per non farsi mancare nulla, negli ultimi giorni Ryan si è anche imbattuto in una gang locale che, nella notte, li ha inseguiti tra le montagne, anche con le luci delle frontali spente, fino a quando i due non sono arrivati a una locale stazione della polizia. Questo ultimo contrattempo non ha impedito l’arrivo a Pashupatinagar, sul confine con l’India, alle prime luci dell’alba del 25 marzo.
Tre mesi dopo la grande avventura rimangono un centinaio di chilometri in più non preventivati, il messaggio di congratulazioni di Lizzy Hawker, tante energie, la velocità delle gambe ancora da recuperare. E la consapevolezza di avere vissuto 24 giorni che hanno cambiato le vite di Ryan e Ryno.
Il Great Himalaya Trail
Il Great Himalaya Trail (GHT) non è un vero e proprio sentiero ma una combinazione di itinerari. Quello seguito da Ryan Sandes e Ryno Griesel ha comportato la partenza da Hilsa, al confine con il Tibet, e l’arrivo a Pashupatingar, dove il Nepal confina con l’India, lungo la direttrice da Ovest a Est. Le stime prevedevano 1.400 chilometri e 70.000 metri di dislivello, ma alla fine la lunghezza totale è stata superiore di poco più di 100 chilometri. Questo percorso è quello seguito dal sudafricano Andrew Porter nell’ottobre 2006 e portato a termine in 28 giorni, 13 ore e 56 minuti. Ryan e Ryno si sono consultati a lungo con Andrew e sono passati da 12 precisi checkpoint che coincidevano con quelli di Porter. Cinque semplici regole hanno dato un senso all’impresa: autonomia nell’orientamento e nell’alimentazione, acquistando il cibo lungo il percorso o facendosi ospitare dai locali, nessun uso di sherpa e muli, pernottamenti all’aperto o nei lodge e nelle case per non appesantire lo zaino, utilizzo di una compagnia di trekking locale per cambiare gli zaini in tre occasioni e l’assistenza per i permessi. Il sito di riferimento per il Great Himalaya Trail, con tutte le informazioni utili per chi volesse percorrere anche solo una parte del GHT, è www.greathimalayatrail.com
I 12 checkpoint
- Hilsa
- Simikot - km 77
- Gamgadhi - km 150
- Jumla - km 193
- Juphal - km 280 o Dunai - km 290
- Chharka Bhot - km 380
- Kagbeni - km 444
- Thorang La Pass - km 463
- Larkya La Pass - km 561
- Jiri - km 928
- Tumlingtar - km 1.075
- Pashupatinagar - km 1.504
Gli altri record
- Sean Burch (UK): 2010 - 49 giorni, 6 ore, 8 minuti (2.000 km - da Est a Ovest, combinazione dell’High e del Cultural GHT).
- Lizzy Hawker (UK): 2016 - 42 giorni, 2017 - 35 giorni (circa 1.600 km - da Est a Ovest - prevalentemente sulla High GHT Route, evitando i tratti tecnici che richiedono passi di arrampicata).
I NUMERI
- 70 km la lunghezza minima delle tappe giornaliere
- 120 km la lunghezza massima percorsa al giorno
- 500 m il dislivello minimo giornaliero
- 000 m il dislivello massimo giornaliero
- 124 palle di riso mangiate
- 43 palle al curry
- 300 barrette di cioccolato
- 600 cookie
- 46 donuts
- 2 pizze
- 24 lattine di Red Bull
- 3 ore di sonno a notte in media
- 2 le volte che Ryan e Ryno hanno potuto lavarsi i denti
- 0 le docce fatte lungo il percorso
- 24 giorni, 4 ore, 24 minuti il tempo fatto registrare da Ryan Sandes e Ryno Griesel
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Fast is the new trendy
Visto che la nostra diretta quotidiana su Instagram sarà con Denis Trento, abbiamo pensato di riproporvi l'articolo pubblicato su Skialper 124 sulle sue imprese in velocità nel massiccio del Monte Bianco in compagnia di Robert Antonioli. Così arrivate preparati ;)
Per tutti coloro che hanno vissuto negli anni avanti Kilian, partire dal fondovalle per scalare una montagna suonerà più blasfemo ancora dell’additare il catalano come una sorta di profeta. Anche io, pur essendo da sempre nel mondo delle gare, in passato poche volte avevo osato provare un simile approccio, se non per salire su vie facili, con la sola ottica di fare un lungo. Con Manfred Reichegger, nei nostri anni da atleti, partendo dal punto più alto raggiungibile con mezzi a motore avevamo salito le normali di Bianco e Jorasses. Una decina di anni fa, quando, sempre insieme, abbiamo scalato l’Innominata al Bianco, solo il fatto di aver snobbato i bivacchi Eccles in favore di una buona cena al Monzino, per l’epoca era sembrata una mezza impresa. Oggi tutto è diverso. Sono cambiati i materiali, i metodi di allenamento, ma soprattutto a essere cambiata radicalmente è la mentalità. Il successo commerciale delle gare di trail ha sdoganato l’idea che, per chiunque, sia possibile percorrere distanze lunghissime, senza per forza doversi fermare a fare tappa nei rifugi.
I tempi sono maturati velocemente, mancava però ancora un illuminato che avesse la visione per portare tutto questo dai sentieri alle alte quote, passando però per vie con difficoltà non banali, e a questo ha provveduto Kilian Jornet. Storicamente, non si può dire che a livello alpinistico mancassero gli esempi di salite in velocità: negli anni ’80/’90 tutti i big dell’epoca si sono cimentati in salite lampo e concatenamenti, mettendo al centro del tutto la ricerca della difficoltà, meglio ancora se in quantità sproporzionate. In questi concatenamenti la performance alpinistica andò a comprimere un po’ gli spazi di stile ed etica, ammettendo qualsiasi mezzo per spostarsi da una nord all’altra. Dall’elicottero al deltaplano, l’importante era riuscire ad andare il più velocemente possibile a mettere il sedere nei calci. L’eredità di Profit, Boivin e soci è stata raccolta a distanza di molti anni da Ueli Steck. Purtroppo il suo ricordo rimarrà indissolubilmente legato a un cronometro, mentre il suo stile era invece connotato da un’etica molto severa e da una prospettiva in cui lo sviluppo della velocità era il fattore determinante per fare il passo successivo sulle montagne più alte del mondo. Pur avendo incentrato l’attività sul salire in velocità vie molto tecniche, nel suo ultimo periodo neppure un alpinista con la A maiuscola come Ueli ha potuto rimanere insensibile al nuovo stile che si stava affermando. D’altronde, esiste forse uno stile più logico ed elegante del partire dal fondovalle, scalare una o più montagne e tornare al punto di partenza con il minimo materiale indispensabile, in un solo, rapido, assalto? In questo stile la velocità rappresenta ovviamente una componente essenziale: senza di essa non sarebbe possibile fare così tanto dislivello. Senza di essa non si avrebbe la sensazione di cavalcare le montagne.
Pur condividendo la ricerca della rapidità, gli approcci a questo tipo di salite sono molto differenti a seconda che si parta dal lato trail running oppure da quello alpinistico. A creare confusione, al di là delle basi culturali, è proprio la disciplina in sé: per la metà del tempo si corre su sentieri, per l’altra metà si scalano vie alpine. Nella prima parte della giornata si starebbe quindi bene in scarpette, pantaloncini e canotta; nella seconda ramponi, piccozze e friend diventano fondamentali per la riuscita. Quanti e quali materiali portare è ovviamente la questione cruciale. In questo caso non esiste una lista ideale, come ama imporre il sindaco di St. Gervais per la salita al Bianco. Il discorso è però molto semplice e, sia in alpinismo che nelle gare di corsa, ha radici antiche: la velocità è inversamente proporzionale al peso. Detto ciò, bisogna essere ben consapevoli che dovrò essere capace di compensare con le mie capacità la mancanza di ogni attrezzo della cui compagnia deciderò di fare felicemente a meno nelle ore di avvicinamento e di ritorno a valle. Come Guida alpina non posso prescindere dall’avere con me attrezzatura alpinistica adeguata e di autosoccorso, con qualche piccolo adeguamento magari sul materiale delle talloniere dei ramponi o sui millimetri della corda. Ma soprattutto, nonostante si vada di fretta, non posso tralasciare le procedure corrette di utilizzo dello stesso quando sono legato con qualcuno (nella fattispecie Robert Antonioli). Con procedure corrette intendo anche lo scegliere di percorrere senza la corda i tratti in cui non ci si può proteggere correttamente. A volte la corda, piuttosto che essere un fattore di sicurezza, comporta soltanto un duplicarsi delle conseguenze in caso di incidente. È quindi ovvio che la ricerca del record o della performance pura passi per lo scalare in solitaria, ma questo è un discorso con implicazioni troppo personali e che comporta un’accettazione del rischio troppo grande per poter essere trattato in poche righe. A ogni modo, anche se il cronometro per uno sportivo è il termine di paragone per eccellenza, fortunatamente nell’alpinismo è solo uno degli elementi per valutare un’ascensione e vale molto meno dell’estetica della via, dello stile con cui viene affrontata e delle difficoltà affrontate. Purtroppo però il tempo rimane l’unico fattore obiettivamente misurabile grazie a cronometri e gps. Va da sé che quindi entri in gioco un po’ di sana competizione ma, visto il numero crescente di praticanti, mi auguro di non arrivare a vedere anche segmenti dell’Innominata su Strava!
3 GIRI IN MONTAGNA IN VELOCITÀ
Nella stagione estiva 2018 Denis Trento e Robert Antonioli hanno concluso ognuno dei tre raduni della squadra di scialpinismo del Centro Sportivo Esercito con un’uscita in quota con difficoltà alpinistiche affrontata in velocità. La prima tappa è stata la salita al Monte Bianco per la cresta dell’Innominata il 28 giugno con partenza e arrivo dal campeggio La Sorgente in Val Veny e rientro dal rifugio Gonella e dal Miage. Secondo step il 4 agosto concatenando la Courmayeur Mont Blanc Skyrace, chiusa al sesto e ottavo posto da Trento e Antonioli, con la cresta di Rochefort e la traversata delle Grandes Jorasses. La discesa è avvenuta dal Boccalatte e poi fino a Planpincieux. Terza e ultima tappa sul Monte Rosa il 25 agosto: partenza da Staffal, nella valle del Lys e giro che ha toccato Lyskamm, colle del Lys, punta Dufour e punta Zumstein. Ogni giro è stato affrontato in modalità fast & light ma con tutta l’attrezzatura alpinistica e di autosoccorso necessaria, seppur nella versione più leggera possibile.
1 — 3.442 M D+ / 3.442 M D- / 35 KM
Camping La Sorgente Monte Bianco (6h10’)
Rifugio Monzino (1h15’) Rifugio Gonella (7h40’)
Bivacchi Eccles (3h10’) Lago Combal (9h25’)
Col Eccles (3h40’) Camping La Sorgente (9h57’).
2 — 3.772 M D+ / 3.200 M D- / 24,5 KM
Courmayeur Punta Helbronner (1h52’ Denis Trento, 1h53’ Robert Antonioli) / 25’ cambio di assetto
Gengiva (3h13’) Aiguille du Rochefort (3h40’) Canzio (5h08’) / 10’ pausa punta Walker (8h40’) Boccalatte (10h40’) / 10’ pausa Planpincieux (11h30’)
3 — 3.831 M D+ / 3.831 M D- / 35 KM
Staffal Rifugio Sella (2h13’) / 20’ circa di pausa Lyskamm Occidentale (4h10’)
Lyskamm Orientale (4h43’) Colle del Lys (5h15’) Punta Dufour (7h37’) Punta Zumstein (8h31’) Rifugio Mantova (9h42’) / 10’ pausa Staffal (11h39’)
QUATTRO CHILI IN MENO
Robert e io abbiamo approcciato questo tipo di salite in modo abbastanza dilettantesco, anche perché la nostra prima salita non era preventivata e l’unica cosa che ci interessava era passare una bella giornata in montagna. In occasione dell’Innominata infatti Robert aveva a disposizione soltanto materiale vetusto e pesante, ma nemmeno io ero veramente al top della leggerezza. Il che ha comportato diversi chili di peso supplementare. Nonostante ciò, quella rimane forse la nostra performance migliore. Nelle salite successive abbiamo prontamente corretto il tiro, riuscendo a selezionare con più precisione il materiale strettamente necessario. Eppure, sommando al materiale alpinistico il vestiario, l’acqua e il cibo, non siamo mai riusciti a partire con meno di otto chili sulle spalle. Per andare sotto quel peso, bisognava scendere a compromessi sulla sicurezza che non eravamo pronti ad accettare. In definitiva, per essere veramente leggeri in montagna bisogna andare da soli e senza corda. Meglio ancora se nudi e scalzi! Tabella comparativa tra materiale convenzionale (vale a dire quello che Denis avrebbe utilizzato lavorando come Guida alpina) e quello più leggero che è stato realmente utilizzato. Bisogna ricordare che adottando uno stile convenzionale, per queste salite al 90% bisogna aggiungere il materiale da bivacco: intimo di ricambio, fornellino, pentolino, posata, cibo liofilizzato. Il che aggiunge almeno un altro chilo al peso della zaino.
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Free republic of La Grave
Seduti sul divano, sogniamo nuove avventure. E allora, per iniziare a programmarle queste avventure, vi riproponiamo il nostro storico reportage su La Grave.
La Grave. Poco più di 500 abitanti, una manciata di hotel, due pub, una telecabina vecchia quasi quarant’anni e uno ski-lift sul ghiacciaio per salire da 1.400 a 3.600 metri, poco più o poco meno. Chilometri di piste battute: zero. Definire La Grave una normale stazione sciistica, almeno secondo i nostri canoni, sarebbe quantomeno inappropriato: qui si viene per sciare liberi, il più possibile. Nelle strade del paese non ci sono negozi di moda, non incontri signore con pelliccia e chihuahua al guinzaglio e i fighetti del freeride, quelli con tutoni colorati perfettamente puliti e sci da 130 mm al centro senza neanche una riga. In compenso conosci Guide in pensione che al mattino suonano il sax e bevono Pastis, ragazzi svedesi che passano qui la stagione con l’unico obiettivo di sciare e sciare ancora e americani che sfoggiano orgogliosi i portasci appartenuti a Glen Plake sulla loro auto. Ci si può innamorare di una manciata di case annidate ai piedi di un ghiacciaio? A noi, nei cinque giorni passati lì, è successo. L’esperienza dello sci in questo villaggio fuori dal tempo e dalle regole comincia con la sua telecabina. Trenta cabine, divise a gruppi di cinque, lente e scricchiolanti. Ci sali sopra sapendo che potresti anche rimanere lì per tre quarti d’ora, si può dire che il loro ritmo rispecchi quello degli abitanti, lento, rilassato e assolutamente noncurante di ciò che succede nel mondo esterno, al di là del Col du Lautaret. Arrivati in cima, quello che ti si para davanti non ha paragoni in nessun altro comprensorio sciistico: qui non lo si può neanche chiamare sci fuoripista, perché, di fatto, la pista non esiste. Neanche un chilometro di neve battuta. Solo itinerari liberi, su tutti i versanti e di tutti i tipi. Larghi valloni di facile accesso, canali con avvicinamenti alpinistici, tour di più giorni attraverso i ghiacciai, boschetti verticali cosparsi di cliff. E nel caso non si fosse sazi, sul versante opposto si trovano ancora altre discese, da cui si rientra poi sfruttando gli impianti di Les 2 Alpes, poiché il ghiacciaio sommitale è lo stesso. Le alternative sono letteralmente infinite, si possono mettere le pelli per arrivare all’imbocco di un canale polveroso, per poi continuare giù per ampi pendii in neve trasformata e scendere in paese rimbalzando su gobbe ghiacciate tra gli alberi. Il tutto ripetuto più volte dalle nove del mattino alle cinque del pomeriggio, che tanto del pranzo se ne può anche fare a meno.
IL SINDACO GUIDA E LA COMMISSIONE Non esiste una località sciistica al mondo gestita come La Grave. Il sindaco, Jean-Pierre Sevrez, con un passato da Guida alpina (anche questa una notizia non comune…), risponde alle autorità nazionali in caso d‘incidente sulle montagne e per questo ha le sue responsabilità in un comprensorio dove si può scendere praticamente ovunque. Responsabilità delle quali si fa carico con l’aiuto della ‘Commissione’, un gruppo di volontari che si riunisce dopo le nevicate o quando c’è brutto tempo per valutare le condizioni della montagna. La TGM (Télépherique des Glaciers de la Meije), società che gestisce la telecabina, si occupa esclusivamente di portare in quota le persone. La decisione ultima sull’apertura o chiusura però spetta al sindaco. Un sistema che finora ha funzionato, con qualche scricchiolio. Nella scorsa estate lo skilift sul ghiacciaio, che garantiva l’apertura per lo sci estivo, non ha girato. Problema di responsabilità. Secondo Denis Creissels, presidente della TGM, non spettava alla TGM garantire la sicurezza. In passato le piste aprivano con l’avallo degli allenatori degli sci club che si allenavano ma per questa estate la società che gestisce l’impianto non se l’è sentita di accollarsi ancora la responsabilità.
L’ATMOSFERA: IL COVO DEGLI SKI-BUM Lo ski-bum è un tipo di individuo caratterizzato da un’età variabile dai 18 ai 99 anni e un’unica, dannatamente importante, priorità: sciare il più possibile. Per farlo, tutto il resto è secondario: basta guadagnare il minimo necessario facendo il lavapiatti alla sera, fare del riscaldamento in casa un optional costoso e della birra con genepì la principale fonte di nutrimento. L’aria che si respira a La Grave è unica. Sciatori di tutte le nazionalità, tantissimi nordici e americani e ovunque facce che ti sorridono, pronte a condividere una discesa o una cena insieme. Certamente nei giorni di powder nessuno è amico di nessuno, ma non c’è quella tensione permanente che si respira nelle località come Chamonix: qui è tutto più rilassato e i local sono i primi a volere essere ospitali. Un esempio? L’avere dormito due notti a casa di un barista conosciuto la sera prima.
LA COLONIZZAZIONE DI DOUG COOMBS Tra i personaggi che hanno il merito di avere reso La Grave quella che è, non si può non fare il nome di Doug Coombs (avete presente i K2 Coomback?). Famoso per avere vinto il primo World Extreme Skiing Championship nel 1991 a Valdez, Alaska, e avere dato anche il via all’heliski nella stessa zona, Coombs iniziò a organizzare camp di sci ripido a Jackson Hole dopo l’incontro con Patrick Vallençant, che aveva già avviato attività simili a Chamonix. Dopo pochi anni scoprì La Grave, dove si trasferì e spostò i suoi corsi, facendola conoscere al pubblico d’oltreoceano. Come una calamita, diversi sciatori decisero poi di seguirlo, tra cui Pelle Lang e Joe Vallone, che hanno raccolto l’eredità di Doug, scomparso nel 2006 insieme a Chad Vander Ham in un incidente nel Couloir Polichinelle, sulla montagna che lo aveva adottato. La figura di Doug è ormai entrata a fare parte della storia di La Grave: ovunque viene esposta la sua attrezzatura (ad esempio, una custodia per gli occhiali utilizzata come ancoraggio per una sosta, visibile allo Skiers Lodge). Oppure basti pensare alla grafica degli attuali Coomback, realizzata utilizzando una cartina topografica della zona da un’idea di Pelle per commemorare l’amico.
JOE VALLONE, FROM USA TO LA GRAVE Joe l’abbiamo conosciuto quasi per caso, una mattina al bar. La sua storia è pazzesca: newyorkese di nascita, negli anni ’80 si spostò in Colorado per iniziare una carriera in quello che era il freeski delle origini, fatto di gobbe e tute dai colori fluo. Poi la scoperta della montagna, quella vera, ad opera dell’amico e mentore Doug Coombs, che lo convinse a spostarsi in Francia e a diventare Guida alpina, finendo infine per prendere la residenza fissa a La Grave. Joe è stato protagonista di una delle migliori discese fatte durante il nostro soggiorno. La sera prima ci aveva chiesto se avessimo già programmi per l’indomani. «Not really» la nostra risposta. Così, quasi per caso, io e Margherita ci siamo ritrovati catapultati in un sogno, a sciare il Couloir La Voute in compagnia di Joe, Micah e Zahan, in un clima che non si sarebbe respirato da nessun’altra parte.
PELLE LANG E LO SKIERS LODGE Assieme a Joe, Coombs ha fatto arrivare a La Grave un altro ski-bum: Pelle Lang, Guida alpina svedese dai modi pacati, da annoverare fra coloro che hanno reso conosciuta all’estero La Grave. Nel 2003 Pelle mise le mani su un vecchio hotel che restaurò in gran parte da solo, dando forma a quello che oggi si chiama Skiers Lodge. Una struttura unica nel suo genere, poiché oltre ai servizi alberghieri può contare su uno staff di 15 Guide alpine di tutte le nazionalità che ogni giorno accompagnano gli ospiti dell’albergo. Durante la nostra cena una domanda ha fatto brillare gli occhi a Pelle. Quando gli ho chiesto se La Grave fosse cambiata dal suo arrivo negli anni ’90, lui ha risposto con un sorriso e una parola: «No».
LA GRAVE BY NIGHT Quando finisci di sciare, qui sei solo a metà dell’opera. Subito, con ancora gli scarponi ai piedi, dall’arrivo della funivia attraversi la strada ed entri al bar dell’Hotel Castillon, dove ritrovi tutti quelli con cui hai sciato nell’arco della giornata. Tutti con il sorriso stampato sulla faccia, dallo svedese che si è preso una pausa dal Freeride World Tour, alla signora austriaca di mezza età che una pausa l’ha presa dal suo lavoro come manager. Dopo cena le scelte non sono molte, ma non ne faranno rimpiangere altre. Il Bois des Fées si spartisce la piazza (e i fegati degli abitanti) con il K2 Pub. Quando trovate uno dei due chiuso, è perché i suoi baristi sono a fare festa nell’altro. La sera del nostro arrivo un prestigiatore stava segando una donna in tre al Bois des Fées, mentre Lambert, barista del K2, spillava birre al genepì dietro il bancone dei ‘concorrenti’. Qualcuno, non ricordo più chi, mi ha avvertito di non prendere il punch perché, a quanto pare, era corretto con LSD.
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Le migliori birre après-ski
Visto che abbiamo lanciato il numero 129 #inspired by pizza power... con una buona pizza non può mancare la giusta berretta. Ed ecco che vi proponiamo il test che abbiamo pubblicato sul numero 109 ;)
Un classico di fine gara, una birretta. Sì, ma quale? Facciamo un test? Allora abbiamo chiamato Luca Giaccone, che non sono io, ma un mio omonimo che è anche uno dei più importanti esperti del settore, autore della guida Slow Food sulle birre. Io al massimo vi avrei detto: «a me piacciono le birre che sanno di birra». Lui sa tutto in materia. Così abbiamo cercato un po’ di birre in mezzo ai monti, quelle artigianali così come quelle ‘industriali’. Non tutte per carità, ma un po’ di valli sull’arco alpino le abbiamo toccate. Una sorta di edizione zero, senza pretese di avere trovato tutte le birre possibili, senza dare giudizi definitivi. Poi abbiamo chiamato un terzetto di ‘esperti’: un atleta, Pippo Barazzuol, che abbiamo scoperto che la birra se la fa in casa, una Guida alpina, Alessio Cerrina e un allenatore di sci, freerider e gestore di rifugio (il Valasco nelle Alpi Marittime), Andrea Cismondi, per avere anche un loro parere.
«Le degustazioni, quelle vere - ha subito messo le cose in chiaro Luca Giaccone - sono per pochi e interessano pochi. Alla fine ognuno beve la birra che preferisce. Ma una cosa è certa, fa bene e vi porto l’esperienza di mio padre che a 80 anni fa ancora tanti chilometri in bicicletta all’anno e tutti i giorni si beve una birra…». Luca ha spiegato le differenze tra le etichette, gli errori più comuni, ci ha insegnato a sentire i profumi, pensate, persino a riconoscere la provenienza dei luppoli. Ci ha raccontato migliaia di aneddoti, con una passione dentro che eravamo tutti lì assorti nei suoi fantastici discorsi. E poi Claudio Manoni, chef del Caffè Bertaina di Mondovì, dove siamo stati ospiti, si è fatto prendere con una serie di piatti incredibili, giusti per i vari abbinamenti. Cibo-birra, altra aspetto che pochi di noi prima avevano considerato. Cosa ne è venuto fuori? Che le birre si distinguono in due grandi famiglie, lager (a bassa fermentazione) e ale (ad alta fermentazione) e forse questo lo avevamo letto da qualche parte. Che quando si versa nel bicchiere la schiuma bisogna farla eccome, che il doppio malto è una dicitura tutta italiana che non esiste nel mondo, che più che la data di scadenza bisognerebbe inserire quella di produzione, perché molte birre maturano nel tempo. Che le birre industriali tanto male non sono, anzi: se prodotte con qualità all’inizio perdono pochissimo nel processo di pastorizzazione, prima dell’imbottigliamento. Che il livello dei birrifici italiani è molto alto (pensate che la birra Elvo di Graglia, nel Biellese, che – ahimè - non abbiamo bevuto, ha vinto tre premi all’European Beer Star, battendo anche i tedeschi nella categoria German style…), che molti propongono abbinamenti particolari e interessanti, persino il genepy. Abbiamo capito che c’è la birra ideale per il fine-gara che va giù leggera che è una meraviglia, quella che va benissimo con un piatto di ravioli, quella che serve nel relax davanti al camino. Insomma che ognuno può trovare la birra che preferisce. Qualcosa abbiamo capito, abbiamo un briciolo di consapevolezza di quello che beviamo e siamo pronti a un vero test, il più atteso della prossima stagione. E allora, mastri birrai, segnalateci le vostre birre, atleti e appassionati mandateci la vostra candidatura e soprattutto il vostro curriculum in materia...
IL TEST
ARTIGIANALI
TROLL Daü
Vernante (CN)
www.birratroll.it
Gradazione alcolica: 3.9
Descrizione: dal birrificio della Val Vermenagna una birra bionda e aromatizzata. L’abbiamo bevuta come aperitivo ed è piaciuta a tutti per la sua leggerezza tanto che alla fine l’abbiamo nominata come la più adatta per il dopo gara.
BEBA Toro
Villar Perosa (TO)
www.birrabeba.it
Gradazione alcolica: 6.8
Descrizione: una birra ambrata, molto profumata e corposa. Poca amara: viene consigliata con le carni rosse o i formaggi, noi l’abbiamo bevuta con i ravioli al plin: un abbinamento che è piaciuto tantissimo a tutta la tavolata.
LES BIÈRES DU GRAND ST. BERNARD Gnp
Etroubles (AO)
www.lesbieres.it
Gradazione alcolica: 8
Descrizione: il birrificio valdostano si trova sulla strada del Gran San Bernardo: tra le tante birre prodotte abbiamo scelto quella al genepy. Una pils con gradazione alcolica più alta, che va benissimo lontano dalla gara, nei momenti di relax.
REVERTIS 33
Caiolo (SO)
www.revertis.it
Gradazione alcolica: 5
Descrizione: il birrificio valtellinese utilizza il livello di amaro misurato in percentuale per nominare tutti i suoi prodotti. Abbiamo bevuto la 33: una pils piacevole che ha sorpreso tutti per i suoi profumi, facilmente riconoscibili.
BATZEN BRÄU Urporter
Bolzano
www.batzen.it
Gradazione alcolica: 5.5
Descrizione: un birrificio nel cuore di Bolzano nella storica Ca’ de Bezzi dove bere e mangiare. Da qui arriva la Batzen Bräu: noi abbiamo bevuto la Porter, birra ad alta fermentazione e di colore nero. Piaciuta a tutti, da bere a fine serata davanti al camino.
SUPERMERCATO
MENABREA La 150° bionda
Biella
www.birramenabrea.it
Gradazione alcolica: 4.8
Descrizione: la 150 è la birra prodotta per celebrare i 150 anni di fondazione del birrificio biellese. Abbiamo scelto la lager, una bionda sempre molto bevibile. Va benissimo dopo una lunga gita.
PEDAVENA
Pedavena (BL)
www.fabbricadipedavena.it
Gradazione alcolica: 5
Descrizione: una istituzione per i veneti, la birra Pedavena, insieme all’altra linea, la birra Dolomiti. Birra chiara e leggera che è piaciuta molto, anche in questo caso ideale per ‘consolarsi’ nel dopo gara.
FORST Kronen
Forst/Lagundo (BZ)
www.forst.it
Gradazione alcolica: 5.2
Descrizione: alzi la mano chi andando verso la Val Venosta non si è fermato a mangiare e bere alla Forst. Noi abbiamo bevuto la Kronen, una birra corposa, ma davvero gradevole.
ALTRE ARTIGIANALI
1816 LA BIRRA DI LIVIGNO Pils
Livigno (SO)
www.1816.it
Gradazione alcolica: 4.8
Descrizione: la birra più alta d’Europa, questo il lancio del birrificio di Livigno con si identifica nella quota di produzione. Classica bionda, fresca e leggera.
STELVIO Dahu
Bormio (SO)
www.birrastelvio.it
Gradazione alcolica: 6
Descrizione: l’azienda di Bormio che produce il Braulio ha anche la linea di birre, la Stelvio. Una birra rossa dove si sente la tostatura del malto. L’abbiano bevuta insieme ai formaggi: un ottimo abbinamento.
MASO ALTO Ruspante
Lavis (TN)
www.masoalto.com
Gradazione alcolica: 5.5
Descrizione: si chiama agribirrificio perché producono anche orzo e luppolo utilizzati poi nelle birre. Tra le tre birre trentine abbiamo bevuto la Ruspante: birra ambrata, ottima con i formaggi.
BIRRA DI FIEMME Weizenbier
Daiano (TN)
www.birradifiemme.it
Gradazione alcolica: 4.8
Descrizione: dalla Val di Fiemme, abbiamo scelto la Weizenbier. Poco amara e dal sapore fruttato dove si avverte l’aroma di chiodi di garofano.
UN'ALTRA BIRRA DA SUPERMERCATO...
CASTELLO La Decisa
San Giorgio di Nogaro (UD)
www.birracastello.it
Gradazione alcolica: 4.8
Descrizione: dal Friuli ecco la birra Castello. Abbiamo provato La Decisa: una lager a bassa fermentazione. Equilibrata e piacevole da bere.
... PER LA PIERRA MENTA...
BRASSERIE DU MONT BLANC La Blanche
La Motte-Servolex (FRA)
www.brasserie-montblanc.com
Gradazione alcolica: 4.7
Descrizione: quando si va alla Pierra Menta si trova un po’ dappertutto la birra prodotta vicino a Chamonix. Tra le tante abbiamo bevuto La Blanche. Davvero piacevole, leggera, perfetta insieme ai formaggi.
ALPHAND Stout
Vallouise (FRA)
www.brasserie-alphand.com
Gradazione alcolica: 5
Descrizione: la birra prodotta da Luc Alphand, insieme al fratello Lionel, nei pressi di Briançon. Tra le tante birre in produzione abbiamo scelto la Stout che ricorda un po’ le irlandesi. Ottima per il fine serata.
... E INFINE UNA SPECIAL GUEST
BARAZZUOL Pippo
A casa sua
Gradazione alcolica: non si sa...
Descrizione: special guest, la birra di casa Barazzuol. Se la fa lui e se la beve solo lui, ovviamente. A Pippo piace e a noi? Sì, e ha anche passato anche l’esame di Luca Giaccone. Qualche piccola modifica da apportare nella produzione, ma ci siamo.
IL PARERE DEL MEDICO
Proibita per i top, ok per gli altri
Anche se dopo la gita è spesso una tradizione consolidata e socialmente molto coinvolgente, la birra, come tutti gli alcolici, non dovrebbe far parte della dieta standard dell’atleta. Prima e durante gli allenamenti o gare è assolutamente controindicata, nel recupero è spesso concessa anche se il suo poco alcol può essere sufficiente a compromettere questa importantissima fase della preparazione atletica. Non vorrei però neanche demonizzare la birra: per prima cosa ha poco alcol, meno della metà del vino per esempio, poi contiene una quantità di sali non trascurabile (potassio e fosforo, ma molto dipende dal tipo di acqua utilizzata per la preparazione) e non ultimo è ricca di folati, vitamine indispensabili al nostro organismo. Quindi? Per gli atleti di vertice, i professionisti che vivono del loro fare sport, la birra, come gli altri alcolici, secondo me è un piacere proibito, chi invece, come la maggior parte di noi, fa sport per il piacere di farlo e non ha sogni olimpici, può godersi tranquillamente la sua birra, senza esagerare, dopo una gita epica. Non siamo in fondo nati solo per soffrire anche se il piacere può avere un prezzo da pagare.
Alessandro Da Ponte
Lo sci come scusa
Continuiamo a pubblicare gli articoli di viaggio più belli usciti su Skialper per non perdere la voglia di sognare.
Essendo cresciuta a Salt Lake City, non ho mai avuto bisogno di viaggiare per andare a sciare. Le Wasatch Mountains sono piene di linee incredibili e per la maggior parte della stagione ricoperte dalla migliore neve della terra. Lo sci è la mia scusa per partire alla scoperta di un mondo diverso. Così, quando scelgo di viaggiare, cerco solitudine e avventura in posti dove non molti altri sono andati. Quando hai tanta bella neve a casa, il viaggio vuol dire esplorare le vette spelacchiate dal vento delle Ande, affrontare i couloir vista oceano dell’Islanda. O sciare uno degli ultimi ghiacciai dell’Africa.
Montagne della Luna - Uganda
«A me sembra molto spaventoso - dice la nostra guida al Rwenzori, Enock, mentre scuote con decisione la testa - Tutti questi crepacci e la pendenza. Molto spaventoso». Faccio click nei miei attacchi sulla parte più alta del Ghiacciaio Margherita. Si tratta di un caos frammentato di ghiaccio soffocato dai detriti che precipita dalla terza cima più alta dell'Africa prima di fondersi in una lussureggiante giungla equatoriale e di fluire a valle per formare il Nilo. Nonostante si sia stia sciogliendo molto velocemente, il Ghiacciaio Margherita è il più grande rimasto in Africa. Il climate change ha ridotto quelli sul Kilimangiaro e sul Monte Kenya a minuscole schegge, semplici ricordi della loro originaria grandezza. Ed è per questo che siamo qui, dopo sei giorni di avvicinamento, a mettere gli sci ai piedi per la prima volta. Siamo arrivati sulle montagne dopo una settimana di marcia lungo un sentiero appena tracciato nella foresta pluviale dell'Uganda, dove le scimmie gridano nel verde intenso e i camaleonti passano pigramente il tempo su foglie più grandi della mia testa. Le foreste di bambù, vere e proprie ripide scale di fango tra mura di fogliame, sembravano essere state create con il preciso scopo di fare ingarbugliare le punte degli sci che sporgevano dai nostri zaini. Poi sono arrivate le famigerate torbiere verticali, vale a dire un bel trekking nelle pozzanghere che ha occupato i giorni rimanenti, mentre noi alternativamente sprofondavamo fino al ginocchio nella melma o saltellavamo tra i ciuffi d'erba che sporgevano dalla palude.
Quando finalmente siamo entrati nella zona più montuosa, il nostro sguardo per un istante ha catturato, in lontananza, delle creste ondulate, quasi dei marosi: le mitiche Montagne della Luna. Punteggiato da maestose cime innevate ma dalla vetta rocciosa, un po’ come i Nunatak, questo massiccio che supera di poco i 5.100 metri ha suscitato l’interesse dei viaggiatori già nel 150 d. C. quando Tolomeo, il geografo greco, lo identificò per la prima volta come la sorgente del Nilo. Nei secoli successivi scrittori, scienziati, alpinisti e alcuni sciatori hanno viaggiato per testimoniare quanto sono anomale queste montagne ghiacciate che si ergono sopra una giungla tropicale soffocante. La nostra salita verso la vetta è iniziata alle tre e trenta del mattino. La luce brillante delle stelle si rifletteva sulla cresta frastagliata mentre salivamo su strisce di roccia lucidate da migliaia di anni di scrub glaciale. Gli sci tintinnavano sulle spalle nel buio della notte. Con me c’erano altri tre sciatori con la vocazione di Tarzan: Brody Leven, Kasha Rigby e Robin Hill. Arrivati a un piccolo ghiacciaio piatto lungo la salita per il Picco Margherita, ecco che ci siamo trovati completamente avvolti nella nebbia e il cielo è diventato scuro. «Nove anni fa ci sarebbero voluti quarantacinque minuti per attraversare le nevi eterne in questo punto» spiega Enock, mentre segue i pali di bambù che segnano il percorso. Il ghiaccio si sta sciogliendo così velocemente che a noi ne bastano quindici. Dopo quello che abbiamo visto negli ultimi giorni, sembra incredibile essere arrivati finalmente su un ghiacciaio. Un bagliore arancione color fuoco filtra attraverso le nuvole mentre ci mettiamo i ramponi e iniziamo a salire verso il punto più alto dell'Uganda.
Il ghiacciaio conduce a una cresta sommitale insidiosa, dove facciamo scrambling fino a 5.109 metri di quota e al confine tra l'Uganda e la Repubblica Democratica del Congo. Guardando le valli popolate di foreste impenetrabili, i grandi laghi scuri e le file di cime scoscese e rocciose ornate da sbuffi di nebbia si capisce perché i gruppi estremisti abbiano usato questa regione per organizzare attacchi di guerriglia durante l'ultima guerra civile. È un luogo soprannaturale, spettrale e impenetrabile. L'aria umida proveniente dalla giungla viene trasportata in alto in raffiche calde e, mentre respiro il suo odore, il mio sguardo scivola verso il basso. È finalmente ora di sciare. Mentre taglio le prime curve sulla neve resa soffice dal sole, nella parte alta del ghiacciaio, la mia mente viaggia verso le prime parole che abbiamo scambiato in questo viaggio: «Potrebbe non esserci affatto la possibilità di sciare - ha detto ossessivamente Brody, assicurandosi che fossimo preparati per il peggior scenario possibile - Non voglio che nessuno abbia false aspettative su quello che troveremo». Eppure lo sci supera le aspettative e io sfrutto al massimo il dislivello che siamo riusciti a mettere insieme con tanta fatica. Vicino alla fine del ghiacciaio disegniamo curve proprio sotto formazioni di ghiaccio fantasticamente scolpite.
Mi avvicino alla punta del ghiacciaio: un passaggio ripido e ghiacciato che abbiamo salito legandoci. Brody accenna una curva saltata che porta all'amara fine. Le lamine stridono sulla sabbia e sulla roccia incastonate nel ghiaccio antico. Passiamo su lastre di roccia appena rivelate, nascoste sotto una guaina gelata dall'ultima era glaciale e osservando silenziosamente le gocce che si sciolgono formando rigagnoli, quindi ruscelli e laghetti color acquamarina nel loro viaggio a valle. Enock gesticola per mostrarci una scala bianca che ondeggia senza speranza sulle rocce, 15 metri sopra le nostre teste: «Tre anni fa siamo scesi sul ghiaccio, ecco quanto si è sciolto». Guardare questo rudere del recente passato ci lascia attoniti, nella vastità del ghiaccio che è svanita e nel tempo infinitesimale che è bastato per farla scomparire. Tornando al campo base, Enock spiega: «Per noi, è una questione di lavoro e di denaro che entra nella comunità. E ancora più importante, acqua». L’altra guida, Edison, ci dice: «Quando ero un ragazzino c'era sempre neve su queste colline. Se si può fare qualcosa per evitare che i nostri ghiacciai scompaiano completamente, se potessimo prenderci per mano e farlo insieme, sarei molto contento». I nostri sci sono al tempo stesso attrezzi e strumenti per creare una liaison con posti come questo. È un modo per incontrare la gente del posto e ascoltare le loro storie, per testimoniare i cambiamenti che stanno attraversando le comunità. L'Uganda è una scelta bizzarra per lo sci primaverile: si possono disegnare curve decisamente più belle con uno sforzo molto minore in quasi ogni altra parte del mondo. Ma questa esperienza è molto più di una discesa sugli sci e ti sbatte contro un muro profondo di tristezza tinta di stupore.
Dopo due giorni a ritroso sui nostri passi, inondati da incredibili acquazzoni, abbiamo raggiunto piccoli appezzamenti agricoli che punteggiano le ripide colline sopra il villaggio di Kilembe. I bambini urlavano, offrendoci il cinque e facendoci sorridere con il loro Hel-los! Il sentiero da qui in poi serpeggia sotto cespugli di caffè disseminati di bacche color viola e si aggrappa al fianco della collina tra raccolti di mais, zucca e patate. Le foreste impenetrabili, i fiumi impetuosi e la natura selvaggia svaniscono nel ricordo. Enock ed Edison avanzano con orgoglio, un’altra cima nel loro curriculum. Posso solo immaginare gli abitanti del villaggio che discutono sulle strane lance piatte che sporgono dai nostri pacchi ed Enock che risponde loro, forse nel modo in cui ha risposto a noi sulla montagna: «A me sembrava molto spaventoso! Questi muzunghi sono pazzi. Hanno portato quelle cose per otto giorni per rischiare di morire scivolando giù per il ghiaccio solo per qualche minuto!». Dentro di me sorrido e faccio vedere un video di Brody sugli sci per mostrare loro perché siamo venuti qui. Mi guardo indietro verso le montagne e mi rendo conto che questo momento è solo una parte della nostra avventura. Siamo venuti qui per esplorare, per testimoniare, per imparare. Le Montagne della Luna, e le persone che le chiamano casa, si sono dimostrate più che all'altezza dell’alone di leggenda che le circonda.
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La Sportiva converte parte della propria produzione per realizzare camici e mascherine per la Provincia di Trento
La Sportiva, dopo essere stata una delle prime aziende a fermare la produzione, aderisce all'invito della Confindustria trentina e converte parte del proprio stabilimento alla produzione di mascherine e camici per la Provincia di Trento nell'ambito dell'emergenza Covid-19. A seguire riportiamo il comunicato stampa dell'azienda.
Ziano di Fiemme – Prosegue l’emergenza Coronavirus e Confindustria Trento su richiesta del Presidente Manzana, chiede alle industrie del settore tessile Trentino uno sforzo di riconversione produttiva allo scopo di far fronte alla mancanza in regione di dispositivi medico sanitari quali camici e mascherine certificate. La Sportiva, azienda con sede produttiva a Ziano di Fiemme e leader mondiale nella produzione di calzature ed abbigliamento per la montagna, dopo aver fermato totalmente le proprie linee produttive già una settimana prima del decreto ministeriale che ha imposto la chiusura delle fabbriche di beni non necessari e non legati alla catena produttiva del sistema Italia, accetta la proposta del Presidente riconvertendo parte dei macchinari dello stabilimento produttivo pensati per il taglio e la cucitura di materiali quali pelle e gomma, per la produzione di mascherine e camici al servizio della Protezione Civile di Trento.
Venerdì scorso sono stati realizzati i primi prototipi e questa settimana, grazie ai tessuti tecnici forniti dalle aziende trentine Vagotex e Texbond è al via la realizzazione dei primi 1000 pezzi al giorno con obiettivo, a regime, di arrivare a quota 3000 al giorno. Attualmente nello stabilimento di Ziano di Fiemme che ospita normalmente 369 dipendenti ed all’interno del quale si producono circa 2000 paia di calzature al giorno, sono state richiamate dalla cassa integrazione 8 persone tra operai e tecnici R&D per realizzare i prototipi delle mascherine conformi agli standard richiesti dall’Istituto Superiore della Sanità di Torino. La produzione già avviata attende ora solo la certificazione ufficiale della quale si sta occupando il Dott. Cipriani della Allergo System di Rovereto, per essere definitivamente approvata affinchè l’azienda possa procedere alla distribuzione tramite i canali proprio della capocommessa Allergo System.
«Produciamo in Trentino dal 1928 avvertendo da sempre una forte responsabilità sociale nei confronti di un’intera comunità che fa della solidarietà e dell’aiuto reciproco una caratteristica fondamentale. - Dichiara Lorenzo Delladio CEO & Presidente di La Sportiva - Con grande senso di responsabilità abbiamo dapprima contribuito allo sforzo collettivo nel contenimento del contagio, chiudendo in anticipo le nostre sedi produttive: ora siamo chiamati ad impegnarci per affrontare la seconda fase dell’emergenza, per farlo ci siamo dotati delle materie prime adeguate per poter produrre una prima partita di 55.000 mascherine che andranno alla Protezione Civile di Trento, tramite la Allergo System di Rovereto. Parallelamente stiamo cercando di far certificare in autonomia altri materiali in modo da renderci indipendenti anche con grembiuli e altri componenti di protezione e quindi passare ad una produzione industrializzata che permetterà nel brevissimo di raggiungere produzioni giornaliere ben più importanti. Chiaramente riconvertendo più macchinari e richiamando gradualmente più dipendenti presso lo stabilimento. Augurandoci che questo possa contribuire a mettere in sicurezza le centinaia di operatori sanitari che operano sul territorio Trentino e che oggi hanno bisogno di tutto il nostro sostegno. Uniti seppure divisi, scaleremo anche questa montagna, è quel che ho detto ai miei collaboratori all’inizio dell’emergenza ed il messaggio che voglio dare oggi anche a tutti coloro che sono in prima linea per combattere questa battaglia. La Sportiva c’è e vi sostiene».
Ed il sostegno alla sanità Trentina è già arrivato anche sottoforma di donazione grazie ai 50.000 euro donati ad inizio emergenza ai reparti di terapia intensiva di Trento e Rovereto su un conto speciale voluto sempre da Confindustria Trento.
Le prossime ore saranno decisive per l’ottenimento delle certificazioni ufficiali dei dispositivi di protezione: Delladio si dice fiducioso che l’Istituto Superiore della Sanità opererà velocemente in tal senso.
I sentieri effimeri dei Thule
Abbiamo corso su un terreno vergine. A malapena, se mai, calpestato da esseri umani prima; non c’era sentiero da seguire. Dovevamo semplicemente adattarci alla geografia del luogo: un gelido mare di cobalto alla nostra destra e lingue di vecchia neve che scendono tra scarpate e cavità, lasciando solo piccole strisce di tundra. Ogni nuovo passo era la ricerca del percorso nel suo senso più vero. Andavamo a caccia di macchie di vegetazione più liscia, costeggiavamo paludi e cercavamo di saltare sopra i gelidi ruscelli del disgelo, consapevoli di essere veramente nel bel mezzo del nulla. Non avevamo una città o un villaggio come meta, non c’era nessun segno di civiltà; nessuna comunicazione con il nostro pick-up, solo un tempo e un luogo prestabiliti per l’appuntamento e la speranza che la barca a vela fosse in grado di navigare tra i fiordi ghiacciati per venire a prenderci. La sensazione di evasione era palpabile, il senso di bellezza primordiale e di lontananza insuperabile. Però anche qui, sulla selvaggia costa orientale della Groenlandia, l’impatto dell’uomo sul mondo era evidente.
Il nostro piano era semplice. Vivere su una barca a vela di 60 piedi, utilizzandola per accedere alla costa selvaggia di Ammassalik. Sbarcare la mattina, correre dai 15 ai 40 chilometri ogni giorno fino al nostro punto di raccolta e sperare che il nostro capitano, Siggi - un uomo la cui esperienza è superata solo dalle storie che racconta - fosse in grado di navigare per venire a prenderci e che i fiordi non fossero troppo pieni di iceberg. Sulla terraferma ci aspettava un incredibile paesaggio. Il nostro piccolo gruppo completamente isolato per ore, a esplorare e giocare come ospiti temporanei nella natura selvaggia. Eravamo in balia dell’equilibrio precario del meteo: i venti chiudevano le insenature con il ghiaccio; fronti caldi scioglievano ciò che restava del ghiaccio marino costiero. Avevamo programmato la nostra visita per settembre, lasciando agire un’intera stagione calda per pulire i percorsi dove avremmo corso. Visto che le nostre mete erano indefinite, abbiamo avuto letteralmente centinaia di chilometri da esplorare. Il bello di avere un piano così semplice è che il viaggio diventa molto più che una corsa nella natura. Certo, spostarci a piedi era il modo più efficace per vivere questa terra così prepotente da vicino, ci ha permesso di interagire e giocare con un nuovo terreno. In quegli otto giorni vissuti insieme c’era un valore intrinseco molto più grande della mera esplorazione, una connessione con il luogo che non avremmo potuto raggiungere in meno giorni e con modalità diverse. Usare i nostri piedi come mezzo di locomozione ci ha dato il tempo di immergerci in quello che i nostri occhi vedevano. La vista non è stata l’unico senso, abbiamo potuto accarezzare con le mani i minuscoli fili d’erba sferzati dal vento, percepire ogni minima asperità di quella roccia forgiata dagli elementi sotto la suola delle nostre scarpe.
Duemila anni fa la Groenlandia era disabitata. Le popolazioni nomadi e i coloni della preistoria avevano da tempo abbandonato i suoi aspri paesaggi. Mentre scendevamo dal tender che abbiamo usato per sbarcare nei luoghi più selvaggi, l’acqua di mare densa scivolava contro lo scafo a rompere il silenzio di un giorno tranquillo. Sette di noi, inclusa la nostra guida, Inga, sono scesi a terra. Anche se ci eravamo abituati alla routine di quella vita, il semplice atto di mettere piede su un lembo di terra nuovo era sempre una sensazione unica. Lo abbiamo fatto con trepidazione, pensando a quello che devono avere provato quei primi coloni, gli antenati dell’attuale popolazione Inuit, sbarcati per cacciare e raccogliere bacche, cercando di vivere della terra e magari alla ricerca di luoghi dove fermarsi definitivamente. Un vero senso di avventura ci ha pervasi, cercando ognuno di costruire il proprio percorso. Il cielo di un blu intenso ci ha permesso di essere parte per qualche istante di quel paesaggio così effimero. Il grande volume di esperienze ha richiesto un lavoro straordinario del fisico e della mente per adattarci. Spesso c’era una crudezza brutale, nuove lacrime che il paesaggio non aveva avuto tempo di addolcire. Il ghiaione sulle ripide discese era instabile, la roccia frantumata rotolava sotto i piedi. Anche le piccole valli sono state profondamente scolpite dalla potenza dei fiumi e delle cascate. Solo i fiori selvatici rompevano quell’aridità, il loro colore delicato era una macchia decisa in quel paesaggio, ma in qualche modo in armonia con la terra che li circondava. C’era poca fauna selvatica nell’entroterra e siamo stati contenti di non aver incontrato il più pericoloso degli abitanti: Inga aveva un fucile per tenere lontano gli orsi polari, ma ce ne sono sempre di meno, disorientati e affamati per il cambiamento climatico. Più calcavamo quella terra, più ci rendevamo conto che l’impronta dell’uomo raggiunge anche gli angoli più remoti del mondo e gli effetti sono ancora più dirompenti in questa primordiale solitudine.
Ritornare sulla barca ogni sera era come rientrare a casa, ci ha aiutato a metabolizzare quell’esperienza in un paesaggio così alieno. A differenza di una tenda o del dormire di rifugio in rifugio, ha creato in noi un senso di stanzialità nel flusso costante del viaggio. C’era un giusto contrasto tra i confini di quella piccola barca a vela e gli spazi infiniti che solcavamo di giorno. Anche quando la barca era ormeggiata, eravamo consapevoli che il nostro spazio minuscolo era ancorato sul bordo di un grande oceano, cullandoci dolcemente sopra all’abisso nero del mare. Abbiamo usato il tempo a bordo per rilassarci e resettarci. Abbiamo trascorso lunghe serate in cambusa a mangiare, bere e condividere storie. Un viaggio così, tutti insieme, ha un significato che va oltre la semplice compagnia. Ha voluto dire imparare dai punti di vista degli altri, arricchendo i propri pensieri ed esperienze. Sdraiato in coperta, le mani dietro la testa, mi sono trovato spesso a guardare il cielo nero. L’inverno arriva presto a Nord e l’aria fresca della notte pizzicava la pelle scoperta, in contrasto con l’intimità del mio sacco a pelo. Le luci del nord ballavano, cascate di luce fosforescente a fare lo slalom tra milioni di puntini di stelle. È stato un istante eterno, nel quale rendermi conto dell’assoluta meraviglia del mondo, senza volerlo imprigionare in un mirino, un’immersione totale nel momento, cercando di viverlo, piuttosto che catturarlo.
La fotografia mi consente di visitare questi luoghi e toccarli con mano. Affronto con piacere la responsabilità di documentare quello che vedo e condividere storie. Spesso avviene tutto senza uno scopo più profondo che lasciare lavorare la mia ispirazione, ma a volte c’è un messaggio più importante da trasmettere. In Groenlandia siamo stati in grado di correre in molti più posti di quanto avremmo potuto fare anche solo pochi anni fa: il riscaldamento globale ha reso più veloce lo scioglimento della calotta glaciale. I ghiacciai si stanno ritirando dalla costa verso l’entroterra, lasciando vedere ogni anno un po’ di più di ciò che stava sotto. Nel breve termine questa potrebbe essere una buona notizia per i pochi che come noi si avventurano su queste terre a piedi, ma l’impatto sul resto del mondo è potenzialmente devastante. Le calotte glaciali della Groenlandia conservano l’otto per cento dell’acqua dolce del mondo. Quello che un tempo era in cassaforte sta rapidamente riempiendo gli oceani, cambiando il corso delle correnti e portando all’innalzamento del livello del mare. È una storia che tutti avevamo letto prima di venire qui, ma vedere con i propri occhi quello che sta succedendo e documentarlo mi ha segnato più di tante parole e numeri. Il segnale che il mondo sta cambiando e potrebbe non essere mai più lo stesso è visibile e tangibile, è soprattutto impossibile da ignorare.
La storia umana dell’isola è un flusso che si interseca con quello del clima, avanzando e ritirandosi nel corso dei secoli. Ai momenti di solitudine fanno da specchio periodi di boom demografico, con insediamenti lungo la costa, da Ovest a Sud, e infine sulla costa orientale che abbiamo esplorato. È incredibile pensare che le persone abbiano potuto vivere in questo luogo inospitale per circa sette secoli. Il popolo Thule è pieno di risorse e di spirito d’adattamento, è sopravvissuto alla piccola era glaciale, in estenuante equilibrio tra inverni rigidi e brevi estati, cacciando balene e foche. Un giorno abbiamo corso meno, Anna ed io abbiamo fatto un giro in kayak nelle acque dell’Artico, vicino alla barca. Il kayak è così radicato nella storia locale tanto da essere un vero e proprio simbolo nazionale. Facendo lo slalom tra gli iceberg condannati a morte, tutto ciò che potevamo sentire era il costante gocciolare del ghiaccio che si scioglie, interrotto dai rumori più forti e dal crepitio dei pezzi che si sgretolavano e si tuffavano nel mare, sollevando onde lunghe e minacciose verso le nostre piccole canoe. Abbiamo navigato per un po’ in questo cimitero di iceberg, ancora una volta comprendendo che l’apparente solidità di ciò che si erge come un monumento, che si tratti di un ghiacciaio, una montagna o un iceberg, è effimera.
È innegabile che la terra sia in costante trasformazione, indipendentemente dall’intervento dell’uomo. I fossili di mare in cima alle montagne e le nuove isole vulcaniche sono lì a testimoniarlo. Mentre alcuni di questi cambiamenti sono lenti in rapporto alle nostre brevi esistenze, altri sono molto più rapidi, e il risultato diretto dell’attività umana. Siamo in un ecosistema collegato da ragnatele e le azioni delle persone dall’altra parte del pianeta hanno un impatto diretto e misurabile qui. Non solo misurabili attraverso le generazioni, ma in anni. Il fiordo di ghiaccio protetto dall’UNESCO vicino a Ilulissat si è ritirato di quasi dieci chilometri tra il 2001 e il 2004. Ma questa non è solo una storia di cambiamento del paesaggio: dagli orsi polari al bue muschiato e alle foche, qui la velocità catastrofica del cambiamento climatico sta facendo una selezione naturale e gli animali lottano per accaparrarsi il cibo e adattarsi al nuovo clima. Le conseguenze del climate change sono davvero globali. Più ghiacci si sciolgono, più il livello del mare sale e minaccia terre lontane come il Bangladesh e le isole del Pacifico. Dal macro al micro e viceversa, di nuovo, il nostro tempo in Groenlandia ci ha fatto riflettere su come tutto sia collegato. Ritornando al piccolo insediamento di Kulusuk, mi è stato difficile accettare l’impatto che gli uomini stanno producendo in questo angolo del mondo appena sfiorato dalla presenza umana. La Groenlandia e le regioni polari sono il campanello d’allarme del cambiamento climatico, una verità ancora più cruda in questa natura così primordiale. L’origine umana delle trasformazioni che abbiamo visto è duramente metabolizzata dal paesaggio incontaminato nel quale ci siamo immersi. Sono tornato a casa con un sospiro di sollievo, ma anche con il peso di una tremenda responsabilità sulle spalle. Non tutti potranno visitare la Groenlandia o vivere le nostre esperienze. Né quell’esperienza rimarrà cristallizzata e identica ancora per molto tempo. Il danno è già stato fatto e ogni giorno peggiora, minuto dopo minuto. C’è un rimedio? Forse ci sono degli indizi nella nostra storia per capire come gestire il climate change. La popolazione Thule si è adattata ed è sopravvissuta, lavorando in un ambiente che cambia frequentemente. Nella nostra breve esistenza su questo pianeta, sembra che vogliamo prosperare a spese di altre specie, o di quelli nella nostra che sono meno fortunati. Fa sorridere pensare che il termine groenlandese per definire queste lande desolate sia Kalaallit Nunaat, vale a dire la Terra delle Persone. Questa isola è stata disabitata così a lungo ed è ancora così vuota, eppure mostra più di tanti luoghi i segni pesanti delle azioni degli uomini. Forse riusciremo ad adattarci a un ambiente che cambia velocemente, c’è ancora molto da salvare, così tanto da combattere. Questa storia, queste immagini, sono più di un semplice reportage di una vacanza di corsa nella natura. Sono un fermo immagine su un luogo in metamorfosi artificiale, un esempio potente del perché abbiamo bisogno di uno sforzo ancora più grande come individui, collettività e governi per cambiare i nostri comportamenti. Potrebbe essere già troppo tardi e probabilmente troveremo un modo per adeguarci se così fosse, ma c’è qualcosa di più importante che combattere per la propria casa?
LA GROENLANDIA È LA PIÙ GRANDE ISOLA AL MONDO
Circa l’80% della sua superficie è coperta da ghiacci, quella non occupata dalle nevi eterne è grande quanto la Svezia.
Il Northeast Greenland National Park è grande circa cento volte lo Yellowstone National Park.
L’Artico si sta scaldando a un ritmo due volte più veloce del resto del mondo con la Groenlandia sud-occidentale che ha visto il maggiore aumento delle temperature, di circa 3 °C negli ultimi sette anni.
Dopo la regione antartica, la Groenlandia è la seconda più grande zona ghiacciata. Il ghiaccio è vecchio fino a 100.000 anni, profondo fino a due miglia e rappresenta circa l’8% delle riserve di acqua dolce terrestri. Se si sciogliesse completamente, il livello degli oceani potrebbe salire fino a oltre sette metri.
La parola Tinu, che significa dietro, è utilizzata dagli abitanti della Groenlandia per descrivere la regione orientale, una delle più selvagge sulla faccia della Terra: i 2.700 chilometri di costa ospitano il più grande parco nazionale del mondo e tre baie con soli 5.000 abitanti.
Si pensa che gli Inuit (Eskimesi) siano arrivati nella parte nord-occidentale della Groenlandia dal Nord America tra il 2.500 a.c. e l’inizio del secondo millennio d.c., usando le isole dell’Artico Canadese come tappe intermedie.
Della spedizione in Groenlandia hanno fatto parte le trail runner Anna Frost, Stefanie Bleich e Kimberley Jacobs, insieme a Steve Chrapchynski, I glaciologi Tómas Jóhannesson e Pálína Héðinsdóttir, lo skipper Sigurður Jónsson, oltre al fotografo Kelvin Trautman.
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Le mascherine Crazy
Oltre 10.000 mascherine protettive donate alla Protezione Civile perché vengano distribuite gratuitamente a negozianti e associazioni locali. Sono questi i risultati del lavoro di Crazy, l’azienda valtellinese specializzata nella produzione di abbigliamento per lo skialp e il trail running. Lo scrive Valeria Colturi in un post sull’account social dell’azienda. Si tratta di prodotti lavabili e riutilizzabili, realizzati con i materiali impermeabili e traspiranti utilizzati per i capi d’abbigliamento fast & light. Non sono presidi medici, richiedono comunque il rispetto delle regole prescritte, ma possono però essere utili per persone che sono in contatto con il pubblico, perché proteggono le altre persone da schizzi e secrezioni grossolane. La produzione quotidiana è arrivata a circa 700 pezzi e la confezione viene realizzata a casa da un centinaio di persone, mentre alcune aziende fornitrici hanno regalato parte dei materiali utilizzati. Negozianti e associazioni della provincia di Sondrio possono farne richieste telefonando al numero 0342 212524.
Suffer fest Ice & Palms
Continuiamo a pubblicare i racconti più belli apparsi su Skialper per ricordare quanto è bello viaggiare e usare gli sci come mezzo di trasporto. E per sognare nuove avventure.
*suffer fest: neologismo di origine anglosassone, indica un’attività sportiva di endurance nella quale è previsto che buona parte (se non tutti) dei partecipanti siano costretti a una fatica prolungata con annessa sofferenza fisica e mentale.
Il Baden-Württemberg è uno dei principali land della Germania. La sua capitale è Stoccarda, conosciuta nel resto del mondo come la patria dell’automobile (Mercedes-Benz, Porsche, Bosch hanno sede qui, ad esempio), e l’economia dell’intera regione si basa largamente sull’industria. Confina con la Francia a Est e con la Svizzera a Sud, mentre i principali rilievi sono rappresentati dalla Foresta Nera, la catena dello Giura e le Prealpi del Lago di Costanza. Il Baden-Württemberg sembra un buon posto dove vivere, se non fosse per un piccolo dettaglio: il mare, specialmente quello caldo, è lontano, parecchio lontano. E di conseguenza, se un paio di amici si dovessero inventare di voler andare al mare in bicicletta, le cose si complicherebbero parecchio, specialmente se lungo l’itinerario ci si volesse portare dietro anche degli sci e decidere di utilizzarli nel miglior modo possibile.
I due amici sono Jochen Mesle e Max Kroneck che, oltre alla passione per lo sci scoprono di condividere anche quella per le pedalate, specialmente quelle lunghe e faticose, e per la fotografia, in particolar modo quella che ti impone di utilizzare apparecchi pesanti e scomodi. L’idea che partoriscono insieme ha le caratteristiche comuni di ogni suffer fest* che si rispetti: dev’essere lunga, fisicamente estenuante, particolarmente ricca di incognite e problematiche di varia natura, originare vesciche in vari punti del corpo e apparire insensata agli occhi delle persone normali. Et voilà, ecco il progetto Ice & Palms: Jochen e Max vogliono partire da casa loro a Dürbheim, nel Baden-Württemberg, raggiungere l’Austria e da lì attraverso i principali valichi alpini arrivare fino al lungomare di Nizza, senza mai utilizzare mezzi a motore e sciando il più possibile, filmando allo stesso tempo la loro avventura. Di tanto in tanto, poi, verranno raggiunti da amici che daranno una mano nella ripresa delle immagini.
I loro destrieri saranno due bici gravel, equipaggiate con portapacchi anteriori e posteriori sui quali sistemare l’attrezzatura. Sci e scarponi dietro, insieme a uno zaino con il materiale per la notte. Sacca anteriore sinistra per il pentolame e macchine foto. Sacca anteriore destra: accessori e abbigliamento da pioggia, pronti per essere tirati fuori in poco tempo. Peso totale, cinquanta chili, grossomodo: vista l’agilità, più che destrieri li si potrebbe definire dei ronzini un po’ sovrappeso. Quello della partenza, nella primavera del 2018, è un momento strano, Jochen e Max sembrano fuori posto: un po’ come quei modelli da catalogo, ritratti in ambiente ma con abbigliamento e attrezzatura perfettamente in ordine e puliti. Ci vorranno un paio di giorni per cominciare a stropicciarsi il giusto e toccare la neve dopo più di 100 chilometri di distanza percorsa. Non è poi così male, tutto sommato, poter acclimatarsi in modo soft prima di arrivare sulle montagne vere. Viaggiare con bicicletta e sci al seguito significa perdere continuamente tempo a fare e disfare i bagagli, che richiedono un ordine maniacale, in perfetta antitesi con la natura degli sciatori. Ogni pezzo dev’essere nel posto giusto per essere trovato nel momento giusto: Mark Twight diceva che in montagna ci vuole un accendino in ogni tasca, per non impazzire quando si tratta di accedere il fornello in bivacco, e in bike packing non cambia più di tanto.
Al quarto giorno sono nell’Arlberg, da lì si dirigono verso la Svizzera. Di neve qui non sembra essercene molta, ma bisognava pur trovare un compromesso per poter beneficiare dell’apertura di quasi (tutti) i valichi. Sono le classiche condizioni in cui, una volta - come dicono i vecchi - cominciava la stagione dello scialpinismo. A St. Anton un avventore in un bar chiede loro cosa faranno quando, una volta arrivati a Nizza, non troveranno più neve da sciare. «Ci siamo portati dietro anche il costume da bagno» la risposta perentoria.
Dopo nove giorni e 500 chilometri si comincia a fare sul serio. La coppia di ciclo-sciatori si avvicina al massiccio del Bernina e dalle sacche sulle ruote spuntano fuori piccozze e corde, ingredienti necessari per il menù dei giorni a seguire: Piz Bernina e Cima di Rosso, itinerari grandiosi che strizzano l’occhiolino alle pendenze sopra i 45°. Si muovono bene, dopo le prime tappe in cui hanno patito entrambi le conseguenze di infortuni occorsi durante la stagione invernale. Strano ma vero, le centinaia di chilometri in bicicletta hanno fatto da terapia e ora si avvicinano alla metà della distanza che separa la Germania dal Mediterraneo. Dopo due settimane di viaggio arrivano al Furkapass, che collega le Alpi Lepontine a quelle Bernesi. Su questi tornanti, negli anni ’60, Sean Connery sfrecciava sulla sua Aston Martin durante le riprese di Agente 007 - Missione Goldfinger, ma quando Jochen e Max arrivano alla sbarra del fondovalle capiscono in poco tempo che per loro il valico sarà tutt’altro che velocità e adrenalina: la parte alta non è ancora stata ripulita dalla neve ed è, in poche parole, chiusa al traffico. Non rimane altra scelta che accettare la sfida e caricarsi le biciclette letteralmente sugli zaini, tirare fuori le pelli e proseguire carichi come sherpa lungo i pendii innevati, sotto una leggera nevicata che non fa altro che rincarare la dose di sofferenza. I due viandanti procedono barcollanti sotto i loro carichi monumentali e, un passo alla volta, cominciano a salire verso i 2.436 metri del passo. La discesa è una scena surreale, fatta di curve molto controllate e allo stesso tempo storte come un quadro cubista, fino a quando, esausti, possono finalmente rimettere le ruote sull’asfalto, mentre il nevischio ora tramutato in pioggia fa apprezzare ancora di più la mutevolezza del meteo primaverile.
Sono passati ventun giorni dalla loro partenza e con 960 chilometri nelle gambe il Vallese si apre davanti a loro. Mentre a pochi chilometri i turisti gozzovigliano nei ristoranti di Zermatt, i nostri due eroi puntano gli sci verso mete sicuramente più di nicchia. «È bello ritrovarsi completamente soli in montagna e sapere di avercela fatta con le proprie forze» commentano, salendo verso il rifugio da cui partiranno il giorno successivo. Il Bishorn lo sciano nella nebbia, non senza qualche spavento. Le valanghe si fanno sentire ma non si fanno vedere, mentre a quattromila metri, immersi nel white-out, aspettano una finestra di cielo pulito per scendere il più velocemente possibile. Sul Brunegghorn, due giorni più tardi, vengono premiati dagli dei della montagna con una discesa memorabile, in una di quelle giornate in cui lo scialpinismo primaverile si manifesta in tutta la sua bellezza. Cielo azzurro, polvere fredda e, duemila metri più sotto, il verde dei pascoli a fare da quinta. La parete Nord è una pratica che viene liquidata in una decina di curve che giustificano pienamente lo sforzo supplementare di utilizzare assi da freeride al posto di perline da scialpinismo light: entrambi, infatti, hanno deciso di portarsi dietro sci oltre i 100 millimetri al centro e scarponi a quattro ganci da freetouring. L’attenzione della coppia, ormai innamorata del Vallese, si sposta a questo punto su un altro monumento del ripido, che risponde al nome di Grand Combin de Valsorey. Lo scivolo Nord-Ovest, che culmina a 4.184 metri, viene descritto da Max come una scala di Giacobbe, facendo riferimento all’affresco di Raffaello in cui il profeta biblico sogna una scalinata da cui gli angeli possano muoversi fra la Terra e il Cielo. Lo stesso scivolo in cui, nel film La Liste, Jérémie Heitz perdeva uno sci, riuscendo incredibilmente a salvarsi la pelle dopo una caduta a 50° di pendenza. Per i due la giornata si rivela fortunatamente meno adrenalinica, anche se la stanchezza inizia a farsi sentire. Proprio quel giorno avrebbero dovuto riposare, ma passare sotto a quella rampa senza sciarla non sarebbe stata un’azione da fedeli devoti alla causa dello sci.
Al trentesimo giorno, nei pressi del Gran San Bernardo, iniziano a manifestarsi i primi indizi che indicano che ormai è solo questione di pochi giorni prima di potersi spaparanzare in spiaggia. Nizza 323 km, recita un cartello nei pressi del tunnel. Pochi chilometri più in là, a Donnas, delle palme appaiono a bordo statale come oasi nel deserto. Come i barbari alla fine dell’Impero Romano, i due germanici continuano a calare verso Sud a bordo dei loro ronzini meccanici, nutrendosi unicamente di pizza, pasta e carboidrati vari per onorare la cultura del turismo tedesco in Italia. Valle di Susa, poi il Monginevro: il prossimo obiettivo sarà la Barre des Écrins, il quattromila più meridionale dell’arco alpino, e sarà anche l’ultima vetta in programma prima di dirigersi verso il Col du Vars e le spiagge francesi.
Quella sulla Barre è un’altra giornata memorabile. Si filmano a vicenda all’alba, mentre si dirigono, sci ai piedi, verso la terminale della parete Nord, che per l’occasione si è presentata con il vestito dei giorni di festa. Solitamente è un muro ghiacciato e non sempre la neve la ricopre in modo sufficiente per poter essere sciata. Solitamente non vuol dire sempre, e per i due l’ultima discesa del loro viaggio può cominciare direttamente dalla croce sommitale, dalla quale si può vedere tanto il Monte Bianco quanto il Golfo di Nizza. Chi ha già sciato nelle Alpi del Sud sa bene l’emozione che si prova a vedere il Mediterraneo scintillare in lontananza, la stessa che provano Jochen e Max mentre gli attacchi fanno clack.
Il Col du Vars è una formalità che viene sbrigata in fretta, aspettando l’ultimo ostacolo: il Col de la Bonnette, che con i suoi 2.715 metri è, insieme allo Stelvio, all’Iseran e all’Agnello, tra i più alti valichi asfaltati delle Alpi. Nel 2016 il Giro d’Italia era passato di qua in una tappa memorabile, la penultima: in soli 134 chilometri erano stati concentrati 4.100 metri di dislivello, con le salite al Vars, alla Bonnette e alla Lombarda per poi terminare sui tornanti che conducono al Santuario di Sant’Anna di Vinadio. Proprio qui, sul finale, Vincenzo Nibali aveva attaccato sul diretto concorrente Esteban Chaves, che si era visto sfilare la maglia rosa a meno di 24 ore dalla fine del Giro. Quel giorno, all’arrivo, i genitori di Esteban si erano resi protagonisti di una scena di sport indimenticabile, andando ad abbracciare il siciliano sul traguardo e complimentandosi con lui per la vittoria. Uno sgambetto è stato riservato anche a Max, che riesce a forare a meno di 30 km da Nizza, dopo 42 giorni e 1.800 chilometri di strade di montagna. L’arrivo sul lungomare è uno shock: dopo sei settimane in cui le uniche priorità erano state sciare, pedalare e più generalmente sopravvivere, il senso di smarrimento è totale. «Cosa faremo ora?», si chiedono i due, confusi al punto che pure scegliere dove andare a cenare rappresenta una sfida al pari della traversata del Furkapass innevato. Succede così che il capitolo finale del loro viaggio viene scritto in un ristorante messicano nel sud della Francia, un’idea assurda e apparentemente incomprensibile quanto voler partire dalla Germania per arrivare al Mediterraneo sciando e pedalando. Cosa ci insegnano Max e Jochen? Beh, di sicuro potrebbero illuminarci sulla loro gestione del tempo libero, ma è limitante dire che per intraprendere un progetto come Ice & Palms sia sufficiente trovare 40 giorni di ferie, anche perché, in un certo senso, loro in quel momento stavano lavorando, in quanto freeskier professionisti. No, Jochen e Max ci insegnano che le avventure più belle possono essere vissute anche dietro casa, che non è necessario viaggiare dall’altra parte del mondo per ritrovarsi in balia dell’incognito. E che l’incognito - o inesplorato, che fa più figo - può avere moltissime forme diverse: dalle condizioni della neve sul Grand Combin a quelle della strada sul Furkapass, fino a quelle fisiche di Max quando, nel trasferimento dalla Val d’Aosta alla Francia, si ritrova a macinare duemila metri di dislivello con 39 gradi di febbre. E ci insegnano anche in cosa consiste la creatività, ovvero su come prendendo due o più concetti e fondendoli insieme si possano creare infinite nuove idee. Tipo andare in bici e sciare, o sciare e andare al mare. Oppure, andare al mare pedalando e sciando. Insomma, ci siamo capiti. Un’ultima lezione potrebbero darcela sulla gestione della biancheria in sei settimane di ambienti umidi e freddi, ma quella è tutta un’altra storia.
Ice & Palms è un cortometraggio di 32 minuti prodotto da El Flamingo Films e diretto da Jochen Mesle, Max Kroneck, Philipp Becker e Johannes Müller.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124
https://youtu.be/AzyK5qr-WC0
https://vimeo.com/elflamingo/iceandpalms
Prova a prendermi
Questo pomeriggio alle 17 sul nostro account Instagram saremo in diretta con François Cazzanelli. Per ripassare l'argomento, ecco l'intervista pubblicata lo scorso agosto su Skialper. Ma da allora François non si è fermato...
Mentre camminiamo ai piedi del Cervino, su quei prati e quelle pietraie che in inverno vedono sfrecciare centinaia di migliaia di sciatori, François si ferma e si china. Raccoglie un pezzo di carta, poi uno di plastica, poi ancora il tappo di una bottiglia di vino. «Fai una fotografia alla mano con questi rifiuti? Ogni volta che salgo in montagna raccolgo quello che trovo e a fine stagione voglio fare un post con tutte le foto: si parla tanto di rifiuti e di inquinamento, ma se ognuno di noi iniziasse a raccogliere quello che trova, la montagna sarebbe più pulita». François Cazzanelli, classe 1990, è in quel momento della sua carriera alpinistica in cui succedono tante cose. L’ultimo anno è stato un susseguirsi di colpi di scena. Prima il record delle quattro creste del Cervino, a settembre, con Andreas Steindl: 16 ore e 4 minuti per polverizzare il tempo di 23 ore di Kammerlander – Wellig del 1992. Poi, un paio di settimane dopo, la nuova via Diretta allo Scudo sulla parete Sud del Cervino, aperta con Emrik Favre e Francesco Ratti. Un sogno iniziato dal padre, anche lui Guida alpina, e sul quale François metteva gli occhi dal 2012, alla ricerca di una soluzione nella parte più ripida. Poi a fine maggio la doppia ascesa sulla vetta del Denali, in Alaska, in una settimana, con la terza ripetizione italiana della difficile Cresta Cassin, in velocità: 26 ore e 45 minuti dal campo 4, 18 ore e 58 dalla terminale. Una linea che di solito viene chiusa in diversi giorni. In mezzo altre imprese che non fanno record, ma curriculum: il Mount Vinson, in Antartide, a gennaio; la traversata integrale estiva delle Grandes Murailles con Kilian Jornet in 11 ore; il tentativo di traversata invernale delle creste della Valtournenche, dal Theodulo alle Petites Murailles, passando per il Cervino. Ce n’è per gonfiarsi il petto, invece la ricetta Cazzanelli parte dal basso, dal rispetto e dall’umiltà.
IL CERVINO CI GUARDA, CHE COSA RAPPRESENTA PER FRANÇOIS CAZZANELLI?
«È la mia scuola di vita, la mia fonte d’ispirazione, mi ha formato: quello che ho imparato qui mi ha permesso di raggiungere le vette di tutto il mondo».
È UN SIMBOLO, UN PO’ COME L’EVEREST, DOVE SEI SALITO L’ANNO SCORSO. E, IN SCALA DIVERSA, PRESENTA GLI STESSI PROBLEMI DI AFFOLLAMENTO.
«Guarda, devo essere sincero, io questi problemi di affollamento e di sporcizia di cui si parla tutti i giorni, come pure le storie di morti appesi alle corde da anni, le ho trovate un po’ esagerate. Per quanto riguarda le file va però detto che l’anno scorso la finestra di tempo era stata più ampia. In vetta sono arrivato con l’astronauta Maurizio Cheli, con l’ossigeno perché dovevo garantire la sicurezza del cliente, poi qualche giorno dopo il Lhotse, con Marco Camandona, l’abbiamo raggiunto senza bombole e in stile alpino. Credo che non sia giusto criticare i nepalesi per il business dell’Everest. Sull’Everest per ogni cliente lavorano tre nepalesi, ciò significa permettere a tre famiglie di mangiare. Anche sul Cervino, fin dall’inizio, già nei sogni di Carrel, l’obiettivo era quello di aprire una via dove poter accompagnare i clienti, portando così ricchezza alla propria valle. Anche qui stiamo razionalizzando l’accesso, abbiamo ridotto i posti letto alla Capanna Carrel per migliorare la sicurezza e mantenere pulita e in ordine la nostra montagna. A differenza del Monte Bianco, nulla è vietato. Ripulendola ho trovato perfino un assorbente sotto i materassi che era lì da chissà quanto tempo. Se vogliamo criticare il sistema Everest, allora per essere coerenti dobbiamo togliere le corde fisse dal Cervino».
QUANTE VOLTE SEI STATO IN VETTA AL CERVINO?
«L’ultima ieri, e fanno 68. Una media di 11-13 a stagione, l’anno scorso 18 volte grazie al concatenamento delle quattro creste. Il numero è un valore relativo, quello che mi piace sottolineare è che ci sono salito da 15 vie diverse».
DAL CERVINO AL DENALI, L’ULTIMA STELLA SULLA TUA GIACCA. RACCONTACI COME È ANDATA E PERCHÉ SIETE SALITI DUE VOLTE IN VETTA.
«Le due salite in una settimana sono la ciliegina sulla torta, ma onestamente non ci contavo. Quando il 22 maggio siamo arrivati al campo 4, ci hanno comunicato che la finestra meteo favorevole sarebbe stata di sole 24 ore; a quel punto con Francesco Ratti abbiamo deciso di fare un giro di perlustrazione sulla West Rib per vedere l’attacco della Cassin. Poi, arrivati al colle, avevamo un mare di nubi sotto di noi e sopra il bel tempo, così siamo saliti fino in vetta, dopo 9 ore di scalata, alle otto di sera».
E LA CRESTA CASSIN?
«La salita vera e propria l’abbiamo fatta il 28 maggio, sempre con Francesco. Siamo partiti presto con Teto e Roger, poi loro hanno proseguito sulla West Rib. Siamo scesi per la Seattle Rump e in 4 ore e 20 minuti eravamo alla base della via. Dieci minuti per preparare il materiale e rifocillarci e poi via. Le condizioni al Japanese Couloir non erano delle migliori, c’era parecchio ghiaccio, ma siamo riusciti a cavarcela velocemente. La traccia delle due cordate davanti a noi ci ha aiutato parecchio e in poche ore siamo arrivati al ghiacciaio pensile. La prima rock band ci ha riservato un’arrampicata splendida, mai difficile e molto divertente. Arrivati in cima abbiamo superato le altre due cordate: una stretta di mano, un po’ di incoraggiamenti reciproci e poi su verso la seconda rock band. Abbiamo trovato agilmente il couloir nascosto e lo abbiamo superato. In cima a questo tratto, a circa 5.000 meri, ci siamo fermati a mangiare qualcosa. Il passaggio successivo era superare la terza rock band, ma è stato più difficile: per i successivi 400 metri avremmo dovuto tracciare la via con la neve alle ginocchia. La notte stava arrivando e abbiamo deciso di fermarci due ore a riposare e bere dentro la tendina monotelo. Alle due del mattino è venuta l’ora dell’attacco alla vetta. Faceva molto freddo, circa -36 con vento a 45 chilometri orari. Gli ultimi 700 metri sono stati difficilissimi. Stringendo i denti, finalmente alle 7 del mattino eravamo al sole e in vetta».
RIPENSANDO A QUEI GIORNI, QUAL È STATA LA CHIAVE DEL SUCCESSO?
«La strategia, la strategia di non rimanere per lunghi giorni nel gelo del campo 4, ma di attrezzarlo e poi tornare a valle, all’aeroporto, a quota 2.170 metri, dove la vita è più agevole e abbiamo potuto regalarci anche qualche comodità in più, dai grandi pannelli solari per alimentare l’attrezzatura alle pizze per festeggiare la prima salita in vetta».
LE PIZZE, CROCE E DELIZIA, SAPPIAMO CHE NE VAI GHIOTTO.
«È vero, in Alaska siamo diventati amici dei piloti e siamo riusciti a farcene portare quattro nei cartoni, poi le abbiamo scaldate su dei fogli di alluminio con il fornelletto, devo dire che non erano niente male».
COME AVETE DECISO LA STRATEGIA DI RIMANERE IL MENO POSSIBILE AL CAMPO 4?
«Me l’ha suggerita Andreas Steindl, compagno di avventura sulle quattro creste del Cervino, che era già stato al Denali. C’è una considerazione però che va oltre questa strategia: è stata possibile grazie alla nostra velocità. Mi spiego meglio: la prima volta, dall’aeroporto al campo 4, con pesanti zaini sulle spalle, ci abbiamo messo 8 ore e 45 minuti. Abbiamo dormito lì due notti e siamo rientrati a valle. Quando siamo saliti in vetta per la West Rib ci abbiamo impiegato 6 ore e 30 minuti e abbiamo dormito una sola notte al campo 4. Infine quando siamo saliti per la Cresta Cassin ci abbiamo impiegato solo 4 ore e 20 minuti. E sono 24 chilometri da 2.170 a 4.327 metri di quota».
LA VELOCITÀ È TUTTO?
«La velocità non è fine a se stessa, ma è una qualità. E in questo caso è stata una qualità vincente».
LA VELOCITÀ PRESUPPONE LA LEGGEREZZA, COSA AVETE USATO SULLA CRESTA CASSIN?
«Ramponi, piccozze, una corda da 35 metri, una serie di friend, una tenda monotelo, una bombola di gas, un fornello, due sacchi da bivacco, cibo e naturalmente abbigliamento imbottito in piuma».
PERCHÉ LA TUA CARRIERA ALPINISTICA È STRETTAMENTE LEGATA AL CONCETTO DI FAST & LIGHT?
«Forse perché arrivo dalle gare di scialpinismo. Così ho iniziato a fare delle gite e delle alpinistiche con gli amici e mi sarebbe piaciuto tornare da solo, in libertà, veloce e senza pensieri. È un alpinismo che mi appaga molto e mi fa sentire libero».
È UNA DOMANDA BANALE, MA IL CONCETTO DI VELOCITÀ È STRETTAMENTE LEGATO A QUELLO DI TEMPO. CHE COSA È PER FRANÇOIS CAZZANELLI IL TEMPO?
«Nonostante le polemiche sui record e la loro omologazione, credo che rimanga comunque un fattore immediatamente tangibile, anche nell’alpinismo dove ci sono altri aspetti da tenere in considerazione».
E IL RISCHIO?
«Il rischio c’è, in montagna come nella vita, ma credo che sia relativo. Relativo alla propria esperienza, allo stato di forma, alla tecnica, a tanti fattori».
LA VELOCITÀ È UN FATTORE DETERMINANTE, MA ANCHE L’ALLENAMENTO. IN UN POST HAI SCRITTO CHE LA CRESTA CASSIN È STATA POSSIBILE PERCHÉ VI SIETE PREPARATI METICOLOSAMENTE TUTTO L’INVERNO. COME TI ALLENI?
«Mi alleno semplicemente andando in montagna, in estate con roccia, corsa e mountain bike, in inverno con ghiaccio, alpinismo e soprattutto lo scialpinismo. Con mio cugino Stefano Stradelli mettiamo sempre in programma quattro-cinque gare, poi magari ne aggiungiamo altre se riusciamo. Quest’anno abbiamo fatto, tra le altre, la Pierra Menta e il Mezzalama. Però non ho un preparatore atletico e non ho fatto qualcosa di particolare questo inverno rispetto agli altri, vado molto a sensazione. Quello che volevo dire con quel post è che nulla arriva per caso. Dietro alle imprese c’è tanto studio della via, tanta preparazione fisica ma anche tanta attesa della finestra giusta. Come atleti e alpinisti abbiamo una grande responsabilità, i nostri exploit vanno spiegati, altrimenti in tanti, per imitazione, metteranno le scarpe da trail per andare in vetta al Cervino. Facendo la Guida vedo troppa improvvisazione, troppe persone impreparate per quello che stanno affrontando».
DOPO IL TANDEM CON MARCO CAMANDONA, IL TUO TALENT SCOUT NELLO SCIALPINISMO, SI È FORMATO QUELLO CON FRANCESCO RATTI…
«Con Francesco mi trovo molto bene in montagna abbiamo la stessa maniera di valutare i rischi e pericoli. Il tentativo di traversata delle creste della Valtournenche di questo inverno lo dimostra. Con Camandona ho un rapporto speciale, per me è come un secondo papà e mi ha insegnato molto. Con lui siamo stati al Churen Himal, al Kangchenjunga, all’Everest e al Lhotse e a settembre ripartirò per l’Himalaya».
RACCONTACI DI PIÙ DELLA TRAVERSATA INVERNALE DELLE CRESTE.
«A febbraio siamo partiti dal Theodulo con l’idea di attraversare il Furggen, il Cervino (salendo la via degli Strapiombi di Furggen), salire la Dent D’Hérens, le Grandes Murailles e le Petites Murailles. Sulle creste delle Murailles l’esposizione cambia continuamente e non c’erano le condizioni, diventava pericoloso e la stanchezza aumentava, abbiamo deciso di rinunciare: quelle montagne le abbiamo qui sopra casa e sarebbe stato stupido proseguire, bisogna anche sapere rinunciare».
E QUELLA ESTIVA CON KILIAN? COME È NATA?
«Mi ha chiamato lui, era in Valle d’Aosta. Ci conosciamo dai tempi delle gare e siamo entrambi amici di Mathéo Jaquemoud, lo siamo stati anche nei momenti difficili, quando Mathéo era in crisi e non andava. Sulle difficoltà alpinistiche andavamo bene, sulla corsa, soprattutto in discesa, qualche volta mi ha staccato. Alla fine però, quando avevo una gran sete, ho visto che anche lui iniziava a essere stanco e appena ha trovato una fontana si è messo a bere e a rinfrescarsi. Ci siamo trovati bene, mi piacerebbe fare ancora qualcosa questa estate».
COME È NATA L’IDEA DELLE QUATTRO CRESTE DEL CERVINO?
«In vetta, con Andreas ci incontriamo spesso alla croce del Cervino, così abbiamo unito i nostri progetti».
L’HIMALAYA, COME PER LO SCI RIPIDO, È LA PROSSIMA FRONTIERA DEL FAST & LIGHT?
«Credo che la storia dell’alpinismo sia fatta di corsi e ricorsi storici. Ci sono state le fasi di scoperta e poi le ripetizioni più veloci delle vie. È chiaro però che oggi il mix di preparazione ed evoluzione dei materiali consenta nuovi exploit e credo che in Himalaya ci siano tante possibilità».
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La Promenade
In questi giorni in cui siamo confinati in casa, ecco il racconto del giro della Valle d'Aosta con gli sci ai piedi. Un'avventura per la quale saremmo tutti pronti a partire, ma che dovremo rinviare. Le montagne rimarranno lì ad aspettarci...
Fra i legni lunghi due metri e dieci e i palettoni da 106 millimetri sotto il piede scivolano via cinquant’anni. Come niente fosse. Decenni di vite, senza che la montagna se ne sia neppure accorta. Corse, salite, discese, gare, neve, pioggia e sole. E lei sempre uguale a se stessa. Sempre lì, a due passi da casa. Corrono via cinquant’anni, ma gli orizzonti restano immobili. Vicinissimi a tutto, ma lontanissimi dal mondo. E i ricordi di allora si fondono con quelli di oggi. Raccontando come tutto sia cambiato. È il 1970, i legni sono altissimi e stretti, fardelli sugli attacchi capaci di alzarsi non oltre un paio di dita. Pelli fissate a tre ganci laterali, una tenuta approssimativa, nello zaino l’attrezzatura per sistemarle nei momenti peggiori. Nello sconfinato bianco della Val d’Aosta, in condizioni di neve perfette e abbondanti, tre ragazzi. Guido, Ruggero, Carlo. Ad aprile, primi di sempre, tracciano il loro sogno: attraversare la regione sugli sci, da Champorcher a Gressoney. Tredici tappe, due giorni di sosta per maltempo, 37.000 metri di dislivello. Quando arrivano alla meta, il giorno della Festa del Lavoro, a unirli non è solo la sensazione di aver fatto qualcosa di mai visto. È la certezza di aver fissato un’amicizia. Di averla messa alla prova. Nelle difficoltà e nelle risate. «Resterà sempre uno dei ricordi più belli della mia vita» dirà uno di loro.
Cinquant’anni si dileguano in vapore. Ma le cose belle diventano cemento. Anno 2017, mese di maggio. La storia si ripete. Sulle stesse linee che ogni anno decine di persone ripercorrono, sugli stessi passi che gli atleti del Tor des Géants inanellano frenetici, il sogno di Guido, Ruggero e Carlo rinasce. È lo spirito a dettare le regole: nessuna sfida contro il tempo, nessun bisogno di leggerezza per correre più veloci. Lì, a due passi da casa, Shanty Cipolli e Simon Croux decidono semplicemente di ripercorrere quel che qualcuno ha già fatto. Per raccontare a tutti, senza esibizionismi alpinistici, che «per esplorare non si deve per forza andare lontano». Perché quando parti, come puoi apprezzare quello che trovi, se non sai quello che lasci?. Sono le montagne su cui si affaccia la camera da letto, rimaste lì nel tempo ad osservare, senza dire parola. I luoghi di una vita. Shanty Cipolli, nome sanscrito portato in dono da un viaggio paterno in Nepal, qui ci scia da sempre. Ventisei anni, maestro di sci di Antey, porta sulle gambe giganti e gare di skicross con i colori della nazionale, prima di approdare al mondo freeride e ai Qualifier per il World tour. «Studiavo da geometra, ma ho lasciato perché non era compatibile con tutti questi impegni» ammette. E lo sguardo a un futuro professionale si è ridisegnato di conseguenza: «Ora punto alle selezioni per diventare Guida alpina» non nasconde. E intanto, si scia. Un po’ la stessa storia di Simon Croux, ventunenne di Courmayeur, nato in Svizzera e posato sugli sci all’età di tre anni da una famiglia titolare di un locale sulle piste ed erede di una lunga tradizione di Guide alpine (il trisnonno Laurent era fra i consueti accompagnatori del Duca degli Abruzzi). Anche per lui gare di gigante, poi un salto alle competizioni freestyle e l’arrivo a soli 14 anni al Freeride World Tour junior. «Anche io ho dovuto lasciare la scuola: frequentavo il liceo sportivo, ero riconosciuto come atleta nell’ambito di una classe de neige. Ma niente: la mia attività non era vista alla pari dell’agonismo più classico, da sci club. E questo non mi ha aiutato». Oggi, tanto per chiarire com’è finita, è nei Qualifier del Freeride World Tour.
Per Shanty e Simon, stuzzicati dal filmaker Michel Dalle, di Grobeshaus Production, l’idea di ripercorrere quel sogno lungo cinquant’anni, ritrovando lo spirito di quei lontani giorni scoperto per caso in un libro, è la scintilla. L’innesco di un’avventura diventata film con la voglia di mostrare a tutti cosa c’è là dietro. Dietro le cime di sempre. Oltre lo sguardo. A due passi da casa. Ma tra il fare per conservare e il fare per raccontare passano differenze immense. E dove Guido, Ruggero e Carlo scivolavano senza guardarsi indietro, pensando solo alla loro avventura, Shanty e Simon si trasformano in protagonisti. Accompagnati dal regista-snowboarder in split e illuminati dal volo di perlustrazione effettuato con l’amico Cesare Balbis, pezzo di storia del Soccorso Alpino valdostano, cercano soluzioni, inquadrature, momenti, luci e pensieri da cristallizzare. I chilometri si susseguono, i metri di dislivello scattano. «Ma i pesi dell’attrezzatura sono di per sé il segno che quel che si voleva non era la performance, piuttosto una forma di ricerca» chiarisce Michel. Il desiderio di dire qualcosa. Di vivere i luoghi della vita in modo diverso. Venti chili di materiale foto-video, sacco a pelo, fornellino, bombole, attrezzatura alpinistica, tende, cibo, acqua, sci, scarponi. Addosso a ciascuno c’è più di una ventina abbondante di chili. E da Courmayeur Arp, dove tutto inizia, le giornate si fanno pian piano sempre più dure. Sveglia alle 6 del mattino o giù di lì, pelli e sciolina fino alle 16, poi sosta. Se serve in tenda, dove la zanzariera deve restare aperta per evitare che tutto condensi, se si può in rifugio. Giorno dopo giorno, per ventidue albe e tramonti, corrono sotto le lamine La Thuile, il Rutor, la Valgrisa e il col Bassac Déré, il rifugio Benevolo, la Val di Rhêmes con la Punta Basei, la Valsavarenche con i Piani del Nivolet, il Miserin e Champorcher, Gressoney e il Colle Bettaforca, Champoluc e il Col di Nana, Torgnon, Saint Denis, Saint Barthélemy e il col Vessona, la Valpelline, il Gran San Bernardo e il Col Malatrà. La birra finale evapora qui, seduti fianco a fianco ad ammirare i 4.810 metri che sovrastano ogni cosa. E la mente corre veloce a tutto quel che è stato in così poco, ma anche tanto tempo: la salita durissima verso La Thuile e il Deffeyes, la volpe che curiosava in tenda e poi accettava uno spuntino, il caldo opprimente della Valgrisa. La giornata di relax totale sul ghiacciaio Goletta, all’ombra del Granta Parey. La voglia di uscire di rotta e salirlo, la decisione di farlo davvero. La fatica della parete dura e ripida. La bellezza della sciata fuori programma. E poi la polvere che solleticava le ginocchia sotto il Città di Chivasso, la durezza della salita al Miserin, la tappa a Chamois e Antey, con la grigliata a casa di Shanty e la parentesi di una notte nel letto di sempre. La polverella fine al Vessona, le tracce di lupi verso la Valpelline. Tutto si accavalla, tutto torna. Ma è tutto troppo caldo ancora. E giù dal Bonatti scalpita la voglia di dire basta alla fatica. «Era ora di arrivare - ricorda Simon -. E ho tirato giù una linea dritta sulle pigne del bosco. Era fatta».
Venticinque minuti di film, poco più di un minuto per ogni giorno, un anno dopo sintetizzano e fermano nel tempo quelle emozioni. Campi larghi, silenzi, parole scelte con attenzione. E un racconto che non risparmia dettagli sulle difficoltà. Shanty e Simon che osservano la mappa, che scendono a fuoco nell’immenso del bianco. Che attendono in tenda. Che scherzano sul cibo. Sono i momenti televisivi. Dietro ai quali si nascondono le discussioni sulla scelta dell’itinerario, le rotte decise in base alle condizioni del momento, i consulti con gli amici di ogni valle, gli sguardi ai bollettini valanghe. La consapevolezza di percorrere una linea logicamente contraria all’usuale, sempre in partenza da ovest per scendere ad est, dal cemento del mattino alle insidie del pomeriggio. La speranza che il tempo regga, la fortuna di vedere che sarà così. I tratti più critici, i traversi a rischio. I momenti di confronto sulla scelta delle inquadrature. I tempi di assetto del regista nei punti strategici e più magici. Ma la neve si offre stabile. Perfetta. Ed è lei a legare ogni pezzo all’altro. Un giorno, due. «La camminata fin da subito si rivela più lunga e faticosa del previsto - recita Shanty, voce narrante sullo sfondo delle immagini -. Ma ormai non si torna più indietro. Adesso siamo qui, solo noi con le nostre forze». Ed è lì, nell’attimo della consapevolezza, che il vero sogno di Guido, Ruggero e Carlo riprende forza. «Gli spazi si fanno sempre più ampi - spiega Shanty -. E noi ci sentiamo piccoli». Puntini nel bianco. Proprio come cinquant’anni prima, pur sorretti da materiali, idee, attitudini e propositi molto lontani, i pupilli del CAI Guido Fournier, Carlo Vettorato e Ruggero Busa avevano immaginato. «Il nostro non voleva essere solo un esercizio fisico - ricorda Guido quasi cinque decenni dopo -. Era qualcosa di più. Che aveva in sé anche una componente estetica e naturalistica». Un’esperienza. «Un ricordo fantastico - chiarisce Carlo -. Che se avessi cinquant’anni meno, o anche solo 30 o 40, rifarei subito. Anche se so che non sarebbe più la stessa cosa».
Anche Shanty e Simon lo dicono. È passato un solo anno, ma la voglia di rifare tutto è già forte. «Un rewind? Potendo farlo, mi muoverei a tappe - spiega il maestro di Antey -. C’è tanto, così tanto da sciare in quei luoghi che scorrere via veloci, in una sola linea di passaggio, sembra un peccato». E allora, chissà. Forse sarà domani, forse tra qualche tempo. Forse ci penserà di nuovo qualcuno tra cinquant’anni. Intanto il bello è ormai dentro al cuore e alla memoria. Una lotta contro il «freddo, il vento, la stanchezza, la fame, la condensa, gli scarponi ghiacciati». Con un finale che non ti aspetti. Perché «quando sei lassù a guardare le stelle, a sentire il silenzio, a vedere la luce del mattino, ti rendi contro che, nonostante tutto, ne è valsa la pena». E forse, a due passi da casa, ne varrà sempre la pena.
1.300 metri al giorno
La traversata scialpinistica della Val d’Aosta portata a termine nel maggio 2017 da Shanty Cipolli e Simon Croux è durata 22 giorni. Queste le tappe: Courmayeur Arp la Balme; La Thuile e Rutor; Valgrisa e Col Bassac Déré; Rhemes e Punta Basei; Valsavarenche e Piani del Nivolet; Miserin e Champorcher; Gressoney e Colle Bettaforca; Champoluc e Col di Nana; Torgnon; Saint Denis; Saint Barthelemy e Colle Vessona; Valpelline e Valle del Gran San Bernardo; Col Malatrà e Courmayeur. I due freerider valdostani hanno coperto circa 1.300 metri di dislivello al giorno, con alcune varianti e soste rispetto al classico percorso del Tor des Géants, facendo affidamento su mappe, cartine e telefonino, oltre a un GPS che però è stato utilizzato solo nei punti più critici. Membri del team Mammut, supportati da alcuni sponsor, hanno percorso la traversata con sci da freeride: per Simon Croux i Line Francis Bacon (104 mm sotto il piede) con attacchi Marker Kigpin; per Shanti Cipolli i Movement Go Strong (106 mm), sempre con Kingpin. Con loro il filmaker Michel Dalle, che ha seguito la traversata con una tavola split. Al seguito, quattro batterie da un chilo l’una, un corpo camera da cinque chili, un computer, caricatori, treppiedi e ottiche, per un totale di circa 20 chili di materiale video. Nel 1970 un itinerario analogo era stato percorso da Carlo Vettorato, Guido Fournier e Ruggero Busa: partiti da Champorcher il 17 aprile, arrivarono a Gressoney il primo maggio, chiudendo la linea in tredici tappe, con una sosta di due giorni per maltempo. Percorsero 37.257 metri di dislivello, di cui 17.842 in salita e 19.415 in discesa.
Il film
Disponibile online su YouTube, La Promenade (25’ 48”) è il film che racconta i 300 chilometri e 20.000 metri di dislivello percorsi da Shanty Cipolli e Simon Croux nella loro avventura scialpinistica. Prodotto da Grobeshaus Production di Aosta, il video è stato scritto e diretto dal filmaker Michel Dalle, maestro di snowboard. Al suo attivo da un paio d’anni anche il film cAPEnorth, realizzato con la comproprietaria di Grobeshaus, Francesca Casagrande, per raccontare il viaggio su un’Ape Piaggio di due giovani aostani fino all’estremo nord della Scandinavia.
Da Est a Ovest
In questi giorni in cui i confini della nostra esplorazione sono la cucina o il salotto e solo l'immaginazione ci può portare a varcare nuovi orizzonti, vi riproponiamo il racconto della traversata della Groenlandia sulle orme di Nansen, pubblicato su Skialper 118. Per sognarli questi nuovi orizzonti, oltre a immaginarli.
Bianco. Nessun colore ci accompagna, mentre seguiamo l’ago della bussola che ci conduce a Ovest-Nord-Ovest. Whiteout. Niente suoni, tranne il vento che per fortuna oggi soffia più leggero. Per il resto, solo il ritmo degli sci e il nostro fiato. Abbiamo lasciato il fiordo di Isortoq da qualche giorno e siamo in pieno deserto bianco. Tento di interpretare le forme della neve, quando è il mio turno a battere traccia. Creste, buchi, sculture traforate dal vento. Una zampa d’orso. Che ci fa qui, a quasi cento chilometri dalla costa? Chiamo i compagni dietro di me, a loro non sembra. Mostro le unghie che hanno grattato il ghiaccio, ma ribattono che è uno scherzo di neve, nessun pericolo di incontrarlo stamattina. Però i norvegesi, che hanno il fucile, controllano che la cartuccia sia in canna. Non è un orso? Mah. Già abbiamo incontrato, ancora in vista del mare, piume, ossicini e peli che ha vomitato sul ghiaccio, liberando lo stomaco dai resti delle prede di qualche settimana. Erano freschi, non era transitato da tempo. Via di nuovo, per la cronaca non incroceremo alcun orso fino al termine della traversata, ma quelle orme, sono sicuro, erano sue.
Groenlandia, 14 agosto-10 settembre 2017, autunno a quelle latitudini. La traversata della più grande isola ghiacciata della Terra è un sogno fin da bambino, quando ho letto e riletto un libro sui grandi esploratori e fra tutte mi è rimasta in testa l’avventura di Fridtjof Nansen, ventisettenne di Christiania (Oslo), il suo viaggio da costa a costa del 1888, nella stessa stagione, da Est a Ovest come lo stiamo ripetendo noi. Un po’ più a sud il suo, un centinaio di chilometri in meno, ma rimane straordinaria l’impresa. Undici giorni di peregrinazioni in mezzo ai ghiacci a bordo di due scialuppe sbarcate dalla nave Jason, bivacchi sugli iceberg, la rotta contesa all’acqua gelata a colpi di ascia. Poi l’inlandsis, le barche abbandonate per proseguire con due sole grosse slitte del peso di oltre cento chili ognuna e allora un mese di odissea per raggiungere Godthåb, l’attuale Nuuk, capitale dell’isola. La fame. E finito il ghiaccio, ancora acqua da attraversare su una barca costruita con pezzi di slitta e, raggiunta una colonia danese, l’intero inverno in attesa di una nave per rientrare in Norvegia. Per loro una marcia verso l’ignoto, in un’immensità glaciale che gli inuit dicevano abitata da mostri. Per noi la ripetizione di un itinerario duro per le condizioni atmosferiche, faticoso e lungo, ma in fondo quando hai dubbi basta accendere il gps e trovi la traccia verso Kangerlussuaq (ma abbiamo proceduto sempre con la bussola).
E però se alla sera, rintanato tra le piume, rileggi le pagine del suo libro - un bestseller per la borghesia appassionata di montagna a cavallo del secolo, tradotto in ogni lingua europea salvo in italiano, quello che fece scoprire in tutti i Paesi alpini lo sport dello sci - ritrovi le stesse emozioni, i paesaggi, le difficoltà di un territorio che nonostante i mutamenti climatici è rimasto sostanzialmente uguale ad allora. Anzi lo scorso autunno, a causa di un’anomalia termica registrata solo in Groenlandia, le temperature erano crollate più ancora che ai tempi di Nansen: notti a -35° e una media diurna tra gli 0° e i -10°. I venti catabatici, che si rinforzano a Ovest sulle pianure canadesi e dall’Islanda sull’oceano Atlantico a Est, ci hanno frullatoper l’intero viaggio, in continuo contrasto, tanto da avere, dal mattino alla sera, bufera da ogni direzione.
Non è cominciata a metà agosto, la nostra traversata. È partita qualche anno fa con il tentativo di convincere gli amici delle precedenti spedizioni in giro per il mondo, poi una settimana sugli sci in Finnmark, nord della Norvegia, in febbraio per testare materiali e noi stessi nel grande freddo. In un inverno particolarmente mite, abbiamo cercato l'angolo d’Europa più gelido in quella stagione ed è risultato lassù. È finita con il congelamento di tre dita per Giorgio Daidola, fortunatamente temporaneo. Non ho idea se la visione delle falangi gonfie e annerite abbia convinto gli altri a sfilarsi, ma così è stato. È rimasto Matteo Guadagnini, scialpinista di lungo corso, e sono cominciati gli allenamenti seri, tabelle da maratona, montagna e soprattutto quella che Borge Ousland, il grande esploratore polare, chiama «la nobile arte del trascinare pneumatici», per abituarsi al traino delle slitte. A metà 2016 è toccato a me arrendermi, fermato da un elettrocardiogramma sotto sforzo del dottor Massimo Massarini. Matteo è partito lo stesso, affidandosi all’organizzazione di Ousland, io ho dovuto rimandare all’anno seguente. Ce l’abbiamo fatta entrambi, pur con spedizioni diverse, Matteo ci ha pure scritto un piacevole racconto pubblicato da Fusta editore, Groenlandia sulle orme di Nansen.
Ci vogliono almeno ventotto giorni per lasciare la traccia degli sci dalla costa Est alla costa Ovest. Ci si può mettere meno, ma diventa una gara contro il tempo, da impostare in maniera totalmente diversa da una spedizione alpinistica. Per sopravvivere a quella che è una delle più lunghe traversate sul ghiaccio - Antartide a parte, è ovvio - occorre trascinare almeno settanta chili di attrezzatura e cibo divisi fra due slitte. Cibo soprattutto, ché nel corso della giornata ingurgiti di tutto, per tirare avanti. Difficile correre, con un peso del genere attaccato alle spalle. Se però si affronta con spirito agonistico, è un’altra cosa. A metà giugno 2016, i norvegesi Ivar Tollefsen, Trond Hilde e Robert Caspersen hanno impiegato 6 giorni, 22 ore e venti minuti per coprire 560 km da costa a costa. Il primato precedente durava da tredici anni. Trond e Ivar c’erano già riusciti in poco più di nove giorni in autunno. In entrambi i casi non hanno utilizzato sci da fondo escursionistico come i nostri e pelli di foca, ma stretti e leggerissimi attrezzi nordici sciolinati, trainando un’unica slitta di pochi chili e stringendosi in una sola tenda. Roba da norvegesi, per i quali il tempo è buono e quindi si può andare se il vento cala appena sotto i 100 km/h. E la temperatura ideale è attorno ai meno venti. E infatti preferiscono partire a metà agosto, quando già comincia a farsi sentire il morso del gelo invernale e tradizionalmente si attraversa l’isola da Est a Ovest, mentre in primavera, dopo metà maggio, le temperature sono più alte, i venti meno impetuosi e la direzione usuale è l’inverso. C’è un vantaggio però a farla nella stagione meno favorevole: i crepacci nella prima e nell’ultima parte dell’inlandsis sono più chiusi, le seraccate meno tormentate e i canali di fusione, che in primavera assomigliano a fiumi in piena, in autunno si possono percorrere senza bagnarsi troppo, lasciando galleggiare le slitte.
Un viaggio straordinario nel tempo, prima ancora che attraverso le latitudini. Un’avventura che vale un pezzo di vita, per chi ama le solitudini glaciali. Un grazie ai miei compagni Thomas Kober, Beate e Martin Klein, Grete Karin Saetervik, Bård Helge Strand e Sindre Sivertsen.
ATTREZZATURA ARTICA
Preparare l’attrezzatura per una spedizione polare o subpolare di un mese è un lungo lavoro di scelta e di eliminazione spietata. C’è da scegliere tutto il materiale in base alle proprie necessità, ai consigli di chi già l’ha fatta, alle visite dei saloni specializzati e alle lunghe navigazioni su internet. Poi ne va lasciato a casa metà. Sarà comunque troppo per le vostre povere spalle, troppo poco per le necessità durante la traversata. Qui mi limito a indicare l’attrezzatura meno usuale rispetto alle più comuni uscite alpine.
- Sci Åsnes Nansen 190 cm
- Attacchi Rottefella Backcountry Magnum
- Pelli lunghe e corte
- Sciolina (necessaria quotidianamente per evitare gli zoccoli, altrimenti vi toccherà usare il burro o la crema solare)
- Bastoni Swix Mountain (+ almeno uno di ricambio, le rotture sono inevitabili)
- Scarpe Alfa Polar (abbondanti di almeno tre misure) con solette Woolpower in lana e alluminio
- Calze in abbondanza, di varia grammatura: ai piedi ne vanno indossate tre, a meno di non preferire i kartansk lapponi in lana cotta
- Guanti fini + guanti lavoro Ortovox Tour + moffole abbondanti in piuma e Polartec da sovrapporre a tutto
- Underwear 200 gr. Merino Ortovox o Engel in Merino e seta
- Underwear 600 gr. Woolpower in lana
- Giacca Patagonia Nano Air
- Duvet The North Face L6 Down Jacket
- Pantaloni Patagonia Powslayer Bib
- Pantaloni Patagonia Nano Puff
- Giacca Norrøna
- Berretti vari lana + balaclava + maschera neoprene + Buff + berretto in pelliccia sintetica 66° North Kaldi Arctic Hat
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