Kaci Lickteig, il nome nuovo del running statunitense
Vincitrice alla Western States, non ha neppure il passaporto
In attesa della Hardrock 100, al via venerdì, ritorniamo sull’altra grande gara degli States, la Western States 100 Endurance Mile, andata in scena a fine giugno. Il clamore della vittoria di un ventenne come Andrew Miller ha oscurato un po’ il successo al femmine della piccola ma tenace Kaci Lickteig (Pixie Ninja) che ha vinto con distacco (quasi un’ora), realizzando la quarta miglior prestazione di sempre al femminile con 17h57', dominando la gara dalla ventitreesima miglia e superando una crisi gastrointestinale che l’aveva rallentata verso Forest Hill. è una gara mitica, la più vecchia delle gare di trail negli Stati Uniti (prima edizione nel 1974). Partecipare è già un grande successo, finirla un buon successo, vincere una consacrazione.
CORREVA CON LA MAMMA - Niente male per una ragazzina che ha iniziato a correre per stare vicino alla mamma che, avendo smesso di fumare, cercava di mantenersi in forma. Ha poi proseguito la sua carriera di runner tra campestri e strada con un pizzico di pista. Da qualche anno (2012) si è dedicata all’ultra trail con ottimi risultati: sesta donna nel 2014, seconda nel 2015 alla WS, vincitrice di gare dai 21 km come la mezza maratona Feast and Fathers di Omaha, nel Nebraska, vicino a casa alle 50 miglia, come la Bear Chase del 2014. Deve molto (dal soprannome al supporto durante la crisi all’ultima gara) al suo pacer Miguel Ordorica. Questa fisioterapista crede che il suo successo stia nel pesnare sempre positivo, anche quando ci sono i momenti no. Ha grande rispetto per gli altri, oltre che per se stessa.
PENSARE POSITIVO - Partita ‘piano’. la Lichteig ha fatto un po' di strada con Andy Reed, un forte atleta che potrebbe essere suo padre, che stava vivendo intensamente la gara dopo aver aspettato sei anni per poter partecipare ed è stata toccata nell’anima dalla sua gioia, più che dal fatto di essere prima davanti alla favorita Magdalena Boulet. Ha poi perseguito per alcune miglia chiacchierando tranquillamente con una concorrente, Devon Yanko, che terminerà terza. A Foresthill, dopo aver superato indenne i terribili canyon che l’avevano distrutta l’anno precedente, ha avuto il tempo di chiedere al suo allenatore come stesse andando sua madre che stava facendo una gara di 50 km. Però subito dopo è arrivata la crisi di nausea, superata bene con l’aiuto del suo fidato pacer. Alla novantasettesima miglia, dopo aver temuto di aver sbagliato percorso a una svolta, ha capito che stava andando a vincere e che il sogno di una vita stava diventando vero e si è messa a piangere. Capito che poteva andare sotto le 18 ore, si è avventa con tanta energia verso il traguardo da lasciare indietro il suo pacer. Due diciasettenni sconosciute l’ahanno accompagnata fino all’ingresso della pista di atletica di Auburn, dove ha dato un cinque a Craig Thornley, il direttore di gara.
INFERMIERA SENZA PASSAPORTO - Ora che ha vinto la Western States Kaci, trentenne, non potrà più nascondersi e magari verrà a correre anche qualche gara in Europa. Alta 160 cm x una quarantina di chili, lavora in un ospedale del Nebraska e… non ha ancora fatto il passaporto. Però ha il suo blog: www.pixieninjarunning.blogspot.com
Virginia Oliveri: 'Che emozione vincere la 100 Porte'
Tra gli obiettivi stagionali anche la CCC
Virginia Oliveri, protagonista nello scorso fine settimana con la vittoria alla 100 km della Porte di Pietra.
Raccontaci la tua gara.
«Avendo fatto tutte le distanze della manifestazione, volevo provare la 100 Porte. Alla partenza per me era una incognita perché non ero sicura di avere la distanza e il dislivello, ma mi sentivo bene e volevo provarci. Sono partita con un buon ritmo e le gambe rispondevano bene: ero molto sorpresa quando sono arrivata al primo ristoro in prima posizione, anche della gara più corta. Davide Ansaldo che mi faceva assistenza mi ha detto di rallentare un po’. Così mi sono risparmiata a metà gara perché conoscevo la difficoltà del finale. Non ho mai corso tranquilla perché dietro c'era la Zimmerman. L'arrivo è stato veramente emozionante perché questa gara rappresenta tanto. Sono veramente felice della mia prestazione, perché è stata condivisa con tanti amici».
Presentati, per chi non ti conoscesse.
«Ho provato il trail per caso nel 2003 e poi è diventata una passione, non mi considero una montanara, sono una persona che corre gare di ultramaratona che si è innamorata della montagna».
Sull’Appennino tu vinci spesso a prescindere dalla distanza: dal Gorrei alla 100 delle Porte di Pietra. C’è qualche motivo?
«Le mie prime gare sono state proprio nell’Appennino, mi trovo molto bene perché non si va mai in quota, io di solito ho problemi quando vado oltre i 2000 metri. Poi il terreno e molto simile a quello di casa».
Alle Porte avevi una avversaria di livello come la Zimmerman a cui hai rifilato 45 minuti. All’UTMB 2015 ti aveva dato ore...
«Denise Zimmerman è un mito, anche lei fa le 24 ore su strada, penso che in questa occasione io stavo molto bene ed ero molto motivata, mentre lei probabilmente era un po’ stanca perché fa tante gare: il distacco di 45 minuti non me lo aspettavo, ma dipende spesso e volentieri della giornata. La ruota gira, all’UTMB io non riesco a esprimermi e sicuramente lei va molto, ma molto meglio di me, ed è per questo che quest'anno provo a fare la CCC».
Lavori, sei una mamma, come concili tutto con una preparazione di livello?
«Lavoro in un albergo come receptionist: un lavoro duro mentalmente. Abitando a 8 km (di sentieri) dal lavoro, vado e torno molto spesso di corsa e mi alleno anche sulla sabbia dopo il lavoro, poi faccio tante gare e anche questo, nella giusta misura, aiuta a rimanere in forma».
Mi sembra che sei vegetariana. Quanto conta l’alimentazione?
«Per me è tutto, è come la benzina che metti alla macchina: io mangio vegetariano, senza latticini e senza uova, e seguo uno stile di vita molto ordinato che per me è importante come l'allenamento».
Tu passi una parte dell'anno in Argentina: com’è il trail lì?
«Da qualche anno il trail è cresciuto tantissimo anche in Argentina, ma noi abitando sul mare in un posto senza dislivello prendiamo quel periodo per staccare dalle gare e fare un po’ di lavori di velocità».
Fare ultra su pista e strada è un vantaggio oppure è un handicap per il trail?
«Non è facile coniugare queste discipline ad alto livello, ogni anno diventa più difficile: siamo nati sulle ultra su strada e siamo capaci di passare ai sentieri tecnici, non è facile fisicamente, ma per la testa a volte fa bene cambiare un po’».
Che consigli puoi dare alle giovani che iniziano con il trail?
«Di divertirsi e fare tutto con passione, se deve succedere succederà. Facendo yoga ho imparato che bisogna avere pazienza, lavorare tanto, ma non fare mai il passo più lungo della gamba».
Prossimi obiettivi?
«Come ‘lunghi’ Cromagnon, Orobie, CCC e la Spartathlon, poi sicuramente tante altre gare più corte».
Ruzza: ‘bisogna ricaricare fisico e testa’
A tu per tu con il vincitore delle Porte di Pietra
Con la vittoria dello scorso fine settimana, è tornato al successo in gare di livello in una stagione che lo ha visto già secondo al Trail del Bric dei Gorrei e quarto alla Maremontana. Stefano Ruzza, uno dei più promettenti ultra-trailer italiani, settimo alla Diagonale des Fous 2014, nella scorsa stagione aveva attraversato un momento agonistico sotto le aspettative. Ora eccolo di nuovo al top.
Stefano, presentati come persona e come atleta «Compio 34 anni il 20 maggio, vivo a Busto Arsizio, lavoro come soccorritore in Croce Rossa da oltre 10 anni. Da sempre appassionato di sport, ho iniziato a correre quasi per scherzo nel 2004, e da allora continuato, fino a quando nel 2010 ho scoperto il trail. Inoltre sono appassionato di musica e letteratura».
Tu curi un blog su psiche e sport: nelle gare quanto conta la testa e quanto le gambe ? C'è differenza tra queste componenti in funzione delle distanze? «Quello che si nota nei dialoghi del mio ‘socio’ Cesare Picco (psicologo e psicoterapeuta) con i campioni di vari sport, è che per tutti testa e fisico vanno di pari passo. E lo penso anch'io. Anche senza indicare percentuali, credo che quando manca qualcosa, che sia nella testa o nelle gambe, ne risente anche l'altra parte. Di certo all'aumentare della distanza, la testa diventa essenziale per reggere alle difficoltà fisiche che diventano quasi inevitabili».
Raccontaci la tua gara alle Porte di Pietra. «All'inizio volevo cercare di rimanere con il gruppetto di testa, che comprendeva anche forti atleti della 100 km, con Ornati, Rabensteiner e Ludovisi, oltre a Pellegrini, che non conoscevo ancora di persona ma sapevo essere insidioso per la mia gara. Presto però li ho lasciati andare e ho preso il mio passo. Sapevo che davanti avevano due o tre minuti e, quando ho iniziato a vederli sulle creste intorno al km 45, ho continuato aspettando di accelerare negli ultimi 15 chilometri, dove ho fatto la differenza».
Hai vinto con un buon tempo non troppo lontano dal record del 2011... «Mi ero studiato i tempi degli anni scorsi e speravo in un tempo intorno a 7h45'. Fino al ristoro di Cap. di Cosola del km 49 ero spaccato al minuto con le mie previsioni, ma nel finale mi sono sorpreso io stesso di quante energie avessi ancora, guadagnando molto sulla mia tabella di marcia. A parte quel tempo di Fedel irraggiungibile, ho fatto un crono simile agli altri vincitori, tutta gente molto forte che mi ha quasi sempre battuto. Spero di non essere stato avvantaggiato troppo dal meteo…»
Sei in un buon periodo di forma: dopo la bella gara di La Reunion del 2014, hai avuto una pausa... «L’anno scorso avevo puntato sul circuito Ultra Trail World Tour e sul Mondiale IAU di Annecy, ma purtroppo sono andate tutte male. In inverno di solito faccio sempre un po' di pausa, quest'anno inoltre dovevo curare anche la fascite plantare e altre ferite interne. Credo di esserci riuscito».
Hai cambiato modo di allenarti? «In parte sì, ma senza rivoluzioni. Diciamo che sono tornato a fare un po' meno dislivello e ore per sentieri, cerco di variare sempre molto, facendo molta più bicicletta e tenendo brillantezza anche sulla corsa in pianura. Mi viene anche più comodo, visto che per fare salite lunghe devo sempre spostarmi per 30'-40' in auto almeno fino a Varese. Di sicuro ho cambiato l'approccio mentale e l'alimentazione in gara, diminuendo gli zuccheri semplici».
Quali sono le emozioni più forti che hai provato come trailer (e se vuoi come uomo)? «Ne ho provate tantissime. Penso che La Diagonale des Fous del 2014 sia stata qualcosa di unico. Ma anche l'arrivo alla Trans d'Havet dell'Europeo 2013 è stato qualcosa di davvero emozionante. E poi, sembrerà scontato, ma sentire tutto l'affetto e la stima nei miei confronti dopo la vittoria delle Porte di Pietra è stato veramente incredibile. Queste non sono solo emozioni sportive, ma anche umane».
Corri nel team Vibram: raccontaci qualcosa di questa organizzazione. «È una famiglia che ogni anno si amplia e cresce. Nel 2011 era un piccolo team che puntava soltanto a finire l'UTMB, nel 2013, quando sono entrato nel gruppo, gli obiettivi erano un po' più alti, ora è definitivamente tra i team di trail running più importanti al mondo».
Il marchio Vibram punta molto sull'Asia. Tu hai fatto prevalentemente gare in Italia, mentre i tuoi compagni di team vanno molto all'estero sia a livello maschile (Grinius) che femminile (Uxue Fraile). «Dopo la mia Diagonale de Fous del 2014 l'anno scorso ho provato anch'io a buttarmi nella mischia del circuito, ma in effetti potrei solo accontentarmi di discreti piazzamenti. Quest'anno farò sì tre gare del circuito UTWT, ma è normale che atleti come Grinius, Dominguez, Fraile vadano a confrontarsi più spesso di me con i più forti al mondo, perché hanno le carte in regola per giocarsi podi e vittorie».
Quali sono le gare più adatte alle tue caratteristiche? «A livello generale mi trovo meglio con i percorsi molto vari. Non eccello in niente di specifico, ma mi difendo un po' ovunque, sul corribile o in salita ripida o sul tecnico. Come distanza è un po' più difficile capirlo: mi sono sempre sentito uno da 100 miglia, eppure ne ho finita solo una, benché durissima. Di solito mi trovo molto bene su percorsi intorno ai 70-80 km, diciamo tra le 8-10 ore di gara, ma per come arrivo bene nei finali di queste gare, penso che su distanze più lunghe potrei andare meglio».
Prossimi obiettivi? «Ora due gare agli antipodi, la Esino Skyrace e l'Ultratrail dell'Asinara, che sarà però una specie di vacanza. Da lì la seconda parte di stagione sarà quasi esclusivamente per le gare internazionali, LUT, UTMB, Diagonale de Fous».
Dai tre consigli al giovane emergente. «Mettersi in gioco contro gente affermata, anche in gare internazionali. Rubare i piccoli aneddoti e consigli dei più esperti, ma senza imitarli, sperimentando e sbagliando. Non dimenticarsi mai di divertirsi, pur cercando di essere professionali se si vuole crescere atleticamente».
Come sta il trail in Italia?
Ne parliamo con Fulvio Massa, organizzatore de Le Porte di Pietra
Venerdì 13 maggio è tempo de Le Porte di Pietra: la prova di Cantalupo Ligure (AL) è all’undicesima edizione. Tante distanze: la 100 porte di 102 km e 5.500 metri di dislivello, Le Porte di 71 km, la Val Borbera Marathon di 42, i Castello di 17 e la Diagonale di 6. Ad organizzare l’ASD Gli Orsi, che ha come presidente Fulvio Massa, trail runner, fisioterapista, allenatore, autore di manuali sul trail running, la persona ideale per fare un bilancio dell’evoluzione di questo sport.
«Mi occupo di trail running dal 2001 e devo ammettere di aver visto in questo arco di tempo un grande sviluppo di questo sport avendo avuto la fortuna di viverlo sotto i profili di libero professionista, giornalista, organizzatore e, soprattutto, di atleta».
Trail running, da sport autoregolamentato (tu sei uno dei promotori del codice di comportamento degli organizzatori) a sport olimpico e quindi regolamentato dalle federazioni. Ci sono state prese di posizioni anche forti sull’argomento. Che cosa ne pensi nei tuoi diversi ruoli?
«Il trail è nato come disciplina outdoor e non è mai stato incluso in nessuna federazione ufficiale e questa situazione da un lato lo ha reso libero e privo di ingabbiamenti, dall'altro lo rende poco tutelato, soprattutto dal punto di vista organizzativo. Ricordo ancora la prima riunione nazionale degli organizzatori italiani tenutasi a Molfasso nel 2008 e voluta proprio dalla ricerca da parte nostra di una identificazione sportiva e giuridica. Con tutti i suoi pregi e difetti il trail italiano è cresciuto e ha avuto una enorme espansione, soprattutto nell'ultimo decennio e di conseguenza non passa più inosservato agli occhi degli enti preposti a dirigere e coordinare le discipline sportive. Naturalmente ogni volta che si cambiano gli equilibri, si modificano status e di conseguenza ci saranno sempre gli insoddisfatti. Ho seguito in modo approfondito la sequela delle discussioni degli ultimi mesi e non mi riferisco alle chiacchiere da ‘Bar dello Sport’. Specialmente in Francia si sono tenuti veri e propri dibattiti aventi come protagonisti atleti di fama mondiale, giornalisti, organizzatori di eventi mondiali, leader di aziende famose, e in riferimento a quanto si sta verificando ti posso dare un giudizio che credo di poter definire oggettivo e imparziale. In un primo un lato abbiamo il trail attuale che a livello di potere decisionale è sorretto dalle ideologie di alcune aziende leader mondiali e da una ristrettissima cerchia di organizzatori di manifestazioni, che probabilmente teme i cambiamenti.
In un secondo lato abbiamo la new entry ovvero il CIO con tutto il suo carrozzone di dotti medici e sapienti che, probabilmente, si presenterà con idee, innovazioni e modifiche agli standard attuali.
In un terzo lato troviamo l'esercito dei trailer e dei piccoli organizzatori di gare. In realtà sono proprio loro, anzi noi perché in questo gruppo mi ci metto anch'io, a creare le masse che partecipano alle competizioni, pagano le quote di iscrizione e comprano i prodotti, insomma, muovono il mercato. Come ogni esercito che si rispetti ha una grande forza di impatto e ha il dovere di commentare e criticare quello che viene deciso dai capi, anche se non sempre possiede gli elementi oggettivi su cui basare il proprio giudizio».
Cosa ti aspetti dalla federazione?
«Che mantenga inalterati i valori etici e sportivi della disciplina: è auspicabile che porti una regolamentazione riconosciuta e condivisa a livello mondiale sia in merito agli standard organizzativi che in relazione ai parametri sportivi. Mi spiego meglio, il trail è una disciplina che ha come fondamento valori etici che sono universalmente riconosciuti, forse più ancora rispetto ad altri sport più blasonati e di questo aspetto il CIO deve prenderne atto. Altro elemento, ancora più interessante è l'aspetto mediatico nei confronti della strutturazione delle gare. Il tracciato di una gara di trail spesso è talmente outdoor e selvaggio da impedire al pubblico di assistere allo svolgimento della gara, ma questo aspetto non è modificabile, il trail non è addomesticabile perché proprio le difficoltà legate all'ambiente naturale sono imprescindibili. Se dovessi assistere ad una gara di trail alle olimpiadi ne sarei felice ma mi auguro di cuore che non si tratti del solito ‘giro del criceto’, tipo l'anello di 2km con ostacoli artificiali da ripetere per 30 volte sotto gli occhi delle telecamere, perché questo non sarebbe più trail. Se si creasse questa situazione, l'organizzazione olimpica deve riuscire a prevedere un vero percorso trail con le difficoltà che la disciplina comporta, la parte mediatica è risolvibile attraverso telecamere dislocate sul percorso o montate su droni; capisco che non si possa riprodurre una Diagonale de Fous ma capisco anche che se per una volta ogni 4 anni venisse disputata la ‘versione olimpica’ del trail, la popolarità dell'evento creerebbe una gratificazione assoluta per gli atleti e un esponenziale interessamento da parte delle aziende nei confronti del mercato. Personalmente non ho nulla contro l'inserimento del trail nelle federazioni legate al CONI e al CIO, a patto che non perdano di vista i principi etici e sportivi. Poi è chiaro che qualcosa cambierà, ma il mondo cambia di continuo, non c'è da stupirsi. Per fare le cose in modo corretto, la nuova classe dirigente dovrebbe confrontarsi con le realtà esistenti e da li partire per una regolamentazione adeguata…non sarà facile!».
Ha fatto molto rumore la partenza differenziata tra gli amatori e i partecipanti al mondiale ad Annecy. Cosa ne pensi?
«Ero presente ad Annecy e ho assistito a tutto lo svolgimento della manifestazione, a partire dalla cerimonia di presentazione delle squadre nazionali fino alla premiazione e posso dire che l'organizzazione e la strutturazione dei regolamenti di gara sono state all'altezza della situazione. La partenza separata è una cosa tanto ovvia da non dover neppure essere oggetto di discussione. I campionati del Mondo di Trail Running sono gestiti dalla IAU (International Association of Ultrarunners) sotto l'egida della IAAF (International Association of Athletics Federations) e fanno capo alla IAU, 78 federazioni di altrettante nazioni.
Stiamo parlando dello svolgimento della prova unica del campionato del mondo è ovvio che al nastro di partenza ci siano solo gli atleti selezionati dalle singole federazioni nazionali. Probabilmente il mondo del trail deve cominciare a guardare oltre, per poter vedere nuove realtà. Possiamo parlare di realtà consolidate da decenni di esperienza federale, esistono i mondiali a cui partecipano i giocatori selezionati dalla Federazione e stop. Quella è la selezione che si confronterà con altre selezioni di altre nazioni. Attenzione, non è detto che la Nazionale di Spagna sia più forte del Barcellona, così come non è detto che nella Nazionale Italiana di trail ci fossero tutti i più forti atleti italiani. Non ho vissuto dall'interno l'operato e non sono in grado di giudicare le scelte effettuate ma vi garantisco che è molto difficile da fuori giudicare l'operato dei selezionatori, anche perché a volte si creano dei retroscena che condizionano pesantemente le scelte finali. Resta il fatto che quella gara fosse dedicata agli atleti delle nazionali. Ritengo che se anche dovesse disputarsi nel mondo una gara all'anno non open, il mondo del trail non dovrebbe scandalizzarsi».
Come vedi il trail italiano rispetto a quello di altre nazioni? Io ho una visione un po pessimistica, magari mi sbaglio, ma ti evidenzio alcuni fatti. Alla CCC nei primi 50 ci sono due soli italiani (Giuliano Cavallo 7, Luca Thomain 49) e 4 donne (la migliore Sonia Glarey 8), UTMB solo Virginia Oliveri (31 in oltre 37 ore) nelle prime 50 e 5 uomini nei primi 50 (il migliore Andrea Macchi 23 in quasi 26 ore), alla TDS ci siamo difesi in campo femminile (Marina Plavan 7 e Francesca Costa 18): il confronto con altre nazioni è impietoso: Francia 4 uomini nei primi 10 (Thevenard vincitore in 21 ore) e 4 donne nelle prime cinquanta (Mauclair 1 e Rousset 9): quali potrebbero essere le ragioni?
«I numeri che hai elencato sono impietosi, ma sono numeri e quindi indiscutibili, è giusto invece ragionare sui motivi che possono essere diversi. Il primo è l'approccio dell'italiano medio nei confronti degli sport di fatica dell'atletica in generale. Se guardiamo i risultati della maratona ad esempio, non possiamo certo rallegrarci. Anche l'aspetto culturale dello sportivo generalmente tende a chiudersi su sport abituali e scontati, forse succube di una manipolazione mediatica che tende a spingere determinate discipline sportive piuttosto che altre, probabilmente ci sono altre nazioni che sono meno vincolate mentalmente e quindi più libere di fare delle scelte. Un altro aspetto secondo me da considerare è la mancanza di un approccio professionale alla disciplina del trail. Prendiamo ad esempio la Spagna e la Francia, non a caso sono due nazioni che hanno investito molto nel campo degli istituti universitari dedicati alle Scienze Motorie e non a caso nell'ultimo decennio stanno raccogliendo molto in tante discipline sportive. Parliamoci chiaro, la procreazione in Italia mette al mondo bambini dotati di enormi potenziali, spetta poi agli adulti tirarne fuori qualcosa di buono, intendo dire che non manca la materia prima ma manca la lavorazione del prodotto per riuscire a portarlo al risultato che merita. Vivo da molti anni la realtà francese, mi sono laureato in Francia e possiedo decine di pubblicazioni tecnico scientifiche che sono state scritte da firme autorevoli ed è facilmente percepibile il livello medio di maturità tecnica che ha raggiunto il trail. La realtà italiana sembra più improvvisata, conosco tanti atleti, di tutti i livelli e mi rendo conto di come la maggioranza di essi si alleni senza un programma definito, correndo a istinto sulla base di intuizioni e di improvvisazioni, magari affidandosi ad abili tecnici di corsa su strada che hanno ben poco a che fare col trail...a volte va bene…».
Perché molti atleti italiani hanno infortuni più gravi dei colleghi di altre nazioni e comunque risultati non costanti?
«Alcuni motivi sono esposti nella risposta precedente. Non sono al corrente della frequenza di infortuni dei nostri atleti ma posso assicurarti che il primo obiettivo di un allenatore è quello di far sì che il proprio atleta salvaguardi la propria salute. Un atleta sano si allena, un atleta infortunato si cura! Ti faccio un esempio. Mi capita spesso di guardare l'elenco partenti delle gare, naturalmente in riferimento agli atleti di punta perché purtroppo non conosco tutti i nomi dei trailer. Capita di vedere atleti che gareggiano su ultramaratone in continuazione, esprimendo chilometraggi che non possono essere sorretti neppure da un camion. I maratoneti d'elite hanno 3 appuntamenti obiettivo all'anno, siamo sicuri che pestare miliardi di passi sui sassi faccia così bene al nostro corpo? O che faccia andare più veloci?».
Perché l’Italia non ha brillato ai mondiali di Annecy?
«In parte mi ricollego alle due risposte precedenti, faccio però una premessa con una osservazione squisitamente tecnica. Nel nostro immaginario tendiamo ad identificare le gare di trail con i tracciati alpini, teatro di gare emblematiche, ma in realtà abbiamo trail con molto dislivello, trail con fondo tecnico, trail di tipo collinare molto veloci, trail lunghi e brevi. A volte mi si rivolge la fatidica domanda “chi è l'atleta di trail più forte?”. A questa domanda posta male non c'è risposta perché sono pochissimi gli atleti universali, spesso il trailer è predisposto nei confronti di certi tipi di gara. Riallacciandoci ai mondiali la prima cosa da fare è scegliere i cavalli da far correre e la scelta, essendo molto complessa, deve essere più oggettiva possibile e libera da interessi e simpatie e l'unico modo serio per farlo è stabilire dei criteri di selezione. Nel gennaio 2014 la IAU ha ufficializzato la sede dei mondiali 2015 eleggendo la sede di Annecy. A quel punto devo selezionare degli atleti che possano essere performanti per le caratteristiche di gara in termini di distanza, dislivello e tecnicità e l'unico modo che ho di farlo è nominare tre gare italiane di qualificazione ‘open’ in circa 15 mesi di tempo, con caratteristiche simili a quelle del mondiale e valutare le prestazioni degli atleti in funzione dei risultati raggiunti. E' chiaro che ci sono delle variabili soprattutto legate allo stato di forma dell'atleta e agli infortuni che potrebbero subentrare, ma ci sono tante soluzioni e tanti provvedimenti da prendere e non credo sia questa la sede adatta per parlarne. Dopo questa lunga premessa sintetizzo la risposta. Ogni federazione o associazione deve fare il possibile per portare gli atleti che in quel momento esprimono le migliori prestazioni in funzione di quella gara e supportarli tecnicamente nel modo migliore, dopo di che quello che si potranno commentare i risultati con la massima oggettività».
I runner statunitensi, in buona parte provenienti dalle maratone e dalle ultra su strada stanno venendo a vincere in importanti gare europee: perché?
«Le gare USA in genere sono su tracciati poco tecnici con fondo corribile quindi generalmente i forti atleti statunitensi sono veloci, sia sulle lunghe distanze che sulle ultra. Per questo motivo molte volte, venendo a gareggiare dalle nostre parti hanno dovuto fare i conti con una tecnicità del tracciato a loro non congeniale, con risultati che conosciamo. E' chiaro però che quando un atleta ha un motore di quella potenza, se si allena in funzione di un certo tipo di percorso, può ottenere risultati importanti».
Quali sono i fattori di crescita del trail in Italia? E all’estero?
Quale ruolo giocano e potrebbero giocare i grandi team? E le società significative ma locali?
«E’ noto a tutti l'enorme aumento del numero di gare sul territorio nazionale, forse in questo periodo ci sono più gare che concorrenti. Da un lato questo mi fa piacere perché se penso che nel 2005, quando io ed alcuni amici de Gli Orsi, abbiamo pensato di organizzare un trail da 70 km sembrava una follia. La nascita di tante gare permette a chi corre di provare percorsi nuovi scoprendo tratti di una Italia che offre angoli naturali bellissimi, nello stesso tempo crea una dispersione delle iscrizioni alle gare. Ultimamente si corrono trail con 100 iscritti e anche manifestazioni che hanno sempre fatto la parte da protagonista faticano a reggere. Probabilmente si andrà a delineare una distinzione in tre categorie di gare. In prima fascia inserisco le assolute, cioè quelle che per capacità, scenografia ambientale, supporto del territorio, presenza di sponsor importanti, riescono a reggere un confronto internazionale. In seconda fascia ci sono quelle gare consolidate, che non offrono Il Monte Bianco o l'ospitalità di una sede turistica prestigiosa, che non hanno a disposizione denaro proveniente da sponsor o enti regionali, ma che sono forti della loro esperienza della loro capacità organizzativa e che in qualche modo conservano inalterato il loro spirito trail. In terza fascia ci sono i piccoli trail che si sono inseriti nel calendario nazionale, con un numero contenuto di iscrizioni ma con tanto entusiasmo e voglia di fare bene.
I grandi team sono in grado di agire positivamente sulla crescita di una manifestazione, perché con la loro presenza consentono una crescita in diverse direzioni: premi, visibilità, immagine, comunicazione, presenza di atleti di élite… Il ruolo delle società organizzatrici è fondamentale. L'organizzazione di una gara deve essere composta da persone capaci, preparate, che sappiano cosa vuol dire correre in montagna e quando uno staff è composto da membri di una associazione sportiva, è anche garanzia di continuità negli anni».
Criteri di ammissione alle iscrizioni: se ne è discusso molto per il Tor. In molte nazioni sono abbastanza diffusi (Francia, Usa, Andorra) almeno oltre i 100 KM, in Italia molto meno. Tu come organizzatore non li hai utilizzati nella 100KM delle Porte di Pietra. Che ne pensi?
«Distinguo il criterio di ammissione creato per fare una scrematura del numero di iscritti, da quello predisposto per una tutela del concorrente. In questo secondo caso, credo che la presentazione di un curriculum sia consigliato per l'iscrizione a gare di lunga durata, tecniche, che si svolgono in condizioni ambientali potenzialmente pericolose per l'incolumità del concorrente. Nello stesso tempo potrebbero richiedere un curriculum gare anche molto più brevi ma che si svolgono in ambiente di alta montagna con passaggi tecnici ed esposti. Io parto dal presupposto che tutte le ultra possono portare ad esaurimento fisico un concorrente, specie se alle prime esperienze con quelle distanze, ma in questo caso, se ci fosse una difficoltà legata alla distanza emergerebbe...alla distanza, e non nella prima metà di gara. Io e i miei amici Orsi abbiamo studiato a fondo il problema partendo dalla consapevolezza che la seconda parte della gara è su quote più basse, accessibile ai soccorsi, con diverse vie di fuga su percorsi alternativi ed inoltre abbiamo dato la possibilità al concorrente giunto al 65° km di scegliere se chiudere la 100 o deviare sulla 70km.
Per questi motivi non ho messo dei filtri alla 100 Porte per dare così la possibilità ad un concorrente di cimentarsi con una gara di importante chilometraggio.
Gare di 100km come la Tuscany o come Le Porte di Pietra, si svolgono su terreni poco ostili a quote relativamente basse, sono in periodi dell'anno climaticamente favorevoli, hanno diversi check point che offrono assistenza, vie di fuga e di abbandono.
Tengo a precisare una cosa, il ragionamento che sto facendo è in relazione al binomio sicurezza/distanza, se dovessimo fare un ragionamento assoluto sulla sicurezza ci sarebbe da aprire un capitolo in quanto nessuna gara di trail può essere considerata sicura proprio perché lo sport del trail non garantisce sicurezze e in questa ottica ogni organizzatore deve ragionare sulla base della propria capacità ed esperienza, della conoscenza del proprio percorso di gara e della consapevolezza delle forze umane di cui dispone».
Negli USA per partecipare ad alcune ultra devi aver fatto un servizio di volontariato alle gare di trail, in Europa e Italia nessuno lo richiede. Secondo te sarebbe un’idea valida? Vedere le cose ‘dall’altra parte’ per me ti aiuta in entrambe le situazioni. Personalmente ho fatto il volontario per la CCC e UTMB dopo aver corso la TDS ed è stata un’esperienza molto positiva.
«L’esperienza di chi vede le cose dall'altra parte la vivo dal 2006, proprio per il fatto che da quell'anno vesto il ruolo di organizzatore e di atleta, quindi ad ogni gara a cui partecipo guardo con un occhio critico tutti gli aspetti organizzativi e i dettagli che a volte passano inosservati. Sicuramente fare il volontario o fare la scopa o comunque proporsi come collaboratore in qualche evento è una esperienza che può arricchire la visione globale del mondo trail consentendo di capire cosa accade “dietro le quinte”, non so se qualche gara italiana arriverà ad imporlo, sicuramente molte lo chiedono e predispongono nei mesi precedenti l'evento una campagna di arruolamento dei volontari. Per la mia esperienza personale delle Porte di Pietra, il personale è costituito al 90% da gente che corre i trail e questo garantisce una garanzia di affidabilità».
Capisco che sia difficile dare una risposta sintetica, visto che hai scritto un libro di centinaia di pagine, ma se dovessi dare un singolo consiglio ad un trailer cosa diresti? E per un organizzatore?
«Ad un neofita direi: “prenditi i tempi giusti per progredire con gradualità sia in termini di intensità e di volume, ascolta te stesso e rispetta te stesso e la natura” Ad un atleta ‘anziano’ direi: “ascolta le modificazioni imposte dal tuo corpo e adatta ad esso gli allenamenti che farai. Diminuisci i carichi massimali e le intensità troppo elevate a favore della regolarità, della resistenza e della giusta tattica”. Ad un atleta top direi: “sei già forte ma sei vuoi andare ancora più forte devi cercare di trovare delle direzioni di lavoro che ancora non hai percorso o lo hai fatto solo parzialmente. Potenzia i tuoi punti deboli e non esitare a farti aiutare e consigliare da qualche esperto”. Ad un organizzatore direi: “Facciamo in modo di favorire i processi di identificazione e riconoscimento del Trail. E' lo sport che amiamo e che cerchiamo di divulgare e far amare al pubblico attraverso le nostre gare, ma la nostra incolumità giuridica dal punto di vista civile e penale è così precaria che dobbiamo sempre riflettere se vale la pena di poterci permettere di essere sempre legati ad un sottile filo che si potrebbe spezzare nel caso in cui nella nostra gara dovesse verificarsi un incidente serio”».
Lisa Borzani, da Hong Kong alla Transgrancanaria
Ottimo avvio di stagione per la veneta
Si avvicina la Transgrancanaria, la prima prova Series dell’Ultra Trail World Tour, in programma dal 4 marzo sull’isola spagnola dell’Atlantico. Lisa Borzani è stata una delle protagoniste assolute di questo inizio di stagione, con un secondo posto alla Vibram Hong Kong 100 Ultra Trail Race, dove l’anno scorso era arrivata terza. La vincitrice della prima edizione dell’Orobie Ultra-Trail, undicesima ai Mondiali IAU di Annecy del 2015, torna dall’Asia con tante certezze pronta a partire per le Canarie. L’abbiamo incontrata dopo l’esperienza asiatica per fare un punto sulla gara e sui prossimi obiettivi.
Facciamo un passo indietro, raccontaci la tua gara di Hong Kong? Mi sembra che tu abbia adottato una tattica intelligente: nel tratto scorrevole prima delle ultime salite sei stata la più veloce.
«La Hong Kong 100km mi è piaciuta molto. L'avevo già corsa nel 2015 e quest'anno, grazie all'opportunità datami da Remigio Brunelli (Team Tecnica), ci sono tornata davvero molto volentieri. In realtà non ho adottato una tattica vera e propria: semplicemente, quando ho saputo che le donne che avevo davanti erano ad una distanza ‘accettabile’ ho capito che potevo provare a raggiungerle ma dovevo ‘menare le gambe’: così è uscito un tratto nel quale sono andata veloce».
Cosa ne pensi del percorso? Io penso che sia molto bello ma con troppi tratti su terreno artificiale, asfalto e cemento anche nei tratti single track. Poi i gradini soprattutto in discesa..
«Il percorso secondo me è perfetto così. Essendo ad inizio stagione, per me, va benissimo che ci siano anche tratti veloci ed anche qualche pezzo non troppo tecnico. I gradini sono una caratteristica di questa gara e, personalmente, non mi sono dispiaciuti. E' un modo diverso di affrontare salite e discese perché devi fare anche i conti con questi scalini che ti obbligano ad alzare di più le gambe in salita e ad avere una buona coordinazione in discesa: per me questi scalini hanno il grande pregio di rendere tutto meno monotono, forse un po' più faticoso ma di certo più vario e divertente!».
È uno dei trail più scorrevoli soprattutto nella classe 100 km.
«Ne conosci altri con queste caratteristiche? Potrebbe essere adatto per il passaggio dalla corsa su strada al trail.. Mi viene in mente la Lavaredo Ultratrail che è altrettanto scorrevole, forse anche più di questa perché, a mio avviso, è anche meno tecnica. Ad Hong Kong, invece, ci sono alcune discese divertenti soprattutto perché condite dagli gradini...
Sinceramente preferisco i trail più ‘montagnini’ con parecchio dislivello distribuito su poco sviluppo. Ad inizio stagione mi va benissimo un trail come quello di Hong Kong perché in inverno mi alleno soprattutto sui colli Euganei dove abito e la conformazione dei sentieri dei ‘miei’ colli e' molto simile ai sentieri scorrevoli di questo ultratrail di Hong Kong».
È un genere di gara che va bene per tue caratteristiche?
«In generale direi di no, ma in questo periodo dell'anno sì perché in inverno, non praticando gli sport sulla neve come sci o scialpinismo, mi alleno prevalentemente su strada».
Il freddo e il ghiaccio come hanno influenzato la gara?
«Avendo sperimentato il Tor des Geants nel settembre scorso ero veramente preparata a ben peggio! Il freddo non mi ha condizionato, tranne che per il vento che in certi punti era talmente forte che mi spostava sul sentiero..».
Come vedi il Trail in Asia?
«Penso che si svilupperanno sempre più perché la gente asiatica ama correre i trail (si nota ad occhio nudo!) e penso che siano un ottimo modo per valorizzare il territorio così vario e affascinante di questi paesi».
Prossimi obiettivi?
«il mio calendario, a Dio piacendo, proseguirà proprio con la Transgrancanaria, la TNF di Pechino e la Maxi Race di Annecy a maggio, la Lavaredo ultra trail a giugno, le Orobie Ultra trail a luglio e il Tor des Geants a settembre».
Che cosa consigli ad una donna che inizia a far trail seriamente?
«Di andare per gradi e di affrontare allenamenti e gare con un approccio mentale positivo».
Come ti alleni?
«Cerco di seguire un programma, di avere un metodo. Alterno allenamenti di qualità in pista di atletica ad altri di potenziamento a carico naturale e in palestra affiancandoli ad uscite trail su sentiero di lunghezza, durata e dislivello che variano in base alla gara che dovrò affrontare».
Come concili il trail con gli altri impegni?
«Ho la grande fortuna di avere un compagno che corre come me e che mi affianca e supporta in tutto e per tutto...dagli allenamenti ai lavori domestici! Quindi lo slalom tra corsa, pentole, cartellino da timbrare in ufficio, lavatrici e quant'altro risulta possibile».
Il tuo sogno?
«Eh...io un bel sogno ce l'ho...ma non posso dirvelo sennò non si avvera!».
Francesca Canepa racconta il suo 2015
Tante le gare della valdostana
Francesca Canepa è una delle protagoniste del mondo ultra. Una stagione ‘particolare’, quella del ‘dopo-Tor’, tra il ritiro all’UTMB e tanti piazzamenti importanti in giro per il mondo, oltre alla convocazione in azzurro per la rassegna iridata di corsa su strada della ultradistanza di 100 km che si è tenuta in Olanda a settembre. Ecco le impressioni della valdostana.
La stagione si sta concludendo: proviamo a fare un bilancio…
«Faccio sempre fatica perché sono del tutto sprovvista dell'obiettività necessaria. Diciamo però che indubbiamente ho avuto una stagione in salita, tanti ritiri e mai una reale buona condizione mentale. Solo all'UTMB sono veramente entrata in forma ma il ritiro anche lì è stato ‘pesante’ per il cervello. D'altra parte in quel caso specifico la situazione era delicatissima per via del mio impegno con la Nazionale dieci giorni dopo, così un'ipoglicemia, forse al limite anche gestibile, ha causato l'ultimo ritiro 2015. Poi il Mondiale è stato fantastico (dove ha chiuso al 18° posto), a prescindere dal piazzamento in sé, la mia soddisfazione più grande è stata onorare la fiducia ricevuta dalla FIDAL e da Maurizio Riccitelli. E da lì ho finalmente dato il giro, un po' tardi chiaramente…».
Hai avuto risultati importanti sia su strada sia sulle montagne: come vedi questo binomio? Sinergie oppure no?
«Sono facile alla perdita d'interesse e quindi sicuramente misurarmi con nuove sfide e nuovi progetti è importante. Inoltre mi ha fatto piacere vedermi riconosciuta come una delle poche al mondo a poter essere competitiva ad alto livello sia su strada che sulle montagne. Sui trail di vera montagna, intendo, quelli con dislivelli importanti.
In effetti la cosa a volte stupisce anche me, specialmente quando mi sono scoperta sulle race preview del Mondiale come atleta da tenere d'occhio. In un primo momento mi ha fatto…ridere, ma poi ho preso fiducia, in effetti con più lavoro mirato l'asfalto potrebbe essermi amico. Credo inoltre che le due discipline possano essere funzionali quindi penso proprio che il binomio per me sia produttivo. Poi non so se lo possa essere per tutti, chi odia l'asfalto e peggio ancora i circuiti credo debba restare nel bosco. A me la strada non dispiace visto che almeno lì non prendo storte, non mi perdo e soprattutto non mi perde chi dovrebbe registrare i miei passaggi».
Se non sbaglio hai una laurea in psicologia: questo ti aiuta come atleta, come preparatore, come mamma?
«Avere dottoressa davanti al nome probabilmente mi aiuta nella ricerca continua di informazioni utili per gestire il mio corpo e la mia mente nello sport. Fortunatamente imparo in fretta e riesco ad adattare e personalizzare quanto apprendo, odio prendere per buono tutto senza farlo mio. Come mamma...beh i concetti base della psicologia forse aiutano a evitare errori proprio grossolani, ma il resto lo fanno il buon senso e la capacità di essere flessibili. I bambini sono persone e come tali vanno rispettati nelle loro inclinazioni e nei loro desideri, anche quando non è affatto facile e anche quando i nostri caratteri rispettivi conducono allo scontro. Ma mi piace questa avventura, noi tre siamo un team e in generale posso dire che funzioniamo alla grande, aiutati dai due bracchi italiani Ariella e Brina. Io ovviamente sono la team manager…».
Hai fatto gare molto dure e significative, ma un po’ fuori dal circuito dei grandi eventi, con ottimi risultati, una in Cappadocia, una in Istria (la 100 miles of Istria che nel 2016 entra nelle ‘Future’ dell’UTWT, dove ha vinto con il terzo posto assoluto) e in Marocco. Perché di questa scelta? Quale di queste ti ha lasciato i ricordi più belli?
«Diciamo che come per molte altre sfere della mia vita, spesso mi piace che siano le cose a scegliere me. In questi tre casi specifici sono appunto stata scelta. Quella dell’Istria è una bellissima 100 miglia, e quando sto bene in genere è una distanza che mi è indubbiamente favorevole. Il Marocco è un discorso a parte in quanto ho accettato l'invito senza informarmi specificamente sui dettagli base, cose tipo tecnicità del terreno, altitudine, logistica (camerata, pasti in tenda, freddo cane, zaino da 5 kg). Così ho preferito per una volta non entrare nemmeno in gara adottando un approccio conservativo che mi ha permesso di vivere un'esperienza unica (ristori seduta al tavolo a chiacchierare con chi conoscevo, ritmi da trekking). Un allenamento unico che diversamente non avrei mai potuto fare e una prova di adattamento che mai avrei creduto non solo di superare ma addirittura di rimpiangere. La Cappadocia ha chiuso la serie e pure questa è stata meravigliosa, luoghi incredibili, persone accoglienti, cibo favoloso: insomma, correre non è solo un'equazione spazio/tempo. Per me è molto altro».
Raccontaci della Cappadocia (la North Face Cappadocia Ultra Trail del 24 ottobre entrata nel 2016 nelle ‘Future’ dell’UTWT, dove ha chiuso al quarto posto assoluto, prima nella graduatoria rosa).
«Nel dettaglio, si corre su un terreno globalmente morbidissimo e assolutamente vario. Vai dalle gole in non si sa quale pietra ai sentierini tortuosissimi, dagli altipiani pietrosi alle salite su zolle di erba secca e dura. Il paesaggio è semplicemente incredibile, fatato direi. E poi si mangia roba favolosa, io adoro anche questo aspetto, mi piace andare in una nazione straniera e immergermi nei loro usi, anche alimentari. Qui c'era verdura in ogni forma e poi delle piadine fritte da sballo».
E del Marocco (alla Utat, la Ultra Trail Atlas Toubkal di 195 km e 6.500 m D+ vinta dalla svizzera Andrea Huser, con terzo posto della Canepa).
«Il Marocco che ho visto io è solo montagna. Alta montagna senza neve, aria sottile che inizialmente non ti aiuta. Una povertà assoluta ma apparentemente non percepita come tale, forse semplicemente un modo di fare con quello che si ha. In gara attraversi villaggi in cui è difficile capire come qualcuno possa vivere, e figuriamoci in inverno, però ci vivono e quelli che corrono, corrono decisamente più forte di noi. Meditiamo. Forse meno tecnologia, meno scuse e più coraggio».
Hai tempi di recupero eccezionali: dopo una settimana dalla UTAT (100 km abbondanti con molte pietre in Marocco) hai fatto il tuo personal best su una 100 su strada: qual è il tuo segreto?
«Non so, come ultimamente piace dire a Renato, forse il punto non è tanto la velocità di recupero quanto il fatto che non mi tiro mai il collo. In verità non posso negare una certa radicata tendenza all'auto conservazione che mi permette di non arrivare mai al limite, restandone anzi spesso ben lontana. Il personale sulla 100 secondo me è venuto anche grazie al soggiorno in quota, i 5 giorni in Marocco hanno fatto il loro dovere, ma le avvisaglie di poter scendere nel crono le avevamo già avute al Mondiale. Però è chiaro, a questo dovrei proprio lavorarci, gestire il ritmo non è scontato. Per il resto sono convinta che la chiave vincente per un buon recupero sia un attento ascolto del corpo, rispettandone i tempi e decifrandone i segnali, senza farsi inghiottire dalla furia di macinare subito altri km».
Non hai mai pensato che puntando a meno gare potresti ottenere risultati ancora migliori?
«Assolutamente sì, è esattamente la direzione a cui stiamo puntando con Renato. Fino ad ora ho fatto la scelta di privilegiare le gare perché non avevo ancora addomesticato l'idea dell'allenamento strutturato e quindi i km li accumulavo in gara. Ora ne farò meno, di gare, anche perché comunque mettersi in gioco spesso e dappertutto ha costi psicologici non indifferenti».
Quest’anno pur migliorando il tuo tempo di 20 minuti all’Eiger 101, sei passata dal gradino più alto a quello più basso del podio: come vedi l’evoluzione del trail femminile?
«Il terzo posto è stato il risultato di una gara conservativa dove ho scelto di non rischiare mai in discesa visti i tre ritiri precedenti. Arrivare era prioritario. Comunque penso che le donne siano assolutamente di grande livello e soprattutto estremamente determinate. Le vere atlete, quelle che si mettono in gioco e non cercano scuse, si battono come tigri in gara e si uccidono in allenamento. Io devo ancora fare mia la seconda parte, in effetti…».
Vivi a Courmayeur, hai un passato importante di agonismo su snowboard, non hai mai pensato di darti allo sci alpinismo competitivo? Molti atleti corrono in entrambe le specialità.
«Ecco no, lo sci alpinismo competitivo mi è precluso per la mia comprovata inettitudine a gestire il materiale. Come aneddoto posso dirti che ho fatto almeno tre uscite al mio ‘debutto’ con le pelli attaccate al contrario, senza mai il minimo sospetto nonostante la fatica insensata che facevo per salire ugualmente. Capisci bene che la cosa non si può fare. E poi ho sempre odiato per principio tutte quelle discipline estremamente materiale-dipendenti. Preferisco farmi i miei monotoni giretti tranquilli senza preoccuparmi se aggroviglio le pellicce o mi si stacca un piede in un momento dato».
Sei un’atleta con una notevole esperienza e con un grande palmares: come pensi di essere cambiata negli anni? Quali insegnamenti hai tratto?
«In generale credo di non essere cambiata molto. La coerenza del mio pensiero, da quando ricordo di avere articolato il primo, a volte mi sorprende. Ragiono come quando avevo 12 anni e mi battevo per arrivare alla finale nazionale dei giochi della gioventù di pattinaggio artistico. Lavoro nello stesso modo, cercando soluzioni mie ai problemi che mi si presentano. Esattamente come allora, mi è impossibile superare o almeno accettare ingiustizie, come quando hanno disatteso il regolamento FISI, lasciandomi a casa alle Olimpiadi di Nagano e Salt Lake, e non voglio né riuscirci né accettarle. Infatti non accetto e non perdono quello che mi hanno fatto a Tor. E tuttavia sono ancora qui. Non sono cambiata, ma forse ho capito meglio di quanto capissi in passato, che ogni cosa che faccio interessa solo a me, è per me che continuo e se continuo è solo perché mi piace quello che faccio. A prescindere dal risultato e dall'opinione altrui. L'insegnamento che mi hanno dato i tanti ostacoli è che alla fine la sola opinione che davvero conta è la mia. E che dato che non voglio essere rinchiusa da vincoli, regole arbitrarie e limiti imposti, sono consapevole che a volte può esserci un prezzo, ma va bene così. Forse posso sintetizzare gli anni vissuti finora con un unico imperativo: scegliere e non subire, costi quel che costi».
Il trail sta diventando uno sport olimpico. Ci sono stati dibattiti soprattutto in Francia, prese di posizioni nette sui mondiali di Annecy. Tu che cosa ne pensi?
«Non mi piace disquisire su queste faccende pseudo politiche dove tutto si ingarbuglia e nel giro di un istante inizia la fiera dell'ipocrisia. Credo sicuramente che nel nostro sport servano delle regole pensate attentamente affinché non si ritorcano contro tutti in tempo zero, dato che nel trail a causa dell'elevato numero di variabili non controllabili le eccezioni rischiano di far crollare l'impalcatura che avrebbe dovuto regolamentare il caos, ma soprattutto credo che servano persone realmente capaci ed esperte di questa realtà per gestire a livello globale l'evoluzione di questo sport. Con questi presupposti si potrebbe forse anche arrivare ad una maggiore tutela degli atleti di ogni livello.
Cosa ne pensi dell’ITRA?
«Credo che sia un work in progress, un'idea che ha il suo senso ma che necessita ancora di migliorie, sicuramente è appunto il primo reale tentativo di inserire una logica in un'attività che per sua stessa natura intrinseca sembrava essere nata proprio per non averne».
Hai partecipato a molte gare: quali caratteristiche cerchi in un’organizzazione?
«Semplice: organizzazione. Che tradotto significa regolamenti chiari e non interpretabili, balisage affidabile, percorso sensato e non semplicemente un rincaro ai km e al D+».
Non hai mai pensato di metterti ad organizzare manifestazioni importanti?
«Mi piacerebbe creare un circuito per bambini, per insegnare loro a combattere divertendosi e soprattutto imparando il rispetto per l'avversario. Credo che bambini che potessero avere l'opportunità di misurarsi con i propri limiti fin da subito diventerebbero con ogni probabilità adulti migliori e consapevoli. Per il resto non mi piace l'idea di dare consigli, preferisco un augurio. Che è quello di poter sempre essere fiera e soddisfatta di ogni prova perché in ognuna avrà fatto di tutto per dare il suo meglio. E qui mi torna in mente la mia frase iconica ‘chi rende onore a se stesso rende onore a tutti’»:
Quest’anno hai avuto diversi problemi di idratazione e di alimentazione in gara (Passatore, UTMB per citarne due): come li hai superati? Cosa consiglieresti?
«In effetti non li ho superati, infatti mi hanno portata al ritiro. Più che superare quindi, bisogna prevenire, ma il discorso è complesso perché occorre riuscire a determinare l'errore principale commesso ogni singola volta. Al Passatore tutto è stato abbastanza semplice, ho mangiato forse un po' tardi e poi mi sono infilata nella griglia di partenza senza prevedere una bottiglia supplementare per aspettare lo start. Così ho intaccato quella che avrebbe dovuto portarmi al primo ristoro, e alle 3 del pomeriggio di un giorno caldo e umido è un errore che non perdona. Utmb è ancora diverso, lì per la prima volta, raccontando i fatti a mio papà a posteriori, mi sono resa conto di non bere mai in discesa. Non riesco a gestire la cosa, quindi tra ammazzarmi e non bere evidentemente ho sempre scelto ‘non bere’. Solo che anche questo col caldo, e soprattutto con i ritmi che bisogna tenere per andare sul podio, non passa. Quindi il consiglio ovvio è da un lato assicurarsi sempre un'assunzione costante di liquidi e cibo, dall'altro procedere a un'accurata analisi degli errori fatti, una volta che il disastro dovesse essersi presentato».
Ti piace molto spingere forte in discesa e forse il tuo passato sulla tavola ti aiuta in questo: questo fatto è generalizzabile?Che consigli dai a chi è debole in discesa e quali a chi è relativamente forte in questa fase?
«No guarda, qui forse hai sbagliato la persona a cui volevi indirizzare la domanda... Questa va bene per Emelie!
No, io letteralmente odio spingere forte in discesa e a quanto pare il passato sulla tavola (come anche il piede pesante in macchina) non aiuta. Personalmente ho adottato la tecnica della falcata ridotta con appoggi rapidi per contenere i danni in caso di radici inattese o sassi mobili, e poi accessoriamente sono favorevole a un buon lavoro per migliorare la propriocezione sebbene sia noiosissimo. Credo che comunque ci sia un margine di miglioramento per tutti che val la pena provare a sfruttare, lavorando tanto su terreni più facili per acquisire sicurezza e soprattutto cercando di affrontare ogni discesa in maniera rilassata. Mi rendo conto che sono cose banali ma purtroppo difficilissime da mettere in pratica».
Con le discese troppo forti, non si rischia di avere le gambe distrutte per affrontare le successive salite o falsopiani?
«Ecco no, secondo me quando uno è ben preparato, quando invece che limitarsi a macinare km si è provveduto a rinforzare il corpo nella sua globalità, questo problema non si verifica. Certamente questo richiede un approccio alla corsa che non sia solo correre. Significa curare ogni distretto muscolare per poter contare su un corpo che funziona a livello globale d in cui ogni sforzo si ripartisce sul maggior numero di muscoli E distretti possibili. Insomma, un tipico esempio di responsabilità condivisa. Così le gambe non saranno costrette a fare da sole tutto il lavoro e conserveranno la freschezza necessaria per occuparsi di quanto segue.
Negli Stati Uniti si registrano prestazioni strepitose di ragazzi in mezza maratona e in maratona: come atleta e come mamma cosa ne pensi?
«Trovo che se l'idea di misurarsi in quelle gare sorge spontanea nei ragazzi allora è una fantastica cosa. Non vedo perché avversarla. I bambini sono in grado di avvertire le proprie inclinazioni, almeno nella mia esperienza con i miei è così, pertanto credo che vadano rispettate e incanalate un minimo, sta ai genitori proteggere il futuro atletico dei ragazzi. Proteggere, non imporre. Guidare, non stravolgere. Ma soprattutto supportare. In tutti i sensi del termine. Quanto appunto alle distanze, credo che siano assolutamente fattibili, ovviamente se i tempi realizzati vengono fuori spontaneamente e non successivamente ad allenamenti massacranti. I miei bambini non hanno nessun problema a fare 10 km senza allenamento quindi ritengo che chi invece è interessato nello specifico e si allena a quelli scopo, possa senza problemi gestire almeno una mezza. Ma col sorriso».
I teorici delle corse su strada dicono che i grandi record si fanno con il cosiddetto negative split (seconda parte più veloce della prima). Tu hai fatto il tuo personal best sulla 100 mettendo fieno in cascina nei primi 42 km. Puoi commentare?
«Ecco...fossi in grado di mettere in campo un negative probabilmente potrei tirar fuori un 7.40!! Purtroppo al momento faccio precisamente il contrario, e volendo essere generosi nell'interpretazione come sei tu, lo chiamiamo fieno in cascina.
Il negative è sicuramente la teoria. In pratica ho visto che va già bene riuscire a fare le due parti uguali, io sono ancora nella fase di contenere i danni nella seconda. Quello che è certo è che mi orienterò almeno su partenze più prudenti finché non avrò addomesticato il ritmo e le faccende metaboliche. Una prestazione ultra non è mai il frutto di un solo fattore».
Parlaci dei tuoi programmi 2016.
«Qui la cosa si complica. Posso dirti che l'intenzione di base è tornare a gareggiare nell'Ultra Trail World Tour e riportarmi nella sfida per il podio finale. Dopo un anno come questo so che non ripeterò gli stessi errori. Poi farò qualche gara nuova che capiterà lungo il percorso, quelle scelte d'istinto che piacciono a me. Chiaramente sarà tutto più facile nel momento in cui troverò un'azienda che creda in me e nel progetto, e spero che succeda».
Marina Plavan, stagione da incorniciare
Terza al Tor, settima alla TDS
Marina Plavan è salita sul podio del Tor 2015, terza alle spalle della svizzera Zimmermann e di Lisa Borzani. Ma in stagione anche il settimo posto alla TDS. Ecco le impressioni della portacolori della Valetudo.
Da quanti anni fai trail?
«Ho cominciato con la corsa in montagna, saranno cinque, sei anni che faccio trail».
Quali consideri il tuo più grande successo?
«Penso proprio che quest’anno la TDS e il TOR siano state le più belle gare fatte in assoluto».
Come ti alleni?
«In periodi normali, mi alleno tre volte a settimana, lunedì, mercoledì e venerdì, poi faccio spesso una gara la domenica: spesso mi servono da allenamento per le prive a cui sono maggiormente interessata».
Cosa mangi prima, durante e dopo le gare?
«Prima e dopo mangio normalmente, non seguo nessuna dieta, sto attenta a non bere latte prima della gara o a mangiare troppo condito, durante la gara riesco con fatica a mangiare, quindi quasi sempre bevo molto, passo dai sali alla coca cola o anche solo acqua, ma in quantità veramente grandi, anche se ovvio, dipende dalla lunghezza della gara».
Che altri sport fai?
«Qualche uscita con la bicicletta, o con gli sci, tanta montagna, anche solo per camminare».
Sei molto legata alle montagne della tua regione? Perché?
«Sono innamorata soprattutto della Valle d’Aosta, ma le uscite in allenamento le faccio quasi sempre vicino casa, in Piemonte, abito in collina, uscita dalla porta di casa riesco a raggiungere dei dislivelli anche importanti anche senza dovermi spostare con la macchina».
Risiedi in Piemonte e corri per la Valetudo che è lombarda..
«Ho conosciuto la Valetudo praticamente quando ho cominciato a correre i trail e le sky race, ho conosciuto Giorgio Pesenti, il presidente, una persona eccezionale e da allora indosso la maglietta con il simbolo dell’aquila, non mi sono mai posta il problema che fosse una società di un’altra regione, io con loro mi sento a casa».
Come fai a conciliare la famiglia, il lavoro, il trail?
«Ho un lavoro abbastanza impegnativo, lavoro in banca, ho due figlie ormai grandi di 22 e 24 anni, ma io iniziato a correre quando loro erano bambine e così anche loro hanno cominciato a correre, a volte gli allenamenti li facciamo assieme, anche se logicamente loro non si spingono sulle distanze in cui invece gareggio io, a volte l’allenamento è un liberare la mente dal mio lavoro e dai problemi di tutti i giorni».
Ti sei mai infortunata?
«Penso di aver avuto due infortuni nei 12 anni che corro: una bella tallonite che mi ha fatto sudare sette camicie un paio di anni fa e uno strappo alla schiena a dicembre scorso, che mi ha tenuta lontana dalle gare per due mesi e forse mi ha fatto riposare, quel benedetto riposo che a volte non ci si prende mai».
Hai fatto la TDS e dopo poco il Tor: come fai a reggere la fatica?
«Lo scorso anno avevo fatto la CCC e dopo poco il Tor, quest’anno visto che c’era più distanza tra le due gare, ho scelto di fare la TDS, molto più tecnica, ma molto più confacente alle mie caratteristiche, con la quale ho saggiato le mie gambe e la mia testa ed è stata la carica per il Tor. La TDS non mi ha lasciato ‘scorie’, già il giorno successivo me la sentivo di andare in montagna, il Tor invece mi ha lasciato una piccola infiammazione al tendine di Achille destro, dovuta allo sfregamento delle scarpe».
Hai un punteggio ITRA più altro sulle gare Ultra Media (42/69): perché hai scelto una gara iper come il Tor?
«Perché io il Tor lo vedo come un bel sogno, più che una gara, una malattia, fatto una volta ti conquista».
Quanti Tor hai fatto e perché?
«Alla terza volta che provavo l’iscrizione sono riuscita ad essere ammessa, l’ho fatto lo scorso anno e in questa edizione».
Tor tra escursionismo e trail running: cosa ne dici?
«Ho sentito dire da qualcuno che è una passeggiata in montagna, io non la penso in questo modo, al Tor bisogna arrivare preparati e consapevoli che sono 330 km con 24.000 metri di dislivello e quest’anno il meteo avverso ha dimostrato la durezza del percorso».
Cosa hai provato quando la gara è stata definitivamente fermata?
«Un gran senso di vuoto, ho sognato per otto mesi di fare il fatidico Malatrà, come lo scorso anno, di arrivare a Courmayeur con le mie ragazze che mi aspettavano e che mi avevano fatto assistenza lungo il percorso nelle basi vita, ma dopo le sei ore ferma ad Ollomont, forse il freddo, la neve, la pioggia mi era talmente penetrato nelle ossa che quasi quasi è stato un sollievo, anche se ci tenevo tantissimo a fare le mie fatidiche ‘sotto le 100 ore', a cui quest’anno puntavo».
Come giudichi l’organizzazione del Tor?
«Ho sentito tantissime polemiche….io la penso in questo modo: il Tor è il Tor!».
Secondo te ci dovrebbero essere dei criteri di ammissione?
«Non guasterebbe avere il punteggio necessario come nelle gare dell’UTMB, tutti sarebbero più consapevoli a cosa vanno incontro».
Un suggerimento agli organizzatori?
«Nessuno, io di solito sono consapevole a cosa vado incontro, basta che le regole siano chiare, quest’anno niente accompagnatori e penso che così sia stato….da parte mia nessuna polemica, il Tor è un viaggio con te stessa più che con gli altri».
Come scegli le gare a cui partecipare? Hai mai fatto UTMB?
«Solitamente a inizio stagione mi pongo obiettivi precisi, quelle due o tre gare su cui puntare e le altre sono di contorno per vedere le mie condizioni. Non ho mai fatto l’UTMB, conosco molto bene il percorso e ad essere sincera preferisco un percorso più tecnico come la TDS, prima o poi sarà da provare».
Per quanti anni hai ancora intenzione di gareggiare ad alti livelli?
«Non sono più una giovincella, dunque tutto quello che viene mi sta bene, fintanto che la cosa mi diverte ce la metterò tutta, quando sarà un sacrificio non so se smetterò ma senz’altro i miei obiettivi saranno altri».
Che consigli daresti ad un giovane trailer emergente?
«A una persona di 20 anni non consiglierei mai di fare il Tor, il consiglio più spassionato è quello di fare le cose per gradi, non come si sente in giro persone che non hanno mai fatto gare corte e si vogliono buttare su distanze eccessive….tutto va fatto passo dopo passo».