Dolomiti Half Marathon Experience
l risultato dell’equazione della bellezza è, su per giù, 21. Ci rifletto la sera, stanco e abbronzato, dopo avere provato in fila il percorso dell’Alpe di Siusi Half Marathon e della Dolomites Saslong Half Marathon. Perché dopo che hai messo i tuoi piedi uno davanti all’altro per due giorni, immerso nella natura incredibilmente bella e unica delle Dolomiti nel cuore di un’estate particolarmente assolata, dimentichi tutto, anche la distanza coperta. E, probabilmente, il cronometro. Oppure è proprio questa bellezza che ti fa volare ancora più veloce. Non lo so, me ne frego come Achille Lauro, perché le emozioni superano tutto e quasi non mi ero accorto che due gare che si dipanano a pochi chilometri di distanza misurano entrambe la fatidica distanza della mezza maratona. E forse è anche questo il segreto del successo dell’Alpe di Siusi e della Dolomites Saslong, che sono riservate, rispettivamente, a 600 e 700 runner, perché anche la grande bellezza, per rimanere tale, deve essere per molti, ma non per tutti.
E poi tutti le hanno a disposizione sempre, come noi in questa breve ma intensa vacanza di corsa. Perché l’equazione della bellezza è 21, se vogliamo metterla in numeri, se vogliamo considerare una distanza umana.
Ma sta soprattutto nei percorsi e nell’ambiente nel quale si snodano come dei serpenti. E nel quale rimangono sempre, ben segnati, da provare e coprire al proprio ritmo, in un solo colpo o in sezioni, fermandosi nei mille rifugi gourmet piuttosto che al rifornimento. Perché l’Alpe di Siusi e la Val Gardena sono un immenso parco giochi per il runner, con tanti altri percorsi oltre a quelli delle gare, per cambiare itinerario ogni giorno e ubriacarsi di bellezza.
E perché quest’anno, a causa dell'emergenza Covid-19, le due gare non si sono disputae. Ma i sentieri saranno comunque lì, anche solo per allenarsi nel 2020 in vista dell’edizione 2021. «È bello correre qui perché, diciamolo, all’Alpe di Siusi Half Marathon vieni per fare il tempo e guardare la classifica dà sempre soddisfazione, ma vieni soprattutto per farti del bene, per correre nella natura e nei panorami incredibili dell’altopiano» mi dice Egon Zuggal, allenatore FIDAL di atletica, istruttore di functional fitness e di mountain bike mentre proviamo lo strappo nei pressi dell’hotel Icaro, dove c’è un tratto di sentiero abbastanza breve ma in costante e decisa pendenza fino all’arrivo della telecabina che sale da Ortisei, al Mont Seuc. Egon, insieme a Rudi Brunner, specializzato in sport di resistenza e diagnostica della performance, tecnico ortopedico e anche lui allenatore FIDAL, organizza l’Alpe di Siusi Training Camp, una settimana prima della gara, per allenarsi e migliorare la propria tecnica di corsa. Il Training Camp prevede la prova del percorso in due diverse sessioni, ma anche analisi ortopedica del piede, clinic di corsa, functional fitness, corsetta al chiaro di luna con cena in baita, seminari sulla nutrizione sportiva. La mezza dell’Alpe di Siusi, misurata dalla FIDAL per corrispondere alla fatidica distanza di 21,0975 km, ha un percorso abbastanza dolce, quasi sempre corribile e senza difficoltà tecniche. Il dislivello è di 600 metri e i primi tre chilometri sono su strada asfaltata, ma si lascia presto il nastro di bitume per sentieri e strade forestali. Proprio all’inizio c’è forse il tratto più tosto, quello che ti può subito tagliare le gambe, questa salita dell’Icaro, breve ma intensa. Poi si fila via leggeri con lo sguardo che corre verso il Sassolungo e il Sassopiatto, lo Sciliar, il Sella. L’Alpe di Siusi è un grande altopiano al centro delle Dolomiti, con pascoli e baite dalle pendenze dolci. Si parte da quota 1.842 metri e si superano di poco i 2.100 metri. «Dopo il Mont Seuc si scende ad anello verso il punto di partenza della salita e ci si dirige verso Wiednereck, al chilometro 10, per salire alla Baita Rosa Alpina, a 2.015 metri e all’hotel Punta d’Oro, a 2.049 metri». Egon non fa in tempo a descrivere questa parte del percorso, che corre sul versante opposto dell’Alpe e chiude un anello che disegna una farfalla insieme a quello del Monte Seuc, che saliamo a pestare con i nostri piedi le mulattiere e i pascoli. Dalla Punta d’Oro si prosegue verso il Panorama, il Laurin e si scende al punto di partenza a Compatsch. La vista, se possibile, è ancora più bella, più sconfinata. Lo sguardo corre anche a Nord, verso l’Austria. Il terreno è un docile sali-scendi, con una riga bianca disegnata tra i pascoli e le baite. Di tanto in tanto delle passerelle di legno galleggiano sui campi in fiore. E il naufragar m’è dolce in questo mare.
Saliamo di prima mattina al Monte Pana. Il cielo è terso e l’aria frizzante. Non ero mai stato quassù, a 1.616 metri di quota. I prati lasciano subito il posto ai boschi e gli scogli del Sassolungo e Sassopiatto ti sovrastano. Abbiamo appuntamento con Manuela Perathoner all’hotel Cendevaves. Manuela è la presidentessa dei Gherdëina Runners, 70 tesserati con nomi illustri come quelli di Alex Oberbacher, Christian Insam e Georg Piazza, ma anche tanti runner che hanno fatto della corsa una ragione di vita, con obiettivi di cronometro diversi. Manuela presiede anche il comitato organizzatore della Dolomites Saslong Half Marathon powered by Scarpa, in pratica un’emanazione dei Gherdëina Runners. «Prima della Dolomites organizzavamo la Mountain Run, con partenza da Ortisei e salita fino al Monte Seceda, 15,5 chilometri e 1.200 metri di dislivello, è stata anche Campionato italiano di corsa in montagna, ma non è mai davvero decollata» mi dice mentre corricchia per riscaldarsi attorno al laghetto nel bosco. Così a un membro del consiglio direttivo dei Gherdëina è venuta l’idea di disegnare una corsa attorno al Sassolungo e al Sassopiatto. «Alla prima edizione abbiamo chiuso le iscrizioni due settimane prima, alla quota massima di 400 persone, l’anno scorso i 600 pettorali sono andati sold out» dice con il sorriso sulle labbra Manuela. Già, la Dolomites Saslong è solo al terzo anno di vita ma è diventata una grande classica in grado di attrarre tre volte più runner della precedente gara. Il perché lo scopriremo poco dopo, ma forse volgendo lo sguardo alle cime sopra la nostra testa potrebbe già arrivare una prima risposta. Però i nostri occhi vengono attratti da altro. Un gruppo di persone con maglietta, pantaloncini e scarpe da running sta facendo ripetute sugli scalini del trampolino del salto con gli sci. Sono Birgit e Christian Stuffer, i proprietari dell’hotel Cendevaves, alla partenza e arrivo della gara, anche loro tesserati con i Gherdëina Runners. Si tirano dietro una decina di ospiti dell’albergo. Christian ha un personal best di 2h35’42’ nella maratona di Amsterdam, Birgit di 3h01’44’’ in quella di Francoforte. Hanno messo la corsa al centro del loro stile di vita e organizzano vacanze e stage a ritmo di running, con allenatori e atleti, anche keniani, oltre al pacchetto speciale per la Dolomites Saslong, con pasti e colazioni ad hoc, massaggio, late check-in il giorno della gara (cendevaves.it).
Non c’è tempo di fermarsi troppo a chiacchierare della nostra passione, ci aspettano i 21 chilometri di percorso. Da qui si sale al Rifugio Comici, a 2.153 metri, per poi correre in leggera discesa verso la Città dei Sassi, un dedalo di massi davvero suggestivo, e il Passo Sella. Dal Sella si risale per il rifugio Salei e per svalicare in direzione del Rifugio Friedrik August e correre sul versante più selvaggio, con lo sguardo che vola verso il Latemar e la Val di Fassa. Restano il Rifugio Pertini e il Sassopiatto prima della discesa nel bosco della Val Scura, che riporta al Monte Pana. In tutto sono 21 chilometri e 900 metri di dislivello positivo, con il punto più alto a quota 2.363 metri. Non c’è un metro di asfalto, per metà si corre su sentiero, per l’altra metà su trail ghiaiosi. Ma soprattutto si corre facendo il giro del Sassolungo e Sassopiatto, rispettivamente 3.181 e 2.969 metri di dolomia pura, nel cuore di uno dei Patrimoni Mondiali dell’UNESCO. In fin dei conti è una piccola Sella Ronda, ma più selvaggia e lontana dalle strade. «Da Monte Pana si sale costantemente e in modo abbastanza regolare fino al Comici, poi l’altro strappo, più breve ma secco, è dopo il Passo Sella» dice Manuela. Al Comici, dove ci fermiamo per una pausa, abbiamo appuntamento con Alex Oberbacher, skialper (ha vinto l’ultima Mountain Attack versione Tour), un titolo di campione del mondo under 23 di vertical e vice-campione nella skyrace oltre che vincitore della prima edizione della Dolomites Saslong. «È più corribile della Mountain Run, c’è subito una salita dura, proprio fino qui al Comici, che fa la prima selezione, poi si corre in quota, su saliscendi dove si può andare veloci e alla fine una discesa a capofitto, ma ormai i giochi sono fatti» dice Alex. Dopo uno spuntino rigenerante riprendiamo il percorso verso il Passo Sella. Attraversiamo la Città dei Sassi, saliamo e svalichiamo per il Friedrich August. Il passo è leggero, gli occhi rivolti verso l’alto. La mulattiera diventa un sentiero, poi single track. La piramide del Sassolungo che vedevamo dal Monte Pana è prima diventata una torre piatta, poi una lunga cresta, poi una cresta interrotta da una forcella. Ogni metro che percorri il panorama cambia. Il bosco e la discesa della Val Scura portano un po’ di refrigerio. E non ti accorgi che sono passate ore, 21 chilometri e 900 metri. Quando si riparte?
RACE TIME
Saltata l’edizione 2020, la prossima Alpe di Siusi Half Marathon è in programma il 4 luglio 2021. L’edizione 2019 è stata vinta da Massimo Farcoz in 1h09’17’’ (su Markus Ploner e Khalid Jbari) e da Tinka Uphoff in 1h23’14’’ (davanti a Petra Pircher e Marion Huber). Info: running.seiseralm.it
La Dolomites Saslong Half Marathon powered by Scarpa è in calendario anche nel 2021 a inizio giugno, il 12. Tutti le iscrizioni del 2020 verranno tenute valide per il 2021. L’edizione 2019 è stata vinta da Stefano Gardener in 1h41’32’’ (davanti a Georg Piazza e Daniele Felicetti) e da Petra Pircher in 2h05’44’’ (su Nicol Guidolin e Manuela Marcolini). Info: saslong.run
NON SOLO GARE
Il Running Park Alpe di Siusi è costituito da 27 tracciati circolari con una lunghezza totale
di 240 chilometri. Otto corrono tra i 1.800 e i 2.300 metri, mentre altri tra i 900 e i 1.100 metri, attorno ai paesi di Castelrotto, Siusi, Fiè allo Sciliar e Tires al Catinaccio. La quota dell’Alpe di Siusi offre le condizioni ideali per mettere alla prova muscoli e abilità e migliorare la resistenza, forse anche per questo qui si allenano maratoneti e squadre nazionali di sci di fondo.
CORSE GOURMET
Sono davvero tanti i rifugi dove la buona cucina è di casa tra le Dolomiti. Ne segnaliamo tre tra i tantissimi degni di citazione. Se vi trovate in vacanza all’Alpe di Siusi, non proprio sul percorso della Half Marathon, ma non lontano, merita una visita la caratteristica Tschötsch Alm (tschoetscherhof.com), in zona Bullaccia. Si mangiano piatti della tradizione a chilometri zero e si beve il vino di produzione interna del maso zu Tschötsch. Vicino al percorso della gara, in zona Icaro, c’è un classico, la Baita Sanon (sanon.it), che offre taglieri e piatti tirolesi nella rustica stube e sulla grande terrazza tra i prati. Alla fine della prima salita della Dolomites Saslong si incontra invece il Rifugio Emilio Comici (rifugiocomici.com), uno dei grandi classici della ristorazione dolomitica. In inverno è il regno del pesce fresco, in estate menù completamente rivoluzionato, con carni, paste, funghi e affettati e grande attenzione a servizio e impiattamento.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 129
Kilian a nudo
Da Steck a Jornet. Skialper 130, dedicato all’alpinismo, agli alpinismi, ai modi di intendere i nuovi alpinismi nei quali il fast & light ha un ruolo importante, si apre con Ueli e non può che chiudersi, dopo una carrellata di personaggi eccezionali, con Kilian. Perché rappresentano due strade diverse per arrivare alla velocità con ingaggio, quella dell’alpinista e dello skyrunner. Due strade che partono lontane, ma che a un certo punto corrono parallele fino a incrociarsi. Ma pur sempre due strade diverse. Non c’è dubbio che curiosità e sperimentazione abbiano accomunato questi giganti delle montagne e siano i fattori che li hanno fatti incontrare e dialogare. Ueli ha scritto la storia del fast & light, Kilian anche e ha ancora margini per scriverne altre di pagine. Lo abbiamo intervistato tante volte, ma mai eravamo andati tanto in profondità su argomenti come rischio, leggerezza, ingaggio, acclimatamento, attrezzatura, tecnica o allenamento. E anche sul suo rapporto con Ueli, of course.
Ecco un’anticipazione, quello che ci ha detto sul suo rapporto con Ueli Steck: «Abbiamo scalato insieme in Nepal, intorno a Chukkung. Abbiamo parlato molto di allenamento, approccio alpinistico alle grandi vette, acclimatamento, alimentazione. Un giorno ero a casa e, parlando, mi ha chiesto se avessi mai scalato l'Eiger. Io ho risposto di no, così mi ha detto di andare a trovarlo il giorno dopo a Interlaken, ho preso l’auto e la mattina siamo andati a Grindelwald. Abbiamo parcheggiato, una corsa fino alla parete, poi siamo saliti in simul-climbing, ma non così velocemente, solo godendocela e scattando foto. Dalla macchina alla macchina ci abbiamo messo dieci ore. Il suo è un approccio molto interessante, si è allenato tanto, ha curato ogni dettaglio ed è sempre stato aperto a provare il nuovo e a evolvere. Ogni uscita con lui è stata ricca di insegnamenti!».
E a proposito del diverso approccio all’ingaggio in quota di chi arriva dal trail running e chi dall’alpinismo? «Probabilmente la differenza sta nelle capacità tecniche e fisiche all'inizio più che nella visione, io devo concentrarmi sulla tecnica e loro lavorano sul fisico. Penso che gli stili siano molto simili, è solo il nostro background a essere diverso».
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Nadir Maguet, il Mago trasformista
È solo di pochi giorni fa la notizia che Nadir Maguet ha abbassato il record di salita e discesa dal Gran Paradiso, che resisteva dal 1995. Siamo andati a trovare Nadir a casa sua giusto qualche giorno prima del lockdown. Ecco cosa ci ha raccontato in quell'occasione.
Lo chiamano test Bertone e, a modo suo, è un metodo infallibile per valutare lo stato di forma e le potenzialità degli atleti. Non è proprio un test scientifico di laboratorio, come per esempio quello di Cooper, ma negli anni ha dato i suoi verdetti. Consiste in un vertical di corsa dalla base della Val Sapin, appena fuori Courmayeur, al rifugio Bertone, sul Mont de la Saxe: 700 metri circa di dislivello. Non una gara ufficiale, ma una tradizione per gli atleti del Centro Sportivo Esercito di Courmayeur, da ripetere un paio di volte l’anno, cronometrati uno alla volta. E un tempo da battere, quello di Damiano Lenzi, che resiste dal 2012. Fino all’inizio di ottobre del 2019, quando Nadir Maguet ferma il cronometro su 22 minuti e 35 secondi, qualche secondo in meno di Lence e e una ventina davanti a Davide Magnini. Alla vigilia della finale delle Golden Trail Series, il circuito di running outdoor più ambito per le medio-corte distanze, un ottimo riscontro per l’atleta valdostano. E la conferma dell’ultima transizione del Mago, dallo scialpinismo al trail e allo skyrunning, dopo quella dal fondo al biathlon, con un passaggio fugace nel calcio. Nadir parte per il Nepal al secondo posto nella classifica del circuito, dietro a Kilian e davanti a Magnini. Guardacaso tre skialper e – sempre guardacaso – con un vantaggio nel test su uno dei suoi avversari.
Dopo due mesi di alta pressione il cielo si copre velocemente. Mentre tagliamo gli ampi tornanti che portano a Torgnon, nella valle del Cervino, iniziano a scendere i primi fiocchi. Google Maps indica di svoltare a sinistra su una ripida e stretta rampa, fino ad arrivare a un piccolo parcheggio. Forse la neve è la risposta dell’oracolo alla nostra domanda. In effetti siamo saliti fin quassù per chiedere al Mago se dobbiamo considerarlo uno scialpinista o uno skyrunner. Scendiamo dall’auto nel cuore di un grazioso borgo di pietra con i tetti in ardesia, i fiocchi si fanno più consistenti. «Ciao Nadir, siamo al parcheggio, dove dobbiamo venire?». «Nella casa bianca, aspetta che esco sulle scale così mi vedi». Nadir si sbraccia, insieme a lui c’è Buck, un bellissimo esemplare di lupo cecoslovacco. Saliamo le scale, entriamo nell’accogliente pied-à-terre che da qualche mese il Mago condivide con la sua Sharon. Legno in abbondanza e grandi finestroni, con la neve che cade là fuori. Il posto migliore per una chiacchierata sulla fatica, in inverno e in estate.
Nadir, allora, sei uno scialpinista o uno skyrunner? «Me lo chiedono in tanti adesso. Ma, come in tutte le cose, ci sono sempre delle novità. Ho iniziato con lo sci di fondo, poi ho scoperto il biathlon, diventando anche campione italiano Ragazzi. Ho provato, per un anno, pure il calcio e non andavo male: volevano farmi fare un provino per il Torino, ma non mi piaceva l’ambiente. Così grazie a Teto Stradelli, che era mio compagno di scuola e faceva già gare di skialp, ho provato sci e pelli e ho sfidato mio padre nel vertical notturno del paese: se l’avessi battuto mi avrebbe comprato l’attrezzatura, che per quell’occasione mi ero fatto prestare. Inutile dire come è andata e che grazie a Marco Camandona ho iniziato ad allenarmi con lo sci club Corrado Gex. Ricordo ancora quella volta al Trofeo Vetan quando mi ha insegnato i cambi di assetto sull’asfalto, pochi minuti prima del via. Poi dai vertical sono passato alle individual e in estate ho iniziato a fare prove di sola salita per allenarmi, infine la salita ha lasciato posto anche alle skyrace, perché sono molto simili a una gara di scialpinismo. E così siamo arrivati all’estate scorsa quando ho deciso di partecipare alle Golden Trail Series e di fare la mia prima gara di quasi quattro ore, a Chamonix. Un’altra novità».
In ogni sport hai dimostrato il tuo valore, a Fully nel 2016 hai vinto nell’anno in cui c’erano tutti i big, mettendoti dietro due mostri sacri come Zemmer e Kilian, al primo anno delle Golden Trail Series hai collezionato il secondo posto alla Marathon du Mont Blanc e alla Dolomyths di Canazei e la vittoria alla Ring of Steal, presentandoti al secondo posto alle finali, dietro a quel Kilian che hai avuto davanti anche alla skyrace dei Mondiali scozzesi, nel 2018. «Sì e quel test Bertone faceva ben sperare, ero in gran forma. Poi al raduno della nazionale di skialp mi sono preso un virus intestinale che mi ha debilitato. Sono partito per il Nepal già non al top, anche se poi la situazione è migliorata, però in gara ho capito che non era giornata e non riuscivo a tenere il ritmo di Kilian e Davide. Ho cercato almeno di portarla a termine, ma non ce l’ho fatta e mi è tornato quel virus intestinale; peccato, ho chiuso il circuito al quinto posto».
Ai primi due posti sono arrivati due scialpinisti, al quinto tu, che senza quel maledetto virus saresti stato sul podio. Possiamo dire che lo skialp è allenante?
«Non ci avevo pensato, però in effetti se consideri anche quanto è forte Eyda nell’arrampicata o Lence sulla bici potrebbe essere uno spunto interessante, in effetti non saprei, bisognerebbe fare il gioco al contrario e vedere come vanno nello skialp gli atleti top nel trail e nello skyrunning».
Dunque non hai una risposta alla nostra domanda, allora mettiamola così, ti piace di più sciare o correre?
«Lo scialpinismo ha più obblighi perché faccio parte di un corpo militare, nella corsa è tutto ancora da inventare e in parte da scoprire. Il piacere è uguale, ogni sport ha la sua stagione e per come sono io non potrei fare la stessa cosa tutto l’anno. Andare sui ghiacciai in estate? Anche no, come correre in pieno inverno. Conosco le mie potenzialità sugli sci e ho ancora margini, ma credo di averne di più nello skyrunning. Più che altro su dieci gare di scialpinismo quelle dove sto veramente bene sono la metà, nella corsa diciamo otto su dieci. Non so ancora perché, devo lavorarci, forse dipende dall’allenamento, forse dal tipo stesso di movimento. Trovo che il running sia più dinamico, ci sia più leggerezza, mentre i movimenti dello skialp sono più lenti. Prendi per esempio il vertical: è tanto bello e armonioso con le scarpe da corsa quanto lento e goffo con sci e scarponi».
Le skyrace sono simili alle gare individual dello scialpinismo, sia come impostazione che come tempi, alla Marathon du Mont Blanc invece hai corso per la prima volta sulla distanza maratona e sei arrivato pure secondo. Come hai fatto?
«Era tutto nuovo per me, non sapevo come avrei reagito su una gara di quasi quattro ore invece delle abituali due o meno, così ho cercato di tenere un basso profilo, soprattutto nei primi 17 chilometri, quando è molto veloce, facendo un po’ l’elastico sui migliori per mantenere un’andatura abbastanza costante. Poi nella seconda parte, quando inizia la lunga salita finale, ho visto che ne avevo e ho fatto gara con Davide. I programmi erano questi e li ho rispettati».
Chi ti ha consigliato?
«La Marathon, come tutte le gare, l’ho preparata con Stephanie Jimenez, che segue la mia preparazione atletica. Con lei mi trovo molto bene e allena anche il marito, Fulvio Dapit, basta guardare i risultati… Ci siamo conosciuti in aereo andando alla The Rut, negli Stati Uniti, qualche anno fa. Prima mi seguiva un po’ Manni Reichegger ma poi, quando sono entrato anche io nell’Esercito e lui era ancora atleta, ho pensato di rivolgermi a Stephanie. Anche se stiamo lontani ci sentiamo tutti i giorni e ha accesso al mio account Movescount».
Dal Vertical alla maratona, il passo verso le ultra è breve…
«Non mi interessano, almeno per ora, almeno fino a quando avrò due stagioni, magari a fine carriera una UTMB o anche un Tor potrebbero starci, ma è un pensiero molto lontano».
Scialpinismo, trail e skyrunning sono tre mondi molto vicini, con fatica e dislivello al centro: sono più i punti in comune o le differenze?
«Più che in generale tra i tre sport, farei una distinzione tra le Golden Trail Series e il resto, soprattutto su come sono gestite e comunicate. Prendi per esempio la Coppa del Mondo di scialpinismo: si corre con poco pubblico e per gli atleti non c’è visibilità. Alle Golden Trail Series ti intervistano prima e dopo la gara, producono un video per ogni tappa dove fanno vedere i momenti più importanti con la voce dell’atleta a commentare, c’è un live streaming. E poi la formula della finale alla quale partecipano solo i primi dieci, portando anche un accompagnatore, ti fa vivere a stretto contatto con gli altri, fino alla gara c’è un bello spirito, quasi di vacanza, mentre nelle altre occasioni sei sempre solo».
Una risposta che tira un’altra domanda, che piega sta prendendo lo scialpinismo agonistico? Cosa pensi del sogno olimpico?
«Si è puntato tutto su format che siano spendibili per la televisione e lo spettacolo, come le sprint, che ci stanno. Però devono rimanere anche gare tecniche e fuoripista che sono l’essenza dello scialpinismo, invece in Coppa del Mondo ci sono sempre più tratti in pista e percorsi meno tecnici».
C’è qualcuno con cui hai legato di più alle Golden Trail Series e nel mondo dello scialpinismo?
«Alle Golden Trail Series, soprattutto alle finali, un po’ con tutti perché c’era davvero un bello spirito, è stata come una vacanza, un’occasione per condividere l’esperienza, anche con persone come Thibaut Baronian che viene dal mondo del trail e non conoscevo. Poi in gara ognuno ritorna avversario. Nello scialpinismo ho fatto coppia con tanti, ma quello con cui ho più feeling è Kikko Nicolini».
A guardare questa stagione sarebbe stato un bel giro di valzer, da Hermann alla Monterosa Skialp a Aymonod con cui avresti dovuto correre all’Altitoy fino a Eydallin che sarebbe stato il tuo compagno al Tour du Rutor…
«Con Hermann è stata dura e non abbiamo ancora gareggiato (questa intervista l’abbiamo fatta proprio qualche giorno prima della gara, l’unica delle tre che si è svolta, ndr). Mi sa che è l’ultima volta che faccio coppia con lui perché mi ha già subissato di domande (ride). Con Henri Aymonod mi trovo bene, però ogni tanto ci prendiamo in giro perché lui ama parlare e io invece sono abituato ad andare in montagna da solo e sono di poche parole, con Eyda ho uno dei ricordi più belli, il secondo posto al Tour du Rutor che è anche la gara con la quale sono più in sintonia per l’ambiente d’alta montagna e perché ha tante tappe ma non troppo lunghe».
Skyrace e individual sono la versione estiva e invernale di una filosofia simile, però ci sono gare più nervose, con continue salite e discese, magari corte, e altre con poche sezioni, una o due lunghe salite o discese. Quale preferisci?
«Sicuramente quelle regolari, come regolare è il mio ritmo, la gara estiva ideale sarebbe la Aosta Becca di Nona che riprende proprio quest’anno e che purtroppo non riuscirò a fare perché coincide con un’altra gara del mio calendario. Anche nello scialpinismo quando cambio assetto riprendo alla stessa velocità, con un ritmo regolare, guarda invece Magnini e Boscacci: loro uscendo dal cambio guadagnano subito margine e poi si stabilizzano».
Mentre siamo nel garage della casa di famiglia, dove c’è anche la ski room di Nadir, apre un cassetto e tira fuori tutti i pettorali. Ci sono quelli più recenti e i primi, insieme a qualche medaglia. In un angolo è appoggiato anche il trofeo della Transcavallo.
Se dovessi dire due gare estive e due invernali sopra a tutte?
«In inverno dico il terzo posto alla Pierra Menta con Boscacci e il secondo al Tour du Rutor con Eydallin, in estate in effetti ho fatto meno gare, potrei citare la vittoria a Fully e poi forse quella alla Ring of Steal o il secondo posto a Canazei, però mi piaceva molto anche la skyrace dei Mondiali giovanili di skyrunning al Gran Sasso, tecnica e in un bel paesaggio».
I materiali sono importanti, sia in inverno che d’estate, quanto sei maniaco in materia?
«Essendo pigro, sono attento ma non esageratamente. Gli sci me li preparo io quando mi alleno qui a casa, ho in dotazione due La Sportiva Gara Aero World Cup 70 più quello per le sprint e due scarponi Stratos Cube, uno per le gare e uno per gli allenamenti. Come attacco uso ATK, mentre in estate prevalentemente le Kaptiva, anche se per alcune gare più corribili come a Chamonix metto ai piedi le Helios. Non avevo mai riflettuto sull’importanza del peso delle scarpe da trail prima, ma alla fine 50 grammi di differenza su prodotti che ne pesano al massimo 300 sono più rilevanti di 50 grammi in uno scarpone in carbonio».
Non ti viene mai voglia di andare in montagna per il piacere di stare fuori, senza l’assillo dell’allenamento, di fare una bella sciata in compagnia o una passeggiata?
«Faccio scialpinismo per l’insieme del gesto atletico e la discesa non è una parte così importante per me e poi mi piace stare nella natura da solo, quando esco con gli sci o le scarpe da trail riesco davvero a staccare. Però in qualche lungo mi accompagna mio papà o Henri Aymonod. Vorrei andare oltre la competizione fine a se stessa, per questo ho iniziato ad arrampicare con regolarità per migliorare la parte alpinistica perché la prossima estate vorrei fare qualcosa in velocità e in quota, magari un concatenamento di cime. Potrebbe essere il giusto completamento dell’agonismo stesso».
Insomma, non sei uno sciatore, non sei un trail runner, cosa vorresti essere?
«Se fosse per me la guida di caccia».
Mentre finiamo di parlare fuori è già tutto bianco, la neve scende copiosa. L’oracolo continua a lanciare il suo messaggio. Ma forse non c’è una risposta, il Mago è tutto questo insieme, scialpinista, skyrunner, trail runner. Ogni sport che ha praticato ha regalato soddisfazioni, magari le avrebbe regalate anche il calcio. La risposta sta nel suo nome. Nadir in arabo significa prezioso, straordinario. Come chi eccelle in molto.
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Simone Eydallin da record nell'everesting
Dieci ore e 6 minuti. In questa estate così strana e così ricca di exploit personali, senza pettorale, ieri è arrivato un nuovo record, anche se è ancora in attesa di omologazione. Simone Eydallin ha fermato il cronometro sul miglior tempo dell’everesting, vale a dire 8.848 m D+ di corsa. Il precedente crono con lo stesso stile è di 11 ore e undici minuti. Perché esistono diverse opzioni, oltre a naturalmente alla più famosa in bici. L’atleta Dynafit ha scelto di scendere in mountain bike, su un percorso parallelo. La partenza ieri alle cinque di mattina in punto, nella sua Sauze d’Oulx, per risalire 12 volte e mezza una pista di sci di 715 metri di dislivello, lunga 3,3 km e con una pendenza media del 24%. «È una salita aritmica che uso spesso per allenarmi e per testarmi» ha detto Simone. Un record costruito con meticolosità, con un team, tra ristori, assistenza e lepri, di una decina di persone. «L’idea dell’everesting è nata più per allenamento e per dare un senso all’estate senza gare, ma inizialmente non pensavo al record, poi quando ho fatto una prova su un dislivello di circa la metà ho capito che avevo delle possibilità». La tattica di Simone è stata spavalda: spingere nelle prime cinque salite, per avere poi margine per gestire gli ultimi giri. «La prima salita l’ho chiusa in 33 minuti, forse un po’ troppo veloce, poi sono stato su una media di 35-36 minuti e l’obiettivo da metà era di potermi gestire 43 minuti di media, però all’ottavo e nono giro ho avuto un black-out durissimo. Il problema non era il fisico, ma la testa, non ce la facevo più a mangiare, a vedere le stesse persone, sono stato a un punto dal ritiro». Qualche curiosità: le scarpe usate sono state Feline Up, Simone aveva con sé anche un paio di bastoni pieghevoli, che non ha usato solo nelle prime due salite, ha consumato circa 12.000 calorie, 4,5 litri di bevande e percorso in totale 84 km con una media di 150 battiti al minuto. «Ogni 30 minuti prendevo un gel di carboidrati, poi all’arrivo sali o carboidrati liquidi e dopo circa metà delle salite ho aggiunto dei tramezzini con miele e marmellata, non ho mai avuto cali di zuccheri ma lo stomaco ne ha risentito un po’». Anche a metà percorso c’era un punto ristoro. Un altro aiuto è venuto dalle lepri, non tanto nelle prime salite, ma nelle ultime, nelle quali sono state importanti nell’impostare e mantenere il ritmo. Però l’atleta Dynafit non ha mai fatto portare nulla ai compagni, né i bastoni, né il flask. Well done Simone.
L’incredibile storia dell’attacchino che fa impazzire il mondo
È un quadrilatero che ha come estremi Bad Haring, in Tirolo, Graz, in Stiria, il Monte Bianco e la Valtellina. Non c’è dubbio però che il caso abbia voluto che il Monte Bianco, il luogo che apparentemente c’entra meno con questa storia, sia stato determinante. Siamo agli inizi degli anni Ottanta. Uno studente di ingegneria di ritorno da una vacanza con un amico per arrampicare nelle Calanques passa da Chamonix. Guarda il Monte Bianco e, con quell’incoscienza tipica dei ventenni, non ci pensa due volte: perché non proviamo ad arrivare in vetta? I due scelgono di traversare dall’Aiguille du Midi, poi Tacul e Mont Maudit. Alla fine in vetta ci arrivano, ma devono battere traccia e quell’attrezzatura pesante – sci da due metri e attacchi da skialp con telaio – li distrugge più dell’intera vacanza nelle Calanques.
Passano meno di dieci anni, siamo alla fine degli anni Ottanta, più precisamente nel 1988. Nella valle di Chamonix si corre il Rallye du Mont Blanc. Tra i concorrenti la coppia Fabio Meraldi-Adriano Greco. Mentre stanno salendo con sci e pelli, il primo giorno, vengono entrambi fulminati da una visione. Stanno zitti, il fiato è poco e c’è da fare il tempo. Poi al termine della prova si guardano fissi negli occhi. Hai visto anche tu quello che ho visto io? Lungo il percorso hanno incontrato uno scialpinista senza attacchi. Senza attacchi, sì, giusto un puntalino piccolo piccolo e la talloniera ancora di più. In fin dei conti è quello che frulla nella loro testa da un po’ di tempo, bisogna separare il puntale dalla talloniera, ma come? Il primo anno alla Pierra Menta hanno usato il Silvretta 300 togliendo la talloniera e sostituendola con quella del rampone, ma la sicurezza? Dobbiamo assolutamente trovarlo si dicono, ma in una località come Chamonix è come cercare l’ago nel pagliaio. Il giorno dopo, durante la gara, incrociano ancora quello scialpinista. Nessuno dei tre parla una parola d’inglese, gesticolano, si fanno ampi cenni per ritrovarsi dopo la gara. E si ritrovano. Lo scialpinista è un austriaco, si chiama Fritz Barthel ed è quell’ingegnere che quando studiava era salito sul Monte Bianco, di ritorno dalle Calanques. È a Chamonix per incontrare un giornalista francese incuriosito dal suo attacco-non attacco. Fabio e Adriano rientrano in Valtellina e il giorno successivo partono subito in auto per il Tirolo, destinazione Bad Haring. Lì Fritz regala loro un paio di attacchini e uno scarpone Dynafit, un altro attacchino se lo comprano.
Nel 1989 Meraldi e Greco si presentano alla Pierra Menta con quell’attacchino con due pin per rendere solidale il puntale con lo scarpone e due spine alla talloniera. Ma i due valtellinesi fanno molto di più che usare quello strano aggeggio: danno consigli, vengono visti dagli altri agonisti italiani, la voce si sparge. In gara lo vogliono tutti. Centro Sport di Sondrio, di Gianni Rovedatti, inizia a distribuire il modello in Italia, che diventa uno dei mercati più importanti. I valtellinesi provano anche ad alleggerirlo ulteriormente andando da una guardia giurata del carcere di Tirano che si diletta con lavoretti di tornitura e ne realizza un esemplare in ergal. La talloniera è ok, ma il puntale si rompe... «Tra gli ingegneri meccanici esiste uno scioglilingua: se conosci la plastica, usa l’alluminio e se conosci l’alluminio, usa l’acciaio. Non volendo aggiungere materiale, ho usato l’acciaio.» dice Barthel. Il sodalizio con il mondo degli atleti italiani funziona. «Non sapevo quanto fosse grande il mondo delle gare in Italia e poi voi siete più aperti alle novità. È buffo, ma comunque lo provo mi dicevano in Italia, mentre in Austria la risposta era categorica: non funzionerà mai. Così una volta mi sono ritrovato a passare otto ore alla dogana di Vipiteno per esportare sei paia di scarponi» aggiunge Barthel.
Flashbak, 1984. Nella cantina di Bad Haring quel testardo studente d’ingegneria lavora senza sosta per realizzare la sua idea: un attacco da scialpinismo leggero, senza telaio, separando puntale e talloniera.
Fa vari tentativi. Capisce che deve contare su un intero sistema scarpone-attacco, più che sul solo attacchino. L’università dove studia è a Graz e lì - guardacaso - c’è anche una fabbrica della Dynafit, che produce scarponi da skialp. Per realizzare i fori che alloggiano i pin anteriori le prova tutte, ma rovina irrimediabilmente i suoi scarponi. Un giorno prende la bici e va in Dynafit. Riesce a farsi dare qualche scafo degli scarponi Tour Lite per i suoi esperimenti. Arriva perfino a scollare le suole, ma niente, capisce che bisognerebbe creare quella modanatura nella fase di iniezione del materiale plastico. Ecco allora che in questa storia interviene il quarto uomo, il padre di Fritz. È uno scialpinista, grazie ai primi prototipi riesce a stare al passo dei suoi amici più giovani. Un giorno si spinge fino a dire al figlio che quell’attacchino lo ha ringiovanito di 15 anni. E così mette mano al portafoglio per fare modificare lo stampo, e non sono pochi soldi. E in quel 1984 viene depositato il primo brevetto. Manca solo il nome. È l’epoca dei personal computer e dell’high tech, quel prodotto che toglie, più che mettere, e che fa della semplicità la sua arma vincente non può che chiamarsi Low Tech.
Barthel prende la sua creatura e inizia a bussare alla porta dei grandi marchi dello sci. Per il suo brevetto chiede l’equivalente di 2.000 euro, ma nessuno vuole metterci quei pochi soldi per un prodotto che nella migliore delle ipotesi potrebbe interessare l’uno per cento del mercato. Così inizia a produrlo e commercializzarlo lui. Il primo anno ne vende uno, poi dieci, poi 40. Tra il 1986 e il 1990 arriva a quota mille, tutti stipati in casa. Un giorno bussano alla porta. È un acquirente, ma non di un singolo attacco. Arrivano dalla Dynafit e si garantiscono i diritti esclusivi sull’attacchino, lasciando a Fritz il brevetto. «Ho sempre pensato che l’attacchino fosse per pochi pazzi, ma non sapevo che fossero così tanti, però i primi proprietari di Dynafit a credere nel Low Tech sono stati quelli di Salewa, il successo è legato ad alcune persone in particolare, Heini, Reiner, Beni (Oberrauch, Gerstner e Böhm, ndr) e pochi altri che hanno reso lo scialpinismo cool». Da allora l’attacchino è diventato lo standard, ben oltre le gare, ed è arrivato sulle vette più alte del mondo, scendendo dai pendii più ripidi. «Credo che i pin resisteranno ancora, ma la storia dice che i sistemi vengono sostituiti da altri sistemi migliori e dubito che sarò io a fare il prossimo passo, non è giusto che lo faccia un vecchio testardo: giovani, fatevi avanti!». È proprio vero, tutto questo non sarebbe stato possibile senza la testardaggine di quell’ingegnere austriaco, due garisti valtellinesi, un’azienda austriaca (che poi sarebbe diventata di proprietà italiana, guardacaso). E al Monte Bianco.
Questo articolo è stato pubblicato su Skialper 129.
L'arte del confino
«Faceva più freddo di quanto mi aspettassi. Il sole non aveva raggiunto ancora il fondo del ghiacciaio e una leggera brezza catabatica scendeva dalla testa della conca, penetrando sotto le giacche a vento. Di tanto in tanto il silenzio veniva interrotto. Bastavano pochi minuti e il sole del mattino allentava i vincoli che tenevano legate le pietre, facendone cadere qualcuna. In assenza di altri suoni, si sentiva il rumore di ogni singola pietra che scendeva dalle pareti a diversi chilometri di distanza. Poi la pace veniva cancellata dal ruggito di un seracco che crollava sopra il canale del Cordier sull'Aiguille Verte. Le settimane chiuso in casa avevano dato una spinta fortissima alla mia sensazione di stupore per la bellezza di queste masse di roccia e ghiaccio, ma ero frastornato da un'accozzaglia di emozioni contrastanti. Stare lassù non aveva quel sapore di libertà che mi aspettavo, ma mi sembrava un piacere illecito che potevo solamente sorseggiare per paura di ubriacarmi».
Descrive così il sapore della libertà dopo il lockdown Ben Tibbetts su Skialper 130 di giugno-luglio in un bell’articolo sul senso dello stare chiusi tra quattro pareti quando vivi ai piedi del Monte Bianco. L’inglese, autore del bel libro Alpenglow, sui quattromila delle Alpi, ha firmato per Skialper un racconto tra ricordi di quelle lunghe settimane, nelle quali ha avuto la fortuna di potere salire in montagna per lavoro, disegni delle grandi pareti Nord delle Alpi e riflessioni sul mestiere di Guida ai tempi del Covid-19 e il futuro. «Oggi siamo 1.500 guide. È probabile, e credo anche auspicabile, che si possa diversificare, se possibile, in vari settori - ha detto a Tibbetts Philippe Collet, un istruttore dell'ENSA (il centro francese di formazione delle Guide alpine) In ogni caso, data la forza dello choc economico, credo che sia ormai certo che il numero di Guide che potranno vivere di questo lavoro diminuirà notevolmente. Ho la sensazione che la nostra professione si stia muovendo verso qualcosa di più diffuso, che possa interessare un pubblico più ampio rivisitando il concetto di avventure local. Il rapporto con il viaggio e con l’idea di andare lontano per appagare la nostra passione diventerà un argomento di seria riflessione».
L’articolo completo è su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile anche nel nostro online-shop
Premiata ditta Boffelli-Pintarelli da record sulle 13 cime
L’idea è venuta a Gil Pintarelli, che ha coinvolto William Boffelli: provare a chiudere l’anello delle 13 cime, in Valfurva, battendo il fastest known time di Robert Antonioli e Stefano Confortola del 2018, di 9h52’’. Era da un paio di settimane che i due atleti del team Crazy ci stavano pensando e un primo sopralluogo settimana scorsa li aveva fatti desistere. «Ci abbiamo impiegato 13 ore, si sprofondava nella neve perché non c’era stato rigelo - dice William Boffelli - Così ci eravamo decisi ad aspettare agosto». Poi l’arrivo di aria più fresca e il tentativo nella notte tra martedì e mercoledì, con partenza dalla piazza di Santa Caterina Valfurva all’una e 22 minuti.
Il giro, per un totale di 37,5 km e 4.172 m D+ tocca 13 cime oltre i 3.000 metri del gruppo Ortles-Cevedale, con il gran premio della montagna a quota 3.769 metri del Cevedale. Oltre al Cevedale si passa per Pedranzini, Dosegù, San Matteo, Giumella, Cadini, Rocca Santa Caterina, Pejo, Taviela, Linke, Vioz, Palon de la Mare, Rosole. Pintarelli-Boffelli hanno fermato il cronometro su 7h50’. «Penso che si possa scendere ancora anche perché in discesa dal Cevedale non abbiamo trovato il percorso più diretto e sicuramente l’abbiamo allungata un po’» aggiunge William. Rimane la soddisfazione per aver portato a termine un giro tra i più classici dello skyrunning. «Alla partenza c’erano nebbia e nuvole basse e abbiamo avuto il dubbio di rimandare, poi d’improvviso, poco oltre i duemila metri, abbiamo lasciato sotto di noi un mare di nuvole e il clima si è fatto più fresco, è stato uno spettacolo. Il momento più duro? Direi sul Cevedale, quando a un certo punto la corda era bella tesa, ma in generale siamo stati una coppia ben affiatata». L’assetto di William e Gil era da fast & light puro con scarpe da skyrunning, ramponcini, picca, imbrago, corda, un litro e mezzo di acqua e qualche barretta. Quanto durerà il loro FKT? Già da settimane si sente dire di un tentativo di Antonioli con Andrea Prandi. C’è come la sensazione che sentiremo parlare ancora di 13 cime…
Fabian Buhl, il tuttofare discreto
«La prima volta che ho sentito parlare di Fabian Buhl è stata quando, nel 2016, ha aperto la via Ganesha con uno stile purissimo: dal basso, in solitaria, autoassicurandosi, con appena quattro spit su sette tiri. Per spiegarla meglio, significa porsi prima di partire dei paletti etici molto forti e complicarsi enormemente la vita, sia sul piano mentale che pratico: vuol dire accettare l’idea di poter fare potenzialmente dei voli lunghissimi, o finire in un punto cieco dal quale non sarebbe più stato possibile continuare verso l’alto, magari dopo giorni o settimane di lavoro. E tutto ciò da soli, senza avere qualcuno su cui contare o semplicemente con cui dividersi la fatica». Inizia così l’intervista di Federico Ravassard a Fabian Buhl su Skialper 130 di giugno-luglio.
A sorprendere ancora di più è il background di Fabian, ovvero quello di anni di bouldering, spinto ai massimi livelli e poi messo da parte a causa dei troppi infortuni in seguito ad atterraggi violenti. Certo, passare dallo scalare massi alle aperture su grandi pareti in solitaria per evitare di farsi male può sembrare un filo irrazionale, ma se si va a guardare il suo curriculum non bisogna soffermarsi troppo su questi dettagli, anzi, con una visione macroscopica si capisce bene quale sia l’idea di evoluzione di un personaggio così poliedrico. Fabian fa di tutto, e lo fa bene: dai monotiri trad alle spedizioni extraeuropee, dalle vie lunghe sul calcare compatto del Rätikon come Déjà, fino a imprese come quella, più recente, che l’ha visto decollare dalla cima del Cerro Torre in parapendio, con una manovra che lui stesso ha definito piuttosto fortunata.
«Prima di darmi all’arrampicata ho praticato lo sci alpino a livello agonistico fino a 16 anni, poi ho smesso perché non mi piaceva più la pressione di gare e allenamenti. Il contatto con la roccia è quindi avvenuto su uscite tranquille in falesia o su multipitch, senza passare dalle competizioni indoor, poi mi sono focalizzato maggiormente sul bouldering dove ho alzato il livello fino a quando, dopo diverse fratture alle caviglie, mi è stato consigliato di evitare ulteriori impatti forti come quelli che avvengono quando si scala sui blocchi. Da quel momento ho ricominciato a scalare con la corda, ma interessandomi maggiormente all’arrampicata trad o comunque più alpinistica, fino ad arrivare alle spedizioni extraeuropee. Contemporaneamente mi stimolano anche le multipitch dure come Déja, che sono più semplici logisticamente, ma richiedono il massimo dalla condizione fisica».
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Steve House, l’alpinismo come arte e allenamento
«4100 metri di parete. 5 viti da ghiaccio, 9 chiodi, 6 nut, 3 friend, 50 metri di corda dinamica. 6 giorni di salita, 2 di discesa. I numeri sono freddi e sterili, ma se si è in grado di leggerli raccontano tantissimo anche da soli. Quando nel 2005 Steve House e Vince Anderson hanno scalato la parete Rupal sul Nanga Parbat, l’impresa è risuonata come uno sparo nell’ambiente alpinistico a causa della purezza dello stile, oltre che per l'audacia. Aprire una via del genere in stile alpino, scalando veloci e leggeri, richiede tantissima dedizione. Richiede però anche una forma fisica di ottimo livello, per riuscire a scalare tutte quelle ore (scriverei ‘giorni’ ma si perderebbe il senso di continuità dello sforzo) rimando lucidi ed efficienti». Inizia così l’intervista di Alessandro Monaci a Steve House.
L’alpinismo, da fuori ma anche da dentro, è visto come un’avventura, come un'attività che mette in gioco la testa delle persone. Questo è vero, ed è quello che lo differenzia da uno sport agonistico di resistenza, per quanto duro e lungo sia quest’ultimo: durante una salita come quella di House e Anderson non ci si può ritirare all'improvviso (anche scendere vuol dire comunque fare alpinismo ed essere impegnati in modo non dissimile dalla salita) e lo sforzo, più che un esprimere al meglio le potenzialità dei muscoli, diventa un raschiare il fondo del barile del proprio corpo, cercando di sopravvivere. Questo ha fatto troppo spesso mettere in secondo piano le capacità atletiche di alcuni alpinisti. Se un profano guardando un video di Steck che scala una grande parete nord in circa due ore pensa «che folle!», un alpinista osservando lo stesso filmato dovrebbe chiedersi: «Come si è allenato per essere così veloce?».
È proprio per questo che House ha scritto Allenarsi per un nuovo alpinismo, da poco pubblicato in italiano dalla nostra casa editrice, evidenziando gli errori e le soluzioni nell’allenamento che lo hanno portato a essere uno degli alpinisti di punta degli ultimi anni. Le tecniche e i principi di base non sono nuovi e sono ben spiegati da Johnston, allenatore della nazionale di fondo USA. A Steve è toccato il compito di adattarli all'alpinismo e testarli.
Su Skialper 130 di giugno-luglio Alessandro Monaci ha intervistato l'alpinista statunitense per approfondire la sua idea di allenamento e di alpinismo di alto livello. «Poiché l'alpinismo non è competitivo, la durata della carriera di un alpinista è molto più lunga rispetto, per esempio, al ciclismo - ha detto House - Penso che una carriera atletica di 20 anni di alto livello sia possibile per un arrampicatore, anche se solo 5-10 di questi saranno al culmine assoluto».
Interessanti anche le sue considerazioni su alpinismo e professionismo. «Io non ho deciso di essere un alpinista professionista. Infatti, in senso stretto, lo sono stato solo per i pochi anni in cui non ho realmente lavorato. L’idea di essere un arrampicatore di professione mi ha sempre fatto sentire a disagio. Penso sia necessario creare qualcosa di utile nel mondo e non vedo come un alpinista possa creare niente oltre ai propri risultati. Per questo motivo, io ho sempre lavorato. Prima come guida alpina, poi come autore e adesso come allenatore e imprenditore, aiutando gli atleti di sport di montagna ad allenarsi con le migliori conoscenze e pratiche».
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Scontro per una prima ascensione
«Di rado vie dolomitiche di massima difficoltà si trovano così concentrate su una montagna come sul Civetta. Da decenni la sua bastionata nord-occidentale, lunga sei chilometri e alta fino a 1.200 metri, affascina magicamente l’élite arrampicatoria. Qui già nel 1925 fu scritto un capitolo importante della storia dell’alpinismo, quando con la loro via di VI grado Emil Solleder e Gustav Lettenbauer inaugurarono una nuova epoca dell’arrampicata su roccia. In seguito alpinisti come Philipp, Flamm, Buhl, Aste, Mazeaud, Maestri, Comici, Cassin ed Egger, mediante vie nuove o tempi di percorrenza veloci, hanno letteralmente scritto i propri nomi sulla parete delle pareti. Con le sette vie che portano alla cima principale del Civetta, a metà degli anni Sessanta le possibilità di ascensione non sono però ancora del tutto esaurite. Sembra esserci un problema ancora aperto: una direttissima tra la Philipp-Flamm e la Solleder». Così scrive Markus Larcher nel libro Heini Holzer – La mia traccia la mia vita pubblicato dalla nostra casa editrice nel 2018.
Ed è così che nel luglio del ’67 Heini Holzer con Sepp Mayerl, Reinhold Messner e Renato Reali apre la Via degli Amici in un clima di competizione alpinistica. «Sono un po’ più avanti degli altri, e quando apro la porta del rifugio mi imbatto in Heinz Steinkötter, un alpinista estremo tedesco che ha piantato le tende in Italia. Ci conosciamo. Il mio saluto cordiale incontra una faccia scura, e quando appaiono i miei tre compagni sembra come paralizzato, ammutolisce, è senza parole. Nell’aria dev’esserci qualcosa di scottante» racconta SeppMayerl. Assieme a Steinkötter ci sono altri noti alpinisti: Dietrich Hasse, Jörg Lehne e Hans Heinrich. Hasse e Lehne quasi dieci anni prima avevano compiuto la prima ascensione della diretta sulla parete Nord della Cima Grande e della parete Sud-Ovest della Roda di Vaèl. «Ben presto i nuovi arrivati fiutano l’aria (Mayerl), sebbene Steinkötter mantenga un ostinato silenzio sui possibili obiettivi. L’aria sa di prima ascensione. Senza indugio e in segreto Holzer e compagni cambiano piani. La possibilità, nel frattempo sempre più rara, di una prima ascensione non è cosa che ci si vuole lasciar sfuggire a cuor leggero. Alla fine, con sconcerto degli altri, i quattro annunciano che si cimenteranno con la direttissima.
Su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop il racconto della prima ascensione sulla Via degli Amici al Civetta.
Il libro Heini Holzer – La mia traccia la mia vita è acquistabile qui.
Alla ricerca di Tom Ballard
«Il collegamento si era interrotto all’improvviso, ma Alex Txikon non aveva alcun dubbio: il video che stava guardando mostrava due corpi senza vita; non c’era stato il tempo di scattare una foto, prima che il drone smettesse di trasmettere, ma l’immagine di quei due corpi si era impressa nella sua mente. «Ho riconosciuto i loro zaini, i guanti, i berretti che indossavano e anche la forma dei loro corpi» racconterà dopo. I due corpi, legati alla stessa corda, distanti non più di tre metri l’uno dall’altro, si trovavano a circa 5.800 metri, in un labirinto di rocce e neve. Il primo, ancora appeso alla corda, penzolava all’interno e fuori dall’inquadratura del drone; il secondo, anch’esso attaccato alla corda, giaceva riverso su una roccia, qualche metro al di sotto del suo compagno».
Comincia così l’articolo di Michael Levy, editor di Rock & Ice, su Tom Ballard, pubblicato da Skialper in esclusiva per l’Italia. Più che un articolo un vero e proprio libro sulla vita dell’alpinista scomparso nel 2019 al Nanga Parbat insieme a Daniele Nardi. Un romanzo avvincente di 20 pagine per la passione che Levy ha messo nella prosa, ben tradotta da Simona Righetti con la revisione di Leonardo Bizzaro, ma anche un incredibile lavoro di documentazione, con decine di testimonianze e di citazioni. Ne esce un ritratto di Ballard fin da bambino, del suo rapporto con la madre Alison Hargreaves, definita da Reinhold Messner come la più forte fra le alpiniste donne e morta al K2 nel 1995. Un’ombra, quella della madre, che inseguirà per tutta la breve vita Tom che nella sua carriera alpinistica ripercorrerà spesso le orme di Hargreaves, come sulle grandi pareti Nord delle Alpi, che Tom ha completato in invernale e sulle quali accade anche un curioso episodio molto simile a entrambi. Alla Nord dell’Eiger infatti Alison si era imbattuta in svariati pezzi di equipaggiamento: una vite da ghiaccio, una piccozza, un guanto e altri piccoli frammenti non perfettamente riconoscibili e alla fine dei detriti aveva identificato il corpo senza vita di un alpinista. Si trattava di un alpinista spagnolo che aveva tentato la salita ed era morto cadendo. «Scendendo lentamente e con la massima attenzione dalla vetta dell’Eiger, Tom nota dapprima frammenti di plastica arancione sparpagliati nella neve, poi poco più in là un guanto e più sotto ancora scorge un corpo. Uno sciatore, incontrato poco prima sulla cima, è precipitato battendo la testa su una roccia; il casco arancione si è frantumato nell’urto e il ragazzo è morto. Tom non ha mai visto un cadavere e quella visione gli ricorda quanto pericolosa sia la passione che ha scelto come compagna di vita. La similitudine con quanto accaduto alla madre proprio sull’Eiger, più di vent’anni prima, lo colpisce non poco: Ci è successa quasi la stessa cosa. È molto triste, ma al tempo stesso è come aver vissuto un déjà vu commenterà».
Levy, attraverso le testimonianze di chi l’ha conosciuto meglio, dalla fidanzata ai compagni di spedizione, ripercorre l’infanzia di Ballard e la carriera alpinistica alla ricerca del perché sia andato al Nanga Parbat in inverno senza avere mai avuto esperienze, neppure estive, su un ottomila.
Appuntamento su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.
Dani Arnold, la paura per amica
«L’obiettivo di questa spedizione era l'inverno freddo, quello giusto per tentare l'arrampicata su ghiaccio. Il riscaldamento globale sta rendendo le cose sempre più difficili alle nostre latitudini, quindi volevamo esplorare un nuovo posto, dove nessuno avesse mai scalato il ghiaccio». Un obiettivo raggiunto sul lago Bajkal, nella Siberia meridionale, dove di rado se si cerca il freddo ci si imbatte in qualcos’altro. «Abbiamo trovato esattamente quello che cercavamo, un freddo ben più intenso di quello che avevo provato sugli Ottomila: è stato fantastico. Ma anche la curiosità per il Paese, le persone e la cultura è stata un elemento importante di questo viaggio. L’ha arricchito molto».
Dani Arnold ha raccontato a Skialper la sua ultima spedizione in Siberia, della quale pubblichiamo anche le belle foto scattate da Thomas Monsorno. Ma a Veronica Balocco l’alpinista svizzero ha raccontato molto di più: della perdita di compagni d’avventura come Lama, Auer e Steck, della paura e del rischio, di quando va ad arrampicare con la moglie, dei free solo. E dell’Himalaya: «Quella in Himalaya è stata una bella esperienza per me, ma non ne sono uscito soddisfatto. Tecnicamente non è assolutamente nulla di impegnativo. Ogni persona con un Ottomila nel cassetto è celebrata come un eroe, ma ci sono molte montagne di duemila metri che richiedono molta più preparazione di una via normale laggiù».
Ne parliamo su Skialper 130 di giugno-luglio, ora in edicola e prenotabile nel nostro online-shop.