Esiste un posto, dall’altra parte dell’Atlantico, dove la neve è diversa. Voglio dire, è pur sempre fredda e bianca come la nostra, di neve, ma è diversa. È talmente leggera che quando vedi uno sciarci dentro sembra che stia cavalcando una nuvola di fumo, per questo la chiamano cold smoke. Una neve così, sulle Alpi, non può cadere. Una neve così ha pochi uguali nel mondo, qualcuno dice che solo in Giappone si trovi di meglio, ma nel Nuovo Continente, e neanche nel Vecchio, non c’è niente di così perfetto. Magari da qualche parte la si trova ancora più leggera, ma qui lo è al punto giusto, conservando quel tocco di corposità tale da permettere agli sci di acquistare portanza e velocità.

Tutto ha origine nel Pacifico, da cui ogni inverno una ventina di perturbazioni salpano verso gli States. Salutano le spiaggie della California e poi passano sopra le montagne della Sierra Nevada, dove le nuvole che le formano perdono progressivamente umidità. Poi, in vista dei Wasatch, avviene la magia. Il Great Salk Lake è lì che le aspetta. Manco a dirlo, è un’enorme pozza di acqua di mare: profondità media quattro metri o poco più, estensione di 4.400 chilometri quadrati e una concentrazione salina di 50g/l, più degli oceani, per intenderci. Sopra queste acque le nuvole continuano ad asciugarsi e a raffreddarsi e, una volta sopra le cime del Little Cottonwood Canyon, puf!, asciano cadere fiocchi perfetti. Tecnicamente si chiamano dendriti e sono fatti esattamente come quelli che disegnerebbe un bambino, o come se li tatuarebbe uno skibum sul sedere: cristalli di ghiaccio a forma di stella, insomma, quelli che scendono ad Alta sono i Fiocchi di neve, con la f maiuscola.

Alcuni viaggi uno se li programma, o magari se li coccola come sogni nel cassetto per anni, anzi, per autunni interi, che è la stagione in cui la scimmia della neve inizia a risvegliarsi dal letargo estivo. Ad Alta invece ci sono finito quasi per caso, vittima di una serie di fortunati eventi. Ne avevo già sentito parlare, attraverso il web e i video di sciatori che arrivano proprio da qui: gente come Johnny e Angel Collinson (Jim, il padre, lavora da queste parti come snowpatroller), o Pep Fujas, giusto per nominarne un paio. Ma non mi era mai passato per la mente di venirci a sciare. Comunque, meno di un mese dopo aver preso il biglietto, mi sono ritrovato nella hall degli arrivi dell’aeroporto di Salt Lake City, in cerca della persona che mi avrebbe dovuto dare un passaggio su per il Little Cottonwood Canyon. Si è presentata nel modo più yankee possibile, a bordo di un suv dalle dimensioni tali da far impallidire un gruppo di attivisti ambientali. In pochi minuti ci siamo lasciati la città alle spalle, addentrandoci nella vallata in cui un secolo e mezzo fa arrivarono i primi minatori alla ricerca di argento.

Il primo impatto non è dei migliori, anzi. La maggior parte di questa cittadina di 300 abitanti è composta da edifici in cemento con le linee squadrate, i classici ecomostri che andavano di moda nelle stagioni sciistiche degli anni ’70. Qua e là qualche cottage si staglia orgoglioso, ma nulla lascia pensare che qui la media annuale di sciatori tocchi il mezzo milione. Il perché è presto spiegato: da quando ho caricato le borse in auto all’aeroporto a quando le ho depositate all’entrata del lodge sono passati a malapena tre quarti d’ora, questa vicinanza fa sì che il mezzo milione di frequentatori annui sia composto per lo più da sciatori che vengono qui in giornata da Salt Lake City, che può vantare più di una decina di comprensori a meno di un’ora di viaggio.

© Federico Ravassard

La prima notte non dormo benissimo, il cuore non ne vuole sapere di rallentare. Nonostante i boschi di conifere, infatti, Alta si trova a 2.700 metri, una quota dove solitamente gli impianti sulle Alpi finiscono, mica cominciano. Non nevica da una settimana, così il mattino seguente lo si dedica alla scoperta delle piste battute, i groomers. Già dalle prime curve capisco che qui c’è qualcosa che non va, anzi, che va fin troppo bene: la bassissima umidità evita infatti che la neve geli di notte anche dopo il passaggio dei gatti, niente a che vedere con i lastroni che si trovano da noi al mattino. Dopo un’accurata indagine di mercato, compiuta in coda alla seggiovia, noto che la maggior parte degli sciatori utilizza aste da 90-100 millimetri al centro: il manto, sempre morbido, rende inutili attrezzi più cattivi e quello che da noi viene ancora considerato uno sci da freeride, qui diventa un all-mountain. Si può dire che la concezione stessa dello sciare sia differente. Non si fanno distinzioni tra mazinga e freerider, o tra pista e fuoripista. I gestori stessi considerano come aree sciabili tutto ciò che rientra all’interno del resort, compresi boschi e i tratti tra una pista e l’altra. Questo vuol dire che l’intero comprensorio viene quotidianamente controllato e messo in sicurezza da un esercito di patroller, una situazione ben diversa dagli standard europei, dove, essenzialmente, al di là delle reti di bordo pista sono fatti tuoi. Non esiste l’idea che uno vada a sciare solo dentro o solo fuori. Ci si fa un giro a tirare pieghe in pista e il giro dopo, tutti insieme, ci si butta in un canalone, bonificato nei giorni precedenti dai patroller. Non esiste il freeride e non esiste neanche il carving. Esiste solamente l’andare a sciare, in una visione della pratica più globale della nostra, costruita a compartimenti stagni in base a come ti vesti e a quali sci utilizzi.

Tantissimi scendono sotto le seggiovie, su pendii ormai tritati e coperti di gobbe. Da noi il ‘sottoseggiovia’ è un terreno per pochi, in genere sventurati che, dimenandosi tra un dosso marmoreo e l’altro, vagano in cerca del bastoncino caduto. Qui non è così. Come detto prima, la neve non gela, ergo, i mogul sono sciabili e, giuro che è vero, è anche divertente farlo. Bisogna solo fidarsi a prendere velocità, con la spatole che affondano in curva assorbendo i colpi. Più vai veloce e più galleggi, come nelle whoops del motocross, anche se poi al fondo ci arrivi con le cosce che bruciano chiedendo pietà. Un pomeriggio puntiamo a un must di Alta: la Main Chutedel Mt. Baldy, un ripido canalone che si raggiunge con una breve camminata, sci in spalla, dall’arrivo della seggiovia Sugarloaf. Dalla cima la vista sul Little Cottonwood Canyon è spettacolare, per quanto sia impossibile non notare la cappa di smog su Salt Lake City, in inverno onnipresente a causa della morfologia della zona.

Con me, insieme ad altri, ci sono Marcus (Caston) e Connery (Lundin), due local con i quali scierò anche nei prossimi giorni. Marcus è, in una sola parola, impressionante: ha gareggiato per anni in discesa e super-g, importando poi la tecnica garaiola nel freeride. Il suo stile è un mix di agilità e potenza, scia esattamente come scierebbe uno slalomista di Coppa con un paio di fat nei piedi. Connery, invece, arriva dal freestyle, che gli ha dato un imprinting di fluidità e scioltezza. Uno alla volta entriamo nel canale, segnato dai numerosi passaggi, più per non intralciarci a vicenda che per ragioni di reale sicurezza. È strano da dire, ma qui nessuno scia fuoripista con il kit antivalanga. Questo perché i patroller bonificano continuamente tutti i pendii, segnalando con cancelli e pali quali pendii sono già stati messi in sicurezza e quali, invece, sono ancora da far brillare. Marcus molla gli sci dritti, assorbendo i colpi tenendo il baricentro bassissimo e sfruttando le gobbe per impostare le curve saltate. Dall’uscita del canale fino all’entrata in pista non tira neanche più le curve, prendendo subito velocità. Io rimango lì, in mezzo al pendio, a fissarlo con la bocca spalancata. Non avevo mai visto qualcuno sciare in questo modo, così composto e dinamico allo stesso tempo. Mentre torniamo al lodge il cielo comincia a coprirsi. Oh già, stanno arrivando le magiche nuvole dal Pacifico e i prossimi giorni saranno fenomenali. Dall’ufficio dei patroller cominciano a diramarsi i bollettini meteo, mentre i primi fiocchi iniziano a scendere, dando origine in pochi minuti a una copiosa nevicata. Il mattino dopo la sveglia è condita dai botti dei cannoni. Dico cannoni, e non gasex, perché negli States, dove è consentito usare esplosivi, per il controllo delle valanghe effettivamente usano proprio quelli. Obici perfettamente funzionanti, ottenuti in prestito dalla US Army. Ad Alta ce ne sono sei, posizionati sulle vette più panoramiche; per bonificare i pendii più nascosti, invece, si ricorre a un altro metodo ancora più pratico, lanciando granate a mano direttamente dalle creste. È tutto così americano che non mi stupirei di sentire anche il rombo delle pale di un elicottero Apache.

© Federico Ravassard

Ho appuntamento con Julian Carr, un personaggio fuori dalle righe e fuori di testa. Freeskier professionista, attivista ambientale, imprenditore, runner… uno che sa come ammazzare il tempo, in poche parole. Capelli lunghi sotto le spalle, tratti orientali, una calma zen, è letteralmente cresciuto qui, figlio di un jazzista di Salt Lake City. Sugli sci è conosciuto per l’altezza dei suoi drop, che gli hanno fruttato due Guinness World Record, tra cui quello per il più alto front-flip: 210 piedi, circa 70 metri. Circa due tiri di corda, o un palazzo di venti piani. Facendo il mortale in avanti. Quando non è occupato a fare trick da videogioco, Julian manda avanti il suo marchio di abbigliamento streetwear, Discrete Clothing, organizza un circuito di gare di trail proprio qui in zona, la Cirque Series, e tiene discorsi sul surriscaldamento climatico per POW (Protect Our Winters), l’ente no-profit fondato dallo snowboarder Jeremy Jones. A essere sincero, non mi stupirei se nei tempi morti si occupasse anche di fisica quantistica e letteratura bulgara.
Prendiamo la prima seggiovia, chiacchierando del più e del meno. Io faccio il vago, cercando di sopravvivere. Non mi sono tolto lo zaino e in America, sulle seggiovie, non ci sono le sbarre di sicurezza. Mentre lo ascolto con un sorriso tiratissimo, Julian mi racconta delle sue attività per POW, di quanto tutto ciò sia diventato ancora più importante dopo la vittoria di Trump. Lo Utah è uno stato in cui un florido movimento attivista e un innegabile patrimonio naturale devono fare i conti con una maggioranza repubblicana e conservatrice, in un braccio di ferro il cui premio in palio sono ettari di foreste, montagne e deserti. Poche settimane dopo il mio viaggio, la notizia che ha scosso gli animi è stata quella dell’abbandono dell’Outdoor Retail Show (l’equivalente del nostro Ispo) della sua sede a Salt Lake City in segno di protesta e di coerenza nei confronti di uno Stato che non si impegna nella salvaguardia ambientale.

La prima run della giornata per me è anche la prima che faccio nella cold smoke. Realizzo nel giro di poche curve che quello che si dice di questa neve è tutto vero. È leggera, unica. Gli sci scorrono veloci nonostante si affondi fin quasi al bacino. Da noi, oltre un certo spessore, non c’è fat che tenga. Se è troppa è troppa, non puoi fare altro che tirare giù dritto. Qui invece no, sei il passeggero di te stesso mentre giochi a variare l’ampiezza delle curve, modulando la velocità in modo imbarazzantemente facile. Anche dove è già stata tracciata, la neve ti copre comunque la faccia a ogni dosso, sciare in questi boschi è la cosa più goduriosa di questo mondo. Seguo Julian per tutta la mattinata, dopo un paio di giri ci avviamo in direzione dei secret spot di Alta. C’è da camminare un attimo, ma ne vale la pena. Scendiamo nell’anfiteatro chiamato Wolverine Circus, dove sono state girate numerosissime sequenze di skimovie. Di fronte a noi, dall’altra parte della valle, si trova uno dei kicker naturali più famosi al mondo, il Chad’s Gap. Quaranta metri di aria sotto i piedi che ti sparano tra due colline originatesi da depositi minerari, resi famosi da Candide Thovex e, soprattutto, da Tanner Hall, che in un tentativo andato male si spezzò entrambe le caviglie. Per ore non facciamo altro che sciare e scattare fotografie. In una pausa caffè (ops, meglio chiamarlo brodone. Qui sotto il mezzo litro è già un espresso) parliamo di POW e di come, in fondo, degli sportivi siano i più adatti a diffondere il messaggio che se non si fa qualcosa subito, di neve non ce ne sarà mica più tanta in futuro. Come altri skier locali, Julian si reca spesso nelle scuole a tenere seminari agli studenti: per un adolescente sentirsi un sermone sull’effetto serra recitato da un capellone in jeans e trucker hat dev’essere decisamente più cool che ascoltare un professore.

Nel tardo pomeriggio le nuvole si aprono, lasciando Julian libero di farmi da cicerone su quelle che sono le gite scialpinistiche di Alta. La più succosa è proprio di fronte a noi, il Mt. Superior: mille metri esatti di pendio la cui entrata è caratterizzata da un’enorme cornice, così grossa che per oltrepassarla bisogna letteralmente scavarci un tunnel da parte a parte. Poco più in là ci sono le discese di Cardiff Bowl e Toledo, più tranquille, solitamente usate come allenamento. I loro nomi derivano dalle vecchie miniere d’argento dismesse che si trovano alla base. Il mattino seguente avrei di nuovo un gancio con Julian, ma verso le 8 del mattino un messaggio cambia i piani. «Too much snow, the canyon is closed. See you tomorrow!»Proprio così, la nevicata, ricominciata con americana ingordigia nella notte, ha costretto i Ranger a chiudere la strada di Little Cottonwood e a mettere in azione i cannoni nella parte basse della valle. Facendo colazione i vetri del lodge vibrano per lo spostamento d’aria provocato dallo scoppio dei colpi di bonifica, mentre un cameriere mi racconta ghignando di quella volta in cui un colpo ha mancato il bersaglio, regalando un bello spavento a una famiglia di Snowbird. Solo, mi avvio verso la partenza della Wildcat (una seggiovia) aspettando che succeda qualcosa. Incontro Bob, il cuoco del lodge. Anche lui è senza compagni, ma non sembra curarsene. Nevica tantissimo e il resort è per noi e pochi altri.«If you’re not skiing everyday you’re living in the wrong place» mi dice in coda facendo l’occhiolino. Ieri sera, comunque, si stava sciogliendo i muscoli con un intruglio a base di tequila, miele e te caldo. Un paio di run dopo faccio pausa caffè, nevica come Dio comanda e ci sono -10 gradi. Hanno riaperto la strada, ma è già mezzogiorno e oggi salgono solo gli infognati, quelli a cui un paio d’ore possono essere sufficienti a mettersi l’anima in pace. Un gruppo di ragazzini vestiti da skateboard si infila nell’atrio del Rustler e si cambia lì, in mezzo ai fiocchi di neve portati dagli spifferi d’aria. Età media 14 anni, qualcuno arriva ai 16, che è poi quello che ha guidato fino a qui stamattina.

Con una certa delusione nel cuore constato che sono l’unico a non chiudere backflip. Mi guardo intorno e quello che vedo, tra una run e l’altra, è che il livello medio ad Alta è pazzesco. Sciano tutti benissimo, anche i vecchietti sotto la seggiovia vanno giù fluidi e sorridenti. E chi va forte, va forte davvero. Chi in Italia può reputarsi un discreto sciatore, qui non va oltre la media, che è una cosa bellissima perché fa capire veramente cosa vuol dire essere bravi a parole o sulla neve. In giro di poser ce ne sono pochi. C’è talmente tanta foga nel voler tracciare le metrate di polvere che di tempo per pavoneggiarsi all’arrivo della seggiovia non ce n’è mica tanto, ce n’è solo per accumulare più metri di dislivello possibile. Nel pomeriggio incontro Marcus. Immaginando che avrebbero chiuso la strada del Little Cottonwood, si è svegliato alle cinque per salire ad Alta prima che scattasse il blocco. Il tempo è leggermente migliorato e nel pomeriggio saliamo per qualche foto. Mi confida strizzando l’occhiolino che ha preso degli sci più stretti per affondare ancora di più. La luce è surreale, i fiocchi sono talmente leggeri che svolazzano nell’aria come polvere nei campi secchi. Marcus scia veloce, a ogni curva deforma all’eccesso i suoi sci da 95 millimetri per poter uscire dal manto. A un certo punto il meccanismo si inceppa e le spatole vanno giù, facendolo affondare fino al primo strato di neve compatta. Ergo, solo la testa spunta fuori.

L’ultimo giorno ad Alta è quasi surreale. Nevica di nuovo da 48 ore consecutive e fuori dalla finestra di camera mia il mondo è diventato una sfera di fiocchi grossi e bianchi, come quelle palle di vetro pacchianissime che vendono nei mercatini di Natale. Di sciare, purtroppo, non se ne parla. È scattata l’interlodge closure, l’ultima volta era stata tre anni fa. Significa divieto tassativo di uscire dagli alberghi e dalle abitazioni perché le bonifiche verranno fatte a ridosso dei centri abitati. Il personale del lodge ci raduna nella hall, mentre i vetri delle finestre vibrano di continuo a causa dei colpi di cannone. L’atmosfera è resa ancora più surreale da un cameriere che serve gin tonic da una caraffa nonostante siano le 10 del mattino. Qualcuno mi chiede del Rigopiano, siamo a ridosso dei giorni della grande nevicata in Abruzzo e la situazione è ironicamente molto simile. Dico ironicamente, perché tutto quello che non ha funzionato di là, di qua invece fa parte di un meccanismo ben rodato. I mezzi spazzaneve girano frenetici cercando di liberare almeno una corsia per far sì che pochi shuttle autorizzati possano portare a Salt Lake City chi non può perdere il volo, me compreso. Fuori dalla finestra si vedono dei puntini neri scendere veloci: sono i patroller che, finito il turno, si godono un comprensorio intero chiuso per troppa neve. In pratica, il sogno di qualsiasi amante della puffia, di quella neve così leggera e così polverosa che qui ad Alta trova la sua espressione più pura.

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© Federico Ravassard