Ho conosciuto Andrea Gallo di persona l’anno scorso, sciando insieme a Gressoney. Dico di persona, perché se uno è torinese e va un po’ in montagna, il suo nome di sicuro l’ha già letto da qualche parte, probabilmente sulle guide Finale 8.0 o Polvere Rosa. Oppure sulle relazioni di falesie storiche come Striature Nere o l’Orrido di Chianocco, spauracchio dei climber sabaudi chiamati a confrontarsi con gradi e stili di una volta, quelli su cui si è espresso Andrea come scalatore e chiodatore. O ancora, per chi avesse qualche anno in più del sottoscritto, l’ha trovato sulle pagine della defunta rivista Alp, della quale è stato collaboratore e fotografo per anni. È stato anche l’artefice, insieme ad altri, della creazione della Finale Ligure che conosciamo oggi, un modello di turismo outdoor che ha fatto scuola e che permette agli sciatori tristi di sopravvivere all’autunno e di risvegliarsi in primavera. Insomma, da attore prima e narratore poi, Andrea Gallo è sul pezzo da trent’anni e, anche ora che lavora nei video musicali (il binomio video maker outdoor – musica trap è qualcosa di assurdo e romantico allo stesso tempo) continua a martellare sugli argomenti a lui cari da sempre, quando non è occupato in cose più serie, ad esempio andare in skate o sciare a Punta Indren. Con la scusa di andare ad accaparrarmi una copia della nuova guida Finale 51, sono andato a trovarlo a Gressoney Saint-Jean per capire cosa ci fosse dietro a un nome scritto sulla copertina di un libro.
DOMANDA SEMPLICE E COMPLICATA ALLO STESSO TEMPO: CHE STRADA HAI PERCORSO FINO A OGGI?
«Ho cominciato a scalare nel 1981, prima ho praticato la scherma, lo sci agonistico e lo skateboard, sempre col mio modo di fare le cose, ovvero tuffandomici dentro. Sono uno che si infogna e, anche quando ero piccolo, se mi appassionavo a qualcosa, mi allenavo sei giorni a settimana. Sono migliorato abbastanza in fretta, a quell’epoca si scalava al Palavela a Torino ed eravamo la prima generazione che si allenava con un’ottica sportiva. Insieme ad altri ho avuto la fortuna di ritrovarmi al centro dell’azione, ho partecipato alla storica Sportroccia a Bardonecchia nell’85 e parallelamente ho cominciato a collaborare con la neonata rivista Alp, per la quale tenevo la cronaca della libera. Ho avuto la fortuna di vivere in un periodo molto bello che è durato fino alla fine del decennio, almeno per quello che riguarda le gare di arrampicata. La magia si è interrotta quando è stata creata una nazionale vera e propria, e di colpo sono spuntati dal nulla stemmini e allenatori mai visti in giro prima: ciò che prima era spontaneo, iniziava di colpo a venire incanalato, analogamente a quanto è successo nello snowboard qualche anno dopo. Nel ’92 ho smesso con le gare e ho scalato ad alto livello su roccia fino al ’97, l’anno in cui la fotografia, che prima era un passatempo da falesia, è diventata qualcosa di più serio. Il primo viaggio ufficiale da fotografo di arrampicata è stato in Sardegna, per scattare l’apertura di Hotel Supramonte con Rolando Larcher. Avevo già avuto qualche esperienza con il ciclismo, a un certo punto all’inizio degli anni ’90 correvo nel cross-country: dopo aver vinto il campionato ligure mi hanno spostato negli élite e lì mi sono ritrovato in mezzo a una mandria di bufali inferociti. Ero passato dal vincere le gare della domenica a gareggiare con gente che aveva corso il Tour de France. La prima guida di Finale invece è uscita a fine anni ’80, edita da Alessandro Gogna, poi ho continuato fondando una mia piccola casa editrice. Nel ’97 è uscita Polvere Rosa, che ai tempi è stata la prima guida italiana prettamente di freeride, ispirandoci a un volume su Chamonix. Tolti gli anni in cui ho scalato ad alto livello, ho sempre sciato, con qualche parentesi su snowboard e monosci. Il primo decennio del 2000 lo ricordo come il periodo più figo per la fotografia di arrampicata, perché avevo modo di girare con gli interpreti di ogni specialità: Mauro Calibani e Marzio Nardi sul bouldering, Rolando Larcher sulle vie lunghe, Anna Torretta e Bubu Bole sul ghiaccio e misto e tutto quello che passava nel mezzo».
E POI A UN CERTO PUNTO SEI PASSATO AI VIDEO.
«Sì, merito delle prime reflex che potevano anche registrare filmati. Mentre scattavi, iniziavi a girare qualche secondo, che poi un pezzetto alla volta si sono trasformati in video veri e propri. È diventato un lavoro quando, un po’ per caso, sono finito a fare il location manager per un video di Tony Hadley – l’ex frontman degli Spandau Ballet – che voleva filmare un paesaggio innevato nel Vallone di Loo. In quell’occasione avevo con me uno dei primi droni consumer in commercio all’epoca e, in modo un po’ naïf, abbiamo fatto qualche ripresa con quello. È piaciuto un sacco, e la settimana dopo mi sono ritrovato a filmare J-Ax con un drone più serio che avevamo praticamente spacchettato il giorno prima, bluffando sulle mie effettive capacità di pilotarlo. Morale, mi sono ritrovato da un giorno all’altro a passare dagli scalatori al mondo del rap italiano, con ragazzi spesso poco più che ventenni: Gué Pequeno, Marracash, Nesli e altri. Sono dei fighi che lavorano tutto il giorno, e per me entrare in quel mondo è stata una rivoluzione, una contaminazione con altri linguaggi e culture. Nella musica ogni volta si lavora su un’idea nuova, mentre nel mondo dell’arrampicata spesso ci si chiude al mondo esterno, impostando la narrazione unicamente sulla performance. Ad esempio, lo skate è influenzato costantemente dal mondo dell’arte e della musica, le cose si fondono assieme, mentre l’arrampicata è rimasta autocelebrativa e autoreferenziale».
COME CAMBIA LA PRATICA E LA NARRAZIONE DELLE DIVERSE ATTIVITÀ CHE TI APPASSIONANO? ESISTONO PUNTI IN COMUNE?
«L’arrampicata, appunto, la trovo tanto chiusa. Se pensi ai siti d’informazione di riferimento, siamo ancora lì a pubblicare il compitino dello scalatore, chiamato a scrivere di se stesso: da un lato è bello, dall’altro appiattisce i livelli, a questo punto siamo tutti bravi, non c’è mai stata una reale valutazione giornalistica delle imprese. Immagina come possa un mondo di questo tipo, non ancora capace di creare un sito realmente giornalistico, aprirsi ad altre culture. Così come il filone delirante delle autobiografie di alpinisti, quelle di cui ci si ricorda sono ben poche: Twight, qualche inglese e poco altro. Invece lo skate è aperto a tante cose, lo sci è su una linea di mezzo. Ad esempio il freeride permette a un atleta di essere professionista anche senza partecipare alle competizioni, come accade anche nel surf. Nella scalata, a parte Sharma, Favresse, Villanueva e pochi altri, i professionisti sono quasi sempre agonisti omologati tra loro. Ce la meniamo sulla performance, e il più forte diventa anche il più figo, senza accennare allo stile. Nello sci invece abbiamo figure come Bruno Compagnet che, anche senza ormai essere al top, lo vedi sciare e pensi questo non sbaglia una curva. Lo stesso avevo pensato guardando Piergiorgio Vidi: quello è sciare. Poi mi piace anche il ragazzino che fa 100 giri in aria, anche se non è il mio mondo. Nell’arrampicata invece è tutto sul grado, lo vedi anche nella pratica: vai in falesia e sono tutti appesi cercando di provare qualcosa di più duro, anziché puntare a muoversi bene su un 6c. Purtroppo anche il freeride sta deviando su questo: una volta il World Tour era interpretare una linea su una montagna, ora è saltare meglio degli altri. Serve l’idea del vecchio surfista, quello che gira a sessant’anni col longboard e si muove in un modo che fa girare tutti gli altri in line-up. Manca anche il culto dell’attrezzo, uno come Mariacher dovrebbe essere riverito come Takayama (uno storico shaper hawaiiano). Lo stesso vale per lo sci, a parte qualche eccezione, con degli sci di dieci anni fa ci si fa solo ridere dietro, mentre nel surf certe tavole sono eterne. Tra tutte, l’arrampicata mi sembra l’attività meno creativa. Una possibilità stava nascendo con il moderno boulder indoor, simile al parkour, ma una cosa del genere non doveva finire nelle gare, ma diventare una specialità a sé. Nella pratica, però, i punti di incontro ci sono solo perché i praticanti sono gli stessi. Ma se uno scala e scia, quest’ultima per lui sarà la ricreazione. Su roccia devi per forza andare a metterti alla prova, perché vuoi trovare lungo. Bisognerebbe recuperare l’idea di farsi piacere, un po’ come sugli sci. La corsa al grado e il mettersi in discussione – a tutti i livelli, principianti compresi – non fa crescere l’arrampicata».
C’È UNA RICERCA COMUNE NEGLI SPORT CHE PRATICHI O CHE HAI PRATICATO?
«Lo sci è la mia religione, l’attività che mi fa stare meglio. I ricordi più belli sono legati al piacere fisico di un dato momento, il colore e la portanza della neve, la sensazione della curva, e via così. Quello che cerco sono le condizioni ideali, anche per limitare i rischi. Nella scalata, passato il periodo della corsa al grado, quello che cercavo era la fluidità nei movimenti su tiri più facili, fino a renderla quasi un’attività aerobica: ad esempio salire un 7a in modo continuo, senza fermarsi e senza tentennare. La ricerca nello skate invece è legata alla struttura: su certe rampe magari provo dei trick, nelle pool più grosse invece mi limito a percorrere linee e godo lo stesso. Un minimo comune denominatore può essere il movimento inteso come flusso continuo, che magari cercavo anche quando, andando a correre, mi sforzavo per mantenere un passo costante. Nello sci di sicuro questa sensazione è più facile da trovare».
SECONDO TE COSA SI È GUADAGNATO NEL TEMPO? E COSA SI È PERSO?
«Si è guadagnata una maggiore comunicazione. Prima era tutto lasciato al sentito dire, adesso le informazioni girano e il racconto delle azioni avviene in tempo quasi reale. Magari nello scialpinismo si è persa l’attenzione al capire dove sei e cosa stai facendo, affidandosi solo a ciò che si legge o si sente. Poco fa due ottimi sciatori hanno sciato la Nord del Lyskamm, e qualcuno li ha seguiti a distanza di qualche giorno senza avere realmente idea delle condizioni, basandosi unicamente su qualche storia di Instagram. A metà parete hanno tolto gli sci. Ecco, bisogna stare attenti a non lasciare che il virtuale prevalga sulla propria esperienza. A livello di pratica, però, le sensazioni che si provano sono le stesse di venti o trent’anni fa, non bisogna lasciarsi influenzare dalla quantità di informazioni a disposizione. È come avere un’edicola con tanti giornali, non dobbiamo per forza leggerli tutti. Però è bello avere una scelta così ampia a disposizione, no? Quello che si è perso, al massimo, è la voglia di conoscere la storia dei propri sport, chi erano gli scalatori e gli sciatori venuti prima di noi. Ma capisco che sono argomenti di nicchia, e forse se non ci interessano è anche un po’ colpa delle riviste del settore, mentre, ad esempio, su Surfer ci sono continuamente articoli sugli shaper del passato».
IL MODELLO OUTDOOR DI FINALE È RIPRODUCIBILE IN ALTRE LOCALITÀ?
«Finale è il risultato di una congiunzione di più fattori. Il luogo è unico, neanche il Garda si avvicina: c’è il mare, il clima giusto per andarci in inverno, le pareti che non possono essere create dal nulla. C’è la macchia mediterranea, riesci a scalare in luoghi che sono davvero selvaggi, mentre ad esempio ad Arco ci sono i meleti e le case sempre in vista. Questo ha fatto si che negli anni ’80 un gruppo di persone venisse attratto dal Finalese, forse perché scappavamo tutti da qualcosa e volevamo trovare riparo in quell’angolo magico. Il volerlo mantenere selvaggio non è stato un atto di snobismo, ma di rispetto. Per lo stesso motivo non si sono scavati appigli, soprattutto in quel periodo che è stato veramente dannoso per altre località. Qualche caratteristica di Finale è esportabile, ma la sua anima è unica. E la sua ascesa non è stata nemmeno casuale, perché abbiamo sempre remato per farla conoscere al pubblico di tutto il mondo, anche perché i nostri business giravano su quello. E poi, questo è importante, va detto che tutto è partito da persone mosse prima dalla passione e poi dall’aspetto commerciale. Se si procede con l’ordine inverso, le cose non funzionano. È una serie di tasselli che si sono incastrati fra loro, aiutati dal fascino unico di Finale: anche se vai a scalare ad Albenga, alla sera poi ti sposti a Finalborgo, che una volta, all’inizio, chiamavamo Finalbronx per le condizioni in cui era ridotto. Mi auguro che nascano altre Finali, perché sarebbe un bene per tutti, ma solo Finale ha quel qualcosa che ti attira, e tanti ci cascano. Si sono creati almeno 300 o 400 posti di lavoro e, facendo due conti, conosco una cinquantina di persone che hanno comprato casa lì. Alcune peculiarità sono spiegabili, altre sono legate al fascino intrinseco, lo stesso vale per le differenze fra Chamonix e Courmayeur: una è la città degli alpinisti, l’altra quella delle pellicce. È stata una botta di culo che certe persone si siano ritrovate lì al momento giusto arrivando da fuori, come Alessandro Grillo, scalatore, e Fulvio Balbi, che ha creato dal nulla i sentieri per la mountain bike, e magari gli imprenditori alberghieri che li supportavano. Negli ultimi anni sono di sicuro arrivati i problemi legati al flusso di visitatori, ma è compito di chi c’è ora trovare le soluzioni, prima ancora di porre divieti. Non siamo arrivati allo scontro con l’amministrazione, ma al punto degli attriti, e sarebbe un peccato arrivare a rompere il gioco».
È USCITA LA TUA NUOVA GUIDA CARTACEA DI FINALE. COME LO VEDI IL FUTURO DI QUESTO TIPO DI PUBBLICAZIONI, SOPRATTUTTO SE RAPPORTATO AL DIGITALE?
«Io avevo immaginato un passaggio al digitale già parecchi anni fa, pensando di sostituire l’edizione 2011 con un’applicazione, anche per una questione di sostenibilità. Però poi creare un libro di carta significa rendere reale un sogno, la fotografia stampata su una doppia pagina vive in un altro modo. L’app esiste già, collegata alla guida, ma non ha riscosso molto successo. Mi sono mosso nello stesso modo anche per il volume sui sentieri mtb, presagendo gli stessi risultati, e sono stato disatteso: il ciclista non vuole il libro, non gliene frega nulla. Lui vuole unicamente la traccia gps, incredibile. Lo stesso vale per Polvere Rosa, l’unico modo per venderla è farla su carta. In quel caso preferisco non inserire alcun riferimento gps, perché poi uno si fida ciecamente e magari passa su una placca a vento con i risultati del caso. Probabilmente ai ciclisti non importa avere una guida cartacea perché hanno una mentalità più sportiva: non vogliono sapere chi abbia tracciato quel trail, mentre invece sulla roccia e sulla neve i nomi degli apritori – e quindi chi gli ha dato una dignità – sono fondamentali. Probabilmente è un pubblico più preparato, se hai scelto di andare a scalare o a sciare hai già fatto una scelta enorme, mentre la bici è alla portata di tutti sin da bambini. Spesso chi pedala ha una minore attenzione per l’ambiente e per la sua salvaguardia, e non tende a legarsi a una determinata località al punto da trasferirsi. Sono meno sognatori, se vogliamo dirlo. Per la nuova guida ho lavorato anche con le ultime generazioni di scalatori finalesi, neo-maggiorenni, una serie di ragazzi fighissimi: conoscono la storia, utilizzano i social ma non ne sono dipendenti, fanno esperienze lavorative all’estero, insomma, sono sicuramente più aperti di chi c’è stato prima. Ecco, loro, che vivono i social con serenità, allo stesso tempo apprezzano le cose scritte, e vedendoli penso: lunga vita alla carta. Forse, poi, una guida cartacea diventa anche un’alternativa a un mondo dove tutto va consumato in fretta e furia. Era molto attesa, anche perché è una celebrazione di un gruppo di persone che hanno contribuito allo sviluppo di Finale. A parte qualche riga di introduzione, non volevo assolutamente parlare di me, ma degli altri, perché dev’essere una guida di tutti. C’è stata un’ottima collaborazione anche con Tomassini, che redige l’altra guida del Finalese, perché le informazioni di entrambi combaciassero, ad esempio sui nomi dei tiri o i loro gradi».
PARLIAMO DEI MALEDETTI E SANTI GRADI: I TUOI SONO CONOSCIUTI PER ESSERE PIÙ DURI DELLA MEDIA.
«Quando si è cominciato a gradare a Finale abbiamo preso come riferimento la Francia, con le valutazioni di allora. Se andavi a scalare in Verdon o a Buoux i gradi erano quelli, e noi li abbiamo semplicemente importati. Poi, in un preciso momento storico, in Spagna hanno cominciato ad ammorbidire i gradi e quando scalatori italiani hanno iniziano a valutare allo stesso modo le nuove falesie la gradazione è esplosa. Qualcuno ha voluto accorciare il metro per correre più veloce, a dirla tutta. Ora, anche a Finale, ci sono falesie storiche gradate in un certo modo e altre, più recenti, in un altro. Quello che io definisco grado in euro o in lire. La colpa è di chi ha gradato prima o di chi l’ha fatto dopo? Ci sono scalatori della mia generazione che fanno l’8c ora, e magari non lo facevano venticinque anni fa. La cosa figa di quegli anni lì è che scalavamo forte senza sapere quanto, e ce ne siamo accorti solo dopo, perché all’epoca non ci interessava così tanto. Quando ho chiodato Hyaena (8b) all’epoca scalavo sul 7c o poco più, ma avevo visto degli appigli e in qualche modo di lì si passava. Abbiamo cominciato a interessarci ai gradi quando è arrivata la concezione di onsight, che misurava effettivamente il valore dello scalatore: se uno il tiro ce l’ha dietro casa può provarlo quanto vuole, se ci si fa un solo giro sopra si capisce quanto è forte effettivamente. Sono molto competitivo, ed effettivamente sapere se quello su cui ti stai sfidando è un 7c, un 7c+ o un 8a ha una certa importanza. Poi forse avremmo potuto fare di più, ma cercavamo l’unicità delle sensazioni, piuttosto che la loro ripetizione. Siamo stati influenzati un casino da Marco Bernardi, uno che, arrivato all’apice dell’alpinismo, ha smesso, poi è arrivato a essere uno dei climber più forti del suo periodo e ha smesso anche lì… perché per lui ciò che contava era l’esperienza, la prima volta. L’importante è avere gradi uniformi nella stessa falesia, che poi questa sia più o meno dura di altre è un valore aggiunto e una forma di rispetto della storia. Un giorno a Finale dei ragazzi di un corso Guide scalavano su un 6c con facilità, mentre sul 6c+ di fianco non arrivavano in catena: uno dei due aveva qualcosa che non andava, evidentemente».
QUALI SONO I MIGLIORI RICORDI DA FOTOGRAFO E DA SCALATORE CHE HAI, SU ROCCIA E SU NEVE?
«Mi ricordo il giorno in cui ho fotografato Mauro Bubu Bole su Bellavista, alla Cima Ovest di Lavaredo. Ero salito sulla statica che pendeva dal bordo del tetto per 200 metri nel vuoto, staccata per una settantina di metri dalla parete, una cosa agghiacciante. Quando Bubu è arrivato al tiro del tetto (8c su chiodi, ndr) la scena era spettacolare, mi vengono i brividi ancora adesso. Aveva fatto una leggera nevicata la notte, la neve diffondeva la luce del sole ed ero con un gruppetto di fedeli di Mauro che l’aveva seguito fin lì. In quel momento, scattando, ho pensato che era proprio quello che volevo fare nella vita. Sulla neve ne ho tanti, se proprio dovessi isolare un momento mi viene in mente una linea al Colle Ranzola, più che un momento, mi vengono in mente due curve fatte in quel punto lì, sulla neve giusta, farina fredda che porta bene, zucchero. Da scalatore, anche perché all’epoca ero infognato di cose mentali, mi ricordo perfettamente il giorno in cui ho fatto Hyaena dal mattino alla sera, così come una volta in cui ho gareggiato contro Jerry Moffatt a Vienna. Due anni prima ero affacciato sul bordo del Verdon ad ammirarlo su Papy Onsight, e ora stavo scalando contro di lui. Rimpianti non ne ho, perché credo che qualsiasi cosa succeda, è perché in quel momento hai preso la decisione che ti sembrava più giusta».
ULTIMA DOMANDA. UNA COLONNA SONORA RAP E TRAP PER UN VIDEO DI MONTAGNA?
«Senza Dio di Gué Pequeno, con cui ho collaborato per il video, mi piace. Mi piace anche Nonostante tutto di Gemitaiz e qualcosa di Sferaebbasta. Di quelli attuali userei qualcosa di Salmo e di Clementino, e poi ci sono i pilastri, Gué, i Club Dogo, Marracash. In un film che sto realizzando sulla storia di Finale, invece, vorrei utilizzare la musica originaria dell’epoca -Hyaena è un album dei Siouxsie and the Banshees – per raccontare anche un po’ com’erano quegli anni, perché, ecco, di lì alla fine è passata anche un po’ la vita, la mia e quella di altri».
Avrei continuato a parlare per ore con Andrea, ma già così probabilmente ho fatto passare brutti momenti a Claudio, il direttore, e Greta, l’art director, obbligati a impaginare un’intervista fiume pochi giorni prima di andare in stampa. Beh, il succo è questo: Andrea, come altri, è una figura che chi va in montagna deve conoscere, perché è tra coloro che hanno creato e raccontato la storia di ciò che ci piace fare e magari in cui crediamo per provare a essere persone migliori. Insomma, bisogna conoscere la storia di ciò che c’è stato prima di noi, sulla roccia, sulla neve, ma anche in tutto il resto, perché è l’unico modo per capire il presente e sapere dove andare in futuro.
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