Eric delle montagne
All’inizio di marzo del 2001 una marea umana di uomini senza diritti partiti dal Chiapas entra a Citta del Messico dopo avere attraversato 12 stati e percorso oltre 3.000 chilometri. È la grande marcia del subcomandante Marcos. Le centinaia di migliaia di persone avanzano lentamente, al ritmo della musica sparata a palla da un camion. Su quel camion ci sono i 99 Posse, band napoletana, ed Eric Girardini, venticinquenne di Lentiai, in provincia di Belluno. Festeggia gli anni proprio in quei giorni e fa parte delle oltre duecento tute bianche antiglobalizzazione italiane che assicurano il servizio d’ordine. Cosa ci faceva una Guida della Scuola delle Aquile di San Martino nel cuore della marcia zapatista a Città del Messico? La storia è un po’ lunga…
Per raccontarla e per conoscere meglio Eric Girardini, siamo andati a fotografarlo nel cuore delle Pale di San Martino, il suo regno. L’articolo è su Skialper 128 di febbraio-marzo. Con Diego Dalla Rosa, Hermann Crepaz ed altri è stato tra i primi a usare gli sci larghi da quelle parti. Il curriculum di Eric è di tutto rispetto, anche se non è un tipo che ama stare lì a snocciolarti le sue prime, non gli interessa. Forse perché, come Diego Dalla Rosa, lo fa per se stesso. «E poi da noi è difficile nello sci dire se è veramente la prima discesa, anche se sono sicuro che con Hermann e Diego ne abbiamo fatte molte, comunque possiamo dire di avere fatto belle linee con il nuove tra virgolette. Ai Vani Alti c’è forse il canale più estetico, simile all’Holzer, incassato e chiuso, esposto a Nord. Poi ricordo la Cima di Ramezza, sulle Vette Feltrine, la parete Nord del Colbricon italiano. Ah, dimenticavo, la Nord del Piz de Sagron, nelle Vette Feltrine, è stata forse il nostro apice. Probabilmente è una prima, ci sono solo notizie vaghe di una discesa di Mauro Rumez, ma non si sa con precisione se abbia sciato quella parete». Appuntamento su Skialper 128 di febbraio-marzo.
François D’Haene, in vino veritas
È di questi giorni la notizia che François D'Haene ritornerà all'UTMB nel 2020. Noi siamo andati a trovarlo a casa sua dopo l'ultima, indimenticabile, vittoria nel 2017, davanti a Kilian Jornet. L'articolo è stato pubblicato sul numero 115 di Skialper.
Non è vero, ma ci credo. Oppure, se volete, non ci credo, ma è vero. A volte le coincidenze sono solo coincidenze, ma nel caso di François D’Haene potrebbero non esserlo e c’è un sottile filo magico che lega i suoi successi a un luogo: Domaine du Germain, comune di St.-Julien-en-Beaujolais, dipartimento del Rodano. Dopotutto ci troviamo a pochi chilometri da Lione, che con Torino e Praga forma un noto triangolo dell’esoterismo. La terra rossa argillosa di queste colline famose per il loro vino allegro e fruttato sembra avere avuto un magnetismo positivo sulla vita e la carriera sportiva del più forte ultra-trailer del mondo. François e la moglie Carline hanno completamente cambiato le loro vite nel 2012 quando hanno messo tra parentesi le precedenti occupazioni per prendere in affitto le vigne della famiglia di Carline. Da fisioterapista e vignaiolo. Da atleta di buon livello a trail runner più forte del mondo. Guarda caso Il 2012 è il primo dei cinque anni magici. Cinque - altro legame esoterico - come i tralci di ogni vigna di Gamay che possono essere potati ogni anno secondo il contratto di affitto firmato da François e Carline. Prima una bella carriera, con il terzo posto alla CCC del 2006, il podio sfiorato a La Reunion e ai Templiers, il secondo posto alla TNF Australia. Risultati che ognuno di noi farebbe carte false per ottenere, per carità. Ma manca quel numero - uno - nelle gare che contano veramente. Sei uno tra i tanti. Poi improvvisamente nel 2012 arriva la vittoria all’Ice Trail Tarentaise e all’UTMB, il secondo posto all’Endurance Challenge 50 in California, nel 2013 la vittoria alla 80 km du Mont Blanc e alla Diagonale des Fous, nel 2014 il trittico Mt Fuji, UTMB e Diagonale, nel 2016 ancora la Diagonale e la Hong Kong 100, nel 2017 Madeira, Maxi Race d’Annecy e soprattutto l’UTMB dei record, quella che lo consacra, se ci fosse stato ancora bisogno di una prova, come il più forte ultra-trailer del mondo. Di sempre. Questo paesino di 800 abitanti, questo domaine con le case di pietra rossa e le vigne basse sembra essere il primo segreto dei successi di Dr Jekyll & Mr. D’Haene. Chi lo ha frequentato nei giorni di gara ha conosciuto Dr Jekyll. Di poche parole, quasi altero, quasi burbero. Non è uno dei simpaticoni della tribù del trail, vive nel suo mondo. Si dice che questa primavera, a Madeira, non sapesse che aspetto avesse Pau Capell che doveva tenere d’occhio perché era uno degli avversari più pericolosi. Chi ha avuto la fortuna di incontrarlo au calme, al domaine, ha conosciuto il vero Mr. D’Haene: molto ospitale, simpatico, spontaneo, semplice e con due valori sopra a tutti: la famiglia e la condivisione. Condivisione delle esperienze e dei piaceri della vita con gli amici. Quegli stessi amici che lo hanno accompagnato nel record del GR 20 o sul John Muir Trail e che vengono ad aiutarlo a vendemmiare. Chi lo conosce bene dice che Mourinho non è tanto diverso: burbero fuori, amico in famiglia e con la squadra. Forse sono le virtù dei vincenti.
Giovedì 9 novembre, ore 10 in punto. In una uggiosa mattina autunnale passiamo Lione e lasciamo l’autostrada per spingerci verso le colline. Superiamo un paesino che sembra uscito da una cartolina, con una mairie mignon ma impeccabile nel suo abito, con tre bandiere tricolori a sventolare. Imbocchiamo una stradina di campagna. Il cartello dice Domaine du Germain. Tutto intorno solo vigne basse, con le foglie gialle e rosse. Ci sono quattro o cinque casette di pietra rossiccia. Nessun citofono, nessun cognome. Proviamo a salire su una stretta e lunga scala. Suoniamo il campanello. Si apre una porticina e, chinando il capo, esce un gigante. «Bonjour François».
La prima domanda è d’obbligo, che bottiglia hai aperto per festeggiare la vittoria all’UTMB?
«Tutte».
L’UTMB 2017 ti ha cambiato la vita. C’è un prima e un dopo?
«Sicuramente, sono più conosciuto. Nei giorni scorsi ero ospite a Grenoble Montagne e hanno dovuto aggiungere 400 sedie. Qui in paese però non è cambiato molto. Mi conoscono tutti e si sono sempre interessati ai risultati alle gare. Con tanta passione. C’è gente che non sa cosa sia la corsa e il trail, ma ha seguito ora per ora l’UTMB e quando mi incontra, magari seduta sul trattore, mi fa cento domande».
Al Domaine c’è tanta pace, un’atmosfera molto diversa dalle gare, come vivi questo contrasto?
«Sono solo alcuni giorni o ore, poi torno qui, fa parte del gioco. In tanti mi chiedono informazioni o autografi, ma trovo che oggi ci sia soprattutto questa mania del selfie, li vedo tutti pronti con quel braccio allungato, sorridenti».
E poi non sempre c’è la folla e la pressione dell’UTMB…
«Alle gare con poca gente le persone hanno più tempo per chiederti un selfie e parlare, c’è meno frenesia, nel bene ma anche nel male, preferisco l’UTMB. Però quello che trovo difficile da accettare è la superficialità. Da fuori sembra tutto facile, diventa tutto banale. Tra l’UTMB e la Diagonale des Fous mi ha chiamato Xavier Thévénard. Voleva chiedermi come mi ero trovato a fare la Diagonale dopo l’UTMB perché non si sentiva in forma, voleva capire se aveva senso per un top provare due cento miglia così vicine a fine stagione. Poi è andata come è andata e ho sentito gente dire che ha accettato l’invito solo per farsi una vacanza. Ma come si può pensare che uno come lui che ha scritto la storia dell’UTMB abbia bisogno di questi espedienti per andare a farsi una vacanza?».
Jim Walmsley all’UTMB scappava via e poi vi aspettava ai posti di rifornimento, è vero?
«Sì, arrivava magari con tre minuti di vantaggio, sulle discese andava a tutta e poi voleva ripartire con noi per non tirare da solo. Forse questa strategia lo ha un po’ prosciugato, ma in realtà credo che si sia davvero trattenuto, secondo me è solo una questione di tempo, e non di chilometri, fino a 12-13 ore conosce bene il suo fisico e le sue reazioni, oltre no».
Mentre parliamo attorno all’isola della grande cucina di casa, François ci offre un caffè. Non sarà come quello italiano però. Invece nella tazzona c’è una miscela piacevole, certo non nelle piccole quantità di un espresso. L’ho presa negli Stati Uniti, ha un retrogusto di cacao.
Sei settimane dopo l’UTMB hai fatto registrare il record sul John Muir Trail, uno dei trekking più popolari degli Stati Uniti. Come hai potuto recuperare così in fretta?
«Impossibile recuperare così velocemente, infatti la stanchezza si è fatta sentire, però le avventure come il John Muir o il GR20 in Corsica me le scelgo attentamente, sono qualcosa di diverso da una gara. Non mi interessa il record fine a se stesso, ma correre in posti magici con i miei amici e condividere una bella esperienza con la famiglia. Infatti a farmi da pacer c’erano quattro amici una volta e cinque l’altra. L’orologio lo guardo solo alla fine, al John Muir ero abbastanza tranquillo perché avevo dodici ore di vantaggio».
Più duro il GR20 o il John Muir?
«GR 20, in 31 ore ho fatto 180 chilometri, il meteo era variabile, i tempi di riferimento nelle varie sezioni non erano affidabili. Al John Muir provi altre sensazioni, la solitudine, il caldo del giorno in contrasto con il freddo della notte. Penso di avere attraversato una sola strada in più di 300 chilometri. A volte ti ritrovi a pensare che è meglio non forzare troppo perché se ti fai male dovrai comunque camminare 30 ore per trovare qualcuno, non ci sono rifugi. Di giorno, anche a quote sopra i 3.000 metri, si stava bene in maglietta, la sera faceva meno cinque. Finché corri non lo senti, ma se ti vuoi fermare a dormire è dura, ecco perché, quel poco che ho dormito, l’ho fatto soprattutto di giorno. E la notte è lunga, perché il buio durava 13 ore».
Dormire. All’UTMB non si chiude occhio, su 300 chilometri e oltre sì. Che strategia hai usato?
«Mi sono fermato 12 ore circa, ma in totale non ho chiuso occhio più di 3 ore. La testa viene invasa dai pensieri: quanto manca, mi faranno male le gambe? Una volta ho provato a dormire di notte: mi avevano acceso un fuoco, ero ben coperto, ma era impossibile per il freddo. Il John Muir mi ha fatto pensare. Le cento miglia, almeno per il mio corpo, sono una barriera accettabile, ho trovato un buon equilibrio arrivando a farne due o tre a stagione. Oltre credo che la mancanza di sonno sia un fattore importante da tenere in considerazione. Dopo una UTMB ci vogliono mesi per recuperare, ma dopo un Tor? Forse avrebbe senso, oltre una certa distanza, stabilire delle pause obbligate per fare dormire gli atleti top, diciamo tre da un’ora. Quando partecipi ai raid è così».
Non c’è dubbio che i fisici reagiscano in parte in maniera diversa e anche il recupero cambia da persona a persona.
«A volte è importante liberare la testa. Me ne sono reso conto dopo l’UTMB. Finita la gara ho festeggiato per qualche giorno e poi, già la settimana dopo, qui abbiamo vendemmiato. Non ho avuto modo di pensare quanto ero stanco o se mi facevano male le gambe, c’era da lavorare, da correre, in un altro senso. E dopo una settimana stavo bene».
Dopo queste considerazioni arriva la seconda domanda d’obbligo. Che poi sono due domande: farai l’UTMB 2018? E il Tor des Géants?
«No, non sarò a Chamonix, non l’anno prossimo, è una delle poche decisioni già prese per il calendario 2018. Non escludo di tornarci, ma non subito. Il Tor? Una volta nella vita lo voglio fare, ma ora è molto difficile perché capita proprio nei giorni della vendemmia».
Il calendario quando lo decidi? Come fai a trovare le motivazioni dopo avere vinto tanto?
«L’autunno è la stagione della riflessione, ci sto pensando proprio ora e di solito lo rendo pubblico a metà dicembre. Mi aiuta molto cambiare, correre in posti diversi. L’anno scorso ho inserito la Maxi Race di Annecy perché era vicino a casa e potevo allenarmi con Michel Lanne, volevo fare la Lavaredo Ultra Trail perché non conosco le Dolomiti, ma purtroppo ho dovuto rinunciare per un infortunio. Poi Madeira, un altro posto nuovo e con una densità di atleti forti al via che è stata inferiore solo all’UTMB. L’UTMB? Volevo tornarci dopo qualche anno e poi quando ho visto che c’erano tutti quei top al via ho pensato che difficilmente ci sarebbe stata ancora una gara così».
E i record?
«Cerco luoghi e itinerari particolari, ma non necessariamente famosi: il prossimo potrebbe proprio essere un sentiero da inventare, dove non sono già stati registrati fastest known time».
Hai già qualche idea?
«No, dopo la Corsica ci ho impiegato sei mesi per avere la testa libera di pensare a un’altra avventura. Non è semplice: bisogna badare alla logistica, a chi verrà con te, a quando andare. Pesa tutto sulle mie spalle».
Hai corso poco in America, ci andrai quest’anno?
«Forse la Hardrock, ma non so, in America non hai la certezza di riuscire ad avere il pettorale e poi magari ti ritrovi a correre con pochi atleti top».
I cavalli nel motore non mancano, hai mai fatto un pensierino alla Marathon des Sables?
«Una volta mi ero anche iscritto, poi non sono potuto andare. No, però ora non credo che ci andrò più, in quel periodo voglio sciare e poi è ben diverso da un trail tradizionale, in effetti è un po’ un unicum nel calendario ITRA».
François scalpita dalla voglia di mostrarci il Domaine. Abbiamo tre ettari e mezzo di vigne qui e uno a 40 minuti di auto, dopo ve le faccio vedere aveva detto accogliendoci. La nostra giornata prosegue dunque passeggiando tra i bassi filari di Gamay. Passeggiando, non correndo. Vedi, qui sopra produciamo La Germaine, un Beaujolais Village leggero e fruttato, lì sotto il Calvaire, più complesso, dai profumi intensi di frutta e più tanninico. Vedrai quando li degusteremo, sono diversi, eppure le vigne sono a pochi metri una dall’altra. Ma ci sono anche altri fattori da tenere in considerazione. Il primo lo produciamo con una macerazione veloce, il secondo invece rimane di più nella cisterna di fermentazione in cemento. François si inerpica su per i dolci declivi di questo angolo di Beuajolais. Ci vuole mostrare le vette più alte della regione, dove spesso va ad allenarsi. Qualche sparuto grappolo non è stato tolto durante la vendemmia. Gli acini sono piccoli e scuri, potrebbero anche essere dei grandi mirtilli. François ne strappa uno e lo schiaccia tra le dita. Dentro il succo è chiaro, volendo si potrebbe anche fare del vino bianco, ma noi produciamo giusto un rosè estivo. Questo vitigno si chiama Gamay ed è il principale della regione del Beaujolais. le viti sono basse, i grappoli e gli acini piccoli, non è certo uva da tavola.
In quanti siete al domaine?
«Due, io e Carline».
Come fate, non avete una formazione legata alla viticoltura?
«Ci siamo subito appassionati, amiamo il buon vino, Carline, dopo che siamo arrivati al Domaine, ha fatto studi enologici e all’inizio ci ha aiutato Laurent Gobet, il vecchio vignaiolo del Germain».
Solo due, il lavoro non manca…
«Sì, oltre alla vendemmia bisogna prendersi cura delle viti e poi vinificare. Guarda questo filare: qui ho già potato cinque tralci, da contratto ne possiamo tagliare solo cinque all’anno e siamo in due a farlo sui quasi cinque ettari del Domaine».
Come è la tua giornata tipo, quando trovi il tempo di allenarti?
«Non ho una giornata tipo. Nessuna è uguale all’altra. Quando carico vado a correre su queste colline, faccio un’ora e mezza, due ore, posso pestare solo sterrato e prati e arrivo a 700 metri di dislivello, poi una volta la settimana e nel week end salgo in montagna e allungo, anche cinque, sei ore. Ma non c’è una regola, a volte corro la mattina, altre il pomeriggio, salgo in montagna il mercoledì oppure un altro giorno. Anche nella scelta dei percorsi cerco di variare».
Corri da solo?
«Quasi mai, ho un bel giro di amici runner».
Ascolti musica?
«No».
Che cosa vuol dire correre?
«Prendere aria, stare nella natura».
Usi il cardiofrequenzimetro?
«No, guardo solo distanza, tempo e dislivello».
Conosci i tuoi parametri?
«Solo altezza e peso, uno e novantadue e 70-75 chili, piede 10 e mezzo, non mi è mai interessato sapere altro».
In questa stagione corri?
«Molto poco, giusto per il piacere di farlo quando ne ho voglia. Poi in inverno mi alleno soprattutto con lo scialpinismo e lo sci di fondo, non mi dispiace anche la bici».
Giusto, l’anno scorso alla Pierra Menta sei arrivato undicesimo. Ti piace pellare?
«Molto, quest’anno abbiamo preso una casa proprio vicino a dove si corre la Pierra, vorremo andarci nei fine settimana ma anche due o tre mesi durante l’inverno. Ho sempre sognato di svegliarmi con la neve attorno e stiamo organizzandoci per mandare i bimbi a scuola lassù».
Quante Pierra Menta hai fatto?
«Undici. Tutte con Alexis Traub, mio cognato, come le altre gare in coppia. Ho anche pellato qualche volta con Laetitia Roux. È buffo, abbiamo fatto entrambi la stessa scuola di fisioterapia e ora nessuno dei due fa il fisioterapista. E Matteo Eydallin, sta ancora vicino a Gap? Da quelle parti ho anche io dei parenti».
Per le cronache, Alexis Traub non è ‘solo’ il cognato di D’Haene, ma è stato anche nazionale francese di corsa campestre e di corsa in montagna. Un ambiente, quello della corsa campestre, che ha frequentato anche François.
Come hai scoperto il trail?
«Ho fatto atletica da sette a 17 anni, ma quel modo di interpretare la corsa mi stava stretto, nel trail ho trovato subito la libertà».
Come si fa a diventare François D’Haene, voglio dire, hai fatto trail per diventare il più forte al mondo, avevi un programma e delle idee ben precise?
«No, passo dopo passo. Quando ho iniziato a correre fuori le gare lunghe non esistevano quasi, facevo 20-30 chilometri. Poi ho cominciato a provare i 70 chilometri e mi sono reso conto che dopo qualche ora, quando gli altri erano cotti, davo il mio meglio. Anche quando sono entrato nel Team Salomon, mi sono detto: vediamo, passo dopo passo, io continuo ad andare per la mia strada».
Quando hai capito che potevi diventare forte?
«Anche questo passo dopo passo, la prima pietra è stata la vittoria nel 2006 al Tour des Glaciers de la Savoie, i famosi 70 chilometri».
Si avvicina l’ora di pranzo e, prima di portarci in paese, da Chez Audrey, l’unico bar-ristorante di Saint-Julien, François ci scorta in cantina. Carline ha preparato una verticale di Beaujolais del Domaine. Inutile dire che, a digiuno, è stata peggio di un ultra-trail. E naturalmente ha vinto François. Abbiamo potuto apprezzare i diversi aromi e le diverse densità. Già, proprio quella densità che François ha utilizzato per descrivere l’alto numero di atleti top al via. Dopo pranzo abbiamo fatto un altro salto a casa D’Haene. Una scusa per curiosare nella cantina privata.
Bevi anche birra?
«Certo, eccola qui, dopo le gare non so resistere».
Hai qualche vino italiano?
«Guarda queste due bottiglie, sono italiane, sono buone? Credo che me le abbia regalate Marco De Gasperi».
Sono due vini di Valtellina, uno un Sassella. In un angolo scorgo una lastra di marmo con il profilo della Corsica e dei nomi incisi. È un ricordo del GR20, me lo ha regalato un runner locale e ci sono i nomi e i tempi di tutti quelli che hanno fatto il record.
Dove tieni coppe, medaglie e trofei, ce li fai vedere?
«Eh sono un po’ sparsi, dai miei, dai parenti».
E l’ultima UTMB, ce l’avrai il trofeo? Ma poi, in cosa consiste?
«Sì quello dovrei averlo, aspetta che lo cerco».
Traffica in cantina, ma niente. Ci spostiamo nel locale vicino. Qui facciamo la vendemmia. Di solito si svolge in una settimana. All’inizio prendevamo delle persone che pagavamo alla giornata, ma poi abbiamo pensato che doveva essere un momento per condividere le cose belle della vita e vengono i nostri amici. Una quarantina di persone per finire tutto in tre-quattro giorni. La buttiamo sul divertimento, con vari giochi goliardici e premi. Sulle pareti ci sono ancora il regolamento e la classifica dell’ultima vendemmia. Finalmente François tira fuori da un ripostiglio il trofeo dell’UTMB 2017. Diavolo d’un François, ha vinto la gara del secolo e la coppa la tiene nascosta, quasi si è dimenticato dove l’ha messa. Dopotutto la sua ricetta del successo è proprio questa: semplicità, lavoro, uno stile normale, non monastico come quella di tanti pro, tanta varietà nel suo menù, dalla scelta dell’allenamento a quella della gara, famiglia, condivisione. E un buon bicchiere di vino rosso. Ci ha confessato che anche il giorno prima dell’UTMB non se l’è fatto mancare. In vino veritas.
Miti e riti
Se non fosse già stata assegnato tempo fa a Julien Chorier, che nella vita è veramente ingegnere, l’appellativo ingénieur sarebbe stato perfetto per François D’Haene, che è uno dei trail runner più precisi e flemmatici. All’ultima UTMB agli uomini dell’assistenza Salomon ha consegnato un foglietto con la lista di quello che voleva trovare pronto a ogni stazione di rifornimento. In tutte le gare a un certo punto si mette una maglia tecnica Salomon di qualche anno fa, con delle grandi tasche davanti e la vestibilità attillata. Ne ha due o tre esemplari. Mi trovo bene perché non lascia grinze e per questo non diventa mai umida e non prendi freddo. Proverbiale anche il suo scatto felino quando arriva l’alba. Guarda caso le sue vittorie più belle iniziano tutte con una notte in gruppo e la fuga con il sorgere del sole. Prima dell’ultima UTMB ha confessato di non amare correre da solo nella notte. In allenamento mi piace, ma una notte interamente da solo sulle montagne non la auguro a nessuno: a me è successo sul Monte Fuji, cento chilometri da solo…
A ogni gara il suo vino
Abbiamo giocato ad abbinare tre vini del Domaine du Germain a tre gare vinte da François. Lui si è prestato molto volentieri. «La Germaine è l’UTMB, quello che ti aspetti dal trail classico, senza sorprese: montagne, salite, discese, boschi, pascoli, panorami alpini. Il Calvaire lo paragonerei alla Diagonale des Fous, non è un vino e non è una gara facile, tanti saliscendi, salite ripide, sbalzi climatici, un calvario. Il Moulin-à-Vent è un’altra cosa, è più complesso, con un invecchiamento di 18 mesi accompagna carni in umido e formaggi nelle cene con gli amici, come l’avventura al John Muir Trail o al GR20». François realizza ogni due anni un cartone speciale con tre bottiglie dei migliori millesimati dedicate a tre vittorie. Al Domaine du Germain produce circa 14.000 bottiglie all’anno su un totale di poco meno di cinque ettari di vigne. I suoi vini possono essere acquistati online: domainedugermain.com
Neve: sempre meno, sempre più in alto
Le informazioni che arrivano attraverso i mass media parlano di climate change e di aumenti medi delle temperature annue. Guardando nello specifico alla neve e all’innevamento, qual è la fotografia della situazione attuale rispetto al passato?
«Il manto nevoso è estremamente sensibile ai cambiamenti climatici. Quando le temperature aumentano, la neve cade più frequentemente sotto forma di pioggia oppure quella già caduta fonde con maggiore frequenza e rapidità. Tutto questo può causare variazioni a livello di estensione, spessore e densità del manto nevoso. Per poter quantificare questi cambiamenti e classificare correttamente i singoli inverni con poca o tanta neve, è importante disporre di serie pluriennali di misure. Ad esempio uno studio dell’ARPA Piemonte pubblicato nel 2013 ha evidenziato nelle Alpi Piemontesi nel periodo 1961-2010 una generale riduzione delle precipitazioni nevose, particolarmente accentuata alle quote inferiori ai 2.000 metri. Sempre nello stesso periodo lo studio ha evidenziato una diminuzione dello spessore medio stagionale del manto nevoso, più accentuato nelle ultime decadi. Anche la durata della copertura nevosa ha mostrato trend negativi in tutte le stazioni analizzate, più accentuati nelle stazioni alle quote prossime ai 1.500 metri».
E in altri continenti la situazione è simile?
«Uno studio recente di Beniston e colleghi, pubblicato sulla rivista internazionale The Cryosphere, ha evidenziato come la riduzione dello spessore del manto nevoso e della sua permanenza al suolo sia un fenomeno che sta interessando in maniera generalizzata tutte le Alpi europee, in particolare sotto i 2.000 metri di quota. Anche in questo caso le cause sono riconducibili alla prevalenza di eventi piovosi rispetto a quelli nevosi, così come all’incremento della velocità di fusione del manto nevoso, entrambi i fenomeni causati dall’aumento delle temperature nel corso dell’inverno e della primavera».
Fatta la fotografia della situazione attuale, quali sono le proiezioni per il futuro?
«Lo stesso articolo pubblicato da Beniston e colleghi nel 2018 riporta come numerosi studi scientifici siano concordi nel prevedere sulle Alpi a quote intorno ai 1.500 metri una riduzione dell’equivalente in acqua del manto nevoso (un parametro che dipende dallo spessore e dalla densità della neve) compreso fra l’80 e il 90% entro la fine di questo secolo. Le stesse simulazioni indicano un ritardo nell’accumulo del manto nevoso di due-quattro settimane e un anticipo della fusione primaverile di cinque-dieci settimane rispetto alla media registrata nel periodo 1992-2012, sempre a 1.500 metri di quota. Per le quote al di sopra dei 3.000 metri è invece attesa una riduzione dell’equivalente in acqua del manto nevoso di circa il 10%, anche nel caso di scenari che prevedano un incremento delle precipitazioni nel corso dell’inverno. Questi scenari climatici implicano anche l’assenza di un manto nevoso permanente alle quote più elevate nelle Alpi, con importanti ripercussioni sulla dinamica dei ghiacciai».
Si parla di aumenti medi della temperatura annua, un valore spesso incomprensibile ai più. Quanto questi dati sono direttamente collegabili all’innevamento? Esistono studi e tabelle specifiche?
«Uno studio di Valt e colleghi pubblicato nel 2008 sulla rivista Neve e Valanghe afferma che il limite della neve sicura per le attività sciistiche (criterio dei 100 giorni con più di 30 cm di neve al suolo) è confinato in Italia ad una quota prossima ai 1.500 metri. In un sistema climatico in riscaldamento, è stato stimato che la linea della neve sicura sia destinata ad aumentare di 150 m di quota ogni grado di aumento della temperatura media e sulla base di questa analisi vengono effettuate le valutazioni sulle stazioni sciistiche che saranno a rischio nel futuro, sia per la minor presenza di neve naturale che per la difficoltà di produrre neve programmata. Uno studio di Abegg e colleghi pubblicato nel 2007 all’interno di una ricerca dell’OCSE (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) sul turismo invernale, ha evidenziato come con un aumento di 1°C di temperatura nel 2050 in Italia il numero di comprensori sciistici in grado di garantire il limite della neve sicura si ridurrebbe del 12%, mentre con un aumento di temperatura di 2°C la percentuale salirebbe al 27%».
Qual è l’aspetto più evidente dei cambiamenti in corso che uno studioso come Michele Freppaz osserva?
«La mia famiglia è originaria di Gaby, un paese valdostano situato a 1.000 metri di quota. Negli anni ’70 la neve era una presenza ricorrente nel periodo invernale, ricordo magnifiche giornate di sci nei prati dietro casa. Si saliva a scaletta e si scendeva lungo pendii accuratamente preparati da noi bambini, con tracciati a diversa difficoltà. Ricordo anche una manovia a offerta libera. Oggi ciò non è praticamente più possibile e anche la pista di fondo viene aperta decisamente di rado. Se devo fare un confronto con un passato ancora più lontano, mi piace spesso citare un episodio legato all’attività dell’illustre climatologo e glaciologo Umberto Monterin. Nel suo contributo al Manualetto di Istruzioni Scientifiche per Alpinisti del CAI, pubblicato nel 1934, lo studioso invitava i frequentatori della montagna a svolgere la raccolta di dati meteorologici, con una strategia che oggi definiremmo di citizen science. In particolare suggeriva che l’alpinista che avesse avuto occasione di osservare pioggia al di sopra dei 3.500 metri durante la stagione estiva avesse cura di prenderne nota e di darne comunicazione. Oggi probabilmente dovrebbe invitare gli alpinisti a segnalare episodi piovosi sopra i 4.000 metri di quota, in quanto alle quote inferiori questi fenomeni sono ormai molto frequenti».
Quali effetti avranno i cambiamenti climatici o stanno già avendo sulle valanghe?
«Gli studi che hanno trattato la frequenza e le caratteristiche delle valanghe nel passato, tra i quali ad esempio quello di Pielmeier e colleghi, presentato all’ISSW di Grenoble nel 2013, hanno evidenziato come nel corso degli ultimi decenni la frequenza di valanghe di neve umida sia aumentata, anche in pieno inverno (dicembre-febbraio), con particolare riferimento alle valanghe di fondo per scivolamento (glide-snow avalanches). La tendenza all’aumento della frequenza di valanghe di neve umida dovrebbe continuare anche in futuro, in particolare alle quote più elevate e all’inizio della stagione invernale.
I vecchi dicevano che sotto la neve c’è il pane. Quale funzione ha la neve, a parte renderci tutti felici e darci l’occasione di scivolare a valle?
«Il manto nevoso che si deposita nel corso dell’inverno, se di sufficiente spessore e non troppo denso, è un ottimo isolante termico. Maggiore è il contenuto d’aria al suo interno, maggiore è la sua capacità di mantenere al caldo il suolo sottostante, indipendentemente dalla temperatura dell’aria. Nei pressi della stazione di ricerca dell’Istituto Scientifico Angelo Mosso, a una quota di 2.901 metri nel massiccio del Monte Rosa, nel corso dell’inverno se è presente uno strato di neve di almeno 80 centimetri, la temperatura del suolo rimane prossima agli 0° C, anche se quella dell’aria scende a -25° C. Se il manto nevoso non è di sufficiente spessore, il suolo non viene adeguatamente protetto e può andare incontro a fenomeni di congelamento, con effetti sul ciclo degli elementi nutritivi del suolo e sulla vitalità degli apparati delle radici. La neve è inoltre un ottimo sensore della qualità dell’ambiente, in grado di incorporare specie chimiche nel corso della precipitazione, ma anche una volta che si deposita al suolo. Ne corso della fusione primaverile il rilascio delle sostanze che sono state inglobate non avviene con gradualità ma nei primi giorni del disgelo arriva al suolo un’acqua di fusione estremamente concentrata, in base a un fenomeno conosciuto come ionic pulse. Evidentemente le specie vegetali hanno interesse a sfruttare questi nutrienti e per questo spesso iniziano la ripresa vegetativa quando ancora sono coperte dalla neve, in modo da poter sfruttare questa fertilizzazione naturale. I processi all’interfaccia suolo/neve sono fondamentali per capire l’ecologia delle aree montane, e solo un approccio interdisciplinare è in grado di comprenderne a fondo i fenomeni. Non è facile, ma solo l’unione di due discipline quali la nivologia (la scienza della neve) e la pedologia (la scienza del suolo) permette di indagare con successo i delicati equilibri che caratterizzano le aree stagionalmente coperte dal manto nevoso».
Ci sono evidenze di problematiche nel comportamento della fauna legate a quelli relative all’innevamento?
«Numerosi studi hanno evidenziato come cambiamenti nella durata e spessore del manto nevoso possano avere un significativo effetto sugli ecosistemi alpini. Negli ambienti di tundra alpina un ritardo nell’accumulo di neve in tardo autunno può determinare congelamenti del suolo in grado di alterare il ciclo degli elementi nutritivi anche nell’estate successiva. Una fusione anticipata del manto nevoso in primavera può indurre una ripresa vegetativa anticipata tale da alterare la sincronizzazione fra la disponibilità di foraggio e l’attività degli erbivori».
La ricerca in quota
La rete LTER Italia (www.lteritalia.it) è un insieme di siti di ricerca nei quali si conducono ricerche ecologiche su scala pluridecennale. In Italia sono ben 25 i siti e ci sono altre 26 reti nazionali a livello europeo con oltre 400 siti di ricerca, 40 quelle sui cinque continenti. Michele Freppaz è responsabile scientifico LTER Istituto Mosso, nel massiccio del Monte Rosa. Fulcro del sito di ricerca è lo storico Istituto Scientifico Angelo Mosso, a 2.901 metri di quota, al confine fra i comuni di Alagna Valsesia e Gressoney La Trinité. Di proprietà dell’Università di Torino, i laboratori scientifici al Col d’Olen furono inaugurati nel 1907, quando apparve ormai evidente che la capanna Regina Margherita, come centro di ricerca d’alta quota era diventato insufficiente alle sempre più numerose richieste di utilizzo da parte della comunità scientifica internazionale. L’Istituto Mosso, realizzato in soli tre anni, superava per grandiosità, per numero e disposizione di ambienti, per ricchezza di arredamento scientifico tutti quelli che al tempo sorgevano sulle Alpi e su altre catene montuose d’Europa e d’America. Era il primo laboratorio d’alta quota che provvedeva una sistemazione confortevole a studiosi di svariate discipline: medicina, biologia, botanica, geologia, glaciologia e meteorologia. L’attività di ricerca è attualmente condotta da differenti gruppi di ricerca con particolare interesse allo studio delle caratteristiche della neve e dei suoli e vegetazione d’alta quota.
I giorni della neve
«Da tempo mi chiedevo come fare per comunicare al meglio e al di fuori della cerchia degli studiosi o appassionati le mie ricerche: la neve, i suoli d’alta quota, i ghiacciai, i cambiamenti climatici, mi domandavo, potevano diventare una narrazione accessibile a tutti, magari avvincente e capace di coinvolgere anche persone che fin lì non si erano mai interessate a certi temi?». Nasce da questa esigenza I giorni della neve (192 pagine, Dea Planeta 13,60 euro), il romanzo scritto da Michele Freppaz con Francesco Casolo. «C'erano le atmosfere di certi luoghi e una serie di storie che potevano essere raccontate come quella di figure pionieristiche come Angelo Mosso e Umberto Monterin, le cui vite erano state di per sé stesse un romanzo - continua Freppaz -. Ci pensavo senza sapere bene da che parte girarmi; organizzavo conferenze e incontri con la sensazione di potere e dovere fare di più. Poi un giorno di un paio d’anni fa a Gressoney ho conosciuto uno scrittore, Francesco Casolo che già aveva lavorato su storie legate alla montagna e, fra una gita all’Istituto Mosso e una al ghiacciaio del Lys, abbiamo deciso di provarci. Cercando di unire il piacere del raccontare alla divulgazione scientifica, l’incanto di uno sguardo che va a posarsi su un ghiacciaio con il rigore dei dati che ne raccontano l'evoluzione».
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La nuova vita di sci e snowboard? Occhiali da sole e yurte
Che fine fanno sci e scarponi usati? Purtroppo nella maggior parte dei casi finiscono in discarica o nei termovalorizzatori. Il problema principale per i primi è legato alla difficoltà di separare le varie parti assemblate, mentre gli scarponi, pur essendo di materiale plastico, si perdono nelle decine di plastiche e non tutte vengono riciclate. Va meglio per i bastoni dove la parte in alluminio trova nuova vita nel riciclo. Però ci sono alcuni esempi interessanti di recupero dei materiali utilizzati. Due ragazzi italiani hanno aperto una start-up in Austria che realizza occhiali da sole e da vista a partire dalla serigrafia degli snowboard. Uptitude è nata in una soffitta del Trentino quando Ermanno Zanella ha pensato che sarebbe stato un peccato buttare tutti quegli sci e snowboard in discarica e si è costruito una montatura per i suoi occhiali. Poi l’incontro con Filippo Irdi, shaper in Austria, e l’idea di industrializzare quell’idea. La voce si sparge in fretta: un po’ con l’aiuto di Burton, un po’ di qualche amico, Filippo ed Ermanno vengono sommersi di snowboard. Le parti laterali sono utilizzate per le montature, quella centrale per realizzare portachiavi, punta e coda per gli espositori da negozio e Uptitude produce anche cover per smartphone con la stessa origine. Come nel maiale… non si butta via nulla. Un altro esempio di valorizzazione degli sci viene dalla Francia. Qui la Tri-Vallées di Albertville dal 2006 raccoglie sci e snowboard dai negozi e dalle piattaforme ecologiche di Savoia, Alta Savoia e Isère per recuperare ferro e alluminio e combustibile solido per i cementifici. Ne parliamo nel portfolio, all’inizio di questo numero. Un’altra case history interessante in chiave riciclabilità è quella dell’italiana Kastelaar che produce sci in legno certificato FSC (Forest Stewardship Council), marchio che identifica oggetti contenenti legno proveniente da foreste gestite in maniera corretta e responsabile, facilmente riparabili e al 95% riciclabili. E le scarpe da running? Esosport separa la suola dalla tomaia generando materia prima seconda che viene donata e utilizzata per la creazione di pavimentazione per i parchi giochi e per le piste di atletica (per informazioni sui punti raccolta: www.esosport.it). Questi sono tutti esempi virtuosi di recupero dei materiali o di riciclo, ma esistono esempi di riutilizzo, il fine più nobile? Per quanto riguarda i bastoni da sci, ci sono alcune piattaforme ecologiche, soprattutto in Austria, che li distribuiscono ai contadini e ai pastori che li impiegano come pali nelle recinzioni. Gli sci trovano spesso nuova vita in panchine e porta-abiti. Negli Stati Uniti Green Mountain Ski Furniture (www.recycledskis.com) realizza curiose sdraio, apribottiglia e casette per gli uccelli con gli amati legni. Qualche anno fa nell’ambito del progetto Architecture for refugees, Resilience Shelter Project di Marco Imperadori, professore di Progettazione e Innovazione Tecnologica al Politecnico di Milano, si era arrivati a realizzare un modulo abitativo per situazioni di emergenza simile a una yurta, la famosa tenda mongola, utilizzando 130 sci. Il progetto europeo transfrontaliero INTESE, che coinvolge l’area italo-francese del Monviso, prevede la reintroduzione degli sci e scarponi usati attraverso una rete di centri del riuso in aree distanti dalle stazioni sciistiche per non interferire con i mercati locali, ma aumentare la possibilità di accesso agli sport invernali anche per le persone meno abbienti.
Le 4 R dei rifiuti
Riduzione: cioè produrre meno rifiuti (utilizzando più a lungo sci, scarponi e abbigliamento, ma anche preferendo prodotti con imballaggi meno invasivi e riciclabili)
Riutilizzo: il prodotto trova un nuovo impiego (è il caso dei bastoni utilizzati come recinzione o di sci e scarponi donati per essere ancora usati per sciare)
Recupero: valorizzazione del rifiuto per ricavare materia seconda o energia (è il caso degli occhiali con montature a partire dalle serigrafie degli snowboard)
Riciclo: il materiale che non serve più al suo scopo viene trasformato (come le bottiglie di PET che danno vita ai pile)
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Der Lange Weg
Primo aprile 2018. Pasqua. Nel tranquillo borgo di Trafoi tutto tace. Si sente solo il rimbombo dei passi degli scarponi sull’asfalto. Un rumore sordo, che risuona tra le case e le vie deserte di questo quieto villaggio altoatesino. Sono cinque rintocchi, uno dietro l’altro, regolari. Sono cinque scialpinisti, quattro uomini e una donna. Arrivano da lontano e sono diretti lontano. Vogliono salire allo Stelvio e hanno 80 chilometri di camminata con gli sci e gli zaini in spalla nelle gambe. Trovano un albergo, il Bellavista. Entrano per chiedere informazioni. Un signore sui 70 anni sta mangiando insieme alla famiglia e ai nipoti. È il proprietario dell’hotel ma, come se niente fosse, interrompe il pranzo pasquale, esce e si dilunga a spiegare la strada a questa insolita comitiva di scialpinisti. Quel signore all’anagrafe fa Gustav Thoeni ed è proprio lui, il campionissimo della Valanga Azzurra. I cinque scialpinisti non sono degli skialper qualunque. Si chiamano Philipp Reiter, Mark e Janelle Smiley, Bernard Hug e David Wallmann. Sono i cinque superstiti dei sette partiti il 17 marzo alle porte di Vienna alla volta di Nizza per la grande traversata delle Alpi, un’impresa riuscita solo nel 1971 a quattro austriaci. E l’obiettivo è proprio quello di arrivare almeno in quattro a Vienna e battere il tempo di Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher. La traversata più mediatica della storia dello skialp, non a caso con la regia di Red Bull. Un’impresa della quale si è parlato molto. E non sono mancate le polemiche.
Il modo migliore per capire che cosa è stata Der Lange Weg e che cosa lascerà è di guardarla con gli occhi dei protagonisti, di quei quattro uomini e quella donna che hanno macinato 1.721 chilometri e 89.644 metri di dislivello in 37 giorni (contro i 41 degli austriaci nel 1971) ovvero 375,08 ore in movimento. Per esempio quelli di Philipp Reiter, scialpinista e trail runner tedesco classe 1991. Il modo migliore per capire che cosa significhino queste spaventose cifre è di farlo a ritroso, a rebours, visto che il nostro viaggio parte da Nizza, dove Philipp si è tuffato nel mare con sci e scarponi.
«Sono passate tre settimane ormai dall’arrivo e lo stomaco si è allargato, ho sempre tanta fame ma, a differenza di quando eravamo in moto 15 ore al giorno, ora il peso aumenta. Per qualche giorno mi sembrava di essere un elefante quando mi muovevo, ero gonfio perché il corpo tratteneva troppi liquidi. Sto andando in bici e corrocchiando, non posso dire di non avere le gambe, ma manca la velocità. Dopo un’impresa del genere si pensa al recupero fisico, ma c’è un recupero mentale che è altrettanto importante. Per un inverno ti sei concentrato su quell’obiettivo. Poi per quasi quaranta giorni hai fatto sempre e solo quello: alzarti alle due di mattina, da tre a quattromila metri di dislivello al giorno, decine di chilometri. La giornata scorre nella routine della fatica, resa ogni giorno diversa da tanti imprevisti. Ma non hai altri pensieri, altre occupazioni. E ora? Bisogna tornare a pensare a se stessi, al lavoro, agli amici, cambiano completamente le prospettive e tutto quello per cui hai lavorato finisce in un secondo».
Philipp parla ansimando, mentre ha lo smartphone all’orecchio sta tracciando il percorso di un trail, tanto per continuare a muoversi. Ma non gli manca la lucidità per andare nelle profondità di Der Lange Weg, oltre i titoli dei media e i video promo di Red Bull.
«Nessuno di noi, quando siamo partiti, aveva realmente idea di che cosa avremmo dovuto affrontare, del fatto che andare da Vienna a Nizza in così poco tempo significa essere in moto anche quindici ore al giorno, percorrere fino a 4.500 metri di dislivello positivo con qualsiasi condizione meteo. E prendersi dei rischi. Perché il ragionamento non è quale percorso fare e come adattarsi alle condizioni meteo, ma in certe situazioni puoi solo decidere se prenderti quei rischi vale la pena. Se devi passare da una valle all’altra e c’è solo quel valico non hai molte alternative. La prima settimana è stata la più difficile. Ci siamo allenati solo un giorno insieme, a gennaio. Io conoscevo solo un paio di compagni. Abbiamo affrontato condizioni meteo molto difficili e in quei momenti viene fuori il nostro io più profondo, nelle situazioni estreme si vede chi sei veramente e non è sempre un fatto positivo. Poi però dopo i primi dieci giorni possiamo dire di essere diventati un vero team. E abbiamo dato il giusto valore all’impresa di Klaus Hoi e compagni. Quando ti trovi nel white out con il vento a cento chilometri all’ora capisci che chi ha vissuto queste stesse situazioni quasi cinquanta anni fa lo ha fatto senza GPS, attrezzatura e abbigliamento hi-tech».
Prendersi dei rischi. Quelli che non ha voluto prendersi la trail runner catalana Nùria Picas, che pure passa per una dura e ha lasciato il gruppo dopo 550 chilometri e 32.000 metri di dislivello positivo. «Ovunque andiamo ci sono grandi carichi di neve, è un anno meravigliosamente eccezionale, ma non sono disposta ad assumermi rischi maggiori di quelli che abbiamo già corso in questa settimana appena passata – ha scritto in un post su Facebook -. A casa ad aspettarmi ho i miei figli, la mia famiglia e gli amici e molte avventure che spero di condividere con tutti voi. Lo faccio perché penso che la vita sia uno sport meraviglioso!».
Trentasette giorni ad alzarsi alle due del mattino per evitare la neve molle e il rischio di distacchi, poi giù veloci al camper per mangiare e dormire qualche ora. Una vita con ritmi militareschi. Cosa rimane nella mente di chi a Nizza ci è arrivato?
«Due insegnamenti. Non bisogna fermarsi mai, fino al traguardo, nonostante i tanti imprevisti. Bisogna continuare a muoversi e guardare avanti. Non bisogna essere soli, è impossibile. È un’impresa che puoi fare in compagnia, perché oggi capita la mia giornata no e domani la tua e ci si aiuta. C’è un altro pensiero che mi ha accompagnato a lungo: se sia possibile immaginare una Der Lange Weg a piedi, in velocità. E sono arrivato alla conclusione che sarebbe molto più difficile. Perché con gli sci guadagni tempo in discesa e solleciti meno le articolazioni. E perché quando fai scialpinismo lo stomaco non è così delicato come quando corri. Non potrei mai mangiare una salsiccia prima di un trail, durante una scialpinistica sì». E se lo dice uno che ha portato a termine due volte la Gore-Tex Transalpine Run, andando anche sul podio, bisogna credergli.
Ci sono curiosità che vanno oltre le vette raggiunte e i metri di dislivello. E sono sulla vita di tutti i giorni alla Der Lange Weg. Quello, insomma, che non sta scritto nei comunicati stampa. «A parte tre notti in hotel, una in rifugio e una nel locale invernale di un rifugio, abbiamo sempre dormito nei camper. Eravamo in sette e dormivamo in tre diversi camper. La maggiore difficoltà è stata quella di doversi alzare sempre nel cuore della notte, alle due. Anche se sei stanco non riesci ad andare a letto tanto presto e poi non sei in una casa dove puoi oscurare bene le finestre. Lo spazio a disposizione in camper non è tanto e soprattutto i vestiti non ritornano perfettamente asciutti, rimane sempre un po’ di umidità».
Kilian Jornet ama gratificarsi con gli orsetti gommosi della Haribo nei momenti più difficili di una gara ultra-trail. E di momenti difficili in 1.721 chilometri ce ne sono stati tanti. L’orsetto di gomma (o la coperta di Linus…) di Philipp è una parola composta da cinque lettere, che si scrive uguale in tutto il mondo: pizza. E c’è una vecchia conoscenza di Skialper nel ruolo di pizzaiolo: «Avevamo proprio voglia di una pizza perché eravamo entrati in Italia, ma non potevamo permetterci di passare a casa di Manfred a mangiarla, così lui l’ha impastata e cotta a casa sua e ce l’ha portata il giorno dopo in quota». Lui è Manfred Reichegger, il senatore della nazionale italiana di scialpinismo da poco ritiratosi, che ha fatto da guida al gruppo nella sua valle Aurina, aiutando Philipp e compagni non poco nella nebbia».
Già, il cibo, croce e delizia in ogni gruppo che si rispetti. «Avevamo un cuoco, un ex tagliatore di legna che cucinava grasso, molto grasso. Ma andava bene perché bruciavamo tanto. Il suo compito era difficilissimo perché doveva preparare il cibo all’aperto, per una ventina di persone, inclusi autisti, operatori cinematografici, persone di servizio e, soprattutto, non sapeva mai quando arrivavamo perché era difficile calcolare i tempi con precisione. E quando arrivavamo avevamo fame, molta fame. Così i barattoli di Nutella e le noccioline sono andati a ruba. E durante le gite non ho mai mangiato tanti sandwich come in quei giorni».
Un lungo viaggio è fatto di tanti ricordi che la mente elabora meglio a distanza di qualche settimana o mese. Ce ne sono di belli e di brutti.
«Non posso dire di avere fatte delle belle sciate. Più che altro ci siamo spostati con gli sci, in velocità. Però quando siamo arrivati in Valle Aurina, dopo una giornata lunghissima, ci siamo goduti una discesa al tramonto sulla neve polverosa arancione. A Zermatt una bellissima alba ci ha subito avvolti mentre salivamo verso il Cervino, poi sul ghiacciaio si respirava un’atmosfera strana, durante una gita non ho mai visto così pochi scialpinisti in giro, eravamo praticamente soli a battere traccia, in quota e con il vento contro. Il meteo è cambiato velocemente e ci siamo ritrovati nella nebbia con raffiche a cento chilometri all’ora che ci spostavano indietro di cinque metri. Piedi e vestiti erano fradici. Quando siamo riusciti ad arrivare al bivacco a 3.700 metri ci siamo resi conto di essere dei sopravvissuti. In quel momento, quando nel video che ho caricato sulla mia pagina Facebook si vede entrare dalla porta uno dei mie compagni, la sua espressione parla più di mille parole. Ce l’avevamo fatta ed era l’unica cosa importante, poi avremmo pensato a come tornare indietro».
Già, tornare indietro. Come al Monte Bianco. «Eravamo a cento metri di dislivello dalla vetta, immersi nel white out. I nasi e le guance di alcuni erano bianchi, in cresta non si vedeva nulla e per cercare la strada abbiamo fatto partire un lastrone, non aveva senso rischiare. Per salire sul Monte Bianco abbiamo preso una Guida: ce n’erano solo tre o quattro disposte a portarci in un solo giorno però volevano 1.500 euro e per noi era troppo. Allora l’organizzatore Helmut Putz ha deciso di pagare lui la Guida perché voleva che arrivassimo in vetta. È finita che abbiamo dovuto letteralmente tirarla perché non riusciva a tenere il nostro ritmo e aspettarla continuamente. Alla fine voleva 1.200 euro perché non eravamo arrivati in vetta, ma un collega l’ha convinta a non farsi pagare per il buon nome della categoria».
Quando vai sul Monte Bianco con un cliente normale sai che hai margine, quando vai con chi attraversa le Alpi in 37 giorni no. Ecco un’altra lezione di Der Lange Weg.
Der Lange Weg
La lunga strada. Come quella che nel 1971 gli austriaci Robert Kittl, Klaus Hoi, Hansjörg Farbmacher e Hans Mariacher hanno portato a termine, da Reichenau an der Rax, in Austria, vicino a Vienna, a Contes, una località vicino Nizza, in 41 giorni. A distanza di quasi 50 anni l’altoatesina Tamara Lunger, il tedesco Philipp Reiter, lo svizzero Bernard Hug, la catalana Nùria Picas, l’austriaco David Wallmann e gli statunitensi Janelle e Mike Smiley, marito e moglie, avevano l’obiettivo di arrivare almeno in quattro e in meno di 41 giorni. Non si può dire che le due imprese siano sovrapponibili e che il record sia stato battuto, anche se il tempo è nettamente inferiore: 41 giorni. Il percorso, che doveva essere uguale, tranne qualche tratto iniziale, è stato invece ridotto a 1.721 invece dei 1.917 previsti (con 85.000 metri D+, che sono diventati 89.644 nell’impresa odierna) a causa delle avverse condizioni meteo che hanno obbligato a tagliare alcuni tratti e saltare alcune vette (sono comunque stati raggiunti Grossglockner e Punta Dufour). Tamara Lunger ha abbandonato dopo la tappa 21 a causa di un infortunio, che l’aveva anche costretta a usufruire del bonus di 64 chilometri percorsi in auto, bonus pensato perché anche nel 1971 i protagonisti avevano percorso 64 km in auto. Non ha concluso il percorso anche Nùria Picas. La partenza è avvenuta il 17 marzo e l’arrivo il 22 aprile.
L’attrezzatura
Che cosa si usa per percorrere quasi 2.000 chilometri sulle Alpi? Philipp Reiter aveva due paia di sci, un Salomon Minim e un S/Lab X Alp. Il secondo, però, è rimasto nel camper. «Per il tipo di impresa conta più avere qualche grammo in meno da trascinare in salita che uno sci che faccia risparmiare energie in discesa» dice Philipp. Lo scarpone era uno Scarpa Alien, l’attacco ATK Trofeo e le pelli Geko con silicone. «Ne avevo anche una di scorta nello zaino, ma non l’ho mai usata, con la neve primaverile le Gecko sono ottime». Rotture? Zero, solo lo sci di Hug durante l’attraversamento di una valanga, ma niente di grave. E l’abbigliamento? Intimo in lana Merinos che ha doti antibatteriche naturali, strato termico e guscio.
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Miky's way
Riproponiamo l'intervista a Michele Boscacci pubblicata su Skialper 121 di dicembre 2018
«Alla Pierra Menta ho avuto un bel regalo, devo ammetterlo, senza Kilian è stato più facile, avrei preferito vincerla con lui in gara, però fa parte del gioco». Michele Boscacci sta tornando in auto dal Diavolezza, dove macina metri di dislivello e inizia a fare lavoro di qualità a metà di un mese di novembre che ha già alternato in pochi giorni nevicate copiose a temperature quasi estive e la mente va a quell’incredibile mese di marzo dell’ultima stagione quando, nell’arco di tre settimane, ha vinto Epic Ski Tour, Pierra Menta e Tour du Rutor. E prima c’erano stati la Mountain Attack vinta con record, la vittoria al vertical dei Campionati Italiani. Con la ciliegina sulla torta di una Coppa del Mondo overall portata a casa al fotofinish davanti a Robert Antonioli, della vittoria nel circuito La Grande Course e di una Patrouille des Glaciers da record. Altro che triplete. Che poi il tre ci sta, perché Miky arriva da un trittico di stagioni tutte ad altissimo livello, con una precisione da orologio svizzero.
Nel 2016 la prima overall, poi nel 2017 comunque un secondo posto nella generale e il Mezzalama. Nello sport professionistico confermarsi a questi livelli è impresa difficilissima, come fare dieci giri con lo stesso tempo in Formula Uno. «Nel 2016 non mi aspettavo di andare così forte, poi nel 2017 ero convinto dei miei mezzi e mi sono allenato al meglio, stavo bene, anche meglio dell’anno prima, e non si può dire, nella prospettiva di un atleta, che sia stata una brutta stagione, però a gennaio ho fatto una influenza e ho iniziato ad avere problemi ai denti - dice Miky - L’anno scorso mi sono allenato duramente ed è andato tutto perfettamente, fin nei minimi dettagli». Perché sono i dettagli che fanno la differenza. Gira tutto a mille nel motore del valtellinese di Albosaggia al via della stagione 2019, gli è arrivata anche l’Audi che la FISI riserva agli atleti top e La Sportiva, lo sponsor storico, ha rinnovato per altri cinque anni, ampliando la collaborazione alla stagione estiva della corsa tra i monti e coinvolgendolo nello sviluppo non solo dell’attrezzatura, ma anche dell’abbigliamento, oltre naturalmente a vestirlo total look, summer & winter (e a fornirgli gli accessori). Se poi aggiungiamo che si è fidanzato con Alba De Silvestro, cosa chiedere di più?
«Beh, effettivamente avere la fidanzata che fa il tuo stesso lavoro non è male perché quando vai ad allenarti, anche se non possiamo fare quattro ore insieme perché abbiamo ritmi diversi, però un po’ si sale insieme e poi durante il viaggio in auto possiamo parlare» scherza Miky. Si fa più professionale invece quando parla del rapporto con la casa di Ziano di Fiemme: «Con La Sportiva e soprattutto con Macha, Lorenzo e Giulia (Delladio, rispettivamente presidente e AD di La Sportiva e strategic marketing director, ndr) ho un rapporto che va oltre la collaborazione aziendale e ho praticamente sempre usato scarponi Laspo: mi hanno dato il primo modello in carbonio che ero ancora Junior e con l’ultima firma messa chiuderò la carriera di alto livello sempre con lo stesso marchio». Una dichiarazione d’amore che va oltre il reciproco interesse e una volontà, quella del rinnovo, che è stata subito messa su carta quando Boscacci ha ricevuto offerte importanti per cambiare casacca.
Ma i soldi, nella vita, non sono tutto. Ecco una prima regola della filosofia Boscacci. Poi, oltre al cuore, c’è la testa. «Il segreto per fare tre stagioni così al top? Ci sono tati dettagli, credo però che la testa conti tanto, conta soprattutto quando sei in un periodo no, perché per atleti come noi è veramente un attimo passare dal primo al quinto posto e quando succede è una botta pazzesca per il morale: non bisogna mollare e soprattutto riconoscere che gli avversari forti sono tanti e non si può sempre vincere». E poi c’è la preparazione, anche in questo Miky ha le sue idee, ben precise. Negli ultimi anni non ha cambiato molto, l’idea di fondo è allenarsi tanto soprattutto in autunno, con gli sci, macinare metri su metri per ridurre un po’ la quantità e andare verso la qualità soprattutto da metà novembre. Senza naturalmente sovraccaricare. Facile a dirsi meno a farsi. Eppure Miky è convinto che ci sia un collegamento tra il lavoro fatto e la capacità di mantenere un livello di forma elevato per un periodo relativamente lungo e nel cuore della stagione agonistica. E c’è tanta farina del suo sacco. «Non ho veramente qualcuno che mi segue, ho imparato ad ascoltarmi, a capire quando sono troppo stanco e quando lo sono troppo poco». I dettagli contano e da qualche tempo Boscacci cura particolarmente l’integrazione. «Ho iniziato a usare prodotti Enervit, che è un mio sponsor personale e anche della nazionale. È un dettaglio ma non di poco tempo: nel nostro mondo non c’è ancora la cultura dell’integrazione, invece ci sono momenti nei quali hai bisogno di aiutarti con proteine e sali minerali assimilandoli velocemente e spendendo meno energie». A tavola, però, non si fa mancare nulla, dai carboidrati (meglio a pranzo), a una buona colazione e alla carne (magari la sera). E, tolta la tuta del Centro Sportivo Esercito, non rimane con le mani in mano. Anche questo, dopotutto, fa parte della filosofia Boscacci.
«Mi sono sempre piaciuti gli animali ma, a parte mio bisnonno, in famiglia non avevamo una stalla, poi da quando sono nell’Esercito sono diventato anche allevatore e ora ho una decina di mucche: è un lavoro duro, ma mi aiuta a staccare perché altrimenti finisci sempre col parlare di allenamenti e poi è il mio modo di sentirmi legato alla montagna e di viverla in pieno». Tra le mucche della stalla ce ne sono alcune della razza Bruno Alpina, a rischio di estinzione e Michele può contare sull’aiuto di nonno Umberto: «Senza di lui, che mi segue anche alle gare più importanti, non ce la potrei fare…». Con tutti questi impegni, difficile pensare che a Miky rimanga troppo tempo per fare sul serio (si fa per dire) in estate, anche se, vista la versatilità tra le varie discipline dello skialp e il motore, potrebbe dire la sua anche nella corsa tra i monti. Per intenderci, fatte le dovute distinzioni, a partire dall’età, come Davide Magnini. «Ho sempre fatto attività, dalla bici alla corsa, ma non voglio bruciarmi: qualche gara ci vuole perché stare senza pettorale per così tanti mesi mi annoia e voglio mettermi alla prova con il motore che fa qualche giro in più di allenamento, per avere un obiettivo in più, ma preferisco dare il 100% in una stagione e l’altra usarla per allenarmi piuttosto che farne due all’85%». Appunto, e la prossima stagione come sarà? «Difficile darsi degli obiettivi, io però continuo a lavorare e non mi faccio influenzare emotivamente, se ci sarà qualcuno più forte mi inchinerò. Però un sogno nel cassetto ce l’ho: la medaglia individual ai Mondiali, mi manca ancora, mentre quella Europea c’è. Nella pratica è la stessa cosa, ma il valore è diverso. So che non sarà facile, perché è una gara secca in un giorno preciso, ma se devo mettere qualcosa prima di tutto questa è la mia scelta». Good luck Miky.
L'incredibile storia di Mira Rai
Non devi per forza essere nata in una ricca città del mondo occidentale, avere frequentato le migliori università, un master negli Stati Uniti, costruito un impero attraverso i post di Instagram per diventare una influencer, fonte d’ispirazione per milioni di tue coetanee. Puoi diventare influencer se ti chiami Chiara Ferragni, puoi diventarlo se ti chiami Mira Rai e sei nata a Bhojpur, Nepal, dove non arrivano strade asfaltate, linee telefoniche e corrente elettrica. Ed è prodigioso nel primo caso - perché emergere non è mai facile, anche nella sovrabbondanza di opportunità offerte dalla società del benessere - come nel secondo. Cambiano solo le prospettive e il fine delle proprie azioni. Puoi diventare una case history per la Business School di Harward e avere dieci milioni di follower oppure essere nominata National Geographic Adventurer of the Year, finire sulla copertina di Outside in compagnia di Lindsey Vonn e venire premiata insieme a Indra Nooyi, potente ceo della PepsiCola, come Game Changer dalla Asian Society di New York, fondata da John D. Rockfeller terzo. Puoi diventare l’idolo di milioni di teen-ager, organizzare un matrimonio con annesso luna park e andarci con un aereo che porta il tuo nome. Oppure puoi arrivare in Europa e non sapere neppure cosa è un treno; aiutare Rashila Tamang a diventare guida di trekking in Nepal; permettere a Sunmaya Budha di correre alla Livigno Skyrace; fondare una onlus per dare un’opportunità in più alle donne del tuo Paese attraverso lo studio e lo sport; organizzare un trail nel tuo villaggio; andare dal presidente del Nepal e convincerlo a portare la corrente elettrica e le telecomunicazioni in un remoto paese di montagna. E non sono differenze di poco conto.
Quando Mira Rai ha deciso di arruolarsi nell’esercito maoista, dicendo alla madre che sarebbe stata via per una settimana, a 14 anni, aveva un unico scopo: cercare qualche opportunità in più di quelle che la vita riserva a un’adolescente nepalese, imparare invece di finire nelle braccia di un marito a 12 anni. «Le donne nepalesi accudiscono la casa e vanno a dare da mangiare agli animali sulle montagne, mia madre non esce quasi mai, al massimo per andare al bazar» dice quando ti guarda con quegli occhi che se avessero una bocca sorriderebbero. Mira è la perfetta incarnazione del capitolo 25 del Principe. «Giudico che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre, ma che ancora ella ne lasci governare l’altra metà, o poco meno, a noi» ha scritto Machiavelli. La sua storia è un incredibile groviglio di incontri e coincidenze, ma quel 50% di fortuna è stata creata dalla determinazione fuori dal comune di questa trentenne con il viso ancora da bambina. «Nel 2014, per i miei primi 50 anni, i primi 30 di yoga e 15 di trail, mi sono imbattuta in un evento che sembrava lì per me, la Mustang Trail Race, in una regione himalayana dove si dice che i monaci tibetani siano stati visti sfrecciare staccati da terra - racconta Tite Togni, insieme a Richard Bull il principale mentore di Mira - . La gara capitava proprio nei giorni del mio compleanno ma, per una serie di coincidenze, ho perso l’aereo interno e ho dovuto affrontare il viaggio in pullman, con alcuni atleti: Mira mi ha colpito subito perché mi guardava con quello sguardo intenso e curioso, mentre le donne nepalesi tengono gli occhi bassi». Dopo quella gara Richard Bull, il co-fondatore inglese di Trail Running Nepal, che organizza gare e aiuta i runner nepalesi, e Tite Togni sono riusciti a portare in Europa, per correre qualche gara, Upendra Sunuwar. Mira però non è restata a guardare, insistendo per avere anche lei una chance e ha ottenuto il suo primo biglietto aereo e il visto. In Italia, da perfetta sconosciuta, ha vinto la Sellaronda Trailrunning e il Trail degli Eroi. A premiarla, nelle Dolomiti, c’era Augusto Prati, country manager di Salomon, che l’ha segnalata a Greg Vollet, boss del team internazionale di atleti del marchio di Annecy. Entrata nel team Salomon, non più giovanissima, a 27 anni, nel 2015 è salita sul podio in Australia e in Europa, arrivando seconda nel ranking delle Skyrunning World Series. Ma la storia di incontri e coincidenze inizia prima e continua anche dopo quello straordinario 2015, come in un secondo film. Finito l’addestramento di due anni con l’esercito maoista, anni nei quali ha fatto lunghe marce notturne che sono diventate il migliore imprinting per la sua carriera di trail runner e imparato il karatè, Mira non vuole tornare al villaggio e si trasferisce a Kathmandu, cercando fortuna con la corsa e il karatè. Però è difficile sbarcare il lunario, i soldi finiscono ed è già pronto il visto per andare a lavorare in Malesia. Lavori duri e rischiosi, nelle miniere o nelle fabbriche, dai quali spesso i nepalesi non tornano vivi. Il suo inconscio non ne vuole sapere di andare in Malesia e all’ultimo minuto riesce a convincere il maestro di karatè, conosciuto nell’esercito maoista, ad ospitarla per un anno. Il destino vuole che, durante una corsetta nel parco nazionale Shivapuri Nagarjun, alle porte di Kathmandu, incontri due ragazzi che la invitano a tornare qualche giorno dopo per un allenamento. Uno di questi ragazzi è Bhim Gurung, vincitore del Kima nel 2016. Mira torna, ma sua insaputa si trova al via della Kathmandu West Valley Rim, un trail di 50 chilometri.
«Non avevo mai corso su una distanza così lunga, non avevo i vestiti adatti, né da bere e da mangiare» ricorda ora. Grandine e acqua la mettono a dura prova, però arriva al traguardo ed è l’unica concorrente femminile. Richard Bull rimane impressionato dalla forza fisica e mentale di quella ragazza che non molla mai e inizia ad aiutarla con cibo, visti, iscrizioni alle gare e facendola lavorare nell’organizzazione della Mustang Trail Race. Nel 2015, al termine delle Skyrunner World Series, Mira deve affrontare un problema più volte rinviato: una vecchia lesione del legamento crociato che, sottoposta a stress, non le consente più di correre veloce. E il nostro Paese le dà un’opportunità: grazie all’affiliazione con la società sportiva Freezone, ha potuto ottenere il permesso di soggiorno temporaneo ed essere operata a Brescia dal professor Eugenio Vecchini. Il rientro non è stato facile, ma grazie all’aiuto dello yoga, ai consigli del preparatore atletico Eros Grazioli e alla pazienza degli sponsor, che non le hanno mai messo fretta, nel 2017 è arrivato il successo alla Ben Nevis Ultra Sky Race. Il resto è storia recente: nel 2018 seconda alla Hong Kong 100 Ultra, quarta alla Lavaredo Ultra Trail, terza al Kima. Mira è tornata. Ci sono altri trail runner nepalesi conosciuti, per esempio Dawa Dachhiri Sherpa, primo vincitore dell’UTMB, ma lei, oltre che la prima donna sportiva, è stata l’unica a scegliere di rimanere nel suo Paese e di combattere ogni giorno per dare l’opportunità a tante ragazze di studiare, lavorare facendo le guide di trekking, correre e avere di che vivere, evitando di diventare una delle tante spose bambine. «Dopo le vittorie al Sellaronda e al Trail degli Eroi - racconta Tite Togni - aveva guadagnato un paio di migliaia di euro e, prima di partire, me li ha dati in mano dicendomi: ‘tienili, gestiscili tu, io non so cosa sono’. Io ho accettato l’invito a patto che iniziasse a studiare matematica». Mira la matematica l’ha studiata e anche l’inglese. E ha dato il sorriso e un’opportunità di riscatto a tante ragazze nepalesi, anche con quei soldi vinti in Italia.
TITOLI DI CODA
- Con i soldi guadagnati nelle gare europee Mira ha comprato un allevamento di polli per il fratello, fatto studiare a Kathmandu la sorella, che si occupa di marketing per la polleria, pagato il viaggio per portare i genitori per la prima volta a vedere la capitale.
- Ha studiato l’inglese e la matematica e imparato a fare i conti.
- Dal 2015 organizza la Bhojpur Trail Race, nel villaggio dove abita la sua famiglia, per portare turismo nella regione e aiutare i giovani runner locali. L’edizione 2018 è in programma il prossimo 15 dicembre e prevede due distanze, 36 e 8 chilometri. È possibile contribuire alle spese per l’organizzazione dell’evento. bhojpurtrailrace.com
- Nel 2017 Mira Rai è stata nominata National Geographic Adventurer of the Year.
- Nel 2017 è uscito il film Mira: la corsa della libertà, di Lloyd Belcher. Dalla scorsa primavera è disponibile su Vimeo On Demand con sottotitoli in italiano per il noleggio o l’acquisto.
- Nel 2018 ha fondato la Mira Rai Initiative, una charity registrata in Nepal e nata per aiutare le giovani trail runner nepalesi attraverso lo studio della lingua inglese, la partecipazione ai corsi per diventare guide di trekking, l’allenamento, la partecipazione a gare in Nepal e alla Hong Kong 100 km. miraraiinitiative.org
- Il 9 ottobre 2018 a New York ha ricevuto il prestigioso premio Game Changer dell’Asian Society, assegnato alle persone che si sono distinte, rompendo gli schemi, per meriti umanitari, imprenditoriali o nella difesa dei diritti delle donne e delle ragazze. Insieme a lei, tra gli altri, verranno premiati i soccorritori dei piccoli calciatori thailandesi delle grotte di Tham Luang, i primi soccorritori di Fukushima o i White Helmets siriani. La motivazione? Per aver sfidato quote vertiginose, distrutto record, ispirato - e aiutato - milioni di ragazze.
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Great Himalaya Trail, 24 giorni che ti cambiano la vita
Dopo ventiquattro giorni, quattro ore e ventiquattro minuti oppure 1.504 chilometri o ancora 70.000 metri di dislivello positivo su e giù per i sentieri dell’Himalaya con i tuoi piedi impari due lezioni che ti aiuteranno a trovare la strada giusta per il resto della vita. «Dobbiamo apprezzare le cose semplici, ci affanniamo per avere sempre di più e non ci godiamo la nostra famiglia e quello che abbiamo: se sei felice potrai inseguire i tuoi sogni, però se vivi per inseguire i tuoi sogni ma sei infelice, non li realizzerai mai». La prima lezione sembra (ed è) un insegnamento buddista. «Sono stato in villaggi minuscoli, lontani da tutto e da tutti, con tanta povertà, eppure sono felici e ti aprono la porta alle undici di notte, nel buio immenso, ti preparano da mangiare e ti fanno dormire senza chiederti chi sei, mentre noi abbiamo perso il giusto punto di vista e per ritrovarlo non ci rimane altro che scappare dalla civiltà e dal bombardamento di informazioni e social media, camminare nella natura, correre per ritornare in noi stessi». I Beatles andarono in India per ritrovare la loro ispirazione. Il trail runner sudafricano Ryan Sandes, il primo uomo a vincere tutte e quattro le 4 Deserts race, l’uomo che ha vinto una gara ultra-trail in ognuno dei sette continenti, tra le quali anche la Leadville e la Western States, non è nuovo a imprese da record nella natura, eppure il lungo viaggio del Great Himalaya Trail, da un confine all’altro del Nepal, lo scorso marzo in compagnia dell’amico e compagno di tante avventure Ryno Griesel, lo ha fatto tornare a casa diverso. È un viaggio incredibile, dalle vette più alte del mondo alla giungla. Ma è anche un viaggio alla scoperta di se stessi. «È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita, in positivo. Penso che sia stata la tappa finale di un percorso, la cosa più grande che abbia mai fatto e sono molto soddisfatto, ma non la ripeterei».
Il Great Himalaya Trail non è un solo sentiero, ma la combinazione di vari itinerari sia nella parte montuosa del Nepal (GHT High Route) che in quella più popolata e ricoperta dalla giungla (GHT Cultural Route) e va da un confine all’altro del Paese, lungo la direttrice Ovest-Est. Per questo, sebbene Ryan e Ryno abbiano fatto segnare il FKT (fastest known time), non si può parlare di vero e proprio tempo record in quanto un crono di riferimento non esiste data la possibilità di alternative lungo il percorso e le varianti imposte dai tanti imprevisti. Quello seguito dai due sudafricani ripercorre fedelmente le orme del connazionale Andrew Porter dell’ottobre 2016 ma, per esempio, Lizzy Hawker, nel 2016, ha fatto segnare un tempo di riferimento lungo la parte in quota del GHT, tra le montagne. «Quello che volevamo non era un record a tutti i costi, ma un’avventura che unisse la bellezza delle vette più alte del mondo alla possibilità di conoscere la cultura e le città perché per me, che vengo da Città del Capo, trail running significa correre nella natura, ma non in montagna». Una lunga avventura… «Dopo la vittoria alla Western States 100 dello scorso anno cercavo proprio qualcosa del genere e l’Himalaya mi ha sempre attirato, però mi spaventava la lunghezza del percorso perché voglio anche continuare a partecipare alle gare ultra e devo avere il tempo di recuperare». Già, la lunghezza: muoversi a piedi per 24 giorni consecutivi, con una media di 16 ore di attività e poco tempo per dormire e ancora meno occasioni per farlo in un letto, è stato l’aspetto più duro del Great Himalaya Trail di Ryan. «Il ritmo era lento, più lento di quanto sono abituato, e anche questa è stata una sfida: ci sono stati giorni nei quali abbiamo camminato per 20 ore e altri per 12, notti passate nelle case dei nepalesi in villaggi isolati dal mondo e momenti nei quali ci fermavamo giusto una ventina di minuti ogni tanto per dormire sul sentiero o su qualche tavola di legno usata dai pastori, piuttosto che nei loro ripari di fortuna». Impossibile pensare di dormire all’addiaccio nella prima parte del percorso, in quota e in parte ancora innevata, più pratico farlo verso la fine, negli ultimi 300 chilometri, quando Ryan e Rino hanno camminato e corso nella giungla, con temperature che superavano i 30 gradi. Per trovare la motivazione in quei 25 lunghi giorni Ryan si è inventato degli obiettivi giornalieri, ragionando step by step, ma non è sempre stato facile.
L’altro aspetto che ha reso difficile il Great Himalaya Trail, soprattutto nella prima parte, è stato l’orientamento. Faceva freddo e il percorso era ancora in parte ricoperto dalla neve. «Ci siamo affidati al GPS, ma di tanto in tanto dovevamo fermarci dieci minuti per ritrovare la traccia; abbiamo calcolato che ogni giorni, in media, perdevamo fino a tre ore per orientarci e in una di queste pause Ryno si è procurato il congelamento di alcune dita della mano perché siamo saliti fino a 5.500 metri di quota con temperature di - 15 gradi e il vento che accentuava la sensazione di freddo».
Quella del cibo è stata la sfida nella sfida. Per scelta e per alleggerire gli zaini è stato deciso di fare tutto il Great Himalaya Trail procurandosi da mangiare lungo il percorso, come dei normali turisti: acquistandolo o facendosi ospitare dai locali. Solo in tre punti c’è stata la possibilità di cambiare gli zaini e i vestiti e nelle tasche trovava spazio qualche barretta, gel o lattina di Red Bull. «Alla fine il mio corpo mi diceva che non ne poteva più di quell’alimentazione e sono stato male un paio di giorni: i nostri pasti consistevano di frittata, riso e lenticchie quando avevamo la fortuna di essere ospiti, oppure di biscotti e cioccolato comprati alle bancarelle e non era proprio l’ideale durante una traversata di 1.500 chilometri».
La mattina del 19 marzo, a 40 chilometri da Patan, Griesel ha iniziato a soffrire di spasmi muscolari nella zona del torace ed è andato in iperventilazione. «Ho veramente temuto che da un momento all’altro cadesse a terra sul sentiero: aveva i battiti del cuore molto alti e la febbre» ricorda Ryan. Mai come in questo momento la fine dell’avventura è stata vicina. «Da una parte non avrei mai voluto che Ryno avesse dei problemi seri di salute, dall’altra so quanto ci teneva a portare a termine il Great Himalaya Trail e che il ritiro sarebbe stata la più brutta notizia per lui, è stato il momento più difficile per tutti». Ci sono mali fisici e mentali e i fantasmi hanno iniziato a popolare il cervello di Ryan. «Ho iniziato a pensare a mio figlio di 19 mesi e a come fosse cresciuto durante questi 24 lunghissimi giorni: quanto mi fossi perso!». Per non farsi mancare nulla, negli ultimi giorni Ryan si è anche imbattuto in una gang locale che, nella notte, li ha inseguiti tra le montagne, anche con le luci delle frontali spente, fino a quando i due non sono arrivati a una locale stazione della polizia. Questo ultimo contrattempo non ha impedito l’arrivo a Pashupatinagar, sul confine con l’India, alle prime luci dell’alba del 25 marzo.
Tre mesi dopo la grande avventura rimangono un centinaio di chilometri in più non preventivati, il messaggio di congratulazioni di Lizzy Hawker, tante energie, la velocità delle gambe ancora da recuperare. E la consapevolezza di avere vissuto 24 giorni che hanno cambiato le vite di Ryan e Ryno.
Il Great Himalaya Trail
Il Great Himalaya Trail (GHT) non è un vero e proprio sentiero ma una combinazione di itinerari. Quello seguito da Ryan Sandes e Ryno Griesel ha comportato la partenza da Hilsa, al confine con il Tibet, e l’arrivo a Pashupatingar, dove il Nepal confina con l’India, lungo la direttrice da Ovest a Est. Le stime prevedevano 1.400 chilometri e 70.000 metri di dislivello, ma alla fine la lunghezza totale è stata superiore di poco più di 100 chilometri. Questo percorso è quello seguito dal sudafricano Andrew Porter nell’ottobre 2006 e portato a termine in 28 giorni, 13 ore e 56 minuti. Ryan e Ryno si sono consultati a lungo con Andrew e sono passati da 12 precisi checkpoint che coincidevano con quelli di Porter. Cinque semplici regole hanno dato un senso all’impresa: autonomia nell’orientamento e nell’alimentazione, acquistando il cibo lungo il percorso o facendosi ospitare dai locali, nessun uso di sherpa e muli, pernottamenti all’aperto o nei lodge e nelle case per non appesantire lo zaino, utilizzo di una compagnia di trekking locale per cambiare gli zaini in tre occasioni e l’assistenza per i permessi. Il sito di riferimento per il Great Himalaya Trail, con tutte le informazioni utili per chi volesse percorrere anche solo una parte del GHT, è www.greathimalayatrail.com
I 12 checkpoint
- Hilsa
- Simikot - km 77
- Gamgadhi - km 150
- Jumla - km 193
- Juphal - km 280 o Dunai - km 290
- Chharka Bhot - km 380
- Kagbeni - km 444
- Thorang La Pass - km 463
- Larkya La Pass - km 561
- Jiri - km 928
- Tumlingtar - km 1.075
- Pashupatinagar - km 1.504
Gli altri record
- Sean Burch (UK): 2010 - 49 giorni, 6 ore, 8 minuti (2.000 km - da Est a Ovest, combinazione dell’High e del Cultural GHT).
- Lizzy Hawker (UK): 2016 - 42 giorni, 2017 - 35 giorni (circa 1.600 km - da Est a Ovest - prevalentemente sulla High GHT Route, evitando i tratti tecnici che richiedono passi di arrampicata).
I NUMERI
- 70 km la lunghezza minima delle tappe giornaliere
- 120 km la lunghezza massima percorsa al giorno
- 500 m il dislivello minimo giornaliero
- 000 m il dislivello massimo giornaliero
- 124 palle di riso mangiate
- 43 palle al curry
- 300 barrette di cioccolato
- 600 cookie
- 46 donuts
- 2 pizze
- 24 lattine di Red Bull
- 3 ore di sonno a notte in media
- 2 le volte che Ryan e Ryno hanno potuto lavarsi i denti
- 0 le docce fatte lungo il percorso
- 24 giorni, 4 ore, 24 minuti il tempo fatto registrare da Ryan Sandes e Ryno Griesel
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Le code sull’Everest e la questione ossigeno
La foto di Lydia Bradey, la neozelandese prima donna ad avere scalato l’Everest senza ossigeno, ripostata da Hervé Barmasse, ha fatto il giro del mondo, come la notizia che tra il 22 e il 23 maggio, complice anche una delle poche finestre di meteo favorevole, sulla vetta della montagna più alta della terra sono arrivate, dopo lunghe code alla balconata o all’Hillary Step, da 200 a 300 persone, sommando i diversi versanti. Una situazione, quella degli ottomila himalayani, che registra già quasi 20 vittime, alcune proprio in questi giorni sull’Everest. A fare le spese della situazione anche alcuni alpinisti di livello, come David Göttler, con cinque ottomila in curriculum, che ha cercato di raggiungere la vetta senza ossigeno, ma ha dovuto tornare indietro, rimanendo imbottigliato nelle code delle persone al rientro. «La mia decisione di partire tardi e sfruttare il calore del sole ha funzionato fino ad appena sotto la Vetta Sud quando il freddo è aumentato e sono rimasto intrappolato nelle code della gente che scendeva – scrive sul suo account Instagram – Ho deciso di rientrare da quota 8.650, dopo avere aspettato invano, perché sprecare energia non è un’opzione quando non hai ossigeno supplementare».
«L'anno 2018 aveva registrato il record con più salite in una sola stagione pre monsonica – ha scritto Barmasse sul suo account Instagram -. Più di 800 persone in vetta. Mercoledì scorso invece verrà ricordato come il giorno con più affollamento sulla cima del tetto del mondo. Circa 250 persone. La foto rende più delle mie parole. Per ogni persona si calcola circa 8/10 kg di immondizia per sempre abbandonata sulla montagna. Nonostante gli sforzi per ripulirla, la realtà ci propone una sola verità. L'alpinista insegue il proprio ego ed è disposto a sacrificare la montagna per un fatuo successo».
Il fotografo Dan Patitucci, riprendendo la notizia della rinuncia di Göttler, fa alcune riflessioni sul filo del paradosso sull’account Instagram @alpsinsight. «Non ho esperienza sull’Everest e so che la mia opinione vale poco. Ma mi disturba vedere tutte le persone che arrivano alla cima dell'Everest con l'ossigeno e essere messe nella stessa categoria di quelle che non lo usano. Gran parte dei media non fa più differenzia tra chi lo usa e chi no. Nel frattempo la maggior parte di chi non scala non sa nemmeno quale sia la differenza. Secondo uno studio, chi sale l’Everest con l’ossigeno vive le sensazioni che si provano tra 3.300 metri e 6.000 metri. La vetta dell'Everest è 8.848 metri. Io ho corso senza problemi a 5.300 metri. Pensateci. È come un Tour de France dove tutti pedalano su delle e-bike, tranne il concorrente in ottava posizione. Come si sentirebbe se nessuno menzionasse questo sforzo rispetto agli altri? È lui il vero vincitore? Il vero ciclista? E se gli e-biker non avessero la forza o le capacità per affrontare il percorso senza quel motore, farebbero parte della gara?». Una riflessione che, al netto delle prestazioni ossigeno-senza ossigeno che non sono così facilmente paragonabili con dati e numeri precisi, trova l’approvazione di Kilian Jornet e del trail runner Pascal Egli, che commenta come per salire in vetta sarebbe meglio basarsi sul curriculum alpinistico piuttosto che sui soldi. «Credo che se avessi pagato 70.000 dollari per scalarlo e mi capitasse di dovere aspettare a oltre 8.000 metri come in fila per un pellegrinaggio il mio sogno si trasformerebbe nel più terribile degli incubi» commenta la Guida alpina Alberto De Giuli. Everest, sogno o realtà? O piuttosto incubo? Rimane il fatto che la situazione sta degenerando e sarà sempre peggio.
Camaleonte Markus Eder
Dopo la vittoria al Freeride World Tour è indubbiamente lo sciatore del momento. Skialper ha intervistato Markus Eder sul numero 110 (puoi ordinarlo qui), ecco cosa ci aveva detto.
«Non c’è un granché dietro a quello che facciamo e con queste parole inglesi proviamo un po’ a venderlo». Ha risposto così, come un consumato frequentatore di talk show, a una raffica di «slidare un half-pipe, jibbare, tricks, kickers, twin tip» sparatagli addosso da Gigi Marzullo su invito di Fabio Fazio alla trasmissione Che Fuori Tempo Che fa, su Rai Tre, a dicembre. E pensare che Markus Eder, il futuro del freeride e del freestyle, l’unico italiano nel gotha dei park e delle run nella powder, a dire il vero uno dei pochissimi in assoluto al top in entrambe le discipline (e nei powder movie), davanti a una telecamera e ai giornalisti non si trova tanto a suo agio. «Non ero molto tranquillo, avevo paura di fare qualche errore di italiano» ha confessato a freddo. È sempre lui, il ragazzino terribile che faceva gare di sci alpino e che voleva essere capo di se stesso, senza ricevere ordini da un allenatore, che ha scelto il freestyle a 14 anni perché gli piaceva saltare e aveva iniziato a non vincere più tra i pali. E lo stesso che, quando il manager Franz Perini gli ha proposto i primi contratti con gli sponsor, ha voluto parlare in inglese per capire meglio «cose per me molto importanti». Markus Eder, nato a Brunico, ma residente in Valle Aurina, classe 1990, è uno sciatore completo. Nel 2010 si presenta al Nine Knights, con i più forti freestyler del mondo, e vince Big Air & Best Jibber. L’anno dopo Franz Perini lo iscrive al Red Bull Line Catcher, con il gotha del freeride. Non ci crede, non capisce come possa andare a confrontarsi con i big del freeride, lui che arriva dai park e dalla neve dura. Alla fine arriva secondo. «Se ci penso, dico che rimane ancora la mia gara più grande di sempre». Intanto nel 2013 vince la tappa italiana del Freeride World Tour, a Courmayeur. Markus Eder ha fatto il viaggio di Candide Thovex, dal freestyle al freeride, ma anche quello di Kilian Jornet, dalla natura addomesticata delle gare al grande outdoor, quello per esempio dei film nei quali è protagonista sci ai piedi, come Ruin & Rose di MPS Films. Ha sdoganato parole come big mountain e backflip da Fazio come Kilian ha portato il trail e le imprese di Summits of my Life al grande pubblico. Markus è lo skier globale italiano, adulato da Red Bull, con l’inglese come lingua ufficiale sui suoi canali social e quasi il doppio dei follower di Jérémie Heitz su Instagram. Ed è sempre più interessato allo skialp…
Markus, cominciamo con il capire chi sei: un freestyler o un freerider?
«Un freeskier, il termine giusto per definire chi come me fa tutto: freestyle, freeride, scialpinismo».
Giusto, scialpinismo. Qualche tempo fa dicevi che l’andare piano non faceva per te e che dovere camminare tanto per raggiungere le discese non ti piaceva…
«Quando ero piccolo la fatica non mi piaceva, ora inizio ad apprezzarla sempre di più. Quest’anno ho fatto 5-6 gite con i miei genitori e naturalmente sono più lento di loro, perché ho sci larghi e scarponi da freeride, ma l’apprezzo sempre di più».
Il park e la neve fresca sono due cose diverse, se dovessi scegliere?
«Credo che, con le giuste condizioni, oggi non avrei dubbio: neve fresca».
Hai scelto di competere ad alto livello nel freestyle e nel freeride, non è sicuramente facile, perché?
«È vero, oggi c’è sempre più specializzazione: chi punta alle Olimpiadi lavora solo nei park, altri sulla neve fresca, io faccio tutto perché sono così, mi piace saltare nei park e farmi una bella run in neve fresca, magari anche una gita scialpinistica. E poi, a differenza di chi fa solo powder, sono molto flessibile e posso sempre allenarmi».
Che cosa ha portato il freestyle nel freeride? Si può dire che il livello fuoripista è salito grazie ai trick fatti nei park come è avvenuto nell’arrampicata sportiva con le palestre?
«Sì, mi sembra un paragone giusto, se provi centinaia di volte i salti nei park, quando magari fuori non ci sono le condizioni, metti le basi per salire di livello nel freeride, impari i trick che ti servono nella neve fresca e poi atterrare sul duro aiuta ad avere la giusta sensibilità per atterrare anche sul soffice della neve fresca».
Sembra difficile da dire, perché il livello è altissimo, ma qual è la prossima frontiera del freeride?
«Jérémie Heitz ha sicuramente ridefinito gli standard della velocità e del big mountain, però si pensa sempre che non ci sia più nulla di nuovo da inventare e invece ogni anno si vede qualcosa di importante. Sicuramente il mio stile è diverso da quello di Heitz, io vado più piano e vedo la montagna come un parco giochi».
Non credi che avere sciato tra i pali ti abbia dato la tecnica di base per salire di livello?
«È probabile, ma quando sei al top ogni gradino in più è sempre difficile, come perdere qualche centesimo tra i pali. Come nello sci alpino o nello scialpinismo, all’inizio della stagione ti senti in forma, ma non sai come andrai realmente, o come andranno gli altri».
Nel film, Ruin & Rose, hai sciato anche sulle dune del deserto, vero?
«Sì, in Namibia, ma non è stato affatto facile come pensavo. Abbiamo anche contattato un tedesco che vive là e detiene il record di velocità con gli sci sulla sabbia per avere dei consigli però, quando abbiamo trovato un salto che sulla neve sarebbe stato perfetto, mi sono impiantato proprio sul dente e per riuscire a saltare abbiamo dovuto provare e riprovare».
Sciare in un film e fare una gara è decisamente diverso…
«Sì, io poi sono competitivo e mi piace vincere, ma nei film trovi quel senso di libertà, puoi sciare tutta una montagna e non solo una linea, hai l’elicottero a tua disposizione…».
I film stanno diventando un terzo lavoro…
«Sì, quest’anno infatti farò una sola gara, la Red Bull Cold Rush, dove ci sono salti in neve fresca, freeride e alpinismo. Però mi piacerebbe provare a fare il circuito Freeride World Tour seriamente, non solo un paio di tappe come in passato, è il mio obiettivo per la prossima stagione».
Facebook o Instagram?
«Instagram, mi piace essere up to date e so subito cosa succede dall’altra parte del mondo, per esempio se ha nevicato in Canada».
Il freeride è un’attività con una componente di rischio che non può essere sottovalutata, come ti rapporti con il rischio di valanga?
«Non mi piace rischiare a caso, se faccio un trick o un salto particolare e so che posso cadere, voglio essere sicuro che non ci siano sassi. Quando filmiamo in Alaska cerchiamo di non fermarci nei piani ma di avere sempre vie di fuga per non essere inghiottiti dalle valanghe. Rischio sì, ma con un piano b, senza usare la testa non ha senso. Queste situazioni ti insegnano ad apprezzare la vita e capire cosa ti piace di più».
Come cambia il concetto di sicurezza quando sei da solo e quando giri un film?
«Molto, quando vado con un amico ci muoviamo rischiando il meno possibile, anche perché dobbiamo considerare che se succede qualcosa non è facile venire a recuperarci velocemente, con un team come quello di MPS Films cambia perché ci sono 10-12 persone, Guide alpine, elicottero».
Sei mai rimasto coinvolto in una valanga o hai vissuto un incidente da vicino?
«Fortunatamente no e spero che non mi succeda. Qualche volta, specialmente in Alaska, dove sai che non c’è nessuno sotto, quando le condizioni sono rischiose proviamo a fare partire le cornici, provocando delle piccole valanghe».
Il tuo programma prevede anche un allenamento nelle tecniche di autosoccorso?
«Ne faccio un paio all’anno, di solito uno al Freeride World Tour e quando giriamo i film, ma non sono sicuro che mi verrebbe tanto facile agire in una situazione di pericolo: tra la teoria e la realtà c’è tanto spazio ed emozione e adrenalina giocano brutti scherzi. Per questo dico sempre ai miei amici che si sentono sicuri quando hanno artva, pala e sonda di allenarsi a usarli, tanto. La gente, quando vede i miei film, pensa che sia matto, ma spesso quando si va a fare skialp da noi ci si muove più in pericolo».
Usi sistematicamente un airbag da valanga?
«Sempre quando giro i film, faccio backountry vicino agli impianti o nel Freeride World Tour, per lo scialpinismo ancora no perché è troppo pesante. Per fortuna non ho mai dovuto aprirlo».
Che messaggio lanceresti a chi come te passa dal park alla neve fresca?
«Oltre a quello di portare sempre con sé l’artva e tutta l’attrezzatura tradizionale da autosoccorso in valanga, di tornare indietro se non ci si sente al cento per cento sicuri, non è mai una decisione sbagliata».
Clare Gallagher, dal corallo alla CCC
Se sei sulla strada giusta, le porte si aprono; se sei su quella sbagliata, puoi aspettare, ma non si apriranno. Parola di Clare Gallagher, Boulder, Colorado. Probabilmente non erano tutte sbagliate le strade che ha percorso per buona parte dei primi 26 anni della sua vita. E sono tante. A 18 anni si è trasferita a Est, all’università di Princeton, dove ha iniziato a occuparsi di difesa dei coralli e ha seguito un corso di etica ambientale con Peter Singer, australiano, uno dei filosofi più influenti del mondo. Poi ha vissuto un paio di anni in Thailandia, prima insegnando l’inglese nei villaggi più poveri, poi impiegata in un programma di sensibilizzazione sulla difesa della vita marina. Ed ecco la prima strada sbarrata: le mancano gli amici, il Colorado, le montagne. Non è necessario essere una martire ai tropici per fare qualcosa per l’ambiente. Le porte si chiudono, mentre si aprono quelle della corsa.
«Ho sempre corso a scuola, ma facevo atletica o strada e, mentre alla high school ero bravina, all’università non andavo» dice Clare. Poi corre per caso un trail di 50 chilometri nel nord della Thailandia ed è subito amore. «Eravamo nella foresta e c’erano serpenti ovunque, era così selvaggio, mi è piaciuto subito». Torna a casa, nel 2015 fa un paio di gare e l’anno dopo vince subito la Leadville Trail 100 Mile, da quasi sconosciuta. Roba che ci sono atlete che ci tentano una vita senza successo. Le porte si aprono. La ragazza corre, forte. Però vuole provare a fare il medico e continua gli studi. Bastano poche settimane per capire che non è la sua strada. Le porte si richiudono. Lascia tutto per vivere di corsa. I risultati non mancano, la CCC del 2017 vinta con il record della gara dice qualcosa? E la Endurance Challenge - California Trail 50 Miles al secondo posto nel 2017? Le porte si riaprono, compresequelle del team La Sportiva, dove Clare è arrivata proprio quest’anno. «Avevo già usato le Helios, erano le mieLaSpo preferite, valide anche per correre su terreni duri, poi quest’anno ho provato di tutto, soprattutto le Mutant e ora ho trovato le mie nuove LaSpo preferite, le Bushido II, simili alle uno, protettive, ma morbide». Le porte del professionismo si aprono. «Sì, vivo della corsa, più o meno, diciamo che la mia unica preoccupazione è mangiare» scherza.
C’è una cosa che accomuna Clare e La Sportiva, entrambe hanno costruito i loro successi a partire dagli insuccessi. La casa di Ziano di Fiemmesu questa dinamica ha impostato la sua festa per i 90anni. Una scelta coraggiosa, come quella di Clare di abbandonare gli studi: «Quel fallimento mi ha dato tanta benzina per correre forte.» Corre forte, eppure Clairenon si definisce proprio una runner, piuttosto un’attivistaambientale e una runner. «Metto davanti la parola attivista, penso che viviamo sulla terra e dobbiamo fare di tutto per lasciarla migliore di come l’abbiamo trovata, dobbiamo restituire quello che ci ha dato e ancora di più come americani». Basta seguire i suoi accountsocial per capire che Clare ha fatto delle scelte radicalie la difesa dell’ambiente è al primo posto nella sua vita. Non mangia carne «perché è la prima e più facile sceltase sei ambientalista convinta e vuoi minimizzare la tua impronta ambientale, però poi mi sono accorta chesto anche meglio e corro più veloce». A proposito d’impronta, Clare compensa anche le emissioni prodotte dai suoi spostamenti in aereo. È stata anche a San Francisco dove con POW (Protect our Winters, un’associazioneche cerca di sensibilizzare sul climate change e gli effetti sull’inverno e la neve) ha partecipato a una grande marcia per invitare gli americani a votare per candidati che s’impegnano a difendere l’ambiente alle elezioni del mid term. «Il principale problema delle nostre società è proprio questo, che la gente non vota più perché pensa che sia inutile, invece bisogna votare per le persone giuste». Votare per le persone giuste e parlare con chi ci sta vicino, sensibilizzarlo dopo avere spiegato i problemi.
Il sogno però è riuscire a creare un movimento ambientalista anche tra i runner. «Io, Luke top, top3Nelson, Anton Krupicka, Joe Grant, Stephanie Violett, Dakota Jones siamo tra i più attivi e stiamo cercando di avvicinare quanti più runner a POW, vediamo cosa succederà nei prossimi anni, se funzionerà, per ora non ha senso creare un’altra associazione e disperdere gli sforzi». Protect our winters… dunque in inverno scii? «È il primo sport che ho praticato, poi tre anni fa ho iniziato a fare gare di scialpinismo, giusto per allenarmi, ho partecipato anche alla Grand Traverse, ma fa freddo, molto freddo e io sono freddolosa, anche quando corro». Però è meglio proteggere i nostri inverni, vero Clare?
Questo articolo è uscito sul numero 120 di Skialper, se vuoi acquistarlo vai qui
It’s running time
Correre in inverno. Per allenarsi, ma anche per il piacere di continuare a macinare chilometri e metri di dislivello quando la natura si ferma. Oppure per partecipare a qualche gara sulla neve o in ambiente invernale. Però, se d’estate è importante avere la giusta scarpa, d’inverno lo è ancora di più. Ecco perché abbiamo messo ai piedi di due specialiste alcuni modelli specifici. Scarpe per la neve e il freddo, ma anche semplicemente per una corsa in collina o a media quota, su terreni umidi o resi duri dal freddo. Per questo abbiamo deciso di dividere in due la vasta gamma delle calzature utilizzabili in inverno, creando una categoria delle super-specialistiche, cioè quelle scarpe con ghetta e proprietà termiche pensate per affrontare il bianco inverno. Per correre in un ambiente più fresco e umido, invece, ecco le versioni Gore-Tex dei modelli estivi. Due testatrici esperte in materia: Marta Poretti, che nel 2018 ha vinto l’Idita Sport, gara di 550 km tra i ghiacci dell’Alaska, con temperature che raggiungono anche i -35 gradi, e Melissa Paganelli, vincitrice dell’ultima Corsa Bianca e del Winter Trail Monte Prealba. A Marta l’onore (e l’onere) di provare le scarpe con ghetta, a Melissa quelle semplicemente in Gore-Tex. Per il primo test un campo prova d’eccezione: le insidiose pietraie sopra Cime Bianche Laghi, ai piedi del Cervino, rese viscide da un sottile strato di neve e dalla bufera. Per andare più a fondo, poi, ci siamo spinti su ampie chiazze di neve. Per la seconda prova, invece, ci siamo concentrati su un fondovalle molto umido.
GHETTA SÌ, GHETTA NO - Fatta la premessa, che vale in generale anche per le calzature estive, che ormai di scarpe brutte non ce ne sono più, abbiamo riscontrato importanti differenze d’impostazione tra i sette modelli provati. Le La Sportiva Uragano e le Salomon S/Lab XA Alpine 2 sono le più integralmente invernali, con morbida ghetta, come Uragano, o a stivaletto e doppia costruzione (con una normale scarpa da running interna) come le S/Lab XA Alpine 2, che non nasce come pura invernale ma per imprese fast & light in quota. Queste due soluzioni sono pensate per le condizioni più estreme, soprattutto con neve bagnata, la più insidiosa e umida, e quelle che garantiscono ma migliore termicità. «Sono modelli molto validi nei nostri climi, naturalmente per correre gare specifiche in Alaska o nel grande nord ci vogliono ancora più termicità e accorgimenti specifici e, a quelle temperature, può succedere che le ghette si bagnino e poi gelino, diventando rigide e a volte fastidiose» dice Marta Poretti. Ci sono invece soluzioni meno estreme, a metà del guado, come la La Sportiva Tempesta, che rappresentano un giusto compromesso tra protezione dagli elementi e libertà della caviglia. Inoltre la facilità e velocità d’accesso è migliore. In generale, correndo sulla neve, abbiamo riscontrato che non è sempre scontato che la soluzione con ghetta sia la più indicata. Anche una scarpa bassa in Gore-Tex, abbinata a una ghetta adeguata, se non si corre in neve fresca, può essere una valida scelta. Abbiamo inoltre inserito nel lotto dei modelli da neve la Scarpa Atom SL che è una via di mezzo tra un semplice modello in Gore-Tex e la Tempesta, con una specie di calzino basso a proteggere la caviglia dall’entrata di detriti, oltre all’utilizzo della membrana Gore-Tex. Si tratta di una soluzione che la casa indica in modo specifico per utilizzo invernale, anche se non ha particolari doti di termicità.
OPZIONE CHIODI - Premesso che su terreni duri o ghiacciati esiste sempre l’opzione ramponcino (sul mercato se ne trovano di diverse marche e categorie di prezzo), segnaliamo un plus non da poco delle scarpe La Sportiva: la possibilità di montare chiodi AT Grip con un apposito accessorio simile al cacciavite. L’operazione è abbastanza semplice e le zone dove inserirli sono segnalate sulle suole di Uragano e Tempesta. Un’operazione che richiede pochi minuti e non rovina le scarpe. I chiodi, infatti, posso essere tolti e rimessi. Il kit costa 49 euro ed è acquistabile nello shop on-line della casa di Ziano di Fiemme o nei negozi specializzati.
GORE-TEX - In inverno la prima richiesta che si fa a una scarpa è quella di tenere asciutti (e a una giusta temperatura) i piedi. La membrana Gore-Tex utilizzata, solitamente la Extended Comfort, è la più traspirante e leggera e i modelli sono risultati confortevoli dal punto di vista climatico, con il piede sempre al caldo ma mai troppo in un clima fresco. Buona anche la dinamica di marcia anche se bisogna tenere contro di un peso leggermente aumentato rispetto ai modelli estivi e una flessibilità minore, ma assolutamente accettabile. «Solitamente utilizzo scarpe in Gore-Tex quando devo uscire per allenarmi su terreni che so essere innevati o molto umidi e nella stagione invernale, in queste condizioni, le differenze sono minime e comunque inferiori ai vantaggi» dice Melissa Paganelli. I modelli senza ghetta, naturalmente, se utilizzati in acqua e ad alta velocità, lasciano entrare qualche schizzo dall’alto. Ma nell’utilizzo medio invernale vanno più che bene (e potrebbero essere un’opzione anche per le mezze stagioni) e al limite si può sempre usare una ghetta.
BENVENUTO INVERNO - In conclusione… non ci sono scuse per non andare a correre in inverno, il mercato propone la scelta di prodotti più vasta di sempre, per tutte le esigenze. Anche la categoria più specialistica delle integraliche solo qualche anno fa era occupata dalla sola La Sportiva Crossover GTX (ora disponibile nella versione 2.0), è ormai sufficientemente ampia (e comprende anche la Scarpa Spin Pro OD, con ghetta in OutDry, che purtroppo non abbiamo potuto provare, e la Dynafit Transalper U GTX, disponibile solo in versione maschile/unisex). L’importante è sapere che utilizzo prevalente si farà della scarpa invernale e orientarsi verso modelli più o meno specifici.
INTEGRALI
Salomon S/Lab XA Alpine 2
Grazie alla doppia costruzione, dentro è molto simile (se non uguale) alla S/Lab Sense e il fit e le sensazioni si avvicinano. È risultata quella con migliore termicità. L’accesso è abbastanza facile e nella corsa non impaccia, sembrando un unico corpo, anche se le sensazioni sono abbastanza diverse da un modello estivo. È reattiva e secca e la suola ha la climbing zone in punta.
Peso: 375 gr
Prezzo: 250 euro
Drop: 6 mm
Suola: Premium Wet Traction Contagrip
La Sportiva Uragano GTX
Protezione totale e libertà dei movimenti. Non entra nulla, la termicità è buona e le doti dinamiche anche. Un po’ difficoltoso l’accesso, ma poi quando sei dentro la vestibilità è valida. Ben studiata anche la flessibilità, grazie alla Gore Flex Construction, sostanzialmente simile a quella di modelli come la Mutant. Mescola pensata per il grip su superfici morbide, per il duro c’è l’opzione chiodi AT Grip.
Peso: 350 gr
Prezzo: 189 euro
Drop: 10 mm
Suola: FriXion Blue
La Sportiva Tempesta GTX
Condivide con Uragano lo stesso chassis e la suola. Però non ha la ghetta ma linguetta e collo rialzati. È risultata un ottimo compromesso tra le semplici scarpe in Gore-Tex e le integrali. Per situazioni non estreme, versatile. Per il resto vale quando scritto di Uragano.
Peso: 300 gr (340 gr uomo)
Prezzo: 169 euro
Drop: 10 mm
Suola: FriXion Blue
Scarpa Atom SL GTX
La più leggera del lotto, una vera invernale per il grip, risultato il migliore. Non per la termicità e la protezione della esigua calzetta che la rende indicata per utilizzatori di livello, alla ricerca di una scarpa performante e veloce e per climi/nevi non estreme. E per correre veloce…
Peso: 290 gr
Prezzo: 169 euro
Drop: 4 mm
Suola: Megagrip
GORE-TEX
Dynafit Trailbreaker GTX
La versione in Gore-Tex della scarpa con la caratteristica suola a S firmata Pomoca (che si comporta bene). Termicità e traspirazione indicate per un utilizzo invernale non estremo, tanta protezione dietro, sensazione di drop e più sensibilità davanti. E una buona scelta per utenti di livello intermedio alla ricerca della protezione e di una scarpa versatile, anche per camminate veloci.
Peso: 250 gr (290 gr uomo)
Prezzo: 160 euro
Drop: 10 mm
Suola: Pomoca Alpine TB
New Balance KOM GTX
La novità 2018 New Balance per le ultra-distanze in versione Gore-Tex. Calda e traspirante il giusto per un utilizzo invernale non estremo, protettiva, ha buone doti dinamiche e un discreto grip, che la rendono una allround (per terreni e utilizzatori) no problem. L’impostazione iniziale è rigida e sostenitiva, ma dopo qualche chilometro ‘si fa’ e diventa molto comoda senza perdere il sostegno.
Peso: n.d.
Prezzo: 140 euro
Drop: 8 mm
Suola: Vibram Megagrip
Mizuno Wave Mujin GTX
Il grande classico della casa giapponese tradisce l’origine stradistica del marchio, con un’impostazione molto comoda, che non va a discapito della protezione, che è valida, anche da sotto grazie al rock plate. Lo spazio ampio davanti la indica anche per percorrenze lunghe con clima fresco grazie a una discreta termicità.
Peso: 320 gr (375 gr uomo)
Prezzo: 155 euro
Drop: 12 mm
Suola: Michelin
Scott Kinabalu Power GTX
L’ultima versione della best seller di casa Scott nella versione con tallone rinforzato, che sostiene di più. Rispetto ai precedenti modelli Kinabalu, concede qualcosa di più a comfort e ammortizzazione, ma rimane un modello ‘cattivo’ e veloce. La versione in Gore-Tex non tradisce le attese per qualche corsa bagnata in climi freschi.
Peso: 350 gr (390 gr uomo)
Prezzo: 179 euro
Drop: 8 mm
Suola: Scott, anche per bagnato
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 120, uscito a gennaio 2018. Se non vuoi perderti nessuna delle storie di Skialper e riceverlo direttamente a casa tua puoi abbonarti qui.