Canali a manetta

Parlare di evoluzione è sempre qualcosa di serio, di certo noi non abbiamo fatto la storia, ma possiamo raccontarvi come la combinazione di racing, video di skiporn e fame di polvere abbiano creato una nostra visione del freetouring, parecchio alpina e aggressiva. Partiamo dall’inizio: la nostra idea non aveva per nulla a che fare con la salita, perciò in principio parlerei piuttosto di freeride e, per quanto mi riguarda, una concezione moderna della disciplina (o forse dovrei dire stile di vita) che ha avuto origine a fine anni ‘90, quando ero un racer nel fiore degli anni. Ovviamente già prima per un bambino dello sci club non c’era grossa distinzione tra allenamento in pista, tra i pali o fuori pista. Andare fuori era un’attività come un’altra da svolgere quando nevicava, che però ha costruito le basi per creare la completezza tecnica. In quegli anni ’90 lo snowboard è stata una grossa fonte d’ispirazione perché, per chi girava le località sciistiche per gare e allenamenti come noi, non era raro imbattersi nei primi park e nei loro frequentatori, che portavano una ventata nuova sia per lo stile ribelle associato alla street culture, sia per l’interpretazione di cliff e linee con una surfata fluida e gran galleggiamento. A nostra insaputa non eravamo i soli (chi più chi meno) a trarre ispirazione da tutto ciò: stava nascendo la new school, un calcio in faccia a chi vedeva lo sci come uno sport vecchio e alla frutta. Lo zampino delle aziende a questo punto ha fatto la differenza; per mettere questi sciatori ribelli al primo posto della catena alimentare, per rilanciare un prodotto stantio con nuove manifestazioni oltre la FIS, con budget carichissimi per filmare video e sviluppare materiali adatti alle richieste di un mercato in fase di decollo. I video di sci non erano una novità e i freerider dell’epoca erano dei fenomeni assoluti sia dal lato tecnico che esplorativo, avevano solo bisogno di un materiale che permettesse loro una planata consistente e di ragazzini che mostrassero loro nuovi trick da portare in back country. Quindi grazie allo snowboard e alla nascita della new school il futuro era arrivato. Questo preambolo ci riporta all’esatto momento in cui le cose hanno preso forma per noi.

© Filippo Menardi

Ski porn

Per molti di noi l’acquisto dei primi twin larghissimi, tipo 90 sotto il piede, segnò l’inizio: volevamo essere freerider come quelli che avevamo visto alla primissima edizione del Monterosa Freeride. Eravamo dei racer dal piede pesante che avevano voglia di andare a manetta, fare festa e aprire linee. Come si capisce i nostri idoli erano Candide Thovex o Seth Morrison, di certo non Negroni e Fontana, che peraltro conoscevamo, quindi diciamo che la nostra attività di fuoripista era basata totalmente sulla discesa; non era nemmeno contemplato l’attacco da salita, tanto per girare ci bastavano gli impianti, al limite sognando l’elicottero. Nel frattempo, in assenza di neve ma in abbondanza di tempo libero, in uno strano gennaio, grazie a Filippo Menardi ho iniziato ad andare con le pelli. Non so nemmeno il perché, però come attività non era male; quello che era male erano i materiali che mai più avrei associato allo sciare in una maniera che non fosse pura sopravvivenza per raggiungere la macchina, figuriamoci a una planata in neve fonda! Gli scialpinisti andavano a fare linee dolomitiche in stretti canali incassati tra pareti rocciose che mi terrorizzavano solo al pensiero, ma con uno stile che era totalmente all’antitesi di quello che ci piaceva, poco fluido e statico, quasi non fosse possibile fare diversamente, anche a causa del materiale appunto: antico e poco performante in discesa. Intanto nell’Ovest, dove la scena era molto più avanti, forse per l’influenza francese, i freerider con sci lunghi e larghi andavano a tutta con curvoni veloci e surfate spettacolari. Tra di noi il pensiero comune era che: «certo in ampi spazi, come da loro, puoi andare a 100 all’ora con degli scioni esagerati, ma in Dolomiti, nei canali, non è possibile andare a manetta». Questo era vero ma per un motivo che avrei capito parecchio tempo dopo: da noi la contaminazione tra alpinismo, racing e freeski era solo all’inizio e ogni categoria se ne stava nel suo. Eravamo stufi ormai delle solite linee e ci spingevamo sempre un po’ più in là con gli itinerari, fino all’ovvio momento in cui non bastava più fare cento metri a piedi; cosi la tecnologia ci è venuta in aiuto, creando attacchi e scarponi adatti al montaggio su sci prettamente da discesa, che però ti permettevano di camminare con le pelli. Come se il materiale si evolvesse con noi e viceversa, ormai eravamo in grado di andare a prendere tutte le linee, anche molto alpinistiche, ma con la possibilità, in base alla profondità della neve, di utilizzare un paio di set-up diversi in larghezza e peso, per non perdere galleggiamento e tenuta. Dopo i primi approcci timidi a determinate pendenze cariche di neve polverosa, quello che sembrava impossibile era diventato la regola: ricercare la velocità più elevata possibile, scrubbandola se necessario e cercando di non fermarsi fino alla fine. Andare a fare canali come il Vallençant sul Cristallo con un twin rockerato da 120 sotto il piede, dopo una ferrata in invernale, oggi è diventata una cosa normale.

© Filippo Menardi

Dalla new era a Linea

Come ho detto prima, noi non abbiamo scoperto di sicuro l’acqua calda, perché nei canali gli alpinisti ci sciavano da sempre, però l’uso di sci larghissimi, lunghi e completa- mente sbananati, prettamente da powder, uniti a una gamba e una tecnica da discesisti puri, ha creato un mix velocissimo. Il punto non era curvare, ma semplicemente prendere velocità e portanza per poi gestire i cambi di direzione con una profonda perdita di quota, quasi sulla massima pendenza, e rallentare (se proprio si doveva) rimanendo il più leggeri possibili, con la possibilità di galleggiare e derapare in maniera controllata. Una tecnica che con uno sci tradizionale non era possibile a meno di fare curvoni dalle ampie diagonali, impossibili in un budello di canale. La nostra New Era è stata proprio questa: essere additati come folli per avere portato materiali esagerati in un altro contesto, per poi salutare tutti e ritrovarli al bar dopo avere già bevuto un secchio di birre. Il tallone d’Achille però, ovvero la parte alpinistica, è stata dura da costruire e per fortuna fare squadra con Filippo (che poi è diventato Guida), insieme a molti altri amici, ha aiutato non poco al raggiungimento di posti da ingaggio che altrimenti mi sarebbero rimasti preclusi. L’evoluzione non si sarebbe fermata e il progetto Linea ne è la conferma, aggiungendo ancora un gradino alla scala prestativa in discesa. Qui entra in gioco Alberto Ronchi, che già conoscevo per la sua velocità in discese hard core, che insieme a Filippo come filmmaker e skier, ha messo insieme un progetto molto ambizioso e allo stesso tempo puro e semplice: sciare discese estreme (ripetizioni, prime ripetizioni e forse anche prime assolute) dall’inizio alla fine, senza averle risalite, alla massima velocità e nel caso anche fissando ancoraggi per calate, avvalendosi di un normale pianta spit. Un’attività del genere porta l’estetica al primo posto e a mio avviso solo pochissimi sciatori hanno affrontato determinate discese in questa maniera, per esempio Aldo Valmassoi e Niccolò Zarattini. Una visione simile a quella di Xavier De Le Rue e Jérémie Heitz per parlare chiaro, una versione dolomitica e più underground dei massimi esperti del freetouring moderno. Dura prevedere il futuro, ma questi ragazzi hanno già dimostrato che ciò che sembrava impossibile è diventato uno stile consolidato, sicuramente non per tutti, ma possibile: risalire dislivelli importanti in stile alpinistico, affrontando le discese come se pronti per filmare per Matchstick. Un ringraziamento però va alla defunta seggiovia di Staunies che ci ha permesso di agganciare canali da 900 metri di dislivello senza camminare molto, conservando un bel po’ di gas per la discesa!

Mai meno di 103

Nel corso degli ultimi quattro/cinque anni l’evoluzione del materiale e continue prove sui montaggi ci hanno fatto arrivare alla conclusione che per sciare ad alta velocità con neve imprevedibile la scelta deve cadere su sci fortemente strutturati, con larghezze variabili dai 105 al 120 mm in vita e lunghezze sui 185 cm, mai troppo leggeri (sul paio di chili). Questo per non rinunciare a tenuta ed elasticità. Attacchi possibilmente Shift, Kingpin o Tr2 Skitrab, per aumentare sicurezza e tenuta, e scarponi con walk, pin e Vibram ma 130 di flex per imprimere precisione agli sci larghi e non subirne le torsioni.

Words of wisdom

Monta il tuo sci sbananato vicino al centro, le code ti sosterranno e, quando lo intraverserai con facilità, ti darà una stabilità totale: scia centrale e non sdraiarti sulle code e, come in Vacanze di Natale: peso a valle e sci a monte avanzato!

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 127

© Filippo Menardi

 

 

 


Arianna Tricomi, go with the flow

Sono passate un paio di settimane da quando ho intervistato Arianna nella sua casa di Corvara; potrei dire per un caso fortuito, o più che altro sfortunato, visto che vi si trovava a causa di un infortunio alla caviglia che pareva serio e in grado di tenerla lontana dagli sci e dal tour. Dopo queste due settimane Arianna, quando ho scritto questa intervista, era in testa alla classifica generale del Freeride World Tour, avendo dominato la tappa di Fieberbrunn. Non si possono fermare gli healing vibes della famiglia del Tour a quanto pare...

Ciao Arianna, come prima domanda vorrei chiederti perché molti atleti rimangono al Tour molte stagioni, anche se hanno già vinto il titolo. Non sarebbe più fico scegliere la strada del filming e creare contenuti di alto profilo con case come Teton o Matchstick?

«Il punto principale è che passare dal Tour al filming non è scontato, è riservato a pochi atleti, che hanno queste opportunità per una combinazione di sponsor, personalità interessanti e richiesta delle stesse case di produzione; oltre ovviamente a un livello tecnico al top. Quindi sebbene al Tour gli skier e snowboarder siano il meglio del meglio, solo pochi riescono a passare al mondo del filming; per gli altri rimane l’unica reale possibilità di essere pro. Un aspetto che non traspare dall’esterno è che siamo una famiglia: il Freeride World Tour diventa questo gruppo di personaggi che gira il mondo insieme, condivide trasferte, gare e giornate in powder, già solo questo è di per sé un ottimo motivo per ripresentarsi anno dopo anno allo start. Ognuno è libero di vivere come vuole, di organizzarsi come meglio crede, sia per quanto riguarda gli aspetti logistici che gli impegni in calendario, allenamenti compresi. Nessuno ti dice quello che devi fare, non ci sono le federazioni di mezzo ed è forse l’unico ambiente rimasto un po’ punk rock in tutto lo sci. Il Tour ti dà tanto, sia in termini di visibilità che di opportunità, quindi va solo apprezzato, a prescindere dai voti dei giudici. Rimanere all’interno di questa cerchia è l’unico modo per molti per vivere di sci ed è una rampa di lancio per le nuove generazioni».

Questa cosa effettivamente non si coglie dallo streaming, che negli anni passati è sempre stato il tallone d’Achille, con dirette eterne e il giudizio sempre opinabile dei giudici a creare del malcontento.

«Certamente i giudici non sono infallibili e molte volte si accorgono loro stessi di avere commesso errori, però cercano sempre un miglioramento dei criteri, anche con vari meeting dove sono presenti i rider. Organizzare il World Tour non è cosa da poco a livello economico, lo streaming è tutto per la sua divulgazione e i giudici subiscono pressioni per velocizzare il processo di valutazione e per rendere più fluido lo spettacolo. Il lavoro che viene svolto è da rispettare e apprezzare e se alla fine della gara sei scontento del punteggio, ci sta. Però devi ricordarti che il gioco è questo, se vuoi farne parte, che i rider sono importanti, ma sono solo un pezzo dello show. Uno show che deve filare il più veloce possibile per piacere. Purtroppo alla fine sono sempre i soldi che comandano».

Secondo te il judging ha contribuito a fare chiudere il gas ai rider, penalizzando i backslap?
«Agli skier uomini no di sicuro! Loro è meglio tenerli a bada che sennò veramente esagerano (ride). E comunque vanno sempre molto forte, sempre al limite. Certo, a volte i backslap penalizzano cliff o trick stilosi perché atterrati un po’ al limite, però quello che si cerca di premiare è sempre lo stile e la misura, dando più punti a chi si distingue. Il judging sarà sempre il limite, perché comunque va applicato a diverse interpretazioni della montagna date da background diversi. L’unico aspetto che forse limita la progressione dei rider durante il Tour è il fatto di passare molto tempo lontano dalla neve a causa degli spostamenti e del down time quando le condizioni non permettono di sciare e gareggiare; questo non aiuta affatto a dedicare il tempo necessario a imparare e perfezionare i trick e lo stile. Cercare di rimanere integri durante la stagione senz’altro ti limita nello spingere».

Quindi come scegli la tua linea, la costruisci per raccogliere più punti, sapendo cosa guardano i giudici?
«Assolutamente no, scelgo la linea che più mi ispira e che più rispecchia il mio stile e il mio background, fatto da sci alpino e freestyle-slopestyle. I giudici ti conoscono e lo vedono se ti perdi, se scegli una linea che non ti rispecchia. Molti dei giovani che arrivano dalle gare FWQ Juniors sono più abituati a questa tipologia di gara e sono già specializzati, puntando ogni tanto a ciò che dà più punti, anziché all’estetica della linea e alla propria voglia di sciarla quella determinata linea».

Sei tornata da poco da Jackson Hole, dove sei stata invitata alla jam/gara sul famoso Corbet’s Couloir, che ti ha visto al secondo posto, che esperienza è stata?
«È stato bellissimo! Abbiamo ricevuto una super accoglienza per una settimana intera, condizioni top per girare con gli amici e spingere. La gara in sé consisteva in due run per rider, giudicate poi dagli stessi rider in una video session un paio di giorni dopo, con tanto di birrette per completare il tutto. Questo formato è stato molto divertente, all’ameri- cana, con il pubblico che urlava e gasava in partenza, dove ognuno poteva decidere come droppare, costruendo anche il proprio kicker. Ho avuto la possibilità di concentrarmi di nuovo di più sui trick e proprio all’ultimo giro dell’ultimo giorno sono caduta su un 360 infortunandomi alla caviglia già malconcia».

A proposito di progetti, il tuo film La luce infinita come è andato?
«È andato molto bene, credo che sia stata un’espe- rienza unica, qualcosa che difficilmente si potrà replicare: una crew di amici, le musiche realizzate in casa. Purtroppo le cose ora sono cambiate e i miei amici hanno impegni, non hanno tutti la possibilità e il budget per prendersi del tempo e filmare».

E quindi niente più filming? O qualcosa bolle in pentola?
«In realtà ci sarebbe qualcosa di più o meno segreto, qualcosa di importante. Vedremo in primavera, mi piacerebbe tornare in America, un viaggio di rivincita visto che l’ultima volta a Mammoth mi sono rotta una vertebra!».

Non ti voglio far sbottonare troppo, però è chiaro che tutto questo sarà possibile, oltre che per le tue qualità, anche grazie all’apporto fondamentale degli sponsor...
«Certo, forse non tutti lo sanno, ma funziona cosi: la casa di produzione vuole uno skier rappresentativo, ma la sua parte, che ha dei costi molto alti, viene finanziata dagli sponsor e dal rider stesso, che
- diciamo - investe su di sé. Io posso essere contenta di avere degli ottimi sponsor e mi reputo molto fortunata, un grazie va senz’altro al mio manager che mi dà una mano enorme».

Questa domanda è doverosa: il tuo background? Forse non tutti sanno che arrivi prima dallo sci alpino e poi dal freestyle.
«Come tutti i bambini della valle ho cominciato con lo sci club e le gare della zona però, per farla breve, non era tanto il racing in sé che mi ha stufata, ma il fatto di essere in un mondo con troppe regole e costretta a fare solo ciò che diceva l’allenatore; a me piaceva fare i salti e scappare nei boschi o in park, non volevo sentirmi limitata».

Qui interviene la madre di Arianna, Cristina Gravina, olimpionica di discesa libera a Lake Placid: «Arianna faceva incavolare gli allenatori perché o si faceva i fatti suoi o non si presentava agli allenamenti e poi alle gare andava forte e batteva gli altri bambini, figurati i genitori... Una volta aveva avuto la possibilità di andare col club a Les 2 Alpes a fare allenamento e nella sacca degli sci aveva nascosto quelli da park: un giorno l’allenatore mi chiama e mi chiede dove sparisce tutti i giorni Arianna alla fine degli allenamenti!».

Un talento rubato allo sci alpino? «Mah, forse, però ha fatto bene cosi! E comunque per un motivo o per l’altro solo in poche della sua età sono andate avanti (Sofia Goggia per dirne una!)».

Una giovane ribelle già da piccola quindi. Di conseguenza il freestyle si addiceva di più alla tua personalità.
«Esatto, all’inizio l’ambiente del freestyle era super punk, ognuno faceva quello che voleva ed era libero di esprimersi liberamente, ma poi anche lì con l’arrivo della FIS e delle federazioni siamo tornati da capo: l’ambiente è cambiato e molti hanno mollato, come me e Markus Eder; con l’arrivo delle Olimpiadi sono apparsi sulla scena skier che non hanno mai costruito un kicker in vita loro, che non si sono sbattuti, attirati solo dai Giochi e dai benefici che possono portare. Ora questi park skier si allenano come matti in park e sui tappeti, ma poi se devono tornare a valle preferi- scono montare in cabinovia piuttosto che sciare (ovviamente questo non vale per tutti i freestyler). Dov’è la passione per lo sci? Le leggende che hanno spaccato nel freeski, come Tanner Hall o Candide Thovex, presenti dal giorno uno di questa rivoluzione, non torneranno più probabilmente, ora è tutto più incentrato sulla prestazione, è un vero e proprio sport e la progressione è molto più veloce. Come dicevo riguardo le nuove leve del Tour, ad alcuni giovani sicuramente manca il background fatto di sperimenta- zione e passione».

A proposito di Tanner, cosa vuol dire relazionarsi con molti di quelli che una volta, quando giravi in park, erano i tuoi idoli?
«Come dicevo, loro sono le vere leggende, adesso Tanner è un mio homie, ha una passione sfrenata ed è una persona speciale. È incredibile conoscere gente come lui e Sage Cattabriga-Alosa, essere sullo stesso piano di personaggi che hanno fatto la storia del freeski e del filming e vedere che sono delle rockstar anche come persone».

Oltre allo sci cosa ti piace fare? Hai qualche altro progetto?
«Mi sono laureata in fisioterapia a Innsbruck, dove ora vivo, quando non scio vado in mtb enduro, cammino e arrampico, vivo la montagna a 360 gradi. Un giorno forse mi piacerebbe insegnare e trasmettere la passione per lo sci ai bambini, senza limitazioni. Sempre se riuscirò a finire il corso Maestri di sci, in maniera più o meno legale!» (ride)

Words of wisdom finali?
«Respect the mountain! Prima di ogni cosa, sia per sperare che ci regali tanta neve e sia per quanto riguarda la sicurezza. E poi, andare col flow, non forzare mai, rimanere sani e senza infortuni».

Da quando ci siamo incontrati per questa intervista a quando l’ho scritta molte cose sono cambiate. La tappa finale del Freeride World Tour è stata cancellata a causa del virus bastardo e Arianna è stata incoronata regina per la terza volta. Noi speriamo che riesca ad andare avanti col suo progetto di filming, prima o dopo, se non altro avrà tempo di ristabilire la caviglia malandata, grazie anche alle sue nozioni di fisioterapia. Di un’ora e mezza di registrazione niente è stato cambiato, ma soltanto arrangiato per rendere più scorrevole la lettura. Dopotutto, come dice Arianna, go with the flow.

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 129

© Brett Wilhelm / Red Bull Content Pool

Serpentina for a livin'

Quando penso alla serpentina, la prima immagine che mi viene in mente è quella della lavatrice nella pubblicità della Calfort degli anni '80, una serie sinuosa di curve strette unite da un elegante diagonale; la stessa diagonale che permetteva a sciatori leggendari come Doug Coombs, Dean Cummings o Jean-Marc Boivin di ricalibrare i movimenti tra una curva e l’altra durante una ripida discesa. La serpentina è sempre stata una curva chiave nella tecnica dello sci, a prescindere dal materiale usato dagli anni ‘70 a oggi. Certo, con l’evoluzione degli sci anch’essa ha subito una costante mutazione diventando sempre più condotta e scorrevole, adottando diverse sfumature in base appunto alla tipologia di sci usato e ovviamente ai tipi di neve e alla pendenza.

Prima della rivoluzione dei fat ski e dei carving, lo sci era tutta un’altra storia, le aste che andavano dai due metri fino ai due e dieci non permettevano fluide planate in neve profonda, e nemmeno una gestione slideata della curva verso la massima pendenza, per perdere quota in neve crostosa o difficile. I casi erano due: o si eseguiva una curva saltata (sci ripido e neve dura) o una serpentina. Questo tipo di curva permetteva il massimo della fluidità possibile per scendere un pendio controllando la velocità in nevi la cui profondità non consentiva agli sci senza sciancratura di curvare rapidamente e tornare sotto il baricentro dello sciatore semplicemente ruotando i piedi. Per dare un’idea io prenderei: Doug Coombs in Alaska, dove effettuava serpentine dalla lunghezza eterna; Jean-Marc Boivin in una qualsiasi discesa di ripido e il grande Steve McKinney, che faceva dei veri propri drittoni giù per le Palisades a Squaw Valley con ai piedi gli sci da chilometro lanciato! Per vedere curve lunghe più fluide avremmo dovuto aspettare gli anni ‘90, con Kent Kreitler e Shane McConckey, rivoluzionati poi dallo snowboard e dalla leggendaria discesa in tre curve di Jeremy Nobis.

© Alberto Casaro

WE TEST ON HUMANS

Dopo avere pensato a tutti gli scenari passati è venuto il momento di tirare le somme; perché fare un articolo sulla serpentina nell’epoca dei drittoni e di film come La Liste, dove ognuno cerca la planata e la velocità più alta? Perché da sempre questa accomuna gli sciatori di ogni tipo. A seconda delle situazioni è la curva che viene eseguita sia dai freerider più veloci, sia dagli scialpinisti classici. Quindi che fare? Ci siamo armati di sci di 207 centimetri di lunghezza, oltre ai materiali soliti, e abbiamo sciato in condizioni variabili, cercando similitudini tra passato e presente e soprattutto di evidenziare le differenze nell’utilizzo di aste diverse. Tecnicamente lo sciatore ha a disposizione quattro movimenti fondamentali: alto-basso, inclinazione, antero-posteriore e rotazione. Questi movimenti si sono adattati nel tempo ai materiali, più sciancrati, più larghi e pre-deformati (rocker), riducendo via via l’alto basso, o meglio utilizzandolo come regolatore per ricercare il contatto col terreno; e rendendo le inclinazioni sempre più preponderanti ed accentuate, grazie al vincolo molto solido creato dai nuovi sci. Ma cosa accade quando sotto ai piedi mettiamo qualcosa di lungo, stretto e totalmente dritto, sci che solo dall’aspetto ti fanno capire che forse non è il caso di maledire gli snowboarder, ma che forse è meglio offrirgli da bere?

© Alberto Casaro

ANCHE A MONTE, BUSTO A VALLE

Appena saliti in funivia mi accorgo degli sguardi della gente, il mio abbigliamento all’avanguardia dello stile e della tecnica stona totalmente rispetto agli sci che mi porto dietro: sono quasi mezzo metro più alti di tutto e continuo a sbatterli contro gli stipiti delle porte, ma il bello deve ancora venire… Calzo gli sci e l’effetto visivo è perfino più incredibile, sono la metà della pianta degli scarponi! Faccio le prime curve in pista, su neve dura coperta da dieci centimetri di polvere. Fino a qui tutto bene. Prime curve strette: accentuo leggermente i movimenti verticali e mi ricordo di non inclinarmi troppo, giro i piedi e gradualizzo il movimento, una meraviglia! Gli sci girano e sono veramente agili, tant’è che la mia arroganza mi spinge a prendere velocità per allungare le curve; inizio a inclinarmi e gli stecchini vanno per la tangente, quasi cado e metto la mano in terra, benissimo. Ritorno a curvare stretto e riprendo gradualmente ad aumentare la velocità, cerco la fluidità, anche a monte fino all’ultimo e con il busto bene verso valle. Eccola la serpentina! È veramente una soddisfazione e la sensazione non è niente male, sento la stabilità e chiudo bene le curve. Quindi qualche adattamento e in pista ci siamo, le curve lunghe le faremo un'altra volta, ora è il momento di uscire dal seminato… L’inverno per ora non ci ha dato granché, ma in alto qualche nevicata l’ha fatta e quindi usciamo fuoripista e vediamo com’è la situazione. Il manto è un mix di cartone, crosta e fondo inconsistente, insomma una meraviglia. Nelle prime curve è duro, azzardo due curve saltate su discreta pendenza e, a parte la lunghezza, gli sci sono solidissimi e mi danno sicurezza; due curve dopo la neve sfonda e fare girare le aste diventa un altro paio di maniche, devo quasi fermarmi tra una curva e l’altra per fare ritornare l’esterno sotto di me. I movimenti verticali diventano basilari per creare l’alleggerimento necessario a impostare la virata: niente slashate, niente scrub, qui il capitano va giù con la nave. Come primo giorno poteva anche andare, ma avevo bisogno di sciare ancora un po’ per trarre delle conclusioni, magari con condizioni più morbide e divertenti. Però nulla sarebbe cambiato in termini di neve nelle settimane successive, quindi sotto a chi tocca e via con la seconda parte dell’esperimento. Dopo avere scelto un bel pendio con fondo incerto, coperto da venti centimetri di neve nuova ventata, decidiamo per un approccio scientifico: prima una serie di curve con un 177 centimetri, 96 millimetri sotto il piede e poi con il famigerato 207. Non sapendo a cosa andare incontro parto cauto: curve profonde controllando la velocità per minimizzare i danni in caso di squali, cercando la leggerezza e la perdita di quota, dosando la pressione e la presa di spigolo. Questi sci li conosco bene, galleggiano e girano molto facilmente, non devo preoccuparmi di nulla se non rimanere centrale e inclinarmi il giusto. La neve non è male, portante il fondo, polveroso lo strato superiore; è il momento dei 207. Anche se so cosa mi aspetta in termini di neve, non mi fido e mi muovo con cautela: accentuo i movimenti verticali per impostare la curva e mi abbasso molto in piegamento per assorbire il carico che imprimo allo sci nella seconda parte. Fluidità e morbidezza, non ho un grande feeling, ma neppure pessimo, senza dubbio non sono a mio agio. Quando riguardiamo le sequenze l’effetto è sorprendente: due serpentine quasi uguali! Incredibile come sensazioni cosi contrastanti abbiano però prodotto lo stesso risultato.

TAKE HOME MESSAGE

Evidentemente quando non è possibile cavarsela mollando a tutta verso valle ed è quindi necessario controllare la velocità, la serpentina è davvero l’unica via. Gli sci nuovi ci fanno risparmiare molte energie rispetto agli sciatori del passato, ci fanno andare veloci: però quando è crosta o è ventata, quando non vediamo dove andare e sciamo sulle uova, o semplicemente quando vogliamo far durare più tempo la discesa dopo una salita dura, senza nemmeno accorgercene, sapete che curva faremo? Serpentina for a livin’!

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 122, INFO QUI

© Alberto Casaro

Origami bianco

Si chiama Tengu, monte Tengu. Dall’ultimo degli impianti abbiamo messo le pelli e ci siamo diretti verso questa vetta, prima su facili pendii e poi su un’affilata cresta fino alla cima. Neanche il tempo di guardare il panorama che una tempesta ci ha avvolti, rendendo nulla la visibilità. Dopo un leggero saliscendi siamo arrivati all’imbocco di un canale nel white-out più completo: avremo fatto sì e no 500 metri di dislivello e ci siamo preparati alla discesa. Non nascondo i timori e le perplessità che avevo riguardo alla pendenza, la quantità di neve e l’assenza di visibilità, ma dopo poche curve tutto è scomparso. Pura poesia, neve profonda e terreno divertente, neanche la minima traccia di sluff: una lunga discesa in ambiente selvaggio fino al fondovalle. In un luogo totalmente isolato, nel gretto di un fiume, abbiamo ricalzato le pelli e risalito il pendio di fronte, per altri 600 metri, fino a una cresta che ci ha spalancato le porte su una discesa memorabile, in un labirinto boscoso molto vario. Vera meraviglia, orientamento confuso, ma la sensazione di conoscere la strada, fino all’ovvia conclusione sull’orlo di una grande diga che segnava il fondovalle. Quello che è seguito è stato a dir poco epico: l’arrivo in un cimitero deserto all’ombra di un maestoso tempio. Dopotutto l’essenza di Hakuba è tutta qui: linee di livello in ambiente selvaggio, con conclusioni totalmente al di fuori di ogni mappa o resort, in paesi e frazioni non raggiungibili dagli sciatori ordinari.

©Filippo Menardi

INSIDE HAKUBA

Come sciatori e viaggiatori ci sono delle mete che rimangono punti fermi nella cosiddetta lista dei desideri; ne hai sentito parlare, le hai viste nei video, sono leggendarie per le condizioni della neve. Il Giappone entra di diritto in questa lista. L’Hokkaido è un must, le condizioni della neve sono incredibili e quando ci siamo andati nel 2011 ne abbiamo avuto la conferma. Però, dopo anni di esperienze di viaggi e linee, era venuto il momento di tornare in Giappone a fare qualcosa di meglio che grattare la superficie di un immenso potenziale, che va ben oltre il macinare giri in seggiovia in Hokkaido. L’idea di Hakuba è stata in incubazione per anni ed è una storia fatta di connessioni tra skier sviluppate in molteplici viaggi low cost e d.i.y. A prescindere dalla meta, la nostra filosofia è sempre stata la stessa: cercare condizioni e linee diverse da quelle a cui siamo stati abituati: lo sci deve essere di qualità e per raggiungere l’obiettivo sono giustificati la fatica e il tempo impiegato per raggiungere zone remote. In ogni viaggio abbiamo sempre cercato di muoverci al di fuori della soglia di comfort, studiando quello che poteva offrire la zona e direi con buoni risultati, portandoci a casa delle belle sciate in spot per nulla ovvi.

©Filippo Menardi

Ad Hakuba avevamo un’arma in più, un amico local che, oltre a essere un grande conoscitore ed esploratore della zona, lavora anche in un lodge della zona. Combo perfetta! Ho conosciuto Matthias a Las Lenas anni fa. Snowboarder infaticabile, vero skibum, parte di una cricca composta da personaggi di spessore. Quando è venuto a Cortina a trovarmi, fu lui a parlarmi di Hakuba; era da un paio di anni che ci andava da dicembre a marzo e, dopo avermi mostrato un video di Jeremy Jones, mi disse che con le pelli era possibile fare le stesse linee, lunghe e ripide, con spines e pillow e soprattutto con pochissima gente. Long story short: dopo una stagione lavorativa soddisfacente, ma penosa per via di neve e progetti personali, Filippo e io ad agosto dell’anno scorso abbiamo prenotato il volo e trovato altri due compagni di viaggio per la nostra crew: Giulia Monego e Michele Valle Da Rin. Obiettivo? Spendere poco, sciare linee pesanti, fare foto e filmare; il tutto in una decina di giorni, appena finite le vacanze di Natale, per sfruttare la bassa stagione e minimizzare i mancati guadagni. Questa è una storia da working class heroes, niente lussi e pochi sprechi, salvo per gli alcoolici, ahimè… Organizzare il viaggio è stato facile, la parte difficile riuscire a far combaciare ogni dettaglio in cosi poco tempo. Il primo è la neve. Sebbene l’innevamento in Giappone sia sempre molto buono, Hakuba non è l’Hokkaido, non nevica così spesso e le condizioni sono assai variabili. Il sole scalda di più e a volte piove molto, creando grossi distacchi e crepe nella base nevosa fino al terreno. Passare da condizioni da favola a condizioni da incubo può essere questione di una mattinata. Quindi non ci restava che lavorare a testa bassa durante le vacanze e sperare che tutto filasse liscio. Qualche giorno prima di partire comunque un messaggio di Matthias avrebbe cambiato il nostro umore: è bellissimo, un sacco di neve, molto stabile. Perfetto!

©Filippo Menardi

PACKING, PARTENZA E VIA

Finalmente è arrivato il giorno prima della partenza. Non potendoci portare dietro la casa, abbiamo optato per un set up da freeride touring pesante, sapendo che avremmo pellato parecchio e sperando di avere bisogno di un gran galleggiamento. Giunti a destinazione abbiamo potuto constatare che la scelta dei local era la stessa: sci da 120 millimetri con attacchino e scarpe da freeride con walk. Purtroppo però il viaggio non è partito nel migliore dei modi con me e Filippo bloccati un giorno a Helsinki e Michele e Giulia senza sacche degli sci; ancora una volta però un messaggio di Matthias avrebbe calmato le acque: ragazzi, ha piovuto fino a 2.000 oggi, adesso sta iniziando a nevicare, domani non vi perdete nulla. Vabbè, chi vivrà vedrà. Arrivare in un posto sconosciuto di sera, dopo un viaggio di 56 ore, è sempre strano; non ti senti a tuo agio, le gambe sono dure e le aspettative altissime, hai bisogno di entrare nel mood giusto. Un lodge confortevole e 50 centimetri di neve in paese hanno reso tutto molto più semplice.

©Filippo Menardi

LINES, SKINS & SPINES

Da subito è stato evidente che grazie al gancio con Matthias e i local avremmo goduto di una linea preferenziale rispetto al novanta per cento degli sciatori e rider del lodge e di Hakuba in generale. Il posto è gremito di turisti che però si riversano tutti nelle solite zone, dove si arriva con i mezzi pubblici e dove è più comodo individuare divertenti fuoripista serviti dagli impianti. Per iniziare, vista la grossa nevicata del giorno prima, abbiamo approfittato anche noi degli impianti, facendo qualche metro a piedi per riuscire a mettere in cantiere più giri possibile. Siamo andati in un piccolo resort dove non c’era troppa affluenza, per certi aspetti molto simile a Niseko, sull’isola di Hokkaido, con la differenza che il boschetto era di 900 metri di dislivello, con un rientro non facilissimo da individuare. Morale? Siamo partiti con una cannonata di giornata e come riscaldamento non potevamo chiedere di meglio: qualità della neve elevatissima, leggera e profonda, discese lunghe e ripide con un terreno movimentato e divertente.

La vicinanza del mare non garantisce un meteo molto stabile però le previsioni sembravano buone e quindi nei giorni seguenti avremmo avuto l’opportunità di muoverci verso il cuore delle Alpi Giapponesi con le pelli, per disegnare linee su terreni più aperti, esposti e lontani dai resort. Il giorno dopo, appena le nebbie si sono diradate, lo spettacolo delle Alpi Giapponesi si è presentato in tutto il suo splendore: in lontananza montagne alte quasi 3.000 metri, gonfie di neve e ricche di canali, sciabili (e neanche così spesso) solamente in primavera a causa dell’isolamento e del lungo avvicinamento. Montagne con linee da sogno per ogni sciatore e alpinista che si rispetti. Più vicino a noi, con pellate ragionevoli, intorno ai 600 metri, c’erano delle creste infinite che davano accesso a linee ripide e a incredibili spines, dove dall’alto è impossibile vedere lo sviluppo della discesa per via dei pillows e della pendenza. Le spines però sono state l’unico neo del viaggio, perché non le abbiamo mai più potute filmare col drone, né sciare a causa del meteo… Senz’altro ci hanno dato un ottimo motivo per ritornare a chiudere i conti! Quello che più ci ha stupito è come la neve (e quanta) rimanesse appiccicata senza che si formassero valanghe. In Europa non è pensabile affrontare certe pendenze su versanti aperti e a dorso di mulo, con così tanta neve nuova e senza brandire un rosario. Ad Hakuba questa è la regola e ci vuole un po’ di tempo per adattarsi e non continuare a fermarsi o a voltarsi per capire se sta per partire una lastra o meno.

©Filippo Menardi

SKI BUM JAPAN STYLE

Tutti i giorni abbiamo pellato e non abbiamo praticamente mai ripetuto le stesse linee, salendo da una cresta, scendendone un versante e risalendo sul pendio successivo, muovendoci da una valle all’altra. Un saliscendi parecchio faticoso per la profondità della neve, ma estremamente gratificante, soprattutto per l’assenza quasi totale di sciatori. Molte discese rimarranno segrete come lo rimarranno nomi e riferimenti, ma questo non vale per Happo. Qui si sono disputate le Olimpiadi di Nagano e il Freeride World Tour, proprio quest’anno. Happo è un grande comprensorio con pochissime piante e lunghe discese su creste e ampi pendii, molto divertente e vario, alla portata di tutti, con linee di facile intuizione dove basta alzarsi a piedi dal livello degli impianti per 200 o 300 metri di dislivello per accedere a un terreno più complicato. La montagna è esposta comunque a forti venti ed è necessaria una buona valutazione del manto nevoso per scegliere su quale versante muoversi e se rimanere a quote inferiori tra gli alberi.

Alla fine abbiamo sciato sette giorni, sei dei quali in condizioni da favola, lontano dalle tracce e servendoci degli impianti e delle pelli, esplorando luoghi che senza l’aiuto di Matthias avrebbero sicuramente richiesto una programmazione più laboriosa. Abbiamo conosciuto persone di ogni genere e avuto la fortuna di sciare con chi ha fatto di questo sport uno stile di vita, con passione, ossessione e dedizione totale; moderni ski bum fedeli al vero significato di questo termine, ovvero senza budget e senza piani di riserva. Abbiamo avuto la fortuna di mangiare in posti deliziosi e tradizionali, lontano dai centri turistici, e di ristorare anima e corpo nelle Onsen. Quella della cittadina di Omachi, immersa nelle montagne, merita una menzione speciale per la solitudine e la pace del luogo. Michele, hockeista doc, ha avuto addirittura la possibilità di giocare una partita di allenamento nello stadio olimpico di Nagano! Ma questa è un’altra storia…

In conclusione Hakuba è un’esperienza sciistica di livello superiore, per varietà e bellezza delle montagne, come dice Filippo, è l’altro Giappone. Grazie a Filippo, per avere condiviso ogni avventura, per la sua competenza in montagna e per la qualità delle sue fotografie. Grazie a Giulia, per la sua esperienza come pro skier di livello e per la sua attitudine. Grazie a Michele per la sua positività e per avere steso un povero hockeista giapponese di 60 anni. Grazie a Matthias e Lee per tutto il resto. Grazie a Suichi per averci fatto provare le Onsen qui solo giapponesi.

©Filippo Menardi

Hakuba. Istruzioni per l’uso

Prenotando in anticipo si possono trovare voli dall’Europa intorno ai 600 euro, andata e ritorno: l’importante è controllare i chili per ogni collo poi, sia che si arrivi o parta da Haneda o Narita, con treni e bus si raggiunge facilmente il centro di Hakuba.

Skipass: se si vuole pellare è possibile risparmiare molto prendendo una tessera a punti, utilizzabile in più giornate. Costa poco meno di 50 euro. Cibo: al di fuori dei centri abitati più commerciali è possibile mangiare pollo fritto e riso con circa 8/10 euro, pare che il sushi sia overrated…

Onsen: le terme giapponesi sono molte, più o meno commerciali, il costo non è elevato e comunque si può beneficiare dei buoni che i lodge dispongono. Assolutamente da provare.

Pernottamento: la soluzione migliore sono sicuramente i lodge, presenti in quantità, dove oltre alla convivialità e alla condivisione degli spazi comuni con altri ospiti, si può avere una stanza confortevole e una cucina a disposizione. È consigliabile fare la spesa nei supermercati e risparmiare cucinandosi i propri pasti. Noi abbiamo speso 30 euro a notte, a testa, per una camera con quattro letti e il bagno all’esterno.

Airbag: nessun problema per i modelli a ventola, ma per gli airbag a gas se, come da contratto con le linee aeree, si svuota la bombola, poi è difficile ricaricarla in loco. Mediamente la vita non costa molto, a patto di muoversi al di fuori dei centri turistici affollati di australiani.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 121, uscito a dicembre 2018. Se non vuoi perderti nessuna delle storie di Skialper e riceverlo direttamente a casa tua puoi abbonarti qui. Oppure comprare il numero arretrato qui.

©Filippo Menardi