Great Himalaya Trail, 24 giorni che ti cambiano la vita
In questi giorni in cui abbiamo tutti un po' voglia di evadere e andare lontano riproponiamo l'articolo sul Great Himalaya Trail e l'impresa del runner sudafricano Ryan Sandes. Per non smettere mai di sognare
Dopo ventiquattro giorni, quattro ore e ventiquattro minuti oppure 1.504 chilometri o ancora 70.000 metri di dislivello positivo su e giù per i sentieri dell’Himalaya con i tuoi piedi impari due lezioni che ti aiuteranno a trovare la strada giusta per il resto della vita. «Dobbiamo apprezzare le cose semplici, ci affanniamo per avere sempre di più e non ci godiamo la nostra famiglia e quello che abbiamo: se sei felice potrai inseguire i tuoi sogni, però se vivi per inseguire i tuoi sogni ma sei infelice, non li realizzerai mai». La prima lezione sembra (ed è) un insegnamento buddista. «Sono stato in villaggi minuscoli, lontani da tutto e da tutti, con tanta povertà, eppure sono felici e ti aprono la porta alle undici di notte, nel buio immenso, ti preparano da mangiare e ti fanno dormire senza chiederti chi sei, mentre noi abbiamo perso il giusto punto di vista e per ritrovarlo non ci rimane altro che scappare dalla civiltà e dal bombardamento di informazioni e social media, camminare nella natura, correre per ritornare in noi stessi». I Beatles andarono in India per ritrovare la loro ispirazione. Il trail runner sudafricano Ryan Sandes, il primo uomo a vincere tutte e quattro le 4 Deserts race, l’uomo che ha vinto una gara ultra-trail in ognuno dei sette continenti, tra le quali anche la Leadville e la Western States, non è nuovo a imprese da record nella natura, eppure il lungo viaggio del Great Himalaya Trail, da un confine all’altro del Nepal, lo scorso marzo in compagnia dell’amico e compagno di tante avventure Ryno Griesel, lo ha fatto tornare a casa diverso. È un viaggio incredibile, dalle vette più alte del mondo alla giungla. Ma è anche un viaggio alla scoperta di se stessi. «È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita, in positivo. Penso che sia stata la tappa finale di un percorso, la cosa più grande che abbia mai fatto e sono molto soddisfatto, ma non la ripeterei».
Il Great Himalaya Trail non è un solo sentiero, ma la combinazione di vari itinerari sia nella parte montuosa del Nepal (GHT High Route) che in quella più popolata e ricoperta dalla giungla (GHT Cultural Route) e va da un confine all’altro del Paese, lungo la direttrice Ovest-Est. Per questo, sebbene Ryan e Ryno abbiano fatto segnare il FKT (fastest known time), non si può parlare di vero e proprio tempo record in quanto un crono di riferimento non esiste data la possibilità di alternative lungo il percorso e le varianti imposte dai tanti imprevisti. Quello seguito dai due sudafricani ripercorre fedelmente le orme del connazionale Andrew Porter dell’ottobre 2016 ma, per esempio, Lizzy Hawker, nel 2016, ha fatto segnare un tempo di riferimento lungo la parte in quota del GHT, tra le montagne. «Quello che volevamo non era un record a tutti i costi, ma un’avventura che unisse la bellezza delle vette più alte del mondo alla possibilità di conoscere la cultura e le città perché per me, che vengo da Città del Capo, trail running significa correre nella natura, ma non in montagna». Una lunga avventura… «Dopo la vittoria alla Western States 100 dello scorso anno cercavo proprio qualcosa del genere e l’Himalaya mi ha sempre attirato, però mi spaventava la lunghezza del percorso perché voglio anche continuare a partecipare alle gare ultra e devo avere il tempo di recuperare». Già, la lunghezza: muoversi a piedi per 24 giorni consecutivi, con una media di 16 ore di attività e poco tempo per dormire e ancora meno occasioni per farlo in un letto, è stato l’aspetto più duro del Great Himalaya Trail di Ryan. «Il ritmo era lento, più lento di quanto sono abituato, e anche questa è stata una sfida: ci sono stati giorni nei quali abbiamo camminato per 20 ore e altri per 12, notti passate nelle case dei nepalesi in villaggi isolati dal mondo e momenti nei quali ci fermavamo giusto una ventina di minuti ogni tanto per dormire sul sentiero o su qualche tavola di legno usata dai pastori, piuttosto che nei loro ripari di fortuna». Impossibile pensare di dormire all’addiaccio nella prima parte del percorso, in quota e in parte ancora innevata, più pratico farlo verso la fine, negli ultimi 300 chilometri, quando Ryan e Rino hanno camminato e corso nella giungla, con temperature che superavano i 30 gradi. Per trovare la motivazione in quei 25 lunghi giorni Ryan si è inventato degli obiettivi giornalieri, ragionando step by step, ma non è sempre stato facile.

L’altro aspetto che ha reso difficile il Great Himalaya Trail, soprattutto nella prima parte, è stato l’orientamento. Faceva freddo e il percorso era ancora in parte ricoperto dalla neve. «Ci siamo affidati al GPS, ma di tanto in tanto dovevamo fermarci dieci minuti per ritrovare la traccia; abbiamo calcolato che ogni giorni, in media, perdevamo fino a tre ore per orientarci e in una di queste pause Ryno si è procurato il congelamento di alcune dita della mano perché siamo saliti fino a 5.500 metri di quota con temperature di - 15 gradi e il vento che accentuava la sensazione di freddo».
Quella del cibo è stata la sfida nella sfida. Per scelta e per alleggerire gli zaini è stato deciso di fare tutto il Great Himalaya Trail procurandosi da mangiare lungo il percorso, come dei normali turisti: acquistandolo o facendosi ospitare dai locali. Solo in tre punti c’è stata la possibilità di cambiare gli zaini e i vestiti e nelle tasche trovava spazio qualche barretta, gel o lattina di Red Bull. «Alla fine il mio corpo mi diceva che non ne poteva più di quell’alimentazione e sono stato male un paio di giorni: i nostri pasti consistevano di frittata, riso e lenticchie quando avevamo la fortuna di essere ospiti, oppure di biscotti e cioccolato comprati alle bancarelle e non era proprio l’ideale durante una traversata di 1.500 chilometri».
La mattina del 19 marzo, a 40 chilometri da Patan, Griesel ha iniziato a soffrire di spasmi muscolari nella zona del torace ed è andato in iperventilazione. «Ho veramente temuto che da un momento all’altro cadesse a terra sul sentiero: aveva i battiti del cuore molto alti e la febbre» ricorda Ryan. Mai come in questo momento la fine dell’avventura è stata vicina. «Da una parte non avrei mai voluto che Ryno avesse dei problemi seri di salute, dall’altra so quanto ci teneva a portare a termine il Great Himalaya Trail e che il ritiro sarebbe stata la più brutta notizia per lui, è stato il momento più difficile per tutti». Ci sono mali fisici e mentali e i fantasmi hanno iniziato a popolare il cervello di Ryan. «Ho iniziato a pensare a mio figlio di 19 mesi e a come fosse cresciuto durante questi 24 lunghissimi giorni: quanto mi fossi perso!». Per non farsi mancare nulla, negli ultimi giorni Ryan si è anche imbattuto in una gang locale che, nella notte, li ha inseguiti tra le montagne, anche con le luci delle frontali spente, fino a quando i due non sono arrivati a una locale stazione della polizia. Questo ultimo contrattempo non ha impedito l’arrivo a Pashupatinagar, sul confine con l’India, alle prime luci dell’alba del 25 marzo.
Tre mesi dopo la grande avventura rimangono un centinaio di chilometri in più non preventivati, il messaggio di congratulazioni di Lizzy Hawker, tante energie, la velocità delle gambe ancora da recuperare. E la consapevolezza di avere vissuto 24 giorni che hanno cambiato le vite di Ryan e Ryno.

Il Great Himalaya Trail
Il Great Himalaya Trail (GHT) non è un vero e proprio sentiero ma una combinazione di itinerari. Quello seguito da Ryan Sandes e Ryno Griesel ha comportato la partenza da Hilsa, al confine con il Tibet, e l’arrivo a Pashupatingar, dove il Nepal confina con l’India, lungo la direttrice da Ovest a Est. Le stime prevedevano 1.400 chilometri e 70.000 metri di dislivello, ma alla fine la lunghezza totale è stata superiore di poco più di 100 chilometri. Questo percorso è quello seguito dal sudafricano Andrew Porter nell’ottobre 2006 e portato a termine in 28 giorni, 13 ore e 56 minuti. Ryan e Ryno si sono consultati a lungo con Andrew e sono passati da 12 precisi checkpoint che coincidevano con quelli di Porter. Cinque semplici regole hanno dato un senso all’impresa: autonomia nell’orientamento e nell’alimentazione, acquistando il cibo lungo il percorso o facendosi ospitare dai locali, nessun uso di sherpa e muli, pernottamenti all’aperto o nei lodge e nelle case per non appesantire lo zaino, utilizzo di una compagnia di trekking locale per cambiare gli zaini in tre occasioni e l’assistenza per i permessi. Il sito di riferimento per il Great Himalaya Trail, con tutte le informazioni utili per chi volesse percorrere anche solo una parte del GHT, è www.greathimalayatrail.com
I 12 checkpoint
- Hilsa
- Simikot - km 77
- Gamgadhi - km 150
- Jumla - km 193
- Juphal - km 280 o Dunai - km 290
- Chharka Bhot - km 380
- Kagbeni - km 444
- Thorang La Pass - km 463
- Larkya La Pass - km 561
- Jiri - km 928
- Tumlingtar - km 1.075
- Pashupatinagar - km 1.504
Gli altri record
- Sean Burch (UK): 2010 - 49 giorni, 6 ore, 8 minuti (2.000 km - da Est a Ovest, combinazione dell’High e del Cultural GHT).
- Lizzy Hawker (UK): 2016 - 42 giorni, 2017 - 35 giorni (circa 1.600 km - da Est a Ovest - prevalentemente sulla High GHT Route, evitando i tratti tecnici che richiedono passi di arrampicata).
I NUMERI
- 70 km la lunghezza minima delle tappe giornaliere
- 120 km la lunghezza massima percorsa al giorno
- 500 m il dislivello minimo giornaliero
- 000 m il dislivello massimo giornaliero
- 124 palle di riso mangiate
- 43 palle al curry
- 300 barrette di cioccolato
- 600 cookie
- 46 donuts
- 2 pizze
- 24 lattine di Red Bull
- 3 ore di sonno a notte in media
- 2 le volte che Ryan e Ryno hanno potuto lavarsi i denti
- 0 le docce fatte lungo il percorso
- 24 giorni, 4 ore, 24 minuti il tempo fatto registrare da Ryan Sandes e Ryno Griesel
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 119, INFO QUI

Prova a prendermi
Questo pomeriggio alle 17 sul nostro account Instagram saremo in diretta con François Cazzanelli. Per ripassare l'argomento, ecco l'intervista pubblicata lo scorso agosto su Skialper. Ma da allora François non si è fermato...
Mentre camminiamo ai piedi del Cervino, su quei prati e quelle pietraie che in inverno vedono sfrecciare centinaia di migliaia di sciatori, François si ferma e si china. Raccoglie un pezzo di carta, poi uno di plastica, poi ancora il tappo di una bottiglia di vino. «Fai una fotografia alla mano con questi rifiuti? Ogni volta che salgo in montagna raccolgo quello che trovo e a fine stagione voglio fare un post con tutte le foto: si parla tanto di rifiuti e di inquinamento, ma se ognuno di noi iniziasse a raccogliere quello che trova, la montagna sarebbe più pulita». François Cazzanelli, classe 1990, è in quel momento della sua carriera alpinistica in cui succedono tante cose. L’ultimo anno è stato un susseguirsi di colpi di scena. Prima il record delle quattro creste del Cervino, a settembre, con Andreas Steindl: 16 ore e 4 minuti per polverizzare il tempo di 23 ore di Kammerlander – Wellig del 1992. Poi, un paio di settimane dopo, la nuova via Diretta allo Scudo sulla parete Sud del Cervino, aperta con Emrik Favre e Francesco Ratti. Un sogno iniziato dal padre, anche lui Guida alpina, e sul quale François metteva gli occhi dal 2012, alla ricerca di una soluzione nella parte più ripida. Poi a fine maggio la doppia ascesa sulla vetta del Denali, in Alaska, in una settimana, con la terza ripetizione italiana della difficile Cresta Cassin, in velocità: 26 ore e 45 minuti dal campo 4, 18 ore e 58 dalla terminale. Una linea che di solito viene chiusa in diversi giorni. In mezzo altre imprese che non fanno record, ma curriculum: il Mount Vinson, in Antartide, a gennaio; la traversata integrale estiva delle Grandes Murailles con Kilian Jornet in 11 ore; il tentativo di traversata invernale delle creste della Valtournenche, dal Theodulo alle Petites Murailles, passando per il Cervino. Ce n’è per gonfiarsi il petto, invece la ricetta Cazzanelli parte dal basso, dal rispetto e dall’umiltà.
IL CERVINO CI GUARDA, CHE COSA RAPPRESENTA PER FRANÇOIS CAZZANELLI?
«È la mia scuola di vita, la mia fonte d’ispirazione, mi ha formato: quello che ho imparato qui mi ha permesso di raggiungere le vette di tutto il mondo».
È UN SIMBOLO, UN PO’ COME L’EVEREST, DOVE SEI SALITO L’ANNO SCORSO. E, IN SCALA DIVERSA, PRESENTA GLI STESSI PROBLEMI DI AFFOLLAMENTO.
«Guarda, devo essere sincero, io questi problemi di affollamento e di sporcizia di cui si parla tutti i giorni, come pure le storie di morti appesi alle corde da anni, le ho trovate un po’ esagerate. Per quanto riguarda le file va però detto che l’anno scorso la finestra di tempo era stata più ampia. In vetta sono arrivato con l’astronauta Maurizio Cheli, con l’ossigeno perché dovevo garantire la sicurezza del cliente, poi qualche giorno dopo il Lhotse, con Marco Camandona, l’abbiamo raggiunto senza bombole e in stile alpino. Credo che non sia giusto criticare i nepalesi per il business dell’Everest. Sull’Everest per ogni cliente lavorano tre nepalesi, ciò significa permettere a tre famiglie di mangiare. Anche sul Cervino, fin dall’inizio, già nei sogni di Carrel, l’obiettivo era quello di aprire una via dove poter accompagnare i clienti, portando così ricchezza alla propria valle. Anche qui stiamo razionalizzando l’accesso, abbiamo ridotto i posti letto alla Capanna Carrel per migliorare la sicurezza e mantenere pulita e in ordine la nostra montagna. A differenza del Monte Bianco, nulla è vietato. Ripulendola ho trovato perfino un assorbente sotto i materassi che era lì da chissà quanto tempo. Se vogliamo criticare il sistema Everest, allora per essere coerenti dobbiamo togliere le corde fisse dal Cervino».
QUANTE VOLTE SEI STATO IN VETTA AL CERVINO?
«L’ultima ieri, e fanno 68. Una media di 11-13 a stagione, l’anno scorso 18 volte grazie al concatenamento delle quattro creste. Il numero è un valore relativo, quello che mi piace sottolineare è che ci sono salito da 15 vie diverse».
DAL CERVINO AL DENALI, L’ULTIMA STELLA SULLA TUA GIACCA. RACCONTACI COME È ANDATA E PERCHÉ SIETE SALITI DUE VOLTE IN VETTA.
«Le due salite in una settimana sono la ciliegina sulla torta, ma onestamente non ci contavo. Quando il 22 maggio siamo arrivati al campo 4, ci hanno comunicato che la finestra meteo favorevole sarebbe stata di sole 24 ore; a quel punto con Francesco Ratti abbiamo deciso di fare un giro di perlustrazione sulla West Rib per vedere l’attacco della Cassin. Poi, arrivati al colle, avevamo un mare di nubi sotto di noi e sopra il bel tempo, così siamo saliti fino in vetta, dopo 9 ore di scalata, alle otto di sera».

E LA CRESTA CASSIN?
«La salita vera e propria l’abbiamo fatta il 28 maggio, sempre con Francesco. Siamo partiti presto con Teto e Roger, poi loro hanno proseguito sulla West Rib. Siamo scesi per la Seattle Rump e in 4 ore e 20 minuti eravamo alla base della via. Dieci minuti per preparare il materiale e rifocillarci e poi via. Le condizioni al Japanese Couloir non erano delle migliori, c’era parecchio ghiaccio, ma siamo riusciti a cavarcela velocemente. La traccia delle due cordate davanti a noi ci ha aiutato parecchio e in poche ore siamo arrivati al ghiacciaio pensile. La prima rock band ci ha riservato un’arrampicata splendida, mai difficile e molto divertente. Arrivati in cima abbiamo superato le altre due cordate: una stretta di mano, un po’ di incoraggiamenti reciproci e poi su verso la seconda rock band. Abbiamo trovato agilmente il couloir nascosto e lo abbiamo superato. In cima a questo tratto, a circa 5.000 meri, ci siamo fermati a mangiare qualcosa. Il passaggio successivo era superare la terza rock band, ma è stato più difficile: per i successivi 400 metri avremmo dovuto tracciare la via con la neve alle ginocchia. La notte stava arrivando e abbiamo deciso di fermarci due ore a riposare e bere dentro la tendina monotelo. Alle due del mattino è venuta l’ora dell’attacco alla vetta. Faceva molto freddo, circa -36 con vento a 45 chilometri orari. Gli ultimi 700 metri sono stati difficilissimi. Stringendo i denti, finalmente alle 7 del mattino eravamo al sole e in vetta».
RIPENSANDO A QUEI GIORNI, QUAL È STATA LA CHIAVE DEL SUCCESSO?
«La strategia, la strategia di non rimanere per lunghi giorni nel gelo del campo 4, ma di attrezzarlo e poi tornare a valle, all’aeroporto, a quota 2.170 metri, dove la vita è più agevole e abbiamo potuto regalarci anche qualche comodità in più, dai grandi pannelli solari per alimentare l’attrezzatura alle pizze per festeggiare la prima salita in vetta».
LE PIZZE, CROCE E DELIZIA, SAPPIAMO CHE NE VAI GHIOTTO.
«È vero, in Alaska siamo diventati amici dei piloti e siamo riusciti a farcene portare quattro nei cartoni, poi le abbiamo scaldate su dei fogli di alluminio con il fornelletto, devo dire che non erano niente male».
COME AVETE DECISO LA STRATEGIA DI RIMANERE IL MENO POSSIBILE AL CAMPO 4?
«Me l’ha suggerita Andreas Steindl, compagno di avventura sulle quattro creste del Cervino, che era già stato al Denali. C’è una considerazione però che va oltre questa strategia: è stata possibile grazie alla nostra velocità. Mi spiego meglio: la prima volta, dall’aeroporto al campo 4, con pesanti zaini sulle spalle, ci abbiamo messo 8 ore e 45 minuti. Abbiamo dormito lì due notti e siamo rientrati a valle. Quando siamo saliti in vetta per la West Rib ci abbiamo impiegato 6 ore e 30 minuti e abbiamo dormito una sola notte al campo 4. Infine quando siamo saliti per la Cresta Cassin ci abbiamo impiegato solo 4 ore e 20 minuti. E sono 24 chilometri da 2.170 a 4.327 metri di quota».
LA VELOCITÀ È TUTTO?
«La velocità non è fine a se stessa, ma è una qualità. E in questo caso è stata una qualità vincente».

LA VELOCITÀ PRESUPPONE LA LEGGEREZZA, COSA AVETE USATO SULLA CRESTA CASSIN?
«Ramponi, piccozze, una corda da 35 metri, una serie di friend, una tenda monotelo, una bombola di gas, un fornello, due sacchi da bivacco, cibo e naturalmente abbigliamento imbottito in piuma».
PERCHÉ LA TUA CARRIERA ALPINISTICA È STRETTAMENTE LEGATA AL CONCETTO DI FAST & LIGHT?
«Forse perché arrivo dalle gare di scialpinismo. Così ho iniziato a fare delle gite e delle alpinistiche con gli amici e mi sarebbe piaciuto tornare da solo, in libertà, veloce e senza pensieri. È un alpinismo che mi appaga molto e mi fa sentire libero».
È UNA DOMANDA BANALE, MA IL CONCETTO DI VELOCITÀ È STRETTAMENTE LEGATO A QUELLO DI TEMPO. CHE COSA È PER FRANÇOIS CAZZANELLI IL TEMPO?
«Nonostante le polemiche sui record e la loro omologazione, credo che rimanga comunque un fattore immediatamente tangibile, anche nell’alpinismo dove ci sono altri aspetti da tenere in considerazione».
E IL RISCHIO?
«Il rischio c’è, in montagna come nella vita, ma credo che sia relativo. Relativo alla propria esperienza, allo stato di forma, alla tecnica, a tanti fattori».
LA VELOCITÀ È UN FATTORE DETERMINANTE, MA ANCHE L’ALLENAMENTO. IN UN POST HAI SCRITTO CHE LA CRESTA CASSIN È STATA POSSIBILE PERCHÉ VI SIETE PREPARATI METICOLOSAMENTE TUTTO L’INVERNO. COME TI ALLENI?
«Mi alleno semplicemente andando in montagna, in estate con roccia, corsa e mountain bike, in inverno con ghiaccio, alpinismo e soprattutto lo scialpinismo. Con mio cugino Stefano Stradelli mettiamo sempre in programma quattro-cinque gare, poi magari ne aggiungiamo altre se riusciamo. Quest’anno abbiamo fatto, tra le altre, la Pierra Menta e il Mezzalama. Però non ho un preparatore atletico e non ho fatto qualcosa di particolare questo inverno rispetto agli altri, vado molto a sensazione. Quello che volevo dire con quel post è che nulla arriva per caso. Dietro alle imprese c’è tanto studio della via, tanta preparazione fisica ma anche tanta attesa della finestra giusta. Come atleti e alpinisti abbiamo una grande responsabilità, i nostri exploit vanno spiegati, altrimenti in tanti, per imitazione, metteranno le scarpe da trail per andare in vetta al Cervino. Facendo la Guida vedo troppa improvvisazione, troppe persone impreparate per quello che stanno affrontando».
DOPO IL TANDEM CON MARCO CAMANDONA, IL TUO TALENT SCOUT NELLO SCIALPINISMO, SI È FORMATO QUELLO CON FRANCESCO RATTI…
«Con Francesco mi trovo molto bene in montagna abbiamo la stessa maniera di valutare i rischi e pericoli. Il tentativo di traversata delle creste della Valtournenche di questo inverno lo dimostra. Con Camandona ho un rapporto speciale, per me è come un secondo papà e mi ha insegnato molto. Con lui siamo stati al Churen Himal, al Kangchenjunga, all’Everest e al Lhotse e a settembre ripartirò per l’Himalaya».
RACCONTACI DI PIÙ DELLA TRAVERSATA INVERNALE DELLE CRESTE.
«A febbraio siamo partiti dal Theodulo con l’idea di attraversare il Furggen, il Cervino (salendo la via degli Strapiombi di Furggen), salire la Dent D’Hérens, le Grandes Murailles e le Petites Murailles. Sulle creste delle Murailles l’esposizione cambia continuamente e non c’erano le condizioni, diventava pericoloso e la stanchezza aumentava, abbiamo deciso di rinunciare: quelle montagne le abbiamo qui sopra casa e sarebbe stato stupido proseguire, bisogna anche sapere rinunciare».
E QUELLA ESTIVA CON KILIAN? COME È NATA?
«Mi ha chiamato lui, era in Valle d’Aosta. Ci conosciamo dai tempi delle gare e siamo entrambi amici di Mathéo Jaquemoud, lo siamo stati anche nei momenti difficili, quando Mathéo era in crisi e non andava. Sulle difficoltà alpinistiche andavamo bene, sulla corsa, soprattutto in discesa, qualche volta mi ha staccato. Alla fine però, quando avevo una gran sete, ho visto che anche lui iniziava a essere stanco e appena ha trovato una fontana si è messo a bere e a rinfrescarsi. Ci siamo trovati bene, mi piacerebbe fare ancora qualcosa questa estate».
COME È NATA L’IDEA DELLE QUATTRO CRESTE DEL CERVINO?
«In vetta, con Andreas ci incontriamo spesso alla croce del Cervino, così abbiamo unito i nostri progetti».
L’HIMALAYA, COME PER LO SCI RIPIDO, È LA PROSSIMA FRONTIERA DEL FAST & LIGHT?
«Credo che la storia dell’alpinismo sia fatta di corsi e ricorsi storici. Ci sono state le fasi di scoperta e poi le ripetizioni più veloci delle vie. È chiaro però che oggi il mix di preparazione ed evoluzione dei materiali consenta nuovi exploit e credo che in Himalaya ci siano tante possibilità».
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 125, SE VUOI RICEVERE COMODAMENTE A CASA TUA SKIALPER, ABBONATI

New Gore-Tex Pro, 3 in 1
«Non esiste il brutto tempo, piuttosto abbigliamento inappropriato» ha detto Ranulph Fiennes, uno dei più grandi - se non il più grande - esploratori viventi. Non si può non essere d’accordo in un’epoca che ci propone il materiale e lo strato giusto per ogni attività e temperatura. Lo penso mentre, insieme a un selezionato gruppo di giornalisti provenienti da tutto il mondo, sto camminando nella neve profonda, con i ramponi ai piedi, sopra a Lake Louise, Alberta, Canada. Abbiamo addosso una giacca rossa che utilizza il nuovo Gore-Tex Pro, che sarà in vendita dall’autunno-inverno 2020. Il risultato finale, almeno con le condizioni meteo di oggi - nevischio, temperatura intorno agli zero gradi – non fa una grinza. La gestione dell’umidità lungo i 10 chilometri e 550 metri di dislivello ha funzionato, aiutata anche dalle pratiche zip di ventilazione sottomanica. Aprendole nei momenti più intensi della salita e poi richiudendole nelle pause o in discesa l’interno della giacca è asciutto. Fuori le goccioline scivolano via e l’acqua non passa. Ieri, esposti al vento forte della vetta del monte Ha Ling, abbiamo potuto constatare che la giacca è anche perfettamente sigillata e mette una barriera impenetrabile tra il corpo e il vento. Camminando, forzando il passo, ma anche facendo qualche passo di arrampicata, non sembra di avere addosso un guscio hard shell perché la libertà di movimento, soprattutto all’altezza delle spalle, è molto buona. Dopotutto sono le principali caratteristiche del nuovo Gore-Tex Pro, che propone tre diversi laminati: Gore-Tex Pro massima traspirabilità, Gore-Tex Pro stretch e Gore-Tex Pro massima resistenza. In pratica, a differenza del Gore-Tex Pro attualmente in commercio, che prevede un unico laminato, per i produttori sarà possibile combinare i tre prodotti nelle diverse aree delle giacche per ottenere parti più traspiranti, più resistenti all’abrasione o elastiche. «Se l’obiettivo è l’arrampicata, si potrebbero volere proprietà elastiche dietro a spalle e braccia, più robustezza ai gomiti e sopra le spalle, e la massima traspirabilità sul busto – dice Marc McKinnie, product specialist di Gore-Tex Pro. Per lo sci alpino, invece, la massima resistenza del laminato può avere la precedenza su traspirabilità ed elasticità».
A conti fatti una piccola rivoluzione. Il risultato finale, che dipende naturalmente anche dal design dei singoli gusci, da una intelligente scelta degli strati da indossare e che ci riserviamo di mettere alla prova più intensamente durante tutta la stagione, è lì, ma rappresenta il punto di arrivo di un percorso lungo. Davanti a me, in fila indiana, ci sono Tamara Lunger, Stefan Glowacz e Greg Hill. Per i lettori di Skialper non hanno bisogno di presentazioni. Rappresentano una selezione del meglio in termini di avventura ed esplorazione. Scalando, sciando o attraversando le desolate solitudini della Groenlandia e della Penisola di Baffin. Stefan ha provato tra i primi in condizioni estreme il nuovo Gore-Tex Pro proprio a Baffin. Un passato nell’arrampicata sportiva, oggi è la grande avventura la sua passione. Tamara si è spinta nei luoghi più freddi della terra e Greg per raggiungere e sciare le cime del Nord America deve ravanare per ore tra rovi e boschi per poi strisciarsi su rocce dure e appuntite. Ma quando il nuovo Gore-Tex Pro è arrivato a loro erano comunque uno degli ultimi – ma non meno importanti – ingranaggi della catena, anche se proprio dai loro input si è partiti per creare il nuovo laminato perché Gore-Tex Pro è pensato per utilizzatori di alto livello: atleti, professionisti, scialpinisti, alpinisti, su roccia e su ghiaccio.

Scienza del comfort. Si chiama così l’ombelico da cui nasce tutto. Esistono strumenti per misurare ogni aspetto di come un vestito fascia il nostro corpo e lo scalda. Ma la definizione più difficile è proprio quella del comfort stesso. «Il corpo umano percepisce solo la mancanza di comfort ed è da qui che in realtà si parte» dice Ray Davis che nella sede di Landenberg, in Pennsylvania, è il responsabile della divisione che all’interno di Gore-Tex si occupa di comfort science. Sono quattro i fattori che influenzano la mancanza di comfort, quello termico piscologico (la percezione del calore o meno), quello puramente piscologico, quello ergonomico e sensoriale. E per ogni categoria di prodotti e utilizzatori Ray Davis e i suoi uomini stanno cercando di trovare la giusta ricetta, per garantire comfort e prestazioni. Si testa in laboratorio, sulle persone, ma anche sui manichini. I test termici e non termici vengono effettuati in un’area di più di 300 metri quadrati. La rain tower può gestire temperature tra + 5° C e + 25° C con venti da 0,4 a 5 metri/secondo e fino a 150 mm/ora di pioggia. C’è anche un’area di 150 metri quadrati dove la temperatura può essere portata da – 50° C a + 50° C, con umidità relativa tra il 10% e il 95% e radiazioni solari simulate fino a 1.100 Watt/metro quadrato. Con i sensori si arriva a mappare il corpo e le singole parti per creare delle mappe termiche, ma i sensori misurano anche la pressione esercitata: meno ce n’è, più i movimenti sono liberi. La percezione di limitazione dei movimenti con il nuovo Gore-Tex Pro è stata ridotta in maniera significativa, con valori che sono passati da circa il 55% a poco più del 40%. Sulla nostra giacca le parti elastiche si concentrano sul retro, dietro le due spalle. Le parti più resistenti sono proprio sulle spalle e sule maniche. La resistenza del nuovo Gore-Tex Pro è stata testata anche con il temibile 5 finger scratch test che prevede che cinque puntali di metallo scorrano a lungo su e giù per misurare l’abrasione nel tempo.
Alla base del comfort termico ci sono sempre tre elementi: il corpo umano, l’abbigliamento e l’ambiente. Il corpo produce calore e umidità e si raffredda dopo l’esercizio fisico, soprattutto se sudato. Il resto lo fanno l’isolamento termico e la traspirabilità dei vestiti, la temperatura esterna, il sole, l’ombra. Per misurare la traspirabilità, oltre ai test sul campo, si utilizza un macchinario con una piastra calda (35° C) sulla quale viene steso il materiale e sopra c’è un flusso d’aria a 23° C con umidità relativa del 50%. Questo secondo la norma ASTM F1868, mentre per quella ISO 11092 tra la piastra e la membrana c’è un tessuto traspirante inumidito (che determina un’umidità relativa del 100%) e il flusso d’aria è a 35° C con umidità relativa del 40%. In questo secondo test Gore-Tex Pro massima traspirabilità è stato classificato con i migliori valori RET possibili, inferiori a 6 (estremamente traspirante), mentre gli altri due laminati Pro sono nel range appena sotto (tra 6 e 13, molto traspiranti).

Sotto di noi le acque di Lake Louise sembrano quelle di una laguna blu. Il colore è il risultato delle microparticelle di polvere delle rocce del Mount Victoria trasportare dalle acque. Difficile non pensare che ogni nostra azione, oggi, può avere effetti su quelle acque simbolo della natura più pulita, che ogni gocciolina che scivola via dai gusci finirà lì. «I valori del rispetto dell’ambiente e delle condizioni di lavoro fanno parte del DNA di WL Gore & Associates da quando è stata fondata nel 1958 da Bill e Vieve Gore, ma è chiaro che non si può rimanere fermi e da una parte le ricerche scientifiche ci permettono di avere più risposte sull’effetto inquinante di prodotti e cicli, dall’altra il progresso aiuta a produrre materiali meno inquinanti» mi dice Bermard Kiehl, a capo del team che si occupa di sostenibilità in Gore. Tra le certificazioni Gore-Tex ci sono Bluesign (che assicura che i prodotti sono realizzati in modo sostenibile) e Oeko-Tex Standard 100 (che garantisce che i materiali non sono dannosi per la salute) e con la fine dello scorso mese tutti gli stabilimenti sono stati certificati ISO 14.001, ma le sfide per l’immediato futuro sono ambiziose. Molto ambiziose. Gore ha sottoposto i propri prodotti all’analisi del ciclo di vita (LCA – Life Cycle Assessment) per valutare gli effetti dalla culla alla tomba, dalle materie prime utilizzate, alla produzione, fino al fine vita. Nel 2018 sono stati introdotti dei prodotti con un trattamento DWR (durable water repellent, quello che fa scivolare via le goccioline dalla superficie dei gusci) senza PFC (composti perfluorati) di rilevanza ambientale che alcuni studi hanno dimostrato che non si degradano nell’ambiente e si accumulano negli organismi viventi. La sfida riguarda proprio le membrane e le tecnologie di prodotto per utilizzi intensi e professionisti sono ancora escluse perché in Gore non ritengono di avere trovato un’alternativa sufficientemente performante. «Su questo aspetto abbiamo negoziato a lungo i nostri obiettivi con il WWF – World Wildlife Found e ci siamo posti l’obiettivo di eliminare completamente i PFC di rilevanza ambientale entro il 2021-2023» dice Bernard Kiehl. Già con il nuovo Gore-Tex Pro sono stati raggiunti altri risultati dal punto di vista ambientale. La tintura in massa ha permesse di risparmiare l’utilizzo di acqua e ridurre le emissioni nell’ambiente prodotte dall’utilizzo di energia. Per ogni metro di Gore-Tex Pro massima traspirabilità e massima resistenza vengono risparmiati più di dieci litri di acqua per la superficie tessile e quasi tre per il rivestimento interno e rispettivamente di 71,7 e 20,5 chili le emissioni di CO2. «Il materiale alla base del Gore-Tex, ePTFE, invece, non è tossico, è molto stabile, non degrada nell’ambiente per diventare un PFC di rilevanza ambientale» conclude Kiehl. Se finisce nell’ambiente dunque ci rimane, ma non fa danni. Che sia questa la sfida successiva, una membrana non tossica e biodegradabile?
WL. Gore & Associates ha compensato le emissioni di CO 2 prodotte da tutti i voli diretti verso Banff, dove è stata presentato il nuovo Gore-Tex Pro, per un totale di 80.359 chili, con l’acquisto di certificati Atmosfair (atmosfair.de). I progetti sostenuti da Atmosfair con i proventi della compensazione di emissioni comprendono 31 cucine in Nigeria, un anno di fornitura elettrica da fonti rinnovabili per cento abitazioni in India e sei impianti a biogas per abitazioni in Kenia.

Eric delle montagne
All’inizio di marzo del 2001 una marea umana di uomini senza diritti partiti dal Chiapas entra a Citta del Messico dopo avere attraversato 12 stati e percorso oltre 3.000 chilometri. È la grande marcia del subcomandante Marcos. Le centinaia di migliaia di persone avanzano lentamente, al ritmo della musica sparata a palla da un camion. Su quel camion ci sono i 99 Posse, band napoletana, ed Eric Girardini, venticinquenne di Lentiai, in provincia di Belluno. Festeggia gli anni proprio in quei giorni e fa parte delle oltre duecento tute bianche antiglobalizzazione italiane che assicurano il servizio d’ordine. Cosa ci faceva una Guida della Scuola delle Aquile di San Martino nel cuore della marcia zapatista a Città del Messico? La storia è un po’ lunga…

Per raccontarla e per conoscere meglio Eric Girardini, siamo andati a fotografarlo nel cuore delle Pale di San Martino, il suo regno. L’articolo è su Skialper 128 di febbraio-marzo. Con Diego Dalla Rosa, Hermann Crepaz ed altri è stato tra i primi a usare gli sci larghi da quelle parti. Il curriculum di Eric è di tutto rispetto, anche se non è un tipo che ama stare lì a snocciolarti le sue prime, non gli interessa. Forse perché, come Diego Dalla Rosa, lo fa per se stesso. «E poi da noi è difficile nello sci dire se è veramente la prima discesa, anche se sono sicuro che con Hermann e Diego ne abbiamo fatte molte, comunque possiamo dire di avere fatto belle linee con il nuove tra virgolette. Ai Vani Alti c’è forse il canale più estetico, simile all’Holzer, incassato e chiuso, esposto a Nord. Poi ricordo la Cima di Ramezza, sulle Vette Feltrine, la parete Nord del Colbricon italiano. Ah, dimenticavo, la Nord del Piz de Sagron, nelle Vette Feltrine, è stata forse il nostro apice. Probabilmente è una prima, ci sono solo notizie vaghe di una discesa di Mauro Rumez, ma non si sa con precisione se abbia sciato quella parete». Appuntamento su Skialper 128 di febbraio-marzo.

François D’Haene, in vino veritas
È di questi giorni la notizia che François D'Haene ritornerà all'UTMB nel 2020. Noi siamo andati a trovarlo a casa sua dopo l'ultima, indimenticabile, vittoria nel 2017, davanti a Kilian Jornet. L'articolo è stato pubblicato sul numero 115 di Skialper.
Non è vero, ma ci credo. Oppure, se volete, non ci credo, ma è vero. A volte le coincidenze sono solo coincidenze, ma nel caso di François D’Haene potrebbero non esserlo e c’è un sottile filo magico che lega i suoi successi a un luogo: Domaine du Germain, comune di St.-Julien-en-Beaujolais, dipartimento del Rodano. Dopotutto ci troviamo a pochi chilometri da Lione, che con Torino e Praga forma un noto triangolo dell’esoterismo. La terra rossa argillosa di queste colline famose per il loro vino allegro e fruttato sembra avere avuto un magnetismo positivo sulla vita e la carriera sportiva del più forte ultra-trailer del mondo. François e la moglie Carline hanno completamente cambiato le loro vite nel 2012 quando hanno messo tra parentesi le precedenti occupazioni per prendere in affitto le vigne della famiglia di Carline. Da fisioterapista e vignaiolo. Da atleta di buon livello a trail runner più forte del mondo. Guarda caso Il 2012 è il primo dei cinque anni magici. Cinque - altro legame esoterico - come i tralci di ogni vigna di Gamay che possono essere potati ogni anno secondo il contratto di affitto firmato da François e Carline. Prima una bella carriera, con il terzo posto alla CCC del 2006, il podio sfiorato a La Reunion e ai Templiers, il secondo posto alla TNF Australia. Risultati che ognuno di noi farebbe carte false per ottenere, per carità. Ma manca quel numero - uno - nelle gare che contano veramente. Sei uno tra i tanti. Poi improvvisamente nel 2012 arriva la vittoria all’Ice Trail Tarentaise e all’UTMB, il secondo posto all’Endurance Challenge 50 in California, nel 2013 la vittoria alla 80 km du Mont Blanc e alla Diagonale des Fous, nel 2014 il trittico Mt Fuji, UTMB e Diagonale, nel 2016 ancora la Diagonale e la Hong Kong 100, nel 2017 Madeira, Maxi Race d’Annecy e soprattutto l’UTMB dei record, quella che lo consacra, se ci fosse stato ancora bisogno di una prova, come il più forte ultra-trailer del mondo. Di sempre. Questo paesino di 800 abitanti, questo domaine con le case di pietra rossa e le vigne basse sembra essere il primo segreto dei successi di Dr Jekyll & Mr. D’Haene. Chi lo ha frequentato nei giorni di gara ha conosciuto Dr Jekyll. Di poche parole, quasi altero, quasi burbero. Non è uno dei simpaticoni della tribù del trail, vive nel suo mondo. Si dice che questa primavera, a Madeira, non sapesse che aspetto avesse Pau Capell che doveva tenere d’occhio perché era uno degli avversari più pericolosi. Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo au calme, al domaine, ha conosciuto il vero Mr. D’Haene: molto ospitale, simpatico, spontaneo, semplice e con due valori sopra a tutti: la famiglia e la condivisione. Condivisione delle esperienze e dei piaceri della vita con gli amici. Quegli stessi amici che lo hanno accompagnato nel record del GR 20 o sul John Muir Trail e che vengono ad aiutarlo a vendemmiare. Chi lo conosce bene dice che Mourinho non è tanto diverso: burbero fuori, amico in famiglia e con la squadra. Forse sono le virtù dei vincenti.

Giovedì 9 novembre, ore 10 in punto. In una uggiosa mattina autunnale passiamo Lione e lasciamo l’autostrada per spingerci verso le colline. Superiamo un paesino che sembra uscito da una cartolina, con una mairie mignon ma impeccabile nel suo abito, con tre bandiere tricolori a sventolare. Imbocchiamo una stradina di campagna. Il cartello dice Domaine du Germain. Tutto intorno solo vigne basse, con le foglie gialle e rosse. Ci sono quattro o cinque casette di pietra rossiccia. Nessun citofono, nessun cognome. Proviamo a salire su una stretta e lunga scala. Suoniamo il campanello. Si apre una porticina e, chinando il capo, esce un gigante. «Bonjour François».
La prima domanda è d’obbligo, che bottiglia hai aperto per festeggiare la vittoria all’UTMB?
«Tutte».
L’UTMB 2017 ti ha cambiato la vita. C’è un prima e un dopo?
«Sicuramente, sono più conosciuto. Nei giorni scorsi ero ospite a Grenoble Montagne e hanno dovuto aggiungere 400 sedie. Qui in paese però non è cambiato molto. Mi conoscono tutti e si sono sempre interessati ai risultati alle gare. Con tanta passione. C’è gente che non sa cosa sia la corsa e il trail, ma ha seguito ora per ora l’UTMB e quando mi incontra, magari seduta sul trattore, mi fa cento domande».
Al Domaine c’è tanta pace, un’atmosfera molto diversa dalle gare, come vivi questo contrasto?
«Sono solo alcuni giorni o ore, poi torno qui, fa parte del gioco. In tanti mi chiedono informazioni o autografi, ma trovo che oggi ci sia soprattutto questa mania del selfie, li vedo tutti pronti con quel braccio allungato, sorridenti».
E poi non sempre c’è la folla e la pressione dell’UTMB…
«Alle gare con poca gente le persone hanno più tempo per chiederti un selfie e parlare, c’è meno frenesia, nel bene ma anche nel male, preferisco l’UTMB. Però quello che trovo difficile da accettare è la superficialità. Da fuori sembra tutto facile, diventa tutto banale. Tra l’UTMB e la Diagonale des Fous mi ha chiamato Xavier Thévénard. Voleva chiedermi come mi ero trovato a fare la Diagonale dopo l’UTMB perché non si sentiva in forma, voleva capire se aveva senso per un top provare due cento miglia così vicine a fine stagione. Poi è andata come è andata e ho sentito gente dire che ha accettato l’invito solo per farsi una vacanza. Ma come si può pensare che uno come lui che ha scritto la storia dell’UTMB abbia bisogno di questi espedienti per andare a farsi una vacanza?».
Jim Walmsley all’UTMB scappava via e poi vi aspettava ai posti di rifornimento, è vero?
«Sì, arrivava magari con tre minuti di vantaggio, sulle discese andava a tutta e poi voleva ripartire con noi per non tirare da solo. Forse questa strategia lo ha un po’ prosciugato, ma in realtà credo che si sia davvero trattenuto, secondo me è solo una questione di tempo, e non di chilometri, fino a 12-13 ore conosce bene il suo fisico e le sue reazioni, oltre no».
Mentre parliamo attorno all’isola della grande cucina di casa, François ci offre un caffè. Non sarà come quello italiano però. Invece nella tazzona c’è una miscela piacevole, certo non nelle piccole quantità di un espresso. L’ho presa negli Stati Uniti, ha un retrogusto di cacao.
Sei settimane dopo l’UTMB hai fatto registrare il record sul John Muir Trail, uno dei trekking più popolari degli Stati Uniti. Come hai potuto recuperare così in fretta?
«Impossibile recuperare così velocemente, infatti la stanchezza si è fatta sentire, però le avventure come il John Muir o il GR20 in Corsica me le scelgo attentamente, sono qualcosa di diverso da una gara. Non mi interessa il record fine a se stesso, ma correre in posti magici con i miei amici e condividere una bella esperienza con la famiglia. Infatti a farmi da pacer c’erano quattro amici una volta e cinque l’altra. L’orologio lo guardo solo alla fine, al John Muir ero abbastanza tranquillo perché avevo dodici ore di vantaggio».
Più duro il GR20 o il John Muir?
«GR 20, in 31 ore ho fatto 180 chilometri, il meteo era variabile, i tempi di riferimento nelle varie sezioni non erano affidabili. Al John Muir provi altre sensazioni, la solitudine, il caldo del giorno in contrasto con il freddo della notte. Penso di avere attraversato una sola strada in più di 300 chilometri. A volte ti ritrovi a pensare che è meglio non forzare troppo perché se ti fai male dovrai comunque camminare 30 ore per trovare qualcuno, non ci sono rifugi. Di giorno, anche a quote sopra i 3.000 metri, si stava bene in maglietta, la sera faceva meno cinque. Finché corri non lo senti, ma se ti vuoi fermare a dormire è dura, ecco perché, quel poco che ho dormito, l’ho fatto soprattutto di giorno. E la notte è lunga, perché il buio durava 13 ore».
Dormire. All’UTMB non si chiude occhio, su 300 chilometri e oltre sì. Che strategia hai usato?
«Mi sono fermato 12 ore circa, ma in totale non ho chiuso occhio più di 3 ore. La testa viene invasa dai pensieri: quanto manca, mi faranno male le gambe? Una volta ho provato a dormire di notte: mi avevano acceso un fuoco, ero ben coperto, ma era impossibile per il freddo. Il John Muir mi ha fatto pensare. Le cento miglia, almeno per il mio corpo, sono una barriera accettabile, ho trovato un buon equilibrio arrivando a farne due o tre a stagione. Oltre credo che la mancanza di sonno sia un fattore importante da tenere in considerazione. Dopo una UTMB ci vogliono mesi per recuperare, ma dopo un Tor? Forse avrebbe senso, oltre una certa distanza, stabilire delle pause obbligate per fare dormire gli atleti top, diciamo tre da un’ora. Quando partecipi ai raid è così».
Non c’è dubbio che i fisici reagiscano in parte in maniera diversa e anche il recupero cambia da persona a persona.
«A volte è importante liberare la testa. Me ne sono reso conto dopo l’UTMB. Finita la gara ho festeggiato per qualche giorno e poi, già la settimana dopo, qui abbiamo vendemmiato. Non ho avuto modo di pensare quanto ero stanco o se mi facevano male le gambe, c’era da lavorare, da correre, in un altro senso. E dopo una settimana stavo bene».
Dopo queste considerazioni arriva la seconda domanda d’obbligo. Che poi sono due domande: farai l’UTMB 2018? E il Tor des Géants?
«No, non sarò a Chamonix, non l’anno prossimo, è una delle poche decisioni già prese per il calendario 2018. Non escludo di tornarci, ma non subito. Il Tor? Una volta nella vita lo voglio fare, ma ora è molto difficile perché capita proprio nei giorni della vendemmia».
Il calendario quando lo decidi? Come fai a trovare le motivazioni dopo avere vinto tanto?
«L’autunno è la stagione della riflessione, ci sto pensando proprio ora e di solito lo rendo pubblico a metà dicembre. Mi aiuta molto cambiare, correre in posti diversi. L’anno scorso ho inserito la Maxi Race di Annecy perché era vicino a casa e potevo allenarmi con Michel Lanne, volevo fare la Lavaredo Ultra Trail perché non conosco le Dolomiti, ma purtroppo ho dovuto rinunciare per un infortunio. Poi Madeira, un altro posto nuovo e con una densità di atleti forti al via che è stata inferiore solo all’UTMB. L’UTMB? Volevo tornarci dopo qualche anno e poi quando ho visto che c’erano tutti quei top al via ho pensato che difficilmente ci sarebbe stata ancora una gara così».
E i record?
«Cerco luoghi e itinerari particolari, ma non necessariamente famosi: il prossimo potrebbe proprio essere un sentiero da inventare, dove non sono già stati registrati fastest known time».
Hai già qualche idea?
«No, dopo la Corsica ci ho impiegato sei mesi per avere la testa libera di pensare a un’altra avventura. Non è semplice: bisogna badare alla logistica, a chi verrà con te, a quando andare. Pesa tutto sulle mie spalle».
Hai corso poco in America, ci andrai quest’anno?
«Forse la Hardrock, ma non so, in America non hai la certezza di riuscire ad avere il pettorale e poi magari ti ritrovi a correre con pochi atleti top».
I cavalli nel motore non mancano, hai mai fatto un pensierino alla Marathon des Sables?
«Una volta mi ero anche iscritto, poi non sono potuto andare. No, però ora non credo che ci andrò più, in quel periodo voglio sciare e poi è ben diverso da un trail tradizionale, in effetti è un po’ un unicum nel calendario ITRA».
François scalpita dalla voglia di mostrarci il Domaine. Abbiamo tre ettari e mezzo di vigne qui e uno a 40 minuti di auto, dopo ve le faccio vedere aveva detto accogliendoci. La nostra giornata prosegue dunque passeggiando tra i bassi filari di Gamay. Passeggiando, non correndo. Vedi, qui sopra produciamo La Germaine, un Beaujolais Village leggero e fruttato, lì sotto il Calvaire, più complesso, dai profumi intensi di frutta e più tanninico. Vedrai quando li degusteremo, sono diversi, eppure le vigne sono a pochi metri una dall’altra. Ma ci sono anche altri fattori da tenere in considerazione. Il primo lo produciamo con una macerazione veloce, il secondo invece rimane di più nella cisterna di fermentazione in cemento. François si inerpica su per i dolci declivi di questo angolo di Beuajolais. Ci vuole mostrare le vette più alte della regione, dove spesso va ad allenarsi. Qualche sparuto grappolo non è stato tolto durante la vendemmia. Gli acini sono piccoli e scuri, potrebbero anche essere dei grandi mirtilli. François ne strappa uno e lo schiaccia tra le dita. Dentro il succo è chiaro, volendo si potrebbe anche fare del vino bianco, ma noi produciamo giusto un rosè estivo. Questo vitigno si chiama Gamay ed è il principale della regione del Beaujolais. le viti sono basse, i grappoli e gli acini piccoli, non è certo uva da tavola.

In quanti siete al domaine?
«Due, io e Carline».
Come fate, non avete una formazione legata alla viticoltura?
«Ci siamo subito appassionati, amiamo il buon vino, Carline, dopo che siamo arrivati al Domaine, ha fatto studi enologici e all’inizio ci ha aiutato Laurent Gobet, il vecchio vignaiolo del Germain».
Solo due, il lavoro non manca…
«Sì, oltre alla vendemmia bisogna prendersi cura delle viti e poi vinificare. Guarda questo filare: qui ho già potato cinque tralci, da contratto ne possiamo tagliare solo cinque all’anno e siamo in due a farlo sui quasi cinque ettari del Domaine».
Come è la tua giornata tipo, quando trovi il tempo di allenarti?
«Non ho una giornata tipo. Nessuna è uguale all’altra. Quando carico vado a correre su queste colline, faccio un’ora e mezza, due ore, posso pestare solo sterrato e prati e arrivo a 700 metri di dislivello, poi una volta la settimana e nel week end salgo in montagna e allungo, anche cinque, sei ore. Ma non c’è una regola, a volte corro la mattina, altre il pomeriggio, salgo in montagna il mercoledì oppure un altro giorno. Anche nella scelta dei percorsi cerco di variare».
Corri da solo?
«Quasi mai, ho un bel giro di amici runner».
Ascolti musica?
«No».
Che cosa vuol dire correre?
«Prendere aria, stare nella natura».
Usi il cardiofrequenzimetro?
«No, guardo solo distanza, tempo e dislivello».
Conosci i tuoi parametri?
«Solo altezza e peso, uno e novantadue e 70-75 chili, piede 10 e mezzo, non mi è mai interessato sapere altro».
In questa stagione corri?
«Molto poco, giusto per il piacere di farlo quando ne ho voglia. Poi in inverno mi alleno soprattutto con lo scialpinismo e lo sci di fondo, non mi dispiace anche la bici».
Giusto, l’anno scorso alla Pierra Menta sei arrivato undicesimo. Ti piace pellare?
«Molto, quest’anno abbiamo preso una casa proprio vicino a dove si corre la Pierra, vorremo andarci nei fine settimana ma anche due o tre mesi durante l’inverno. Ho sempre sognato di svegliarmi con la neve attorno e stiamo organizzandoci per mandare i bimbi a scuola lassù».
Quante Pierra Menta hai fatto?
«Undici. Tutte con Alexis Traub, mio cognato, come le altre gare in coppia. Ho anche pellato qualche volta con Laetitia Roux. È buffo, abbiamo fatto entrambi la stessa scuola di fisioterapia e ora nessuno dei due fa il fisioterapista. E Matteo Eydallin, sta ancora vicino a Gap? Da quelle parti ho anche io dei parenti».
Per le cronache, Alexis Traub non è ‘solo’ il cognato di D’Haene, ma è stato anche nazionale francese di corsa campestre e di corsa in montagna. Un ambiente, quello della corsa campestre, che ha frequentato anche François.
Come hai scoperto il trail?
«Ho fatto atletica da sette a 17 anni, ma quel modo di interpretare la corsa mi stava stretto, nel trail ho trovato subito la libertà».
Come si fa a diventare François D’Haene, voglio dire, hai fatto trail per diventare il più forte al mondo, avevi un programma e delle idee ben precise?
«No, passo dopo passo. Quando ho iniziato a correre fuori le gare lunghe non esistevano quasi, facevo 20-30 chilometri. Poi ho cominciato a provare i 70 chilometri e mi sono reso conto che dopo qualche ora, quando gli altri erano cotti, davo il mio meglio. Anche quando sono entrato nel Team Salomon, mi sono detto: vediamo, passo dopo passo, io continuo ad andare per la mia strada».
Quando hai capito che potevi diventare forte?
«Anche questo passo dopo passo, la prima pietra è stata la vittoria nel 2006 al Tour des Glaciers de la Savoie, i famosi 70 chilometri».
Si avvicina l’ora di pranzo e, prima di portarci in paese, da Chez Audrey, l’unico bar-ristorante di Saint-Julien, François ci scorta in cantina. Carline ha preparato una verticale di Beaujolais del Domaine. Inutile dire che, a digiuno, è stata peggio di un ultra-trail. E naturalmente ha vinto François. Abbiamo potuto apprezzare i diversi aromi e le diverse densità. Già, proprio quella densità che François ha utilizzato per descrivere l’alto numero di atleti top al via. Dopo pranzo abbiamo fatto un altro salto a casa D’Haene. Una scusa per curiosare nella cantina privata.
Bevi anche birra?
«Certo, eccola qui, dopo le gare non so resistere».
Hai qualche vino italiano?
«Guarda queste due bottiglie, sono italiane, sono buone? Credo che me le abbia regalate Marco De Gasperi».
Sono due vini di Valtellina, uno un Sassella. In un angolo scorgo una lastra di marmo con il profilo della Corsica e dei nomi incisi. È un ricordo del GR20, me lo ha regalato un runner locale e ci sono i nomi e i tempi di tutti quelli che hanno fatto il record.
Dove tieni coppe, medaglie e trofei, ce li fai vedere?
«Eh sono un po’ sparsi, dai miei, dai parenti».
E l’ultima UTMB, ce l’avrai il trofeo? Ma poi, in cosa consiste?
«Sì quello dovrei averlo, aspetta che lo cerco».
Traffica in cantina, ma niente. Ci spostiamo nel locale vicino. Qui facciamo la vendemmia. Di solito si svolge in una settimana. All’inizio prendevamo delle persone che pagavamo alla giornata, ma poi abbiamo pensato che doveva essere un momento per condividere le cose belle della vita e vengono i nostri amici. Una quarantina di persone per finire tutto in tre-quattro giorni. La buttiamo sul divertimento, con vari giochi goliardici e premi. Sulle pareti ci sono ancora il regolamento e la classifica dell’ultima vendemmia. Finalmente François tira fuori da un ripostiglio il trofeo dell’UTMB 2017. Diavolo d’un François, ha vinto la gara del secolo e la coppa la tiene nascosta, quasi si è dimenticato dove l’ha messa. Dopotutto la sua ricetta del successo è proprio questa: semplicità, lavoro, uno stile normale, non monastico come quella di tanti pro, tanta varietà nel suo menù, dalla scelta dell’allenamento a quella della gara, famiglia, condivisione. E un buon bicchiere di vino rosso. Ci ha confessato che anche il giorno prima dell’UTMB non se l’è fatto mancare. In vino veritas.
Miti e riti
Se non fosse già stata assegnato tempo fa a Julien Chorier, che nella vita è veramente ingegnere, l’appellativo ingénieur sarebbe stato perfetto per François D’Haene, che è uno dei trail runner più precisi e flemmatici. All’ultima UTMB agli uomini dell’assistenza Salomon ha consegnato un foglietto con la lista di quello che voleva trovare pronto a ogni stazione di rifornimento. In tutte le gare a un certo punto si mette una maglia tecnica Salomon di qualche anno fa, con delle grandi tasche davanti e la vestibilità attillata. Ne ha due o tre esemplari. Mi trovo bene perché non lascia grinze e per questo non diventa mai umida e non prendi freddo. Proverbiale anche il suo scatto felino quando arriva l’alba. Guarda caso le sue vittorie più belle iniziano tutte con una notte in gruppo e la fuga con il sorgere del sole. Prima dell’ultima UTMB ha confessato di non amare correre da solo nella notte. In allenamento mi piace, ma una notte interamente da solo sulle montagne non la auguro a nessuno: a me è successo sul Monte Fuji, cento chilometri da solo…
A ogni gara il suo vino
Abbiamo giocato ad abbinare tre vini del Domaine du Germain a tre gare vinte da François. Lui si è prestato molto volentieri. «La Germaine è l’UTMB, quello che ti aspetti dal trail classico, senza sorprese: montagne, salite, discese, boschi, pascoli, panorami alpini. Il Calvaire lo paragonerei alla Diagonale des Fous, non è un vino e non è una gara facile, tanti saliscendi, salite ripide, sbalzi climatici, un calvario. Il Moulin-à-Vent è un’altra cosa, è più complesso, con un invecchiamento di 18 mesi accompagna carni in umido e formaggi nelle cene con gli amici, come l’avventura al John Muir Trail o al GR20». François realizza ogni due anni un cartone speciale con tre bottiglie dei migliori millesimati dedicate a tre vittorie. Al Domaine du Germain produce circa 14.000 bottiglie all’anno su un totale di poco meno di cinque ettari di vigne. I suoi vini possono essere acquistati online: domainedugermain.com

Neve: sempre meno, sempre più in alto
Le informazioni che arrivano attraverso i mass media parlano di climate change e di aumenti medi delle temperature annue. Guardando nello specifico alla neve e all’innevamento, qual è la fotografia della situazione attuale rispetto al passato?
«Il manto nevoso è estremamente sensibile ai cambiamenti climatici. Quando le temperature aumentano, la neve cade più frequentemente sotto forma di pioggia oppure quella già caduta fonde con maggiore frequenza e rapidità. Tutto questo può causare variazioni a livello di estensione, spessore e densità del manto nevoso. Per poter quantificare questi cambiamenti e classificare correttamente i singoli inverni con poca o tanta neve, è importante disporre di serie pluriennali di misure. Ad esempio uno studio dell’ARPA Piemonte pubblicato nel 2013 ha evidenziato nelle Alpi Piemontesi nel periodo 1961-2010 una generale riduzione delle precipitazioni nevose, particolarmente accentuata alle quote inferiori ai 2.000 metri. Sempre nello stesso periodo lo studio ha evidenziato una diminuzione dello spessore medio stagionale del manto nevoso, più accentuato nelle ultime decadi. Anche la durata della copertura nevosa ha mostrato trend negativi in tutte le stazioni analizzate, più accentuati nelle stazioni alle quote prossime ai 1.500 metri».
E in altri continenti la situazione è simile?
«Uno studio recente di Beniston e colleghi, pubblicato sulla rivista internazionale The Cryosphere, ha evidenziato come la riduzione dello spessore del manto nevoso e della sua permanenza al suolo sia un fenomeno che sta interessando in maniera generalizzata tutte le Alpi europee, in particolare sotto i 2.000 metri di quota. Anche in questo caso le cause sono riconducibili alla prevalenza di eventi piovosi rispetto a quelli nevosi, così come all’incremento della velocità di fusione del manto nevoso, entrambi i fenomeni causati dall’aumento delle temperature nel corso dell’inverno e della primavera».
Fatta la fotografia della situazione attuale, quali sono le proiezioni per il futuro?
«Lo stesso articolo pubblicato da Beniston e colleghi nel 2018 riporta come numerosi studi scientifici siano concordi nel prevedere sulle Alpi a quote intorno ai 1.500 metri una riduzione dell’equivalente in acqua del manto nevoso (un parametro che dipende dallo spessore e dalla densità della neve) compreso fra l’80 e il 90% entro la fine di questo secolo. Le stesse simulazioni indicano un ritardo nell’accumulo del manto nevoso di due-quattro settimane e un anticipo della fusione primaverile di cinque-dieci settimane rispetto alla media registrata nel periodo 1992-2012, sempre a 1.500 metri di quota. Per le quote al di sopra dei 3.000 metri è invece attesa una riduzione dell’equivalente in acqua del manto nevoso di circa il 10%, anche nel caso di scenari che prevedano un incremento delle precipitazioni nel corso dell’inverno. Questi scenari climatici implicano anche l’assenza di un manto nevoso permanente alle quote più elevate nelle Alpi, con importanti ripercussioni sulla dinamica dei ghiacciai».
Si parla di aumenti medi della temperatura annua, un valore spesso incomprensibile ai più. Quanto questi dati sono direttamente collegabili all’innevamento? Esistono studi e tabelle specifiche?
«Uno studio di Valt e colleghi pubblicato nel 2008 sulla rivista Neve e Valanghe afferma che il limite della neve sicura per le attività sciistiche (criterio dei 100 giorni con più di 30 cm di neve al suolo) è confinato in Italia ad una quota prossima ai 1.500 metri. In un sistema climatico in riscaldamento, è stato stimato che la linea della neve sicura sia destinata ad aumentare di 150 m di quota ogni grado di aumento della temperatura media e sulla base di questa analisi vengono effettuate le valutazioni sulle stazioni sciistiche che saranno a rischio nel futuro, sia per la minor presenza di neve naturale che per la difficoltà di produrre neve programmata. Uno studio di Abegg e colleghi pubblicato nel 2007 all’interno di una ricerca dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sul turismo invernale, ha evidenziato come con un aumento di 1°C di temperatura nel 2050 in Italia il numero di comprensori sciistici in grado di garantire il limite della neve sicura si ridurrebbe del 12%, mentre con un aumento di temperatura di 2°C la percentuale salirebbe al 27%».
Qual è l’aspetto più evidente dei cambiamenti in corso che uno studioso come Michele Freppaz osserva?
«La mia famiglia è originaria di Gaby, un paese valdostano situato a 1.000 metri di quota. Negli anni ’70 la neve era una presenza ricorrente nel periodo invernale, ricordo magnifiche giornate di sci nei prati dietro casa. Si saliva a scaletta e si scendeva lungo pendii accuratamente preparati da noi bambini, con tracciati a diversa difficoltà. Ricordo anche una manovia a offerta libera. Oggi ciò non è praticamente più possibile e anche la pista di fondo viene aperta decisamente di rado. Se devo fare un confronto con un passato ancora più lontano, mi piace spesso citare un episodio legato all’attività dell’illustre climatologo e glaciologo Umberto Monterin. Nel suo contributo al Manualetto di Istruzioni Scientifiche per Alpinisti del CAI, pubblicato nel 1934, lo studioso invitava i frequentatori della montagna a svolgere la raccolta di dati meteorologici, con una strategia che oggi definiremmo di citizen science. In particolare suggeriva che l’alpinista che avesse avuto occasione di osservare pioggia al di sopra dei 3.500 metri durante la stagione estiva avesse cura di prenderne nota e di darne comunicazione. Oggi probabilmente dovrebbe invitare gli alpinisti a segnalare episodi piovosi sopra i 4.000 metri di quota, in quanto alle quote inferiori questi fenomeni sono ormai molto frequenti».
Quali effetti avranno i cambiamenti climatici o stanno già avendo sulle valanghe?
«Gli studi che hanno trattato la frequenza e le caratteristiche delle valanghe nel passato, tra i quali ad esempio quello di Pielmeier e colleghi, presentato all’ISSW di Grenoble nel 2013, hanno evidenziato come nel corso degli ultimi decenni la frequenza di valanghe di neve umida sia aumentata, anche in pieno inverno (dicembre-febbraio), con particolare riferimento alle valanghe di fondo per scivolamento (glide-snow avalanches). La tendenza all’aumento della frequenza di valanghe di neve umida dovrebbe continuare anche in futuro, in particolare alle quote più elevate e all’inizio della stagione invernale.
I vecchi dicevano che sotto la neve c’è il pane. Quale funzione ha la neve, a parte renderci tutti felici e darci l’occasione di scivolare a valle?
«Il manto nevoso che si deposita nel corso dell’inverno, se di sufficiente spessore e non troppo denso, è un ottimo isolante termico. Maggiore è il contenuto d’aria al suo interno, maggiore è la sua capacità di mantenere al caldo il suolo sottostante, indipendentemente dalla temperatura dell’aria. Nei pressi della stazione di ricerca dell’Istituto Scientifico Angelo Mosso, a una quota di 2.901 metri nel massiccio del Monte Rosa, nel corso dell’inverno se è presente uno strato di neve di almeno 80 centimetri, la temperatura del suolo rimane prossima agli 0° C, anche se quella dell’aria scende a -25° C. Se il manto nevoso non è di sufficiente spessore, il suolo non viene adeguatamente protetto e può andare incontro a fenomeni di congelamento, con effetti sul ciclo degli elementi nutritivi del suolo e sulla vitalità degli apparati delle radici. La neve è inoltre un ottimo sensore della qualità dell’ambiente, in grado di incorporare specie chimiche nel corso della precipitazione, ma anche una volta che si deposita al suolo. Ne corso della fusione primaverile il rilascio delle sostanze che sono state inglobate non avviene con gradualità ma nei primi giorni del disgelo arriva al suolo un’acqua di fusione estremamente concentrata, in base a un fenomeno conosciuto come ionic pulse. Evidentemente le specie vegetali hanno interesse a sfruttare questi nutrienti e per questo spesso iniziano la ripresa vegetativa quando ancora sono coperte dalla neve, in modo da poter sfruttare questa fertilizzazione naturale. I processi all’interfaccia suolo/neve sono fondamentali per capire l’ecologia delle aree montane, e solo un approccio interdisciplinare è in grado di comprenderne a fondo i fenomeni. Non è facile, ma solo l’unione di due discipline quali la nivologia (la scienza della neve) e la pedologia (la scienza del suolo) permette di indagare con successo i delicati equilibri che caratterizzano le aree stagionalmente coperte dal manto nevoso».
Ci sono evidenze di problematiche nel comportamento della fauna legate a quelli relative all’innevamento?
«Numerosi studi hanno evidenziato come cambiamenti nella durata e spessore del manto nevoso possano avere un significativo effetto sugli ecosistemi alpini. Negli ambienti di tundra alpina un ritardo nell’accumulo di neve in tardo autunno può determinare congelamenti del suolo in grado di alterare il ciclo degli elementi nutritivi anche nell’estate successiva. Una fusione anticipata del manto nevoso in primavera può indurre una ripresa vegetativa anticipata tale da alterare la sincronizzazione fra la disponibilità di foraggio e l’attività degli erbivori».
La ricerca in quota
La rete LTER Italia (www.lteritalia.it) è un insieme di siti di ricerca nei quali si conducono ricerche ecologiche su scala pluridecennale. In Italia sono ben 25 i siti e ci sono altre 26 reti nazionali a livello europeo con oltre 400 siti di ricerca, 40 quelle sui cinque continenti. Michele Freppaz è responsabile scientifico LTER Istituto Mosso, nel massiccio del Monte Rosa. Fulcro del sito di ricerca è lo storico Istituto Scientifico Angelo Mosso, a 2.901 metri di quota, al confine fra i comuni di Alagna Valsesia e Gressoney La Trinité. Di proprietà dell’Università di Torino, i laboratori scientifici al Col d’Olen furono inaugurati nel 1907, quando apparve ormai evidente che la capanna Regina Margherita, come centro di ricerca d’alta quota era diventato insufficiente alle sempre più numerose richieste di utilizzo da parte della comunità scientifica internazionale. L’Istituto Mosso, realizzato in soli tre anni, superava per grandiosità, per numero e disposizione di ambienti, per ricchezza di arredamento scientifico tutti quelli che al tempo sorgevano sulle Alpi e su altre catene montuose d’Europa e d’America. Era il primo laboratorio d’alta quota che provvedeva una sistemazione confortevole a studiosi di svariate discipline: medicina, biologia, botanica, geologia, glaciologia e meteorologia. L’attività di ricerca è attualmente condotta da differenti gruppi di ricerca con particolare interesse allo studio delle caratteristiche della neve e dei suoli e vegetazione d’alta quota.
I giorni della neve
«Da tempo mi chiedevo come fare per comunicare al meglio e al di fuori della cerchia degli studiosi o appassionati le mie ricerche: la neve, i suoli d’alta quota, i ghiacciai, i cambiamenti climatici, mi domandavo, potevano diventare una narrazione accessibile a tutti, magari avvincente e capace di coinvolgere anche persone che fin lì non si erano mai interessate a certi temi?». Nasce da questa esigenza I giorni della neve (192 pagine, Dea Planeta 13,60 euro), il romanzo scritto da Michele Freppaz con Francesco Casolo. «C'erano le atmosfere di certi luoghi e una serie di storie che potevano essere raccontate come quella di figure pionieristiche come Angelo Mosso e Umberto Monterin, le cui vite erano state di per sé stesse un romanzo - continua Freppaz -. Ci pensavo senza sapere bene da che parte girarmi; organizzavo conferenze e incontri con la sensazione di potere e dovere fare di più. Poi un giorno di un paio d’anni fa a Gressoney ho conosciuto uno scrittore, Francesco Casolo che già aveva lavorato su storie legate alla montagna e, fra una gita all’Istituto Mosso e una al ghiacciaio del Lys, abbiamo deciso di provarci. Cercando di unire il piacere del raccontare alla divulgazione scientifica, l’incanto di uno sguardo che va a posarsi su un ghiacciaio con il rigore dei dati che ne raccontano l'evoluzione».
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 123. SE VUOI RICEVERE TUTTI GLI ARTICOLI DI SKIALPER NELLA TUA CASELLA DELLA POSTA, ABBONATI.
La nuova vita di sci e snowboard? Occhiali da sole e yurte
Che fine fanno sci e scarponi usati? Purtroppo nella maggior parte dei casi finiscono in discarica o nei termovalorizzatori. Il problema principale per i primi è legato alla difficoltà di separare le varie parti assemblate, mentre gli scarponi, pur essendo di materiale plastico, si perdono nelle decine di plastiche e non tutte vengono riciclate. Va meglio per i bastoni dove la parte in alluminio trova nuova vita nel riciclo. Però ci sono alcuni esempi interessanti di recupero dei materiali utilizzati. Due ragazzi italiani hanno aperto una start-up in Austria che realizza occhiali da sole e da vista a partire dalla serigrafia degli snowboard. Uptitude è nata in una soffitta del Trentino quando Ermanno Zanella ha pensato che sarebbe stato un peccato buttare tutti quegli sci e snowboard in discarica e si è costruito una montatura per i suoi occhiali. Poi l’incontro con Filippo Irdi, shaper in Austria, e l’idea di industrializzare quell’idea. La voce si sparge in fretta: un po’ con l’aiuto di Burton, un po’ di qualche amico, Filippo ed Ermanno vengono sommersi di snowboard. Le parti laterali sono utilizzate per le montature, quella centrale per realizzare portachiavi, punta e coda per gli espositori da negozio e Uptitude produce anche cover per smartphone con la stessa origine. Come nel maiale… non si butta via nulla. Un altro esempio di valorizzazione degli sci viene dalla Francia. Qui la Tri-Vallées di Albertville dal 2006 raccoglie sci e snowboard dai negozi e dalle piattaforme ecologiche di Savoia, Alta Savoia e Isère per recuperare ferro e alluminio e combustibile solido per i cementifici. Ne parliamo nel portfolio, all’inizio di questo numero. Un’altra case history interessante in chiave riciclabilità è quella dell’italiana Kastelaar che produce sci in legno certificato FSC (Forest Stewardship Council), marchio che identifica oggetti contenenti legno proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile, facilmente riparabili e al 95% riciclabili. E le scarpe da running? Esosport separa la suola dalla tomaia generando materia prima seconda che viene donata e utilizzata per la creazione di pavimentazione per i parchi giochi e per le piste di atletica (per informazioni sui punti raccolta: www.esosport.it). Questi sono tutti esempi virtuosi di recupero dei materiali o di riciclo, ma esistono esempi di riutilizzo, il fine più nobile? Per quanto riguarda i bastoni da sci, ci sono alcune piattaforme ecologiche, soprattutto in Austria, che li distribuiscono ai contadini e ai pastori che li impiegano come pali nelle recinzioni. Gli sci trovano spesso nuova vita in panchine e porta-abiti. Negli Stati Uniti Green Mountain Ski Furniture (www.recycledskis.com) realizza curiose sdraio, apribottiglia e casette per gli uccelli con gli amati legni. Qualche anno fa nell’ambito del progetto Architecture for refugees, Resilience Shelter Project di Marco Imperadori, professore di Progettazione e Innovazione Tecnologica al Politecnico di Milano, si era arrivati a realizzare un modulo abitativo per situazioni di emergenza simile a una yurta, la famosa tenda mongola, utilizzando 130 sci. Il progetto europeo transfrontaliero INTESE, che coinvolge l’area italo-francese del Monviso, prevede la reintroduzione degli sci e scarponi usati attraverso una rete di centri del riuso in aree distanti dalle stazioni sciistiche per non interferire con i mercati locali, ma aumentare la possibilità di accesso agli sport invernali anche per le persone meno abbienti.
Le 4 R dei rifiuti
Riduzione: cioè produrre meno rifiuti (utilizzando più a lungo sci, scarponi e abbigliamento, ma anche preferendo prodotti con imballaggi meno invasivi e riciclabili)
Riutilizzo: il prodotto trova un nuovo impiego (è il caso dei bastoni utilizzati come recinzione o di sci e scarponi donati per essere ancora usati per sciare)
Recupero: valorizzazione del rifiuto per ricavare materia seconda o energia (è il caso degli occhiali con montature a partire dalle serigrafie degli snowboard)
Riciclo: il materiale che non serve più al suo scopo viene trasformato (come le bottiglie di PET che danno vita ai pile)
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 123. SE VUOI RICEVERE TUTTI GLI ARTICOLI DI SKIALPER NELLA TUA CASELLA DELLA POSTA, ABBONATI.
Der Lange Weg
Primo aprile 2018. Pasqua. Nel tranquillo borgo di Trafoi tutto tace. Si sente solo il rimbombo dei passi degli scarponi sull’asfalto. Un rumore sordo, che risuona tra le case e le vie deserte di questo quieto villaggio altoatesino. Sono cinque rintocchi, uno dietro l’altro, regolari. Sono cinque scialpinisti, quattro uomini e una donna. Arrivano da lontano e sono diretti lontano. Vogliono salire allo Stelvio e hanno 80 chilometri di camminata con gli sci e gli zaini in spalla nelle gambe. Trovano un albergo, il Bellavista. Entrano per chiedere informazioni. Un signore sui 70 anni sta mangiando insieme alla famiglia e ai nipoti. È il proprietario dell’hotel ma, come se niente fosse, interrompe il pranzo pasquale, esce e si dilunga a spiegare la strada a questa insolita comitiva di scialpinisti. Quel signore all’anagrafe fa Gustav Thoeni ed è proprio lui, il campionissimo della Valanga Azzurra. I cinque scialpinisti non sono degli skialper qualunque. Si chiamano Philipp Reiter, Mark e Janelle Smiley, Bernard Hug e David Wallmann. Sono i cinque superstiti dei sette partiti il 17 marzo alle porte di Vienna alla volta di Nizza per la grande traversata delle Alpi, un’impresa riuscita solo nel 1971 a quattro austriaci. E l’obiettivo è proprio quello di arrivare almeno in quattro a Vienna e battere il tempo di Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher. La traversata più mediatica della storia dello skialp, non a caso con la regia di Red Bull. Un’impresa della quale si è parlato molto. E non sono mancate le polemiche.
Il modo migliore per capire che cosa è stata Der Lange Weg e che cosa lascerà è di guardarla con gli occhi dei protagonisti, di quei quattro uomini e quella donna che hanno macinato 1.721 chilometri e 89.644 metri di dislivello in 37 giorni (contro i 41 degli austriaci nel 1971) ovvero 375,08 ore in movimento. Per esempio quelli di Philipp Reiter, scialpinista e trail runner tedesco classe 1991. Il modo migliore per capire che cosa significhino queste spaventose cifre è di farlo a ritroso, a rebours, visto che il nostro viaggio parte da Nizza, dove Philipp si è tuffato nel mare con sci e scarponi.
«Sono passate tre settimane ormai dall’arrivo e lo stomaco si è allargato, ho sempre tanta fame ma, a differenza di quando eravamo in moto 15 ore al giorno, ora il peso aumenta. Per qualche giorno mi sembrava di essere un elefante quando mi muovevo, ero gonfio perché il corpo tratteneva troppi liquidi. Sto andando in bici e corrocchiando, non posso dire di non avere le gambe, ma manca la velocità. Dopo un’impresa del genere si pensa al recupero fisico, ma c’è un recupero mentale che è altrettanto importante. Per un inverno ti sei concentrato su quell’obiettivo. Poi per quasi quaranta giorni hai fatto sempre e solo quello: alzarti alle due di mattina, da tre a quattromila metri di dislivello al giorno, decine di chilometri. La giornata scorre nella routine della fatica, resa ogni giorno diversa da tanti imprevisti. Ma non hai altri pensieri, altre occupazioni. E ora? Bisogna tornare a pensare a se stessi, al lavoro, agli amici, cambiano completamente le prospettive e tutto quello per cui hai lavorato finisce in un secondo».
Philipp parla ansimando, mentre ha lo smartphone all’orecchio sta tracciando il percorso di un trail, tanto per continuare a muoversi. Ma non gli manca la lucidità per andare nelle profondità di Der Lange Weg, oltre i titoli dei media e i video promo di Red Bull.
«Nessuno di noi, quando siamo partiti, aveva realmente idea di che cosa avremmo dovuto affrontare, del fatto che andare da Vienna a Nizza in così poco tempo significa essere in moto anche quindici ore al giorno, percorrere fino a 4.500 metri di dislivello positivo con qualsiasi condizione meteo. E prendersi dei rischi. Perché il ragionamento non è quale percorso fare e come adattarsi alle condizioni meteo, ma in certe situazioni puoi solo decidere se prenderti quei rischi vale la pena. Se devi passare da una valle all’altra e c’è solo quel valico non hai molte alternative. La prima settimana è stata la più difficile. Ci siamo allenati solo un giorno insieme, a gennaio. Io conoscevo solo un paio di compagni. Abbiamo affrontato condizioni meteo molto difficili e in quei momenti viene fuori il nostro io più profondo, nelle situazioni estreme si vede chi sei veramente e non è sempre un fatto positivo. Poi però dopo i primi dieci giorni possiamo dire di essere diventati un vero team. E abbiamo dato il giusto valore all’impresa di Klaus Hoi e compagni. Quando ti trovi nel white out con il vento a cento chilometri all’ora capisci che chi ha vissuto queste stesse situazioni quasi cinquanta anni fa lo ha fatto senza GPS, attrezzatura e abbigliamento hi-tech».

Prendersi dei rischi. Quelli che non ha voluto prendersi la trail runner catalana Nùria Picas, che pure passa per una dura e ha lasciato il gruppo dopo 550 chilometri e 32.000 metri di dislivello positivo. «Ovunque andiamo ci sono grandi carichi di neve, è un anno meravigliosamente eccezionale, ma non sono disposta ad assumermi rischi maggiori di quelli che abbiamo già corso in questa settimana appena passata – ha scritto in un post su Facebook -. A casa ad aspettarmi ho i miei figli, la mia famiglia e gli amici e molte avventure che spero di condividere con tutti voi. Lo faccio perché penso che la vita sia uno sport meraviglioso!».
Trentasette giorni ad alzarsi alle due del mattino per evitare la neve molle e il rischio di distacchi, poi giù veloci al camper per mangiare e dormire qualche ora. Una vita con ritmi militareschi. Cosa rimane nella mente di chi a Nizza ci è arrivato?
«Due insegnamenti. Non bisogna fermarsi mai, fino al traguardo, nonostante i tanti imprevisti. Bisogna continuare a muoversi e guardare avanti. Non bisogna essere soli, è impossibile. È un’impresa che puoi fare in compagnia, perché oggi capita la mia giornata no e domani la tua e ci si aiuta. C’è un altro pensiero che mi ha accompagnato a lungo: se sia possibile immaginare una Der Lange Weg a piedi, in velocità. E sono arrivato alla conclusione che sarebbe molto più difficile. Perché con gli sci guadagni tempo in discesa e solleciti meno le articolazioni. E perché quando fai scialpinismo lo stomaco non è così delicato come quando corri. Non potrei mai mangiare una salsiccia prima di un trail, durante una scialpinistica sì». E se lo dice uno che ha portato a termine due volte la Gore-Tex Transalpine Run, andando anche sul podio, bisogna credergli.
Ci sono curiosità che vanno oltre le vette raggiunte e i metri di dislivello. E sono sulla vita di tutti i giorni alla Der Lange Weg. Quello, insomma, che non sta scritto nei comunicati stampa. «A parte tre notti in hotel, una in rifugio e una nel locale invernale di un rifugio, abbiamo sempre dormito nei camper. Eravamo in sette e dormivamo in tre diversi camper. La maggiore difficoltà è stata quella di doversi alzare sempre nel cuore della notte, alle due. Anche se sei stanco non riesci ad andare a letto tanto presto e poi non sei in una casa dove puoi oscurare bene le finestre. Lo spazio a disposizione in camper non è tanto e soprattutto i vestiti non ritornano perfettamente asciutti, rimane sempre un po’ di umidità».
Kilian Jornet ama gratificarsi con gli orsetti gommosi della Haribo nei momenti più difficili di una gara ultra-trail. E di momenti difficili in 1.721 chilometri ce ne sono stati tanti. L’orsetto di gomma (o la coperta di Linus…) di Philipp è una parola composta da cinque lettere, che si scrive uguale in tutto il mondo: pizza. E c’è una vecchia conoscenza di Skialper nel ruolo di pizzaiolo: «Avevamo proprio voglia di una pizza perché eravamo entrati in Italia, ma non potevamo permetterci di passare a casa di Manfred a mangiarla, così lui l’ha impastata e cotta a casa sua e ce l’ha portata il giorno dopo in quota». Lui è Manfred Reichegger, il senatore della nazionale italiana di scialpinismo da poco ritiratosi, che ha fatto da guida al gruppo nella sua valle Aurina, aiutando Philipp e compagni non poco nella nebbia».
Già, il cibo, croce e delizia in ogni gruppo che si rispetti. «Avevamo un cuoco, un ex tagliatore di legna che cucinava grasso, molto grasso. Ma andava bene perché bruciavamo tanto. Il suo compito era difficilissimo perché doveva preparare il cibo all’aperto, per una ventina di persone, inclusi autisti, operatori cinematografici, persone di servizio e, soprattutto, non sapeva mai quando arrivavamo perché era difficile calcolare i tempi con precisione. E quando arrivavamo avevamo fame, molta fame. Così i barattoli di Nutella e le noccioline sono andati a ruba. E durante le gite non ho mai mangiato tanti sandwich come in quei giorni».

Un lungo viaggio è fatto di tanti ricordi che la mente elabora meglio a distanza di qualche settimana o mese. Ce ne sono di belli e di brutti.
«Non posso dire di avere fatte delle belle sciate. Più che altro ci siamo spostati con gli sci, in velocità. Però quando siamo arrivati in Valle Aurina, dopo una giornata lunghissima, ci siamo goduti una discesa al tramonto sulla neve polverosa arancione. A Zermatt una bellissima alba ci ha subito avvolti mentre salivamo verso il Cervino, poi sul ghiacciaio si respirava un’atmosfera strana, durante una gita non ho mai visto così pochi scialpinisti in giro, eravamo praticamente soli a battere traccia, in quota e con il vento contro. Il meteo è cambiato velocemente e ci siamo ritrovati nella nebbia con raffiche a cento chilometri all’ora che ci spostavano indietro di cinque metri. Piedi e vestiti erano fradici. Quando siamo riusciti ad arrivare al bivacco a 3.700 metri ci siamo resi conto di essere dei sopravvissuti. In quel momento, quando nel video che ho caricato sulla mia pagina Facebook si vede entrare dalla porta uno dei mie compagni, la sua espressione parla più di mille parole. Ce l’avevamo fatta ed era l’unica cosa importante, poi avremmo pensato a come tornare indietro».
Già, tornare indietro. Come al Monte Bianco. «Eravamo a cento metri di dislivello dalla vetta, immersi nel white out. I nasi e le guance di alcuni erano bianchi, in cresta non si vedeva nulla e per cercare la strada abbiamo fatto partire un lastrone, non aveva senso rischiare. Per salire sul Monte Bianco abbiamo preso una Guida: ce n’erano solo tre o quattro disposte a portarci in un solo giorno però volevano 1.500 euro e per noi era troppo. Allora l’organizzatore Helmut Putz ha deciso di pagare lui la Guida perché voleva che arrivassimo in vetta. È finita che abbiamo dovuto letteralmente tirarla perché non riusciva a tenere il nostro ritmo e aspettarla continuamente. Alla fine voleva 1.200 euro perché non eravamo arrivati in vetta, ma un collega l’ha convinta a non farsi pagare per il buon nome della categoria».
Quando vai sul Monte Bianco con un cliente normale sai che hai margine, quando vai con chi attraversa le Alpi in 37 giorni no. Ecco un’altra lezione di Der Lange Weg.
Der Lange Weg
La lunga strada. Come quella che nel 1971 gli austriaci Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher hanno portato a termine, da Reichenau an der Rax, in Austria, vicino a Vienna, a Contes, una località vicino Nizza, in 41 giorni. A distanza di quasi 50 anni l’altoatesina Tamara Lunger, il tedesco Philipp Reiter, lo svizzero Bernard Hug, la catalana Nùria Picas, l’austriaco David Wallmann e gli statunitensi Janelle e Mike Smiley, marito e moglie, avevano l’obiettivo di arrivare almeno in quattro e in meno di 41 giorni. Non si può dire che le due imprese siano sovrapponibili e che il record sia stato battuto, anche se il tempo è nettamente inferiore: 41 giorni. Il percorso, che doveva essere uguale, tranne qualche tratto iniziale, è stato invece ridotto a 1.721 invece dei 1.917 previsti (con 85.000 metri D+, che sono diventati 89.644 nell’impresa odierna) a causa delle avverse condizioni meteo che hanno obbligato a tagliare alcuni tratti e saltare alcune vette (sono comunque stati raggiunti Grossglockner e Punta Dufour). Tamara Lunger ha abbandonato dopo la tappa 21 a causa di un infortunio, che l’aveva anche costretta a usufruire del bonus di 64 chilometri percorsi in auto, bonus pensato perché anche nel 1971 i protagonisti avevano percorso 64 km in auto. Non ha concluso il percorso anche Nùria Picas. La partenza è avvenuta il 17 marzo e l’arrivo il 22 aprile.
L’attrezzatura
Che cosa si usa per percorrere quasi 2.000 chilometri sulle Alpi? Philipp Reiter aveva due paia di sci, un Salomon Minim e un S/Lab X Alp. Il secondo, però, è rimasto nel camper. «Per il tipo di impresa conta più avere qualche grammo in meno da trascinare in salita che uno sci che faccia risparmiare energie in discesa» dice Philipp. Lo scarpone era uno Scarpa Alien, l’attacco ATK Trofeo e le pelli Geko con silicone. «Ne avevo anche una di scorta nello zaino, ma non l’ho mai usata, con la neve primaverile le Gecko sono ottime». Rotture? Zero, solo lo sci di Hug durante l’attraversamento di una valanga, ma niente di grave. E l’abbigliamento? Intimo in lana Merinos che ha doti antibatteriche naturali, strato termico e guscio.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 118. SE VUOI RICEVERE TUTTE LE PIÙ BELLE STORIE DI SKIALPER DIRETTAMENTE A CASA TUA, ABBONATI.

Miky's way
Riproponiamo l'intervista a Michele Boscacci pubblicata su Skialper 121 di dicembre 2018
«Alla Pierra Menta ho avuto un bel regalo, devo ammetterlo, senza Kilian è stato più facile, avrei preferito vincerla con lui in gara, però fa parte del gioco». Michele Boscacci sta tornando in auto dal Diavolezza, dove macina metri di dislivello e inizia a fare lavoro di qualità a metà di un mese di novembre che ha già alternato in pochi giorni nevicate copiose a temperature quasi estive e la mente va a quell’incredibile mese di marzo dell’ultima stagione quando, nell’arco di tre settimane, ha vinto Epic Ski Tour, Pierra Menta e Tour du Rutor. E prima c’erano stati la Mountain Attack vinta con record, la vittoria al vertical dei Campionati Italiani. Con la ciliegina sulla torta di una Coppa del Mondo overall portata a casa al fotofinish davanti a Robert Antonioli, della vittoria nel circuito La Grande Course e di una Patrouille des Glaciers da record. Altro che triplete. Che poi il tre ci sta, perché Miky arriva da un trittico di stagioni tutte ad altissimo livello, con una precisione da orologio svizzero.
Nel 2016 la prima overall, poi nel 2017 comunque un secondo posto nella generale e il Mezzalama. Nello sport professionistico confermarsi a questi livelli è impresa difficilissima, come fare dieci giri con lo stesso tempo in Formula Uno. «Nel 2016 non mi aspettavo di andare così forte, poi nel 2017 ero convinto dei miei mezzi e mi sono allenato al meglio, stavo bene, anche meglio dell’anno prima, e non si può dire, nella prospettiva di un atleta, che sia stata una brutta stagione, però a gennaio ho fatto una influenza e ho iniziato ad avere problemi ai denti - dice Miky - L’anno scorso mi sono allenato duramente ed è andato tutto perfettamente, fin nei minimi dettagli». Perché sono i dettagli che fanno la differenza. Gira tutto a mille nel motore del valtellinese di Albosaggia al via della stagione 2019, gli è arrivata anche l’Audi che la FISI riserva agli atleti top e La Sportiva, lo sponsor storico, ha rinnovato per altri cinque anni, ampliando la collaborazione alla stagione estiva della corsa tra i monti e coinvolgendolo nello sviluppo non solo dell’attrezzatura, ma anche dell’abbigliamento, oltre naturalmente a vestirlo total look, summer & winter (e a fornirgli gli accessori). Se poi aggiungiamo che si è fidanzato con Alba De Silvestro, cosa chiedere di più?

«Beh, effettivamente avere la fidanzata che fa il tuo stesso lavoro non è male perché quando vai ad allenarti, anche se non possiamo fare quattro ore insieme perché abbiamo ritmi diversi, però un po’ si sale insieme e poi durante il viaggio in auto possiamo parlare» scherza Miky. Si fa più professionale invece quando parla del rapporto con la casa di Ziano di Fiemme: «Con La Sportiva e soprattutto con Macha, Lorenzo e Giulia (Delladio, rispettivamente presidente e AD di La Sportiva e strategic marketing director, ndr) ho un rapporto che va oltre la collaborazione aziendale e ho praticamente sempre usato scarponi Laspo: mi hanno dato il primo modello in carbonio che ero ancora Junior e con l’ultima firma messa chiuderò la carriera di alto livello sempre con lo stesso marchio». Una dichiarazione d’amore che va oltre il reciproco interesse e una volontà, quella del rinnovo, che è stata subito messa su carta quando Boscacci ha ricevuto offerte importanti per cambiare casacca.
Ma i soldi, nella vita, non sono tutto. Ecco una prima regola della filosofia Boscacci. Poi, oltre al cuore, c’è la testa. «Il segreto per fare tre stagioni così al top? Ci sono tati dettagli, credo però che la testa conti tanto, conta soprattutto quando sei in un periodo no, perché per atleti come noi è veramente un attimo passare dal primo al quinto posto e quando succede è una botta pazzesca per il morale: non bisogna mollare e soprattutto riconoscere che gli avversari forti sono tanti e non si può sempre vincere». E poi c’è la preparazione, anche in questo Miky ha le sue idee, ben precise. Negli ultimi anni non ha cambiato molto, l’idea di fondo è allenarsi tanto soprattutto in autunno, con gli sci, macinare metri su metri per ridurre un po’ la quantità e andare verso la qualità soprattutto da metà novembre. Senza naturalmente sovraccaricare. Facile a dirsi meno a farsi. Eppure Miky è convinto che ci sia un collegamento tra il lavoro fatto e la capacità di mantenere un livello di forma elevato per un periodo relativamente lungo e nel cuore della stagione agonistica. E c’è tanta farina del suo sacco. «Non ho veramente qualcuno che mi segue, ho imparato ad ascoltarmi, a capire quando sono troppo stanco e quando lo sono troppo poco». I dettagli contano e da qualche tempo Boscacci cura particolarmente l’integrazione. «Ho iniziato a usare prodotti Enervit, che è un mio sponsor personale e anche della nazionale. È un dettaglio ma non di poco tempo: nel nostro mondo non c’è ancora la cultura dell’integrazione, invece ci sono momenti nei quali hai bisogno di aiutarti con proteine e sali minerali assimilandoli velocemente e spendendo meno energie». A tavola, però, non si fa mancare nulla, dai carboidrati (meglio a pranzo), a una buona colazione e alla carne (magari la sera). E, tolta la tuta del Centro Sportivo Esercito, non rimane con le mani in mano. Anche questo, dopotutto, fa parte della filosofia Boscacci.

«Mi sono sempre piaciuti gli animali ma, a parte mio bisnonno, in famiglia non avevamo una stalla, poi da quando sono nell’Esercito sono diventato anche allevatore e ora ho una decina di mucche: è un lavoro duro, ma mi aiuta a staccare perché altrimenti finisci sempre col parlare di allenamenti e poi è il mio modo di sentirmi legato alla montagna e di viverla in pieno». Tra le mucche della stalla ce ne sono alcune della razza Bruno Alpina, a rischio di estinzione e Michele può contare sull’aiuto di nonno Umberto: «Senza di lui, che mi segue anche alle gare più importanti, non ce la potrei fare…». Con tutti questi impegni, difficile pensare che a Miky rimanga troppo tempo per fare sul serio (si fa per dire) in estate, anche se, vista la versatilità tra le varie discipline dello skialp e il motore, potrebbe dire la sua anche nella corsa tra i monti. Per intenderci, fatte le dovute distinzioni, a partire dall’età, come Davide Magnini. «Ho sempre fatto attività, dalla bici alla corsa, ma non voglio bruciarmi: qualche gara ci vuole perché stare senza pettorale per così tanti mesi mi annoia e voglio mettermi alla prova con il motore che fa qualche giro in più di allenamento, per avere un obiettivo in più, ma preferisco dare il 100% in una stagione e l’altra usarla per allenarmi piuttosto che farne due all’85%». Appunto, e la prossima stagione come sarà? «Difficile darsi degli obiettivi, io però continuo a lavorare e non mi faccio influenzare emotivamente, se ci sarà qualcuno più forte mi inchinerò. Però un sogno nel cassetto ce l’ho: la medaglia individual ai Mondiali, mi manca ancora, mentre quella Europea c’è. Nella pratica è la stessa cosa, ma il valore è diverso. So che non sarà facile, perché è una gara secca in un giorno preciso, ma se devo mettere qualcosa prima di tutto questa è la mia scelta». Good luck Miky.

L'incredibile storia di Mira Rai
Non devi per forza essere nata in una ricca città del mondo occidentale, avere frequentato le migliori università, un master negli Stati Uniti, costruito un impero attraverso i post di Instagram per diventare una influencer, fonte d’ispirazione per milioni di tue coetanee. Puoi diventare influencer se ti chiami Chiara Ferragni, puoi diventarlo se ti chiami Mira Rai e sei nata a Bhojpur, Nepal, dove non arrivano strade asfaltate, linee telefoniche e corrente elettrica. Ed è prodigioso nel primo caso - perché emergere non è mai facile, anche nella sovrabbondanza di opportunità offerte dalla società del benessere - come nel secondo. Cambiano solo le prospettive e il fine delle proprie azioni. Puoi diventare una case history per la Business School di Harward e avere dieci milioni di follower oppure essere nominata National Geographic Adventurer of the Year, finire sulla copertina di Outside in compagnia di Lindsey Vonn e venire premiata insieme a Indra Nooyi, potente ceo della PepsiCola, come Game Changer dalla Asian Society di New York, fondata da John D. Rockfeller terzo. Puoi diventare l’idolo di milioni di teen-ager, organizzare un matrimonio con annesso luna park e andarci con un aereo che porta il tuo nome. Oppure puoi arrivare in Europa e non sapere neppure cosa è un treno; aiutare Rashila Tamang a diventare guida di trekking in Nepal; permettere a Sunmaya Budha di correre alla Livigno Skyrace; fondare una onlus per dare un’opportunità in più alle donne del tuo Paese attraverso lo studio e lo sport; organizzare un trail nel tuo villaggio; andare dal presidente del Nepal e convincerlo a portare la corrente elettrica e le telecomunicazioni in un remoto paese di montagna. E non sono differenze di poco conto.

Quando Mira Rai ha deciso di arruolarsi nell’esercito maoista, dicendo alla madre che sarebbe stata via per una settimana, a 14 anni, aveva un unico scopo: cercare qualche opportunità in più di quelle che la vita riserva a un’adolescente nepalese, imparare invece di finire nelle braccia di un marito a 12 anni. «Le donne nepalesi accudiscono la casa e vanno a dare da mangiare agli animali sulle montagne, mia madre non esce quasi mai, al massimo per andare al bazar» dice quando ti guarda con quegli occhi che se avessero una bocca sorriderebbero. Mira è la perfetta incarnazione del capitolo 25 del Principe. «Giudico che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l’altra metà, o poco meno, a noi» ha scritto Machiavelli. La sua storia è un incredibile groviglio di incontri e coincidenze, ma quel 50% di fortuna è stata creata dalla determinazione fuori dal comune di questa trentenne con il viso ancora da bambina. «Nel 2014, per i miei primi 50 anni, i primi 30 di yoga e 15 di trail, mi sono imbattuta in un evento che sembrava lì per me, la Mustang Trail Race, in una regione himalayana dove si dice che i monaci tibetani siano stati visti sfrecciare staccati da terra - racconta Tite Togni, insieme a Richard Bull il principale mentore di Mira - . La gara capitava proprio nei giorni del mio compleanno ma, per una serie di coincidenze, ho perso l’aereo interno e ho dovuto affrontare il viaggio in pullman, con alcuni atleti: Mira mi ha colpito subito perché mi guardava con quello sguardo intenso e curioso, mentre le donne nepalesi tengono gli occhi bassi». Dopo quella gara Richard Bull, il co-fondatore inglese di Trail Running Nepal, che organizza gare e aiuta i runner nepalesi, e Tite Togni sono riusciti a portare in Europa, per correre qualche gara, Upendra Sunuwar. Mira però non è restata a guardare, insistendo per avere anche lei una chance e ha ottenuto il suo primo biglietto aereo e il visto. In Italia, da perfetta sconosciuta, ha vinto la Sellaronda Trailrunning e il Trail degli Eroi. A premiarla, nelle Dolomiti, c’era Augusto Prati, country manager di Salomon, che l’ha segnalata a Greg Vollet, boss del team internazionale di atleti del marchio di Annecy. Entrata nel team Salomon, non più giovanissima, a 27 anni, nel 2015 è salita sul podio in Australia e in Europa, arrivando seconda nel ranking delle Skyrunning World Series. Ma la storia di incontri e coincidenze inizia prima e continua anche dopo quello straordinario 2015, come in un secondo film. Finito l’addestramento di due anni con l’esercito maoista, anni nei quali ha fatto lunghe marce notturne che sono diventate il migliore imprinting per la sua carriera di trail runner e imparato il karatè, Mira non vuole tornare al villaggio e si trasferisce a Kathmandu, cercando fortuna con la corsa e il karatè. Però è difficile sbarcare il lunario, i soldi finiscono ed è già pronto il visto per andare a lavorare in Malesia. Lavori duri e rischiosi, nelle miniere o nelle fabbriche, dai quali spesso i nepalesi non tornano vivi. Il suo inconscio non ne vuole sapere di andare in Malesia e all’ultimo minuto riesce a convincere il maestro di karatè, conosciuto nell’esercito maoista, ad ospitarla per un anno. Il destino vuole che, durante una corsetta nel parco nazionale Shivapuri Nagarjun, alle porte di Kathmandu, incontri due ragazzi che la invitano a tornare qualche giorno dopo per un allenamento. Uno di questi ragazzi è Bhim Gurung, vincitore del Kima nel 2016. Mira torna, ma sua insaputa si trova al via della Kathmandu West Valley Rim, un trail di 50 chilometri.

«Non avevo mai corso su una distanza così lunga, non avevo i vestiti adatti, né da bere e da mangiare» ricorda ora. Grandine e acqua la mettono a dura prova, però arriva al traguardo ed è l’unica concorrente femminile. Richard Bull rimane impressionato dalla forza fisica e mentale di quella ragazza che non molla mai e inizia ad aiutarla con cibo, visti, iscrizioni alle gare e facendola lavorare nell’organizzazione della Mustang Trail Race. Nel 2015, al termine delle Skyrunner World Series, Mira deve affrontare un problema più volte rinviato: una vecchia lesione del legamento crociato che, sottoposta a stress, non le consente più di correre veloce. E il nostro Paese le dà un’opportunità: grazie all’affiliazione con la società sportiva Freezone, ha potuto ottenere il permesso di soggiorno temporaneo ed essere operata a Brescia dal professor Eugenio Vecchini. Il rientro non è stato facile, ma grazie all’aiuto dello yoga, ai consigli del preparatore atletico Eros Grazioli e alla pazienza degli sponsor, che non le hanno mai messo fretta, nel 2017 è arrivato il successo alla Ben Nevis Ultra Sky Race. Il resto è storia recente: nel 2018 seconda alla Hong Kong 100 Ultra, quarta alla Lavaredo Ultra Trail, terza al Kima. Mira è tornata. Ci sono altri trail runner nepalesi conosciuti, per esempio Dawa Dachhiri Sherpa, primo vincitore dell’UTMB, ma lei, oltre che la prima donna sportiva, è stata l’unica a scegliere di rimanere nel suo Paese e di combattere ogni giorno per dare l’opportunità a tante ragazze di studiare, lavorare facendo le guide di trekking, correre e avere di che vivere, evitando di diventare una delle tante spose bambine. «Dopo le vittorie al Sellaronda e al Trail degli Eroi - racconta Tite Togni - aveva guadagnato un paio di migliaia di euro e, prima di partire, me li ha dati in mano dicendomi: ‘tienili, gestiscili tu, io non so cosa sono’. Io ho accettato l’invito a patto che iniziasse a studiare matematica». Mira la matematica l’ha studiata e anche l’inglese. E ha dato il sorriso e un’opportunità di riscatto a tante ragazze nepalesi, anche con quei soldi vinti in Italia.
TITOLI DI CODA
- Con i soldi guadagnati nelle gare europee Mira ha comprato un allevamento di polli per il fratello, fatto studiare a Kathmandu la sorella, che si occupa di marketing per la polleria, pagato il viaggio per portare i genitori per la prima volta a vedere la capitale.
- Ha studiato l’inglese e la matematica e imparato a fare i conti.
- Dal 2015 organizza la Bhojpur Trail Race, nel villaggio dove abita la sua famiglia, per portare turismo nella regione e aiutare i giovani runner locali. L’edizione 2018 è in programma il prossimo 15 dicembre e prevede due distanze, 36 e 8 chilometri. È possibile contribuire alle spese per l’organizzazione dell’evento. bhojpurtrailrace.com
- Nel 2017 Mira Rai è stata nominata National Geographic Adventurer of the Year.
- Nel 2017 è uscito il film Mira: la corsa della libertà, di Lloyd Belcher. Dalla scorsa primavera è disponibile su Vimeo On Demand con sottotitoli in italiano per il noleggio o l’acquisto.
- Nel 2018 ha fondato la Mira Rai Initiative, una charity registrata in Nepal e nata per aiutare le giovani trail runner nepalesi attraverso lo studio della lingua inglese, la partecipazione ai corsi per diventare guide di trekking, l’allenamento, la partecipazione a gare in Nepal e alla Hong Kong 100 km. miraraiinitiative.org
- Il 9 ottobre 2018 a New York ha ricevuto il prestigioso premio Game Changer dell’Asian Society, assegnato alle persone che si sono distinte, rompendo gli schemi, per meriti umanitari, imprenditoriali o nella difesa dei diritti delle donne e delle ragazze. Insieme a lei, tra gli altri, verranno premiati i soccorritori dei piccoli calciatori thailandesi delle grotte di Tham Luang, i primi soccorritori di Fukushima o i White Helmets siriani. La motivazione? Per aver sfidato quote vertiginose, distrutto record, ispirato - e aiutato - milioni di ragazze.
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 120, INFO QUI

Great Himalaya Trail, 24 giorni che ti cambiano la vita
Dopo ventiquattro giorni, quattro ore e ventiquattro minuti oppure 1.504 chilometri o ancora 70.000 metri di dislivello positivo su e giù per i sentieri dell’Himalaya con i tuoi piedi impari due lezioni che ti aiuteranno a trovare la strada giusta per il resto della vita. «Dobbiamo apprezzare le cose semplici, ci affanniamo per avere sempre di più e non ci godiamo la nostra famiglia e quello che abbiamo: se sei felice potrai inseguire i tuoi sogni, però se vivi per inseguire i tuoi sogni ma sei infelice, non li realizzerai mai». La prima lezione sembra (ed è) un insegnamento buddista. «Sono stato in villaggi minuscoli, lontani da tutto e da tutti, con tanta povertà, eppure sono felici e ti aprono la porta alle undici di notte, nel buio immenso, ti preparano da mangiare e ti fanno dormire senza chiederti chi sei, mentre noi abbiamo perso il giusto punto di vista e per ritrovarlo non ci rimane altro che scappare dalla civiltà e dal bombardamento di informazioni e social media, camminare nella natura, correre per ritornare in noi stessi». I Beatles andarono in India per ritrovare la loro ispirazione. Il trail runner sudafricano Ryan Sandes, il primo uomo a vincere tutte e quattro le 4 Deserts race, l’uomo che ha vinto una gara ultra-trail in ognuno dei sette continenti, tra le quali anche la Leadville e la Western States, non è nuovo a imprese da record nella natura, eppure il lungo viaggio del Great Himalaya Trail, da un confine all’altro del Nepal, lo scorso marzo in compagnia dell’amico e compagno di tante avventure Ryno Griesel, lo ha fatto tornare a casa diverso. È un viaggio incredibile, dalle vette più alte del mondo alla giungla. Ma è anche un viaggio alla scoperta di se stessi. «È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita, in positivo. Penso che sia stata la tappa finale di un percorso, la cosa più grande che abbia mai fatto e sono molto soddisfatto, ma non la ripeterei».
Il Great Himalaya Trail non è un solo sentiero, ma la combinazione di vari itinerari sia nella parte montuosa del Nepal (GHT High Route) che in quella più popolata e ricoperta dalla giungla (GHT Cultural Route) e va da un confine all’altro del Paese, lungo la direttrice Ovest-Est. Per questo, sebbene Ryan e Ryno abbiano fatto segnare il FKT (fastest known time), non si può parlare di vero e proprio tempo record in quanto un crono di riferimento non esiste data la possibilità di alternative lungo il percorso e le varianti imposte dai tanti imprevisti. Quello seguito dai due sudafricani ripercorre fedelmente le orme del connazionale Andrew Porter dell’ottobre 2016 ma, per esempio, Lizzy Hawker, nel 2016, ha fatto segnare un tempo di riferimento lungo la parte in quota del GHT, tra le montagne. «Quello che volevamo non era un record a tutti i costi, ma un’avventura che unisse la bellezza delle vette più alte del mondo alla possibilità di conoscere la cultura e le città perché per me, che vengo da Città del Capo, trail running significa correre nella natura, ma non in montagna». Una lunga avventura… «Dopo la vittoria alla Western States 100 dello scorso anno cercavo proprio qualcosa del genere e l’Himalaya mi ha sempre attirato, però mi spaventava la lunghezza del percorso perché voglio anche continuare a partecipare alle gare ultra e devo avere il tempo di recuperare». Già, la lunghezza: muoversi a piedi per 24 giorni consecutivi, con una media di 16 ore di attività e poco tempo per dormire e ancora meno occasioni per farlo in un letto, è stato l’aspetto più duro del Great Himalaya Trail di Ryan. «Il ritmo era lento, più lento di quanto sono abituato, e anche questa è stata una sfida: ci sono stati giorni nei quali abbiamo camminato per 20 ore e altri per 12, notti passate nelle case dei nepalesi in villaggi isolati dal mondo e momenti nei quali ci fermavamo giusto una ventina di minuti ogni tanto per dormire sul sentiero o su qualche tavola di legno usata dai pastori, piuttosto che nei loro ripari di fortuna». Impossibile pensare di dormire all’addiaccio nella prima parte del percorso, in quota e in parte ancora innevata, più pratico farlo verso la fine, negli ultimi 300 chilometri, quando Ryan e Rino hanno camminato e corso nella giungla, con temperature che superavano i 30 gradi. Per trovare la motivazione in quei 25 lunghi giorni Ryan si è inventato degli obiettivi giornalieri, ragionando step by step, ma non è sempre stato facile.

L’altro aspetto che ha reso difficile il Great Himalaya Trail, soprattutto nella prima parte, è stato l’orientamento. Faceva freddo e il percorso era ancora in parte ricoperto dalla neve. «Ci siamo affidati al GPS, ma di tanto in tanto dovevamo fermarci dieci minuti per ritrovare la traccia; abbiamo calcolato che ogni giorni, in media, perdevamo fino a tre ore per orientarci e in una di queste pause Ryno si è procurato il congelamento di alcune dita della mano perché siamo saliti fino a 5.500 metri di quota con temperature di - 15 gradi e il vento che accentuava la sensazione di freddo».
Quella del cibo è stata la sfida nella sfida. Per scelta e per alleggerire gli zaini è stato deciso di fare tutto il Great Himalaya Trail procurandosi da mangiare lungo il percorso, come dei normali turisti: acquistandolo o facendosi ospitare dai locali. Solo in tre punti c’è stata la possibilità di cambiare gli zaini e i vestiti e nelle tasche trovava spazio qualche barretta, gel o lattina di Red Bull. «Alla fine il mio corpo mi diceva che non ne poteva più di quell’alimentazione e sono stato male un paio di giorni: i nostri pasti consistevano di frittata, riso e lenticchie quando avevamo la fortuna di essere ospiti, oppure di biscotti e cioccolato comprati alle bancarelle e non era proprio l’ideale durante una traversata di 1.500 chilometri».
La mattina del 19 marzo, a 40 chilometri da Patan, Griesel ha iniziato a soffrire di spasmi muscolari nella zona del torace ed è andato in iperventilazione. «Ho veramente temuto che da un momento all’altro cadesse a terra sul sentiero: aveva i battiti del cuore molto alti e la febbre» ricorda Ryan. Mai come in questo momento la fine dell’avventura è stata vicina. «Da una parte non avrei mai voluto che Ryno avesse dei problemi seri di salute, dall’altra so quanto ci teneva a portare a termine il Great Himalaya Trail e che il ritiro sarebbe stata la più brutta notizia per lui, è stato il momento più difficile per tutti». Ci sono mali fisici e mentali e i fantasmi hanno iniziato a popolare il cervello di Ryan. «Ho iniziato a pensare a mio figlio di 19 mesi e a come fosse cresciuto durante questi 24 lunghissimi giorni: quanto mi fossi perso!». Per non farsi mancare nulla, negli ultimi giorni Ryan si è anche imbattuto in una gang locale che, nella notte, li ha inseguiti tra le montagne, anche con le luci delle frontali spente, fino a quando i due non sono arrivati a una locale stazione della polizia. Questo ultimo contrattempo non ha impedito l’arrivo a Pashupatinagar, sul confine con l’India, alle prime luci dell’alba del 25 marzo.
Tre mesi dopo la grande avventura rimangono un centinaio di chilometri in più non preventivati, il messaggio di congratulazioni di Lizzy Hawker, tante energie, la velocità delle gambe ancora da recuperare. E la consapevolezza di avere vissuto 24 giorni che hanno cambiato le vite di Ryan e Ryno.

Il Great Himalaya Trail
Il Great Himalaya Trail (GHT) non è un vero e proprio sentiero ma una combinazione di itinerari. Quello seguito da Ryan Sandes e Ryno Griesel ha comportato la partenza da Hilsa, al confine con il Tibet, e l’arrivo a Pashupatingar, dove il Nepal confina con l’India, lungo la direttrice da Ovest a Est. Le stime prevedevano 1.400 chilometri e 70.000 metri di dislivello, ma alla fine la lunghezza totale è stata superiore di poco più di 100 chilometri. Questo percorso è quello seguito dal sudafricano Andrew Porter nell’ottobre 2006 e portato a termine in 28 giorni, 13 ore e 56 minuti. Ryan e Ryno si sono consultati a lungo con Andrew e sono passati da 12 precisi checkpoint che coincidevano con quelli di Porter. Cinque semplici regole hanno dato un senso all’impresa: autonomia nell’orientamento e nell’alimentazione, acquistando il cibo lungo il percorso o facendosi ospitare dai locali, nessun uso di sherpa e muli, pernottamenti all’aperto o nei lodge e nelle case per non appesantire lo zaino, utilizzo di una compagnia di trekking locale per cambiare gli zaini in tre occasioni e l’assistenza per i permessi. Il sito di riferimento per il Great Himalaya Trail, con tutte le informazioni utili per chi volesse percorrere anche solo una parte del GHT, è www.greathimalayatrail.com
I 12 checkpoint
- Hilsa
- Simikot - km 77
- Gamgadhi - km 150
- Jumla - km 193
- Juphal - km 280 o Dunai - km 290
- Chharka Bhot - km 380
- Kagbeni - km 444
- Thorang La Pass - km 463
- Larkya La Pass - km 561
- Jiri - km 928
- Tumlingtar - km 1.075
- Pashupatinagar - km 1.504
Gli altri record
- Sean Burch (UK): 2010 - 49 giorni, 6 ore, 8 minuti (2.000 km - da Est a Ovest, combinazione dell’High e del Cultural GHT).
- Lizzy Hawker (UK): 2016 - 42 giorni, 2017 - 35 giorni (circa 1.600 km - da Est a Ovest - prevalentemente sulla High GHT Route, evitando i tratti tecnici che richiedono passi di arrampicata).
I NUMERI
- 70 km la lunghezza minima delle tappe giornaliere
- 120 km la lunghezza massima percorsa al giorno
- 500 m il dislivello minimo giornaliero
- 000 m il dislivello massimo giornaliero
- 124 palle di riso mangiate
- 43 palle al curry
- 300 barrette di cioccolato
- 600 cookie
- 46 donuts
- 2 pizze
- 24 lattine di Red Bull
- 3 ore di sonno a notte in media
- 2 le volte che Ryan e Ryno hanno potuto lavarsi i denti
- 0 le docce fatte lungo il percorso
- 24 giorni, 4 ore, 24 minuti il tempo fatto registrare da Ryan Sandes e Ryno Griesel
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 119, INFO QUI

Le code sull’Everest e la questione ossigeno
La foto di Lydia Bradey, la neozelandese prima donna ad avere scalato l’Everest senza ossigeno, ripostata da Hervé Barmasse, ha fatto il giro del mondo, come la notizia che tra il 22 e il 23 maggio, complice anche una delle poche finestre di meteo favorevole, sulla vetta della montagna più alta della terra sono arrivate, dopo lunghe code alla balconata o all’Hillary Step, da 200 a 300 persone, sommando i diversi versanti. Una situazione, quella degli ottomila himalayani, che registra già quasi 20 vittime, alcune proprio in questi giorni sull’Everest. A fare le spese della situazione anche alcuni alpinisti di livello, come David Göttler, con cinque ottomila in curriculum, che ha cercato di raggiungere la vetta senza ossigeno, ma ha dovuto tornare indietro, rimanendo imbottigliato nelle code delle persone al rientro. «La mia decisione di partire tardi e sfruttare il calore del sole ha funzionato fino ad appena sotto la Vetta Sud quando il freddo è aumentato e sono rimasto intrappolato nelle code della gente che scendeva – scrive sul suo account Instagram – Ho deciso di rientrare da quota 8.650, dopo avere aspettato invano, perché sprecare energia non è un’opzione quando non hai ossigeno supplementare».
«L'anno 2018 aveva registrato il record con più salite in una sola stagione pre monsonica – ha scritto Barmasse sul suo account Instagram -. Più di 800 persone in vetta. Mercoledì scorso invece verrà ricordato come il giorno con più affollamento sulla cima del tetto del mondo. Circa 250 persone. La foto rende più delle mie parole. Per ogni persona si calcola circa 8/10 kg di immondizia per sempre abbandonata sulla montagna. Nonostante gli sforzi per ripulirla, la realtà ci propone una sola verità. L'alpinista insegue il proprio ego ed è disposto a sacrificare la montagna per un fatuo successo».

Il fotografo Dan Patitucci, riprendendo la notizia della rinuncia di Göttler, fa alcune riflessioni sul filo del paradosso sull’account Instagram @alpsinsight. «Non ho esperienza sull’Everest e so che la mia opinione vale poco. Ma mi disturba vedere tutte le persone che arrivano alla cima dell'Everest con l'ossigeno e essere messe nella stessa categoria di quelle che non lo usano. Gran parte dei media non fa più differenzia tra chi lo usa e chi no. Nel frattempo la maggior parte di chi non scala non sa nemmeno quale sia la differenza. Secondo uno studio, chi sale l’Everest con l’ossigeno vive le sensazioni che si provano tra 3.300 metri e 6.000 metri. La vetta dell'Everest è 8.848 metri. Io ho corso senza problemi a 5.300 metri. Pensateci. È come un Tour de France dove tutti pedalano su delle e-bike, tranne il concorrente in ottava posizione. Come si sentirebbe se nessuno menzionasse questo sforzo rispetto agli altri? È lui il vero vincitore? Il vero ciclista? E se gli e-biker non avessero la forza o le capacità per affrontare il percorso senza quel motore, farebbero parte della gara?». Una riflessione che, al netto delle prestazioni ossigeno-senza ossigeno che non sono così facilmente paragonabili con dati e numeri precisi, trova l’approvazione di Kilian Jornet e del trail runner Pascal Egli, che commenta come per salire in vetta sarebbe meglio basarsi sul curriculum alpinistico piuttosto che sui soldi. «Credo che se avessi pagato 70.000 dollari per scalarlo e mi capitasse di dovere aspettare a oltre 8.000 metri come in fila per un pellegrinaggio il mio sogno si trasformerebbe nel più terribile degli incubi» commenta la Guida alpina Alberto De Giuli. Everest, sogno o realtà? O piuttosto incubo? Rimane il fatto che la situazione sta degenerando e sarà sempre peggio.











