The players: Domenico Fenio

È il papà di uno dei forum legati alla montagna più famosi d’Italia, anzi, forse il più famoso. Perché tra la gente di montagna, alpinisti o pseudo tali, se tu dici On Ice tutti sanno di cosa stai parlando. E, in maniera quasi sorprendente, è sopravvissuto alle grandi evoluzioni dell’epoca digitale senza necessità di cambiare forma o di diventare esteticamente accattivante o cool. Perché quello che conta, per i frequentatori di questo forum dall’aspetto scarno ed essenziale, è il contenuto. Luogo virtuale per scambiarsi informazioni circa luoghi, ascese e condizioni, ma anche il collante che ha fatto nascere amicizie reali, tutt’altro che eteree, e che nel corso degli anni sono andate ben oltre lo sport. «C’è persino chi, grazie a On Ice, si è conosciuto e sposato» - Racconta Domonice (il suo nickname, che sta semplicemente per Domenico on ice). «Fenio, come puoi intuire, non è un cognome molto nordico. Sono calabrese e sono qui, al Nord, da quando ho 16 anni. Come tutti i ragazzi che vengono via dalla mia terra sono arrivato alla ricerca di tutto e di nulla. Le uniche montagne che conoscevo erano quelle dell’Aspromonte. Arrivato in quel di Milano mi sono avvicinato al CAI e mi sono accorto che, secondo la logica di questa organizzazione, per fare cose interessanti in montagna dovevi fare corsi su corsi, diventare istruttore. Ma io, e altri miei amici, eravamo convinti che ci fosse anche un alpinismo per tutti, possibile senza corsi e patacche. Abbiamo iniziato ad andare da soli, a farci le nostre esperienze, a organizzarci le uscite in montagna, a sbagliare e a imparare. L’idea del forum nasce verso la fine degli anni novanta e doveva chiamarsi L’alpinismo possibile, proprio per il motivo che ho appena spiegato. Poi per una serie di motivi si è chiamato On Ice e tale è rimasto». Domenico non può non parlare, nel suo racconto, di Lorenzo Conserva (nickname Lorenzorobico), webmaster del forum da 12 anni e carissimo amico e compagno di avventure. «Un tempo per conoscere le condizioni meteo e della neve in Svizzera, per esempio, dovevi telefonare! Gli amanti della montagna hanno subito capito l’importanza di un luogo dove scambiarsi informazioni ed esperienze, e così, senza nessun obbligo o forzatura, in maniera naturale e spontanea, il forum è cresciuto, acquisendo sempre più i connotati della grande famiglia. Negli anni ci sono stati numerosi raduni organizzati, occasioni di incontro per chi, magari, si conosceva solo virtualmente. Sono nate amicizie, amori, relazioni che ancora continuano. La montagna è stata il collante, ma On Ice ci ha messo lo zampino per far incontrare persone che forse mai si sarebbero conosciute». Ed è così che un calabrese - a volte la vita prende risvolti originali e poco scontati - ha dato vita a un forum di alpinismo e montagna che ha sfondato le barriere dei tempi e delle mode, diventando un punto di riferimento imprescindibile per chiunque ami la montagna e l’avventura.


The Players: Arno Ladstaetter

L’accento altoatesino si sente ancora, anche se si è trasferito e vive a Milano da ormai 25 anni. Nativo di Brunico, Arno è, come lui stesso si definisce, l’immigrato del nord. A casa fa ritorno spesso, una volta ogni due settimane circa, per visitare i parenti e per sciare insieme agli amici. «Appena trasferito a Milano ho utilizzato il forum di On Ice per conoscere gente che amasse, come me, la montagna e a cui aggregarmi il fine settimana. Fabrizio però lo conoscevo già… ci siamo incontrati per la prima volta, virtualmente, sul sito Camp to Camp». A questo punto Domenico, che sta ascoltando il racconto di Arno, non si trattiene più e interviene nel discorso. «Sono stato contattato da questo tal Arno, su On Ice, che mi chiedeva se poteva unirsi a qualche nostra gita sugli sci, perché si era appena trasferito ed era solo. (Ride) Pensa che quando mi ha chiamato gli ho chiesto se sapeva sciare bene». Arno non scia bene, Arno scia benissimo e con una disinvoltura che pare nato davvero con gli sci attaccati ai piedi. Nel gruppo lo chiamano il cannibale, soprannome che la dice lunga e non necessita di ulteriori spiegazioni. Un altro che aggredisce la discesa, insomma. Mentre Domenico racconta in maniera animata, Arno sorride e tende a minimizzare. Di tanto in tanto tira fuori dalla tasca della giacca la sua macchinetta fotografica compatta e scatta qualche foto.

Quando e finché c’è neve, Arno ha gli sci ai piedi. Le gite fatte, le vette raggiunte, sono talmente tante che ricordarsele tutte sarebbe impossibile, ma alcune gli sono rimaste nel cuore: in primis la parete nord del Fletschhorn, che ha sceso insieme a Fedora, altro membro importante del gruppo e super conosciuta nel forum per le sue relazioni puntuali e precise. Poi la Nord-Est dello Stecknadelhorn, il canale di Lourousa nelle Alpi Marittime, il couloir de Barre Noire. Non mancano neppure esperienze impegnative, di più giorni, delle vere e proprie piccole spedizioni, come lo scialpinismo estivo sulla punta Dufour e al Lyskamm in tenda, ad agosto, a quota 4.200 metri.

COSA CONTA DI PIÙ PER TE DURANTE UN’ASCESA?
«L’estetica. L’estetica è importantissima. Amo tracciare in salita e fare le classiche tracce da guida, non troppo ripide, precise e regolari, geometriche. Lo stesso vale per la discesa: una volta arrivato alla base della parete, mi piace girarmi e vedere una serpentina regolare, fatta di curve sinuose e tutte uguali. E poi, altra cosa fondamentale, da noi in Alto Adige esiste un’etica: non si invade o non si va a rovinare la serpentina altrui; ognuno, in discesa, segue una sua linea immaginaria su neve vergine. Poi mi piace anche ricercare vie di salita e discesa che non sono quelle scontate e tradizionali».

Arno non va alla ricerca del materiale più leggero. «I miei sci ideali sono quelli con cui ho sempre sciato. Se mi trovo bene, perché cambiare? Per me il peso non è un problema». Lo dice sorridendo mentre, nel tempo delle barrette e dei gel per lo sport, tira fuori dalla tasca interna della giacca un sacchetto trasparente con due fette di pane e un po’ di speck tagliato al coltello.

QUESTO RITRATTO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 122.


The players: Fabrizio Righetti

«Fabri rallenta».

«Fatelo parlare, quello che sta là davanti, oppure mettetegli qualche sasso nello zaino, chissà che magari vada un po’ più piano».

Voci che arrivano da dietro, dai compagni di avventure di sempre, che il Righetti lo conoscono bene e che lo prendono in giro. Scherzosamente, con simpatia, perché in fondo a loro piace proprio perché è così: sorridente, iperattivo, performante, non necessariamente competitivo ma con dentro lo spirito dell’atleta, di quello che la salita se la vuole mangiare, così come la discesa. E che ha fiato a sufficienza e gambe buone per farlo. «Mi dicono che scendo già dalla macchina con gli scarponi ai piedi… e forse hanno ragione. Non sono uno che si ferma a fare colazione al bar, a perdere tempo. Sono fatto così. Però sono anche il primo che, a fine gita e una volta tornati alle macchine, tira fuori una bottiglia di vino, il salame, il pane e comincia ad affettare per tutti». Anche se poi di quel salame e di quel pane - abbiamo avuto modo di constatarlo sciando un sabato insieme a lui - non ne mangia molto. Gli altri dicono che è uno attento, un pignolo, che ama allenarsi e tenersi in forma, e a guardarlo non si stenta certo a crederlo.

Occhio di ghiaccio e capello brizzolato, classe 1964, il milanese Fabrizio Righetti è anche un coinvolgente oratore. Ama chiacchierare, lo si capisce fin dal primo istante, e salta con disinvoltura da un argomento all’altro, mostrando una poliedricità davvero invidiabile. È attento anche all’attrezzatura ma non fa la corsa ad avere il materiale più leggero. Dice di essere un affezionato di Ski Trab e oggi sta provando un nuovo tipo di attacchino. Zaino non troppo cool e abbastanza ridotto e borraccia portata sullo spallaccio, per bere in corsa. Leggero ma non a tutti i costi, lui definisce così il suo modo di andare in montagna e fare scialpinismo.

Professione geologo e attualmente impiegato all’ENI, per lavoro ha avuto occasione di vedere luoghi interessanti e ricchi di fascino. Ma il suo cuore rimane qui, sulle montagne di casa e più in generale sull’arco alpino, dove ogni anno compie innumerevoli gite con gli sci ai piedi e non solo. Quando la neve viene a mancare, infatti, si cimenta anche in gare di trail running, per esempio ha partecipato alle ultime due edizioni di Orobie Ultra Trail, riuscendo a tagliare l’ambito traguardo di Città Alta a Bergamo. Inoltre la scorsa estate ha preso parte alla mitica Monterosa Skymarathon, una gara che non si ripeteva più dagli anni ’90 e che prevede di correre in coppia (e in cordata su ghiacciaio) da Alagna a Punta Dufour e ritorno con un compagno, proprio come nelle competizioni di scialpinismo.

«Vado in montagna da quando avevo 15 anni. Allora per raggiungere Lecco, da Milano, mi toccava prendere il treno. Della gita mi piace un po’ tutto, a partire dall’organizzazione dell’uscita fino alla discesa, meglio se in polvere naturalmente. La vetta è importante ma non fondamentale. Amo moltissimo il gesto atletico e lo sforzo durante la salita. Anche l’allenamento, quello che si fa in settimana, è finalizzato ad avere la giusta preparazione atletica per affrontare nel migliore dei modi (e godersi) l’ascesa a qualche montagna nel fine settimana».

QUESTO RITRATTO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 122.


Skialp Gran San Bernardo, dove il sole scia con te

Corrado è un sindaco sui generis. Lo capisco subito, a prima vista, appena oltrepassa la porta d’ingresso del bar in cui, insieme a Marco, lo stiamo attendendo. Il passo leggero e spedito denota l’entusiasmo che lo accompagnerà per le due intere giornate in cui mi farà da cicerone alla scoperta di Saint-Rhémy-en-Bosses, di Crévacol e dell’intera vallata del Gran San Bernardo. Così come dalla stretta di mano forte e decisa. Seduti al tavolo, davanti a una buona tazzina di caffè, inizia a raccontarmi del progetto Skialp Gran San Bernardo, intrapreso a partire dal 2016 in collaborazione con la vallata svizzera di Bagnes (quella che comprende anche Verbier) e che proprio nell’inverno 2019/2020 è entrato nel vivo grazie al finanziamento nell’ambito dei progetti Interreg Italia-Svizzera del Fondo Europeo di Sviluppo Regionale. Perché qui a Saint-Rhémy, lungo il tracciato dell’antica strada romana che collegava Italia e Svizzera attraverso il valico del Gran San Bernardo, il territorio offre molto di più di quanto si possa immaginare. E se negli anni ’80 a farla da padrone era decisamente l’ampio e soleggiato comprensorio sciistico di Crévacol (A Crévacol, dove il sole scia con te, come recita un vecchio ma ancora attuale slogan), oggi si aggiungono le mille possibilità che la vallata offre agli amanti dello scialpinismo. Degli oltre 60 itinerari possibili, 30 sono stati censiti e da pochissimi giorni sono disponibili sul sito gulliver.it, con tanto di traccia Gpx, descrizione dettagliata del percorso, accesso automobilistico, cartina, gallery fotografica e, per alcuni, anche un breve video di circa tre minuti realizzato con il drone. Un vero e proprio vademecum per permettere, anche a chi viene da lontano, di addentrarsi in questo paradiso per le pelli e le discese in fresca. Il tutto correlato da un servizio privato di skialp-bus, integrativo e non sostitutivo dei servizi pubblici di linea, attivo nei territori di Saint-Rhémy-en-Bosses, Saint-Oyen ed Etroubles per collegare i diversi itinerari scialpinistici e prenotabile con una semplice chiamata attraverso tutti gli operatori turistici e professionali (Guide e Maestri di sci) che hanno aderito al progetto.

© Stefano Jeantet

E poi c'è l'ospitalità che in questa valle di passaggio fin dall'antichità ha un sapore particolare: alberghi, affittacamere, campeggi e ristoranti si sono ritrovati nel progetto skialp. Le tazzine sono ormai vuote ed è giunto il momento di lasciare il bar e andare a toccare con mano la realtà che Corrado mi ha appena descritto. In auto raggiungiamo il parcheggio degli impianti di Crévacol, dove le piste da sci tirate ad arte sono già baciate dai primi raggi del sole mattutino. Alcuni scialpinisti stanno risalendo la strada che costeggia le piste e che porta fino al nuovo bivacco, realizzato qualche mese fa appositamente per loro. A costruirlo, a occuparsi della progettazione e della messa in posa, sono stati proprio lo stesso sindaco e coloro, tra compaesani e Maestri di sci, che stanno lavorando perché la vocazione scialpinistica della località possa realizzarsi. Una piccola opera di architettura di montagna. L’ampia vetrata è un occhio sulla vallata e sul Col Serena, con interni in legno chiaro, elettricità e un piccolo impianto di riscaldamento. «Il bivacco vuole essere un simbolo di accoglienza per tutti gli scialpinisti, che qui sono ben visti e incorag- giati. Dai neofiti, che risalgono le piste e si dedicano a itinerari più semplici, fino ai più esperti, come quelli che scelgono le uscite ai Colli Citrin e Serena». A parlare è ancora una volta il sindaco Corrado. «Una struttura che abbiamo voluto realizzare direttamente, occupandoci da zero della progettazione e, una volta approvato il progetto e commissionata la realizzazione della struttura, della messa in posa. Pensa che per terminare i lavori prima dell’avvio della stagione siamo saliti lungo la strada già innevata con l’Unimog io, l’amico Guida alpina Loris e Fabio. E poi Erik, maestro della Scuola di Sci Gran San Bernardo, che si è occupato personalmente della struttura su cui poggia. Gli scialpinisti possono entrare per cambiarsi la maglietta oppure scaldarsi e mangiare un panino. È aperto sempre, anche di notte, la luce si accende grazie a un sensore di movimento e illumina l’entrata e l’interno. È molto piccolo e non sono previsti posti letto, ma sappiamo che c’è già chi, con materassino e sacco a pelo, ha trascorso la notte sulla panca in legno, godendosi lo spettacolo delle prime luci dell’alba».

Quando arriviamo al bivacco, effettivamente, non lo troviamo vuoto. Due ragazze si stanno riscaldando e, fuori, sci e pelli infilati nella neve. Il calorifero elettrico funziona alla perfezione e la temperatura interna è sui 18/20 gradi. Il panorama tutto intorno spazia a 360 gradi, con una veduta mozzafiato sul Passo del Gran San Bernardo con il suo Ospizio, i colli Citrin e Serena e, in lontananza, i 4.000 metri del Grand Combin. Scendendo lungo le piste ci imbattiamo in due professionisti dell’Esercito che effettuano le rilevazioni nivologiche utili per emettere il bollettino valanghe. Un’operazione che qui viene ripetuta quotidianamente per determinare il grado di rischio e la tipologia di valanghe che potrebbero formarsi. Informazione utilissima, ovviamente, per chiunque voglia fare del fuoripista o risalire i pendii della vallata con le pelli. Ci coinvolgono attivamente nella loro attività spiegandoci gli aspetti che valutano con queste rilevazioni e mostrandoci, attraverso una lente di ingrandimento, la natura dei cristalli di ghiaccio. Avvicino l’occhio alla lente, incredula di poter scorgere qualcosa se non un ammasso di neve senza forma. E invece – sorpresa – i cristalli sono ben visibili: spettacolo della natura purtroppo non visibile a occhio nudo.

© Stefano Jeantet

Prima di buttarci nel freeride di Crévacol, una lunga discesa che dal punto più alto degli impianti porta al borgo antico di Saint-Rhémy, ci fermiamo da Erica per una ricchissima polenta concia e un tagliere di affettati. Tra questi troneggia il famoso Jambon de Bosses, pregiato prosciutto crudo DOP dal sapore delicato, un tempo stagionato nei fienili, ora prodotto nello stabilimento ma seguendo ancora la ricetta artigianale. Erica, la ristoratrice, riempie la tavola di ogni prelibatezza, invitandoci ad assaggiare tutto. «Guardate che altrimenti mi offendo» ci intima scherzosa. Con le pance decisamente piene ci rimettiamo gli sci pronti ad affrontare la lunga e bella discesa freeride che, tra pendii non troppo ripidi e tratti di bosco, ci porta al borgo antico di Saint-Rhémy, dove ci attende lo Skialp-bus che ci riporterà agli impianti. Non prima, naturalmente, di essere passati da Simona, che gestisce un hotel e ristoro proprio nel cuore del delizioso borgo, ed esserci rifocillati con un tagliere a base di prosciutto, lardo e affettati misti, il tutto accompagnato da un paio di birre locali. Ho già intuito che saranno due giorni non solamente di scialpinismo ma anche di scoperte gastronomiche, che vanno dai piatti più tradizionali e caratteristici (indimenti- cabile la zuppa valdosatana offertaci da Danila e Roberto) a quelli più raffinati. Perché nella Valle del Gran San Bernardo non mancano neppure le rivisitazioni ricercate, come i gnocchetti di barbabietola ripieni di formaggio Bleu d’Aoste che mi ha servito Davide, il proprietario dell’hotel in cui ho alloggiato. Durante la cena Massimo Bal, presidente delle Guide alpine della Valpelline e del Gran San Bernardo, ci mostra il nostro prossimo itinerario. Tecnicamente semplice e non troppo lungo ma, così ci promette, assolutamente spettacolare dal punto di vista paesaggistico. Da quello che ho già visto durante la prima giornata, non stento a crederlo.

Si ride e si scherza, con Corrado, con le Guide e i Maestri di sci. Si parla della valle, della sua vocazione allo scialpinismo e mi raccontano di un certo Carlo Alfonso Ronc di Saint-Rhémy-en-Bosses, uno dei primi a prendere parte al Trofeo Mezzalama vincendolo due volte, nel 1935 e 1936, la seconda volta nella squadra delle truppe alpine con Perenni e Vida, quando la gara non era ancora così conosciuta e gli scialpinisti viaggiavano con gli sci
di legno. Il giorno successivo la sveglia suona alle sette. Il programma è risalire il Vallone del Gran San Bernardo, sempre tenendo gli impianti di Crévacol come punto di partenza e dirigendoci sulla sinistra, per arrivare fino al vecchio bivacco della Tête de Crévacol (2.621 metri) dal quale si apre una panoramica su quasi tutte le cime più alte della valle e gli immensi, bianchi valloni circostanti, compreso quello del passo del Gran San Bernardo con il famoso ospizio, dal quale mi dicono che è passato nel 990 Sigerico, autore del primo diario della Via Francigena, e poi Napoleone nel maggio del 1800, con 40.000 soldati. Salendo lo sguardo si perde sul colle del Malatrà, ultimo mitico passaggio del Tor Des Géants. E, più in lontananza, sulla cima del Monte Bianco. Siamo una bella compagnia oggi, tutti in fila indiana dietro alla Guida che, di tanto in tanto, si ferma per mostrarci le varie cime. Non c’è vento, solo una leggera brezza che va a mitigare il calore del sole. Sole, l’immancabile sole, presente dal mattino fino al tramonto, che accarezza e trasforma la neve. Non siamo gli unici a salire. Sono anche oggi tanti gli scialpinisti che, innamorati di questa vallata magica ed evocativa, lasciano la loro impronta allungata sui vari itinerari. Lontani dalle piste tanto quanto basta per apprezzare il silenzio della montagna, il pensiero corre alla grandissima quantità di linee, salite, discese e paesaggi. Al fatto che una o due giornate non bastano certamente, che bisogne- rebbe rimanere qui almeno una settimana e ancora potresti non averne abbastanza. «Skialp Gran San Bernardo, questo è il nome del progetto Interreg, ha come obiettivo lo sviluppo dello scialpinismo e la valorizzazione di un territorio che nulla ha da invidiare alle località più blasonate della Valle d’Aosta. Qui gli aspetti naturali e paesaggistici si legano indissolubilmente a quelli culturali, che spaziano dalla storia all’enogastronomia. Il contesto transfrontaliero permette di sviluppare azioni in un unico, contiguo territorio con il coinvolgimento diretto degli operatori turistici. Si scia da inizio stagione fino a maggio/giugno e quindi è una meta ideale per gli amanti delle pelli.
Il progetto è triennale, dal 2019 al 2021, e stiamo preparando una app per mettere in contatto turisti, strutture recettive, Guide e Maestri di sci. Quindi per fornire allo scialpinista un servizio completo al 100%». Così mi aveva detto Corrado quando ci siamo incontrarti, due giorni fa. Quando mi parlava, quando lo ascoltavo davanti alla tazzina di caffè, non avevo idea di cosa mi aspettasse. E ora, che l’ho visto, non vorrei più ripartire. Prima di caricare gli sci e dirigermi verso la pianura, lontano da queste vallate a dal bianco della neve, mi concedo un ultimo spuntino post sciata da Chiara, nel suo locale lungo le piste. Ridendo e scherzando scopro che l’8 febbraio a Flassin (il primo luogo in cui in passato, prima ancora di Crévacol, si praticava lo sci alpino e oggi sede di un parco divertimenti sulla neve) prederà il via la seconda edizione dell’Arrancaslimba, gara goliardica sugli sci (ma è possibile anche partecipare con ciaspole e ramponcini) da affrontare a coppie su un anello di 6 chilometri e un dislivello di 300 metri. L’idea nasce dalla storica Mezza Slimba che si disputava tra i borghi della vallata del Gran San Bernardo e, con lo stesso spirito di allora, viene riproposta con due variazioni: una nel nome (si chiama Arrancaslimba per gemellarla con la popolarissima Arrancabirra in calendario a ottobre) e una nella sua sostanza liquida: non vino ma birra lungo il percorso, ancora una volta grazie al supporto dei titolari di Les Bières du Grand St. Bernard, originari proprio della Coumba Freida (valle fredda in dialetto valdostano). Sarebbe una buona scusa per tornare da queste parti.

Per informazioni su Skialp Gran San Bernardo e gli itinerari:
Sito: www.skialp-gsb.eu
IG: skialpgransanbernardo
www.gulliver.it

© Stefano Jeantet

Il prosciutto che non ti aspetti

Il Vallée d’Aoste Jambon de Bosses Dop è un prosciutto crudo speziato con erbe di montagna dal sapore delicato, prodotto a 1.600 metri di quota. La sua produzione è antichissima: i primi documenti che testimoniano la presenza di questo prodotto nella Valle del Gran San Bernardo risalgono al 1397. È L’unico prosciutto in Italia che viene fatto stagionare in presenza di fieno (che assorbe l’umidità e rilascia profumi) grazie all’incrocio dei flussi d’aria che scendono dai colli Malatrà, Citrin, Serena e Gran San Bernardo e che creano l’ambiente ideale per la lavorazione e stagionatura. Una tradizione tramandata di padre in figlio che ha permesso al Vallée d’Aoste Jambon de Bosses di ottenere nel luglio del 1996 la Denominazione di Origine Protetta (DOP). Un assaggio lo troverete sempre, ma se capitate a Saint-Rhémy-en- Bosses la seconda domenica di luglio sappiate che si celebra la sagra di questa prelibatezza.

La birra local

Dopo una pellata per dissetarsi ci sono le birre del birrificio artigianale Les Bières du Grand St. Bernard di Gignod, a mille metri di quota. Si dice che arrivino direttamente dalla cima delle Alpi... Tutto nasce dalla grande passione di Rémy Charbonnier, ingegnere che dopo due anni di formazione si butta anima e corpo, insieme al suo socio Stefano Collé, in una nuova avventura e nel 2010, ad Etroubles, inizia la produzione delle prime birre Napea, Balance e Amy. Nel 2017 il birrificio di Etroubles comincia a non essere più grande a sufficienza per supportare le esigenze e le quantità produttive richieste ed ecco che la sede cambia e si trasferisce a Gignod. La nuova struttura, con oltre 4.000 metri quadrati, ospita un impianto di produzione da 35 ettolitri con una capacità produttiva annuale che arriva a 10.000. La filosofia del birrificio è racchiusa nel significato del marchio che rappresenta l’unione e l’equilibrio tra la natura e l’uomo. Due infiniti che, incontrandosi, danno vita alla birra ruotando attorno a quattro punti fissi che sono le materie prime: acqua, cereali, luppolo e lievito.

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Crans-Montana Rando Parc

Ufficio del Turismo di Crans-Montana, Svizzera, Vallese. Ampie vetrate che danno sulla strada. Nonostante sia un giorno infrasettimanale c’è comunque chi, sci in spalla, si affretta in direzione della cabinovia. «Nei week-end - mi racconta Jenny, responsabile dell’area comunicazione - qui è tutto un brulicare di sciatori, snowboarder e ciaspolatori, di famiglie coi bambini e di giovani che passano la giornata sulle piste e la concludono con l’après-ski. La scorsa settimana abbiamo ospitato le atlete di Coppa del Mondo». Esita un attimo, ma poi continua, aprendo il viso in un sorriso: «Ha vinto la vostra Brignone». Probabilmente avrebbe preferito commentare il successo di un’atleta della squadra elvetica, ma d’altro canto le vittorie, quelle vere, vanno riconosciute. Non posso che ricambiare quella mezzaluna felice, che mette in evidenza i denti bianchissimi e fa da cornice agli occhi azzurro chiaro. Nicolas, al mio fianco, annuisce e a tratti allunga lo sguardo oltre i vetri. Scruta in attesa di vederla arrivare. E lei, finalmente, arriva. Preceduta da una trottolina dagli occhi grandi, chiusa nel suo cappottino e con le guance tempestate di puntini rossi. I capelli biondi, come quelli della mamma, sono nascosti dal berretto di lana. Gli occhi, invece, sono quelli del papà. Mi guarda dal basso dei suoi quattro anni e mezzo, mentre addenta un panino. Dietro di lei, Séverine ci viene incontro con passo leggero. Si scusa per il ritardo, sfoderando il sorriso di chi sa farsi perdonare. Lei è Séverine Pont-Combe. Scialpinista, campionessa, ma anche mamma e lavoratrice. Essere tante cose contemporaneamente non è semplice e questa mattina il suo essere mamma ha avuto la meglio. «Si è svegliata con questi puntini rossi su tutto il corpo e quindi siamo dovute andare dal dottore» esordisce indicando la figlia e quel rossore sulle gote che, se non me lo avesse detto, avrei imputato al freddo. Uno sfioro di labbra sulla guancia a Nicolas, suo marito, che mi ha tenuto compagnia fino a questo momento. Nicolas è uno a cui piace ridere e sorridere, si vede. Ex allenatore della nazionale svizzera di scialpinismo, ex maestro di sci, la storia di Séverine non potrebbe essere raccontata senza di lui. Vivono a Crans-Montana da circa una decina d’anni, insieme alle due figlie. I genitori di entrambi abitano lontani. La scelta di non mandare le bambine alla scuola materna li ha portati a dover essere costantemente presenti, a turni, per occuparsene. Una scelta non semplice, che dimostra carattere e determinazione, le stesse caratteristiche che ci vogliono per vincere le gare.

Séverine Pont-Combe ©Stefano Jeantet

Contro ogni previsione oggi non nevica. Il cielo non è azzurro ma, a tratti, si scorgono dei buchi di sereno. «È tutto merito del microclima di questa zona - spiega Nicolas mentre sistema lo zainetto sulle spalle della figlia - spesso all around nevica, ma qui no». Si sforza di parlare italiano, per mettermi maggiormente a mio agio, e a volte inciampa in qualche costrutto che fa sorridere. E quando l'italiano non basta più, parla inglese. Con Stefano, il fotografo, la lingua è invece il francese. Io non capisco il francese, Stefano non capisce l’inglese: il tutto prende i connotati di una allegra scenetta poliglotta, che sfiora il comico. La Babele viene interrotta da Séverine, che riprende le redini della situazione. Uno scambio veloce di battute per decidere da dove partire per iniziare la nostra visita al Rando Park. Crans, Barzettes e Aminona sono i tre starting point possibili e, da questi, una miriade di varianti. Mi sento una privilegiata, nel nuovo paradiso dello scialpinismo e accompagnata da una campionessa della disciplina. Quindici itinerari poco distanti dalle piste, su oltre di 40 chilometri di sentieri, con un dislivello positivo di 8.000 metri. Sono queste le dimensioni del gigantesco trekking park inaugurato questo inverno e voluto dall’intero comprensorio, con la preziosa collaborazione di Nicolas e Séverine. Perché se in un posto ci vivi, se lo ami, vorresti che lo amassero anche gli altri e soprattutto vorresti che fosse valorizzato al meglio. Beh, qui a Crans-Montana hanno saputo farlo. Turismo intelligente, turismo per tutti, non solo per i pistaioli; a me piace chiamarlo così.

Mentre aspettavamo Séverine, Nicolas mi ha raccontato con entusiasmo di questo progetto. Gli brillavano gli occhi. «Un’idea che è nell’aria già da quattro, cinque anni. Il popolo degli scialpinisti, che ora è composto anche da quelli che risalgono le piste, è sempre più numeroso. Lasciarli su pista diventava quindi pericoloso, sia per loro sia per gli sciatori. Dare sanzioni a chi risale, non piaceva. Perché escluderli? E allora ecco l’idea, che piano piano e grazie all’aiuto di tutti ha preso forma». E quando le idee sono buone, poco ci vuole perché si trasformino in realtà. «Tre anni fa i primi due itinerari: Petit Loup e Grand Loup, partendo da Aminona. A dicembre 2017 abbiamo inaugurato altri 13 tracciati. I percorsi possono essere utilizzati da tutti e il dispositivo ARTVA (anche se è sempre meglio averlo!) non è obbligatorio. Con una app, aggiornata dalla società che gestisce gli impianti, è poi possibile verificare i tracciati aperti e quelli chiusi, esattamente come accade per le piste. Il park può essere utilizzato da chiunque, liberamente. C’è un biglietto, da 5 franchi (giornaliero) o da 50 franchi (annuale), per chi vuole usufruire anche degli impianti per spostarsi all’interno del comprensorio». «E funziona?» Sono curiosa e non posso fare a meno di domandare. «Eccome. Da quando abbiamo aperto il park non ci sono più scialpinisti in pista. Tutti lo preferiscono».

Ma ora pare giunto il momento di mettere gli sci ai piedi e di vedere qualcuno di questi tracciati. Séverine ci fa strada. I percorsi scialpinistici, rappresentati su un cartellone a poca distanza dall’ingresso della funivia, sono ben segnalati. Ognuno di essi ha un numero, una scala di difficoltà, lunghezza e dislivello. Sbagliare è praticamente impossibile. Sono segnati con frecce e cartelli… qui l’ordine è proprio svizzero! E se mi ero immaginata delle specie di piste battute dal gatto delle nevi, beh, mi ero sbagliata. La traccia c’è, ma è quella fatta dal primo che è salito dopo la più recente nevicata. Quando fiocca, la traccia si cancella, come in ambiente, ma i cartelli rimangono. Il primo che si alza la mattina e mette le pelli sotto gli sci, batte anche per tutti gli altri. Séverine monta e smonta le pelli velocemente. Dopo un primo pezzo che si allontana dalle piste, a tratti costeggiandole e a tratti risalendo nel bosco, arriviamo nella parte alta, sgombra dalla vegetazione. Lo sguardo ha così modo di spaziare. Dalla case di Crans-Montana, formiche sotto di noi, fino alle cime sopra le nostre teste. Di tanto in tanto incrociamo qualche scialpinista, gente del posto, che usa il tracciato per allenarsi. Qui Séverine è la padrona di casa. Una padrona cortese, che saluta tutti sbracciandosi, urlando, chiamandoli per nome e regalando dirompenti sorrisi.

Nel Rando Parc di Crans Montana ©Stefano Jeantet

Rimaniamo distanti dalle piste, che possiamo comunque utilizzare per la discesa. Questo è interessante, soprattutto quando la neve non è poi così bella. Guardando i percorsi mi rendo conto che sono tutti piuttosto lineari e che la difficoltà è data, più che altro, da dislivello e lunghezza. Le salite sono continue, uniformi e mai troppo impegnative. Mi mostra la diga del Lac de Tseuzier e poi, là in fondo, dietro le nubi, la corona di cime che si estende dal Breithorn al Monte Bianco, passando per il Weisshorn e il Cervino. Prendo le piccole pause per incalzare e la tempesto di domande sulla sua vita. Come si fa a fare l’atleta, la mamma e contemporaneamente anche l’insegnante a scuola? Come, e soprattutto quando, ci si allena? «Non potrei fare nulla senza Nicolas. Addirittura la mia vita non sarebbe come è ora, se non l’avessi conosciuto. Fino a 23 anni non praticavo scialpinismo, sciavo in pista e neanche troppo bene! Poi ho conosciuto Nicolas, maestro di sci. Lui ha perfezionato il mio stile e insieme a lui ho iniziato anche a fare scialpinismo».

E quando non c’è la neve? «Amo correre e faccio anche qualche gara di trail-running. A dirla tutta corro da sempre, da che mi ricordi. Ho iniziato con l’atletica leggera all’età di 5 anni e sono stata anche membro della nazionale svizzera. Correvo. Correvo in pista! Una buona base per lo scialpinismo. In estate mi piace fare lunghi giri in mountain bike e anche a piedi. Dove? Basta guardarmi attorno. Qui ho tutto quello che mi serve». Quando e come ti alleni? «Ci si allena quando si riesce, in tutti i ritagli di tempo. Fondamentale, non mi stanco di ripeterlo, è il supporto di mio marito. Soprattutto con le bambine: è un super baby sitter e un papà presente. Indosso gli sci a inizio stagione e non li tolgo più fino alla fine. Andare, andare, andare, questo è il punto. Unitamente a un po’ di palestra, qualche peso, tanti addominali. Ma non credere che io vada in una palestra vera e propria. Qui a Crans-Montana non c’è! Faccio tutto in casa». Non solo gare. Non solo sport. Quello che mi interessa scoprire è anche la persona, nel pochissimo tempo che ho a disposizione e tra una pellata e l’altra. E così Séverine mi racconta, si racconta. «Mi piace immergermi nella natura. Le lunghe camminate, insieme a Nicolas e alle bambine, che stanno imparando ad amare quello che le circonda. Vivere insieme le belle esperienze, anche sportive. Il Trofeo Sellaronda, ad esempio, è l’occasione per una vacanza di famiglia». E quando ti devi davvero rilassare? Quando vuoi staccare la testa? «Una tazza di caffé bollente, sulla mia bella terrazza al sole, e magari un buon libro. Queste sono le piccole, semplici cose che mi fanno stare bene e sentire in pace, con me stessa come con gli altri».

©Stefano Jeantet

La vita di una mamma-atleta-lavoratrice è piena di impegni e così, nel pomeriggio, continuo a esplorare l’area insieme a una Guida alpina. Nel frattempo il sole si è nascosto dietro le nuvole e ha iniziato a scendere un nevischio leggero, ma fittissimo. L’atmosfera è da favola, quasi surreale. Risaliamo il tracciato partendo da Barzettes e arriviamo in una zona solcata da spettacolari rocce, qui lo chiamano il canyon e capisco subito il perché. La neve ora scende bene, punge la pelle già arrossata dal sole mattutino, ma la visuale rimane buona. Altro miracolo del famoso micro-clima di Crans-Montana? Passiamo tra una roccia e l’altra, il paesaggio si allarga e poi si restringe. Mi tiro giù la maschera, davanti agli occhi, e mi pare di guardare dentro a una macchina da presa. La neve ai lati del canyon forma cornici e meringhe. Usciamo dal tracciato, che passa proprio a ridosso di questa spettacolare area, e ci addentriamo tra le rocce calcaree. Normalmente sono striate di giallo e di grigio, oggi la neve uniforma tutto. Non ci sono più tracce. Solo noi, sul manto ghiacciato e nel silenzio ovattato, a lasciare quel segno che, a breve, non ci sarà più. Come fanno le onde del mare sulla sabbia, anche la neve cancella tutto. Ma proprio tutto. Cancella le orme degli animali. Le nostre. Capita che cancelli persino i pensieri brutti. Tutto. Torniamo sul tracciato e lo seguiamo fino in cima. Sopra di noi langue, a quota 2.927 metri, lo sconfinato ghiacciaio del Plaine Morte. Una cabinovia porta fino a su, dove si trovano un rifugio e una pista per fare sci di fondo. La nevicata si intensifica, sale la nebbia ora, e decidiamo di tornare alle auto. Consapevoli, più che mai, di essere stati graziati dal meteo. Crans-Montana si è aperta, svelata, lasciata guardare. Se il sole fosse ancora alto ora continueremmo a salire. Invece togliamo le pelli e scendiamo a capofitto lungo le piste, tirate ad arte. Respirando forte nel bavero della giacca, per sentire quel calore tiepido che accarezza il viso, ai lati della bocca. Ascoltando il rumore delle lamine in curva. Pensando che qui bisogna per forza tornare.

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©Stefano Jeantet

Catherine Poletti, la mia UTMB è come un rock

Non ci sono solo le note di Conquest of Paradise di Vangelis nella compilation di Catherine Poletti, meglio conosciuta come la signora di ferro del trail. Madame UTMB è una che le suona a tutti e infatti nel suo passato e in quello del marito Michel, che sta sempre un passo indietro come il principe consorte, ma è in perfetta sintonia con Catherine, ci sono tante note. «Siamo imprenditori e abbiamo sempre lavorato insieme, gestendo per 20 anni un negozio di musica e dischi - dice mentre parla seduta alla scrivania del 36 di Avenue du Savoy, quartier generale dell’UTMB, naturalmente a Chamonix - Siamo complementari sia come forma mentis che a livello decisionale e questa nostra sintonia si è subito palesata anche nell’avventura dell’UTMB». Un’avventura iniziata lontano e accompagnata per 17 lunghissimi anni dalle note di Conquest of Paradise. «Agli inizi degli anni 2000 le competizioni sulle ultradistanze erano pochissime, almeno qui in Europa. E mio marito, appassionato fondista, le inseguiva da un luogo all’altro. E io seguivo lui, accompagnandolo e facendogli assistenza. È stato proprio dopo una di queste gare che io e lui, di rientro a Chamonix, abbiamo pensato sul serio, per la prima volta, all’UTMB». Ma se Michel era l’atleta, perché proprio Catherine è la direttrice di gara della più importante (e ricca) gara del mondo ultradistance? «È ridicolo, ma delle nove persone che facevano parte del comitato organizzatore, io ero l’unica che non l’avrebbe corsa e quindi quella che avrebbe potuto tenere, anche durante la gara, le redini della situazione». La fama non sempre fa rima con simpatia e questo Madame UTMB lo sa. Spesso le decisioni targate UTMB sono state impopolari e criticate, ma alla fine si sono rivelate giuste. «Non proprio tutti ci amano, ma la maggior parte sì, noi facciamo il nostro e lo facciamo al meglio, del resto poco importa, o meglio, non ci preoccupa. Quando per la prima volta abbiamo introdotto materiali obbligatori, molti non ci hanno visti di buon occhio. Fino a che tutti sono convenuti alla nostra stessa conclusione: correre leggeri come Kilian è il sogno di tutti, peccato che non tutti siano veloci quanto lui e quindi i materiali obbligatori non sono qualcosa di superfluo, ma un vero e proprio salvavita in caso di emergenza». La mente va ancora alle note di Vangelis, a Catherine che balla, incurante della folla e dello stile, a Catherine che abbraccia i concorrenti all’arrivo. «Alla sua prima vittoria all’UTMB Rory Bosio per la fatica si lasciò cadere a terra. Io andai a sollevarla e i media dissero che mi ero intromessa e che avrei dovuto lasciarle vivere questo momento da sola. Sulla scorta di queste critiche, l’anno successivo mi guardai bene dall’andarle incontro. Lei, memore di quanto accaduto l’anno prima, appena tagliato il traguardo mi fece l’occhiolino e si gettò letteralmente tra le mie braccia!». Da donna a donna, in un triangolo perfetto: Catherine, Rory, io. Ma qual è la differenza tra i due sessi in gara? «Non è durante la gara, ma soprattutto al traguardo. Dopo una fatica immensa le donne arrivano composte, dignitose. Sono più eleganti, più attente anche al lato estetico. Ricordi il poster di dell’edizione 2018? Quella è una finisher, una finisher vera: sorridente, raggiante, bellissima… Non abbiamo voluto appositamente usare Photoshop né alcun altro ritocco proprio per non rovinare l’immagine luminosa di questa donna fantastica». Lo scettro della scena internazionale del trail è saldamente nelle sue mani, ma chi sarà il delfino? «Io e Michel non ci saremo per sempre, questo è ovvio, non abbiamo ancora designato uno e dei successori, ma sicuramente ci stiamo già lavorando». Intanto si pensa già alla prossima UTMB perché, alla domanda su quale sia stata l’edizione migliore, Catherine ha risposto senza esitazioni: «La prossima!». Cento di queste UTMB, Madame Poletti.

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Trekking al fronte

La Guerra Bianca. Un nome affascinante. E quell’aggettivo, bianca, evoca un non so che di candido e pulito. Eppure 100 anni fa, nei luoghi che fecero da scenario alpino alla Prima Guerra Mondiale, quel bianco fece più morti del nemico. Perché qui, nelle prime linee di confine, ad ammazzare furono la neve, il freddo, la montagna. Prima ancora che la pallottola del soldato austro-ungarico. E pure quella, a dirla tutta, non mancava. Ma nella stagione più fredda, negli anni di guerra tra le nevi del Parco Nazionale dello Stelvio e dell’Adamello, l’esercito aveva a che fare non con uno ma con due nemici: l’uomo e anche l’ambiente ostile. A vederlo oggi, il comprensorio Pontedilegno-Tonale, con le sue numerose attrazioni turistiche, sembra un angolo di paradiso. Passo Paradiso, con l’omonima cabinovia, per alcuni rappresentò invece l’inferno.

L’intera zona, un tempo confine tra Regno d’Italia e Impero Austro-Ungarico, fu uno degli scenari di quella parte di conflitto mondiale che si svolse sulle Alpi, a quote elevate. In questi luoghi i soldati furono messi a dura prova da temperature estreme ed equipaggiamento che nulla aveva a che fare con quello degli alpinisti moderni. La vita al fronte, soprattutto quando il fronte si trovava a 3.000 metri di quota, richiedeva resistenza e grandi capacità di adattamento. Oggi quel passato rivive grazie ai numerosi itinerari storici che conducono ai resti di trincee, fortificazioni e villaggi militari. Ma per arrivarci bisogna fare un po’ di fatica, come i nostri soldati poco più di un secolo fa…

Il Sentiero dei Fiori

Percorrere il Sentiero dei Fiori, che si snoda sulle creste tra il Passo del Castellaccio e il Passo di Lago Scuro e sui ghiaioni sottostanti, significa camminare nella storia. O meglio, sulla storia. Tra un sasso e l’altro si può trovare davvero di tutto: dal filo spinato ai pallini di piombo degli ordigni bellici, dal legno usato per costruire le baracche dei soldati ai pezzi di stoffa delle divise. Materiale conservato nel ghiaccio e che ora, con il ritiro del limite delle nevi, riemerge. Proiettili così come scatolame che, con un po’ di fortuna, riporta ancora la data di scadenza o di confezionamento. Il Sentiero dei Fiori, la cui partenza è raggiungibile con la cabinovia che da Passo Paradiso conduce fino a Passo Presena, ripercorre infatti i camminamenti, le gallerie e le trincee della prima linea italiana durante la Grande Guerra. A fare da cicerone su questo itinerario dove gli aspetti naturali si fondono con la storia, la Guida alpina Uberto Piloni, che conosce le montagne come le sue tasche. Camminare insieme a Uberto è come avere una enciclopedia a portata di mano: la sua cultura del territorio spazia dagli aspetti geomorfologici a quelli relativi alla Prima Guerra Mondiale, senza tralasciare la flora e le splendide fioriture di piante endemiche che, specialmente nel mese di luglio, fanno capolino tra una roccia e l’altra. E così, senza accorgersene, si passa da una lezione di geologia a una di botanica, dalla placca europea (che infilandosi sotto a quella asiatica ha dato vita ai giovani rilievi dell’Adamello) al ranuncolo bianco o alla genziana, la cui radice amara è l’ingrediente principale del celebre e amarissimo liquore.

©Matteo Pavana

Da Passo Paradiso, salendo con la nuova cabinovia che porta fino a Passo Presena (quota 3.000 metri) si possono anche notare i teli bianchi posati a protezione del ghiacciaio, il cui scopo è limitarne l’inesorabile scioglimento. Un ghiacciaio in costante ritiro, il Presena. Al suo posto è emersa la nuda roccia. «Qui fino agli anni 1994/95 si praticava ancora sci estivo, mentre oggi non sarebbe più possibile» commenta Uberto mentre ci indica, ancora dalla cabinovia e proprio di fronte a noi, il Cornicciolo del Presena, più noto come Sgualdrina. Una volta scesi dalla cabinovia, davanti a un caffè caldo allo skibar Panorama 3000 Glacier, ci godiamo lo spettacolo di Adamello, Lobbie, Presanella e Pian di Neve, il più vasto ghiacciaio delle Alpi italiane. Da qui un sentiero che procede quasi in piano conduce, in un’oretta di cammino, fino a Passo Lago Scuro: una piccola Machu Picchu, ricchissima di testimonianze della Grande Guerra. Una vera e propria cittadella in quota, con le sue trincee e fortificazioni, con gli spazi un tempo adibiti a dormitorio, la chiesetta e la mensa degli ufficiali. A terra i resti delle baracche e di telo catramato che facevano da copertura isolante alle stesse. Da qui, percorrendo la ripida scalinata costruita dai nostri soldati al fronte un secolo fa, si sale in direzione del sentiero attrezzato, percorribile sia in questa direzione che il quella opposta. Sebbene non particolarmente impegnativo, è consigliato indossare il kit da ferrata. Cavi e catene aiutano a tenersi sempre in sicurezza. Percorrendolo si incontrano le varie postazioni dei soldati lungo la cresta. In una mezz’oretta durante la quale lo sguardo non manca di spaziare su tutto l’arco alpino, si arriva al Bivacco Amici della Montagna-Capanna Faustinelli, vecchia baracca militare e punto più alto dell’escursione (3.160 metri). Proseguendo si giunge fino al Gendarme di Casamadre e alle due spettacolari passerelle metalliche il cui attraversamento è senza dubbio uno dei momenti più emozionanti del tracciato. Già esistenti all’epoca della guerra, lunghe rispettivamente 75 e 55 metri, sono state oggi risistemate e messe in sicurezza. Se proprio non volete camminare nel vuoto, sono comunque aggirabili grazie a una galleria lunga circa 70 metri, anch’essa memoria delle terribili fatiche del 1918. Nei diversi punti strategici la cartellonistica illustrata racconta, tramite le date salienti, le varie fasi della guerra e degli avvenimenti su questo fronte.

«È stata la guerra più alta della storia e il freddo arrivò a toccare i 30-40 gradi sotto lo zero, con 10-12 metri di neve caduta. Con queste condizioni i rifornimenti erano davvero faticosi, nonostante i 7-8 chilometri di teleferiche tirate per rendere più agevoli gli approvvigionamenti - racconta Piloni. – La guerra non portò solo morte, ma anche un sacco di evoluzioni. Ad esempio condusse alla diffusione del cibo in scatola, fino ad allora quasi sconosciuto; lo sviluppo di una concezione moderna di rampone e di occhiale da ghiacciaio; delle divise bianche che permettevano un maggiore mimetismo nel bianco della neve; di mille piccoli accorgimenti per cercare di sopravvivere ai climi rigidi dell’inverno a quota 3.000 metri».

Il giro dei Forti

Se la quota del Sentiero dei Fiori è un po’ troppo impegnativa, oppure se si desidera affrontare un itinerario più rilassante ma comunque molto interessante, è possibile visitare alcuni resti del complesso sistema di fortificazioni realizzate dagli austriaci al confine italiano presso Passo Tonale. Uno degli itinerari, per i più sportivi affrontabile anche sulle due ruote gommate, porta alla scoperta di Forte Mero e Forte Zaccarana, realizzati ai primi del Novecento, già in sentore di guerra. Ad accompagnarci, questa volta, la Guida Mauro Fioretta. Il percorso, che attraversa la prima linea austro-ungarica e la terra di nessuno, offre una splendida veduta delle cime dell’Alta Val di Sole. Si parte dall’Ospizio di San Bartolomeo a poca distanza da Passo Tonale, dove un cartello in legno indica la direzione per Forte Mero. Su strada comoda, si prosegue in leggera discesa. Tutt’intorno pascoli, mucche, piante e fiori, silenzio. I rumori della strada sono sempre più lontani. Tronchi tagliati e ben posizionati, che saranno legna da ardere durante il freddo inverno. In circa mezz’ora si raggiungono i resti di Forte Mero, costruito tra il 1911 e il 1913 al fine di rinforzare il confine austriaco. Un tempo organizzato come una cittadella autonoma, ora a fare capolino tra un pezzo di muro e l’altro ci sono le marmotte, che hanno colonizzato questa tana che pare fatta dall’uomo appositamente per loro. In posizione strategica, il forte tiene sott’occhio Passo Paradiso e la conca del Presena. Mauro fa notare come su alcune pareti siano ancora presenti le macchie di colore realizzate per mimetizzare le mura del forte.

©Matteo Pavana

Proseguendo si oltrepassano i resti, recuperati ad arte, delle caserme di Strino, un tempo adibite a magazzini e ospedale da campo. La strada che porta al Forte Zaccarana sale dolce, seguendo i tornanti che si snodano lungo il bosco. Zaccarana era la fortificazione più moderna, realizzata tra il 1907 e il 1913, con tanto di cupole di acciaio girevoli, oggi non più visibili in quanto fatte saltare dai cosiddetti recuperanti che dopo la Prima Guerra saccheggiavano quanto rimasto per ricostruire i paesi che erano usciti, chi più chi meno, distrutti dal conflitto mondiale. Da qua, per pascoli e panorami bucolici, in un’ora di cammino si fa ritorno al punto di partenza. Prima di andarsene è interessante dare un occhio anche al Forte Strino, posizionato lungo la strada che dalla Val di Sole giunge in Tonale e quindi raggiungibile anche in auto. Molto antico, realizzato nel 1862, è stato recuperato e adibito a museo storico della Guerra Bianca.

www.pontedilegnotonale.com

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©Matteo Pavana

La traversata dell'amicizia

Quando una traversata con gli sci si trasforma in un viaggio nella storia e nella memoria. Un modo per ricordare quel papà mai conosciuto, la cui impresa ha saputo scavalcare le barriere del tempo e arrivare fino ad oggi. A tentare la traversata completa delle Orobie di Angelo Gherardi non è stato infatti solamente il figlio Alessandro (di Zogno), accompagnato dall’amico Simone Moro, ma anche un’altra cordata bergamasca e addirittura, qualche anno fa, uno scialpinista francese. Da Ornica fino a Carona in Valtellina, su e giù per i giganti delle Orobie, macinando una media di 2.500-3.000 metri di dislivello e su distanze che si aggirano attorno ai 30 chilometri quotidiani. E se i primi, la cordata dell’amicizia formata da Moro e da Gherardi (così hanno voluto definirsi dal momento che l’impresa è conosciuta con il nome di traversata dell’amicizia) devono ancora portare a termine l’ultima tappa, la seconda cordata ci è invece riuscita, pur con qualche difficoltà. Si tratta della coppia di bergamaschi Maurizio Panseri e Marco Cardullo, partiti il 21 aprile addirittura dalla riva del lago di Como (dall’imbarcadero di Varenna, per la precisione). Hanno così allungato il tracciato dell’originale traversata compiuta da papà Gherardi nel 1971 e poi nel 1974 arrivando fino a Carona in Valtellina e nelle loro intenzioni future c’è quella di arrivare fino a Corteno Golgi, in Valle Camonica.

Ma andiamo con ordine perché i fatti sono tanti e si intrecciano in una storia che fonde in un’unica, affascinante narrazione le gesta sportive dell’alpinista con quelle dell’uomo tenero di cuore, il desiderio di avventura con quello di ricordare e condividere, il vecchio con il nuovo e infine il passato con il presente. Il tutto parte da un post scritto da Simone Moro sulla sua pagina Facebook in data 30 marzo. «Non cercavamo record, non c’era nulla di nuovo, nessuna volontà di stabilire una salita record né di strabiliare nessuno. Volevamo solo regalarci un viaggio scialpinistico forse poco ordinario tra le montagne di casa, le Alpi Orobie. Abbiamo così deciso di ripercorrere a modo nostro la traccia e l’idea di Angelo Gherardi, papà di Alessandro detto Geko, che nel 1971 realizzò la prima traversata scialpinistica delle Orobie. E proprio Alessandro è stato il compagno di quattro giorni di silenzioso e selvaggio viaggio con sci da alpinismo e zaino in spalla da Ornica al Rifugio Mambretti».

Le montagne belle e selvagge si possono trovare anche a due passi da casa, come è solito ricordare Hervè Barmasse, senza bisogno di volare all’altro capo del mondo. Certo, viene da pensare, facile parlare di montagne belle quando di casa stai sotto al Cervino… Ma è altrettanto vero che l’amante della montagna, il vero esploratore, non si ferma alle apparenze ma va oltre, dove magari non arrivano strade e neppure impianti di risalita, dove soprattutto nella stagione invernale la natura riserva spettacoli inimmaginabili. E Angelo Gherardi, papà adottivo di Alessandro, primo istruttore di scialpinismo del CAI di Bergamo venuto a mancare quando egli era ancora piccolissimo proprio sulle montagne di casa, lo aveva capito bene. Nel 1971 aveva compiuto, insieme ad alcuni amici, tra cui Franco Maestrini, la traversata dell’arco orobico da Ornica alla Valle Belviso e, nel 1974, quella partendo dalla Val Biandino (Valsassina) e arrivando a Carona, in Valtellina. Insieme, quella seconda volta, al francese Jean Paul Zuanon, già capo spedizione in imprese alpinistiche sulle Ande oppure in Pamir e conosciuto dal bergamasco in occasione di un rally in Adamello. Una traversata - riportano fonti autorevoli della stampa locale - compiuta nella più assoluta solitudine ma che ebbe risonanza notevole nell’ambiente bergamasco. Però, oltre che un valido alpinista, Angelo (a cui è intitolato il rifugio Gherardi ai Piani dell’Alben) era anche un uomo di cuore. Tra il 1971 e il 1974 adotta un bambino e una bambina. Il maschio è, appunto, Alessandro. Papà Angelo muore in un incidente alpinistico sul Corno Stella quando Alessandro ha solamente un anno o poco più e il bambino cresce nel mito di questo padre tanto buono nel carattere quanto bravo a livello alpinistico. Dopo la morte di Angelo pare che solamente Maestriniabbia rifatto la traversata, forse proprio in ricordo dell’amico.Gli anni trascorrono e i figli di Angelo crescono. Alessandro oggi è unvalido arrampicatore, canoista e scialpinista.

©G.M. Besana

Da anni era stimolatodall’idea di ripetere la traversata del padre. Detto, fatto. E con un partnerd’eccezione.«Avevo solo quattro giorni consecutivi di tempo libero da poter dedicarea questo viaggio sulle nevi e tra le vette di casa, perché la recente spedizione che ho compiuto in Siberia ha generato tante attività e appuntamenti che mi hanno riempito le settimane e i prossimi mesi di incontri, ma non volevo mancare alla personale volontà di partire e alla promessa che avevo fatto all’amico Alessandro di essergli a fianco. Così invece di perdere tempo e anni a dire prima o poi lo facciamo oppure piacerebbe anche a me però, che sono le frasi che per anni hanno ripetuto a Geko, ho invece preso la decisone, preparato il materiale e mi sono presentato puntuale a casa di Alessandro, a Zogno, alle 7 in punto del 25 marzo per dirigerci a Ornica» riporta Moro. Nella prima occasione, con zaini e materiale pesante e senza alcun supporto logistico (le fonti storiche parlano di 20/25 chili di materiale a testa) Angelo Gherardi aveva impiegato nove giorni, mentre nel 1974, insieme al francese, i giorni si erano già ridotti. Simone e Alessandro, che però si sono fermati al Mambretti, sono stati sulla neve per quattro giornate.«Abbiamo voluto fare tappe doppie rispetto a quelle di papà Angelo solo perché materiali, preparazione e il mio tempo limitato lo permettevanoe imponevano. Dai 2.500 ai 3.000 metri di dislivello al giorno, almeno quattro o cinque salite e cambi pelle per ogni tappa e tanta serenità nel cuore. Siamo rimasti stupiti dalla bellezza e della gioia che abbiamo respirato lungo tutto il percorso. Non sono mancati gli incontri con altri scialpinisti in alcuni punti della traversata, abbiamo pernottato al Rifugio San Marco, all’hotel K2 a Foppolo, alla baita di Cigola e bevuto il caffè al Mambretti come chiusura della nostra personale traccia. Ci riproponiamo di terminare il viaggio con l’ultima tappa che ci porterà a Carona di Valtellina il prossimo anno, visto che il meteo non è più stato favorevole. Per narrare questa nostra esperienza ho chiesto a turno ad alcuni amici fotografi di venire lungo il percorso a scattare qualche immagine per meglio esaltare la bellezza delle opportunità verticali ed escursionistiche del nostro territorio».

Una bella storia con lieto fine, ma non è tutto qui. Il 21 aprile e nei giorni seguenti l’itinerario è stato ripercorso da Maurizio Panseri e Marco Cardullo, con il sostegno dell’amico Alberto Valtellina per quanto riguarda la logistica e non senza qualche, piccolo, inconveniente. Panseri, alpinista conosciuto e affermato in bergamasca, conosceva anche quel famoso Maestrini che era stato, nel 1971, insieme a Gherardi durante la traversata e che l’aveva ripetuta anche dopo la morte dello stesso. «Era da tempo che pensavo di ripetere la traversata, partendo però dal lago, sopra Lecco, e arrivando a Corteno Golgi in Valcamonica. Nella parte di traversata fatta dal Gherardi ci siamo mantenuti il più possibile fedeli al percorso originale». Immaginiamoceli a Varenna, zona imbarcadero, con tanto di scarponi e sci in spalla. E poi immaginiamoceli sul Grignone, lo stesso giorno, per scendere e dormire in Valsassina, nei pressi di Pasturo. «Il secondo giorno siamo andati da Pasturo a Introbio, per risalire la Val Biandino e il Pizzo Tre Signori. Scesi fino al lago di Trona, siamo poi risaliti al Benigni, dove abbiamo trascorso la notte nel locale invernale. Il terzo è successo quello che a uno scialpinista non dovrebbe mai accadere: rompere gli sci! Mi è venuto in soccorso l’amico Alberto, che ha provveduto al cambio sci ai Piani dell’Avaro, dove abbiamo dormito. Il giorno dopo siamo ripartiti alla volta di Foppolo. La quinta tappa ci ha visti in Val Cervia, per arrivare a dormire a fine giornata con i nostri sacchi a pelo presso le baite di Scais. Siamo saliti al Mambretti durante la sesta tappa, affacciandoci verso la vedretta di Porola nella speranza di aver ben compreso le indicazioni del buon Maestrini (morto nel luglio del 2017, ndr). Dal Colletto Nord di Porola, che si trova a 80 metri dalla vetta del Porola, ci siamo ritrovati a guardare giù, verso il canale che scende alla vedretta del Lupo, a Nord del Passo di Coca. Un’emozione grande, soprattutto perché eravamo i primi a continuare la traversata e perché ci trovavamo, in quel momento, nel punto più alto della stessa». È la sera del 26 aprile e, dato il meteo non favorevole (le temperature sono troppo alte), i due decidono di arrivare al rifugio Coca e di scendere a Valbondione. Ripartiranno solamente la sera del 31 aprile, complice un improvviso abbassamento delle temperature. Si riportano all’altezza del rifugio Coca (dove si erano fermati) per poi ripartire, dopo qualche ora di sonno, prima dell’alba del primo maggio e, passando per la Bocchetta dei Camosci, scendere la Valmorta fino al rifugio Curò, risalire al Passo Caronella e, finalmente, perdere quota per arrivare a Carona, in Valtellina. La soddisfazione per l’impresa la si evince chiaramente dalle parole di Panseri.

«Lo sci di traversata è l'essenza dello scialpinismo perché abbina alla parte tecnica una componente esplorativa e avventurosa che rende l'esperienza completa e decisamente interessante. La logistica, come in una micro-spedizione, ha poi il suo peso in tutti i sensi. Più il luogo è selvaggio, più si deve essere autonomi e sempre più aumenta il peso dello zaino: sacco a pelo, fornello, cibo… e tutto si riduce all'essenziale. Se vi ingaggerete nella

traversata delle Orobie con gli sci non troverete altro che l'essenziale per vivere una grande avventura immersi nella bellezza». Nota di colore, o colpo di scena, rivelato dallo stesso Panseri: vi ricordate il francese, Jean Paul Zuanon, protagonista della traversata integrale del ’74 insieme a Gherardi? Tornò a casa e scrisse il suo personale racconto sull’annuario del CAF (Club Alpino Francese). Nel 2011 François Renard, ingegnere con la passione per lo scialpinismo, decide di realizzare la traversata in senso contrario e descrivere in un libro quella che (secondo il suo personale parere) figura tra le 15 più belle traversate con gli sci a livello mondiale. Nel suo volume Skitinerrances 1, pubblicato nel 2013, racconta di Cile, Nuova Zelanda, Norvegia e Alpi. Nella pubblicazione la parte del leone la fanno, naturalmente, le Alpi e poi troviamo, oltre agli Appennini, pure le Prealpes Bergamasques, con la traversata realizzata sulle tracce di quella effettuata da Gherardi e da Zuanon nel 1974.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 118, uscito a giugno 2018. Se non vuoi perderti nessuna delle storie di Skialper e riceverlo direttamente a casa tua puoi abbonarti qui.

Il percorso seguito da Maurizio Panseri e Marco Cardullo ©Marco Romelli

Morenic Trail, le impressioni di chi l'ha corsa

Prendere parte al Morenic Trail, correre sull’orma del ghiacciaio e sentirne il respiro, vecchio di millenni, significa diventare il tassello di una storia che inizia moltissimo tempo fa, durante il Pleistocene, e continua ancora oggi. La parola morena riporta alla mente, in maniera quasi inconscia, la geografia delle scuole elementari. E te la rivedi lì, la maestra, mentre spiega che ‘i depositi morenici sono accumuli di frammenti rocciosi, sabbia e argilla trasportati da un ghiacciaio e rimasti lì, a formare colline più o meno alte e estese, dopo il suo scioglimento’. Mai però mi sarei immaginata di scoprire, grazie alla corsa (o meglio, grazie a una gara trail!) che l’anfiteatro morenico più bello e conservato al mondo si trovi in Italia e che sia quello di Ivrea.
La storia ha inizio, per l’appunto, tra un milione e 10.000 anni fa, con il grande Ghiacciaio Balteo che discende dalle Alpi valdostane e dà poi origine nella Pianura Eporediese a questo gigantesco anfiteatro. Con una estensione di oltre 500 chilometri quadrati, esalta i geologi fin dalla metà del 1800, che ne studiano la formazione e il magnifico stato di conservazione.
Ma qual è il collegamento tra questo maxi evento risalente al Quaternario e il Morenic Trail?
Ce lo racconta Stefano Roletti, testa e cuore pulsante di questa gara poco pubblicizzata ma estremamente sentita a livello territoriale. Una gara che nasce dall’innamoramento di un uomo per il territorio, prima ancora che per la corsa. Anche se, diciamocelo, correre è sempre stata una delle sue passioni. La storia di questa gara è piuttosto curiosa, a dircelo è lui stesso. Ama definirsi uomo morenico (e quindi Balteo), orgoglioso delle sue origini. Fisico ambientale, come la compagna Paola, altro tassello fondamentale di questa storia. «Nel 2000 la stragrande maggioranza delle persone del territorio (a parte i geologi e gli appassionati) non aveva la percezione dell’esistenza di questo arco naturale che è l’Anfiteatro Morenico di Ivrea (AMI). Su incarico dell’ATL Canavese e Valli Lanzo ho dato il via a una serie di iniziative finalizzate alla creazione di un’identità territoriale turistica e alla sua promozione, dalle carte territoriali fino alla progettazione e tracciatura permanente di un percorso chiamato Alta Via dell’Anfiteatro Morenico di Ivrea, che percorre tutto l’arco morenico da un estremo all’altro. Nel 2007 l’ATL Canavese e Valli Lanzo viene inglobata dall’ufficio che, per la provincia di Torino, si occupa della accoglienza e promozione turistica e sorge la paura che i 10 anni di lavoro per far nascere l’identità turistica dell’AMI vadano nel dimenticatoio. In dieci anni, tuttavia, gli abitanti avevano già acquisito una consapevolezza territoriale. Essere parte di un territorio unico unisce e rafforza, ed è proprio sulla base di questo sentire comune che nasce, nel 2010, il Morenic Trail. La gara sfrutta i sentieri dell’Alta via e si articola su ben 40 Comuni. Senza istituzioni alle spalle e senza grossi aiuti economici, la gara è cresciuta in questi primi nove anni e continua a funzionare come una splendida orchestra, dove ogni strumento dice la sua e insieme fanno una sinfonia perfetta. Nel 2018 la Regione Piemonte, grazie all’attivo e attento Assessorato allo Sport, diventa partner del Morenic Trail».
Questo clima, di comunanza e appartenenza, è qualcosa che effettivamente traspare. Dai volontari, in primis, davvero entusiasti e sorridenti, capaci di darti la carica a ogni passo. Particolare menzione va fatta per il ristoro di Villate che, tanto per raccontare un aneddoto, ha sfamato un simpatico gruppo di ritirati a suon di hamburger, salamelle, torte dolci e salate, birra e persino vino. Per rendere la delusione di ritiro meno gravosa e perché ‘Così il prossimo anno tornate a trovarci’.
Può una sola persona fare il Morenic Trail? La domanda sorge spontanea…
«Assolutamente no. Il nostro gruppo, Baltea Runner, è un gruppo di appassionati dove ognuno ce la mette tutta per dare il meglio. Io ad esempio mi occupo degli aspetti tecnici del percorso, dei rapporti istituzionali e con la gente, oltre a cercare di inventarmi ogni anno qualcosa capace di rendere la gara sempre nuova e in grado di attirare più persone. C’è chi si occupa della programmazione dei ristori, della tracciatura, chi come ad esempio Andrea, nuovo acquisto, della gestione della assistenza sanitaria degli atleti e così via. In questo lavoro che dura circa un anno siamo affiancati da tutta la gente del territorio (come mi piace dire) da tutta la gente Baltea».
Novità per l’edizione 2019?
«Sì, una cosa che lascerà tutti a bocca aperta. Ma ancora non ve la posso svelare. Posso solo dirvi che sarà una modifica che permetterà di mettersi ancora più in contatto con la natura della orma del ghiacciaio».
E a noi, che guardiamo le foto dei finisher, ritratti come antichi guerrieri con le guance tinte di rosso, non resta che attendere il nuovo anno per scoprire cosa riserverà il 2019.


Dolomite, il 2019 sarà Veloce

Il 2019 di Dolomite, lo storico marchio italiano controllato dal gruppo Scott, sarà particolarmente ricco di novità. Skialper ha avuto la possibilità di vedere la nuova collezione agli Outdoor Experience by Dolomite, l’abituale evento organizzato dall’azienda per presentare i prodotti ai negozianti che quest’anno era in programma ieri nella spettacolare cornice del Monte Bianco. La presentazione è stata organizzata al Pavillon du Mont Fréty (2.200 metri) con escursione fino a Punta Helbronner (3.466 metri), raggiunto con la spettacolare Skyway, la funivia del Monte Bianco. Un’occasione per fare il punto sul processo di rinnovamento del marchio con Eleonora Arrigoni, marketing coordinator di Scott Italia, Aldo Felici (sales manager footwear di Dolomite), Ambrogio Grillo (sales manager apparel di Dolomite), Federico Camangi, Guida alpina e ambassador, Ivano Camozzi, brand manager di Scott Italia e Francesca Cipolla che si occupa della comunicazione del marchio.

VELOCE GTX, MULTIUSO VERA - Il prodotto centrale della nuova collezione, quello attorno al quale ruota la nuova filosofia, è Veloce GTX, una scarpa moderna e leggera, non facilmente catalogabile perché molto versatile: una multifunzione ancora più multifunzione, una calzatura da montagna ideale non solamente per l’amatore ma anche per il professionista, dalla Guida alpina fino al tecnico del soccorso. Prodotto 100% made in Italy, dal peso piuma di 297 grammi, l’azienda la definisce come scarpa per salire in agilità (da qua il nome Veloce) sui terreni tecnici, dal sentiero alla via ferrata, fino ai tratti con neve e ai tracciati di misto. «Non è facile trovare una proposta tanto versatile e trasversale, adatta alle più svariate situazioni - ha detto la Guida alpina Federico Camangi -. Veloce GTX è innanzitutto molto leggera, adatta per gli avvicinamenti su roccia e poi, una volta indossato il rampone, anche su neve ghiacciata. Poco ingombrante da attaccare all’imbrago, è il giusto compromesso tra tecnicità, protezione, precisione e leggerezza. L’alpinismo sta cambiando e, spesso, anche i nostri clienti mirano ad ascese sempre più rapide. Avere una scarpa leggera è certamente un grande aiuto se l’obiettivo è (anche) la velocità». Veloce GTX vanta un sistema costruttivo all’avanguardia, mai utilizzato prima in una calzatura di questa categoria, ed evoluzioni creative di tecniche antiche e tradizionali. Ecco le principali caratteristiche.

Veloce GTX

LEGGEREZZA (solo 297 gr. ½ paio)

Obiettivo raggiunto grazie alla combinazione e applicazione di diverse tecnologie e  soluzioni costruttive:

- Tecnologia Perspair (per la tomaia): garantisce leggerezza e resistenza, grazie all’inserimento (direttamente in telaio) delle superfibre, filati tecnici con specifiche caratteristiche di traspirazione, anti-abrasione, anti-taglio, tutto in un singolo pezzo.
Si ottiene così una tomaia leggerissima, priva di sovrapposizioni di materiali altrimenti necessari alle diverse funzioni.

- Il battistrada Nanga Litebase by Vibram: l’obiettivo di leggerezza si raggiunge attraverso una riduzione estrema degli spessori del fondo gomma. Ne consegue una riduzione del peso della suola del 25-30%.

VERSATILITÀ

Veloce GTX è un prodotto adatto a diverse attività grazie a:

- fodera in Gore-Tex che garantisce l’impermeabilità su erba bagnata o neve.

- sottopiede rigido che permette la progressione su roccia e su tutti i tipi di terreno.

- intersuola Alp HC in PU a doppia densità che massimizza l’assorbimento degli urti

- attacco posteriore per i ramponi semi-automatici che permette l’attraversamento di nevai e zone ghiacciate.

- battistrada Nanga Litebase che combina la resistenza e durabilità della mescola Mont, alla leggerezza della tecnologia Litebase, mantenendo inalterati grip, durata e trazione, che la rendono adatta a tutti i terreni alpinistici.

PRECISIONE

La forma è aderente, ma non troppo, per una calzata precisa ma confortevole, anche in uso intensivo. La calzetta elasticizzata avvolge totalmente il piede evitando la formazione di pieghe dei materiali o la formazione di spazi vuoti. Il taglio basso della tomaia permette la completa mobilità della caviglia, rendendola ancora più agile.

Veloce GTX

LIFESTYLE, DALLA MONTAGNA ALLA CITTÀ - Il concetto chiave rimane sempre lo stesso: partire dalla montagna per arrivare fino alla città e viceversa, con prodotti ricchi di dettagli tecnici ma, allo stesso tempo, adatti alla vita di tutti i giorni. Per il tragitto casa - lavoro, così come per una tranquilla serata tra amici. La scarpa, realizzata con materiali all’avanguardia, idrorepellenti e traspiranti, e suole tecniche, diventa un’icona di stile da sfoggiare anche nella city. E se già l’operazione di re-branding dello scorso anno pareva andare in questa direzione, nel 2019 assisteremo a un approccio che andrà ad accentuare sempre di più la sinergia tra scarpa e abbigliamento. L’obiettivo è quello di un rafforzamento e riposizionamento del marchio, con lo scopo di offrire al consumatore cittadino il total look Dolomite. Ed è così che, ad esempio, l’iconica Cinquantaquattro (nata come modello lifestyle) diventa Cinquantaquattro Hike GTX, con suola in Vibram  e trattamento Gore-Tex, studiata per affrontare i sentieri di montagna. Il tutto viene abbinato alla giacca Cinquantaquattro Smart, altamente tecnica e disponibile in tre diverse versioni, di cui anche una smanicata. Così come la Settantasei Knit e la Settantasei Kint GTX, abbinabili entrambe alla giacca Cinquantaquattro Retrò; o ancora i modelli Cinquantaquattro Duffle e Move, che vengono proposti in abbinamento con le giacche Sessanta Fusion oppure con Unico Jacket. Tutta una serie di proposte intercambiabili e trasversali, che vanno dalla tinta unita ai temi foliage, senza mai dimenticare i dettagli tecnici che contraddistinguono il brand.


VUT, Format vincente non si cambia

A un mese esatto dal via (che sarà il fine settimana del 20 e 21 luglio) gli iscritti sono già a quota 270, con 50 staffette da tre elementi e 120 atleti sulla prova più lunga e impegnativa. A dichiararlo sono stati gli organizzatori della Valmalenco Ultradistance Trail, durante la conferenza stampa che si è svolta oggi, 20 giugno 2018, presso il rifugio Motta in Alta Valmalenco. Una cornice d’eccezione quella di questo inusuale appuntamento in quota, con vista sul lago Palù da una parte e sulla bassa valle dall’altra. Per raccontare qualcosa di più su questa bella kermesse podistica, nata lo scorso anno con l’intento di valorizzare il territorio e le svariate realtà ad esso collegate. Doveva essere a cadenza biennale, così almeno era stato detto, ma il successo riscosso ha spinto l’organizzazione a cambiare idea. E così eccoci quasi al via, anche quest’anno, con la seconda edizione di questa competizione, che nulla sembra avere da invidiare alle colleghe più blasonate. Il format rimane lo stesso (prova individuale oppure staffetta da tre elementi), così come il tracciato di gara. Formula vincente non si cambia, verrebbe da dire. Perché la VUT, con i suoi 90 km di sviluppo e i suoi 6.000 metri di dislivello positivo piace così: dura e impegnativa, adatta ad un bacino di runner che in montagna ci sanno stare. Abituati ai terreni tecnici e alla quota. Abituati alla fatica. Già, perché il punteggio che l’ITRA ha assegnato a questa competizione è abbastanza per togliere ogni dubbio: 5 punti, che per una gara di questa distanza sono decisamente tanti. Una splendida cavalcata a fil di cielo che valorizza i sentieri dell’Alta Via andando a toccare ben 15 rifugi, con 4 scollinamenti oltre quota 2.600 metri. Nella formula a staffetta a 3 elementi, dedicata a chi magari non se la sente di mettersi alla prova sull’intero tracciato, le frazioni sono da 33, 39 e 18 chilometri.

Franco Collè, vincitore nel 2017 ©ufficio stampa VUT

A fare gli onori di casa ci ha pensato il presidente del comitato organizzatore e vera anima della VUT Fabio Cometti, che ha salutato le autorità intervenute. I dettagli circa il tracciato sono stati invece esposti dal responsabile del percorso Paolo Moriondo: «Forti dell’esperienza fatta lo scorso anno, abbiamo pensato alcune migliorie che ci permetteranno di proporre una VUT ancora più bella. I feedback dei concorrenti e degli addetti ai lavori ci hanno convinto ad anticipare data e orario di partenza al fine di guadagnare due ore di luce e fare evitare al maggior numero di concorrenti possibile una seconda notte di gara. La data da segnarsi in agenda è quella di venerdì 20 luglio: mentre lo start sarà dato alle 23 nella centralissima piazza di Chiesa in Valmalenco per la prova principe, in concomitanza da località Pradasc di Lanzada partiranno i primi frazionisti della gara a staffetta. In un’ottica di massima sicurezza, ogni concorrente sarà monitorato lungo tutto il percorso grazie a un sistema gps».

Fabio Cometti del comitato organizzatore durante la conferenza stampa ©ufficio stampa VUT

Ma l’anima pulsante, il cuore della VUT, sono i volontari che si adoperano per rendere unico e indimenticabile l’evento. «Senza i volontari, oltre 100 - ha raccontato Cometti - tutto questo non sarebbe possibile. Volontari e sponsor che ci sostengono anche materialmente. Tiziano Della Cagnoletta, ad esempio, ci ha donato un bivacco mobile che porteremo nella Valle dello Scerscen, in uno dei punti più selvaggi e alpinistici del percorso. Un baluardo importante per atleti e per uomini del soccorso».

Il nuovo bivacco ©ufficio stampa VUT

Attualmente sul percorso, in quota, c’è ancora neve. In merito il comitato ha garantito che terrà monitorato il tracciato nell’arco del mese che ci separa dalla gara. In caso di maltempo è già stato predisposto un percorso alternativo per bypassare i punti più pericolosi. Rispetto allo scorso anno è stato anche aumentato il numero del personale dedicato al primo soccorso ed è stato garantito, a passo Ventina, un presidio fisso del Soccorso Alpino.

www.ultravalmalenco.com/it


Nico Valsesia, from zero to...

From zero to. Nico Valsesia ha chiuso un’altra delle sue traversate dal mare alle nevi eterne, da Genova fino alla Capanna Margherita, sul Monte Rosa, tutto d’un fiato, utilizzando come unici mezzi una bici da strada e gli sci per quanto riguarda la parte su neve. Partito lo scorso 7 aprile dalla città ligure, è arrivato a lambire i 4.554 metri della Capanna dopo 14 ore e 31 minuti. Duecentoquaranta chilometri sulle due ruote e 20 sugli sci, 4.554 metri di dislivello totale, di cui 3.169 con le pelli e dopo aver già percorso tutta la prima parte, con la bici, che lo ha portato fino a Gressoney-La-Trinité. Valsesia non è nuovo a questo tipo di imprese: da oltre 20 anni colleziona record mondiali di ascesa no-stop che lo porteranno - spera già il prossimo anno - a coronare il sogno From zero to Everest. Per ora nel suo carnet figurano le vette dell’Elbrus, dell’Aconcagua e del Kilimangiaro, oltre al test del Monte Bianco.

©Morgan Bertacca
©Morgan Bertacca

Ho conosciuto Nico un paio di mesi fa in occasione di una conferenza stampa: Valsesia infatti è diventato ambassador di Scott e le biciclette della casa svizzera lo accompagneranno durante i suoi viaggi per tutto il 2018. Pieno di entusiasmo e con la parlantina facile, non è stato difficile iniziare una conversazione. Papà tre volte, si divide tra i viaggi e il negozio di bike che gestisce da una ventina d’anni, insieme al fratello, a Borgomanero. Basta parlarci cinque minuti per capire che, in realtà, i record sono solo espedienti. In altre parole la scusa per viaggiare, vedere, conoscere, sperimentare, imparare. Non è un caso che i video realizzati al termine di ogni ascesa siano per la maggior parte focalizzati sul territorio, la cultura e le persone incontrate. Poco spazio viene, volutamente, concesso alla prestazione sportiva. «Non sono un atleta - ci tiene a sottolineare - . Forse lo ero quando facevo gare di sci e quando nutrivo il sogno di diventare un campione dello sport bianco. Alla fine sono diventato maestro di sci e anni addietro per qualche tempo ho anche insegnato un po’, ma non era la mia vita e neppure la mia vocazione».

©Luca Fontana

E poi? E poi sono venuti i viaggi, le avventure, che gradualmente si sono trasformati anche in un lavoro. «Dopo diversi anni di esperienza, soprattutto in Sud America, ho iniziato a organizzare viaggi-avventura ai quali partecipavano gruppi di persone. Era un po’ come dare agli altri la possibilità di vivere, con un discreto margine di sicurezza e in maniera organizzata, quanto io avevo già sperimentato». Mezzo principe per gli spostamenti, inizialmente, era la bicicletta. «Ho sempre amato le due ruote e ho fatto anche diverse gare, per divertirmi e senza obiettivi di classifica. Nonostante ciò ho collezionato anche diversi buoni piazzamenti. La corsa è venuta quasi per caso circa una decina di anni fa. Ero infortunato a una spalla e, non potendo distendere il braccio e tenere ben saldo il manubrio della bici, ho pensato di provare a correre. Partendo già da una buona base, dopo un mese di allenamento ho partecipato alle Porte di Pietra sulla distanza di 70 chilometri qualificandomi, con grande sorpresa di tutti e anche mia, quinto assoluto».

©Luca Fontana
©Luca Fontana

A questo punto mettere insieme bici, corsa e sci è venuto quasi naturale. E le imprese endurance From zero to sono proprio questo. Semplicemente e meravigliosamente l’unione di tre passioni (o due, dove non si possono indossare gli sci), un modo diverso per vivere un ambiente. Il curriculum sportivo di Nico è davvero impressionante e viene quasi spontaneo chiedersi se i figli siano propensi a seguire le orme del papà. «I due maschi, 16 e 14 anni, sono fisicamente molto prestanti, anche se praticano altri sport. Questa estate, terminata la scuola, andranno in Marocco, ospiti da un caro amico, e faranno gli sherpa. Come padre voglio lanciare questo messaggio: vivete esperienze diverse e poi, un giorno, starà a voi scegliere che direzione dare alla vostra vita». Direzione, appunto, e quella verso l’Everest? Il progetto, molto ambizioso, dovrebbe realizzarsi ad aprile-maggio del 2019. Nico partirà da Calcutta per raggiungere in bici Rongbuk (1.500 km fino a quota 5.300 metri), da qua inizierà la parte davvero faticosa: l’ascesa dalla parete nord, accompagnato da uno sherpa. From zero to…

©Luca Fontana