Se state cercando una località fighetta dove andare a bere uno spritz a fine giornata, mi spiace, siete finiti sull’articolo sbagliato. Se vi piacciono le falesie plaisir con gradi farlocchi, di nuovo, mi spiace, ma andate da un’altra parte. Se vi piace il trail da passerella, dove si va a correre su sentieri balcone sfoggiando l’ultimo completo di Kilian… inutile dirlo, ma qui contano solo le gambe, quando si tratta di attraversare valloni deserti sul filo dei 3.000 metri. La Valle dell’Orco è un posto per quelli a cui piace trovare lungo in parete con le gambe che tremano mentre le mani cercano il friend giusto da piazzare; per quelli che agli apericena sul lungolago vestiti da boulderisti preferiscono i rifugi in quota o le piole dove non bisogna temere l’aglio nelle acciughe al verde; per quelli che si scaldano a leggere i libri di storia dell’alpinismo, perché una parte di essa ha trovato su queste pareti il suo palcoscenico; per quelli per cui andare a correre significa ravanare in una pietraia. Insomma, la Valle dell’Orco chiede ed elargisce sincerità. Ho cominciato a frequentare il lato piemontese del Parco Nazionale del Gran Paradiso qualche anno fa, scegliendo la Royal Ultra Skymarathon come mia prima gara di skyrunning (una decisione non troppo oculata, a posteriori). Poi è arrivata l’arrampicata e le prime vie in stile trad, quel modo un po’ matto e un po’ radical chic di scalare senza utilizzare protezioni fisse (spit), ma ricorrendo all’uso di sistemi rimovibili come friend e nut, che su queste pareti granitiche ha il suo naturale terreno d’elezione. Assieme ad altre valli piemontesi è stata una dei teatri dove l’alpinismo italiano ha vissuto la rivoluzione del Nuovo Mattino negli anni ’70, l’equivalente piemontese degli arrampicatori hippie che in Yosemite sostenevano l’arrampicata libera, tanto nello stile in parete quanto in quello di vita: scala pulito, non piantare chiodi, non stressarti e magari fumati una canna. Con un distacco totale dalla visione eroica della montagna di allora, quelli del Nuovo Mattino erano solo ragazzi che volevano divertirsi, non figure militaresche alla conquista dell’Alpe. Un po’ come nel freeride adesso, no? Poco alla volta mi sono innamorato di questa selvaggia valle poco conosciuta dal turismo di massa della montagna, che pare esercitare un misterioso fascino sui suoi frequentatori sin, tanto che non di rado capita di trovare freaks che per venire qua macinano ore e ore di statali e autostrade a bordo di furgoni scassati, come i due ragazzi venuti dalla Romania che ho incontrato a inizio mese alla parete del Dado.

Parco Nazionale del Gran Paradiso: dove (ri)nascono gli stambecchi

La relazione tra gli stambecchi e il Parco stesso è talmente forte che si può tranquillamente affermare che senza uno dei due, neanche l’altro esisterebbe. Questo perché nel 1856 venne istituita la Riserva Reale di Caccia del Gran Paradiso, per concedere ai Savoia l’esclusività delle attività venatorie sugli stambecchi, che all’epoca si credeva che fossero estinti su tutto l’arco alpino, ad eccezione di una piccola colonia sul versante valdostano. I Savoia proibirono ai valligiani la loro caccia, riservandola per se stessi, ma allo stesso tempo favorirono il ripristino della popolazione, poiché dal loro mirino si salvavano gli esemplari femmina e i cuccioli. Le resistenze iniziali furono vinte con la promessa di Re Vittorio Emanuele II di «far trottare i quattrini sui sentieri del Gran Paradiso» ed effettivamente i benefici furono immediati: vennero fatte opere di riqualificazione dei centri abitati di fondo valle, costruiti ponti e – soprattutto – creata una rete di mulattiere che si estendono tutt’oggi per oltre 300 chilometri, dalla canavesana Noasca alla valdostana Champorcher. Si tratta di vie di collegamento uniche nel loro genere, costruite con fondi lastricati e muri di sostegno, per permettere ai Reali e al loro seguito di guardiacaccia e battitori di spostarsi facilmente a cavallo… e agli skyrunner di correre ad alta quota, visto che il tracciato della Royal Ultra Skymarathon ne ricalca in gran parte il tracciato originale. Nel 1922 Vittorio Emanuele III istituì il Parco Nazionale vero e proprio, il primo in Italia, a cui tutto l’arco alpino deve qualcosa: il ripristino della popolazione degli stambecchi. Tutti quelli che vivono ancora oggi sulle Alpi sono arrivati infatti da qui, unico luogo dove è cominciata la loro salvaguardia, la cui popolazione si attesta a più di 2.700 unità, che condividono il domicilio con oltre 7.000 camosci. Rispetto a quello dei cugini valdostani, il lato canavesano è giudicato a torto più sfigato, complice anche una mentalità diversa in passato che ne ha frenato l’espansione turistica. Se sia meglio o peggio, è soggettivo. Quello che è sicuro è che il versante sud del Parco offre una wilderness e un isolamento rari nelle Alpi.

© Federico Ravassard

Stefano, il papà della Royal

Più di 50 chilometri dal lago di Teleccio a Ceresole, conditi da cinque valichi (di cui due sopra i i 3.000 metri) su un percorso che, a differenza di altre sky, è tutt’altro che forzato, dal momento che si utilizza la rete delle strade reali di caccia dei Savoia. Per saperne di più sulla Royal Ultra Skymarathon ho incontrato il creatore di tutto ciò, rimanendo affascinato da una persona tanto eclettica quanto esplosiva. Tanto per cominciare, la sede dell’organizzazione è al primo piano di un edificio che ospita anche la pasticceria dei genitori, che in passato poteva fregiarsi del titolo di fornitrice della casa Reale. Stefano Roletto, nella vita, fa il fisico del suono, un mestiere che non pensavo neanche potesse esistere, e credo che soffra di iperattività o qualcosa di simile. Legato da sempre al territorio del Canavese, ha creato da zero l’idea dell’anfiteatro della collina morenica di Rivoli, ma anche il Morenic Trail e un’altra miriade di progetti sull’identità del territorio canavesano. Se dovesse capitarvi di iniziare una discussione con lui, mettetevi comodi: può intrattenervi per ore parlandovi del Gran Paradiso, della genesi della gara e del rapporto che tutto ciò ha con il Duca degli Abruzzi, una figura che Stefano stima così tanto che alla partenza della Royal, sulla diga, nel luglio del 2016, è stata chiamata a suonare la fanfara della Marina Militare. Tanto per spendere due parole in breve su Luigi Amedeo di Savoia-Aosta: tentò, in anticipo clamoroso sui tempi, la salita al K2; fu un alpinista e uomo di mare di incredibile valore, con spedizioni sul Ruwenzori, al Polo Nord e due prime ascese sulle Grandes Jorasses; fondò un villaggio in Somalia e, un caso più unico che raro per quei tempi, intraprese una relazione con una principessa locale. Mentre lo intervisto, a una settimana dall’evento, Stefano è costretto più volte a rispondere al telefono, che suona ininterrottamente: da quando Marino Giacometti ha dato l’ok per l’ammissione nel massimo circuito, la febbre da Royal è letteralmente esplosa. Quest’anno sono arrivati skyrunner da 30 Paesi diversi e in Orco la popolazione era più calda che mai. Basti pensare che le balise sono state piantate solo a ridosso della domenica di gara, essendo diventate oggetto di culto tra i valligiani entusiasti che le hanno appese ovunque come ornamento. A detta sua, i tifosi più esagitati sono quelli di Noasca, spesso vista come una località di serie B rispetto a Ceresole, anche se alla fine molte iniziative all’interno del Parco arrivano proprio da qui, complice una pro-loco attivissima. Lo saluto dopo essermi trattenuto con piacere più del dovuto, dopo essere finiti – va là che strano – a parlare di sci e di Stairway from Heaven, l’impressionante linea di Federico Negri (da lui affrontata a vista e in solitaria!) che permette, nelle annate più nevose, di inanellare curve lungo la parete sud del Gran Paradiso, la stessa visibile da Torino.

© Federico Ravassard

Andrea, local del Piantonetto

Il Vallone del Piantonetto è una piccola gemma nascosta della Valle dell’Orco. Vi si accede attraverso la tortuosa strada che da Locana porta fino alla Diga di Telessio e all’omonimo lago. Sopra l’acqua azzurra vigila, qualche centinaio di metri più in alto, il Rifugio Pontese, luogo di partenza ideale per le scorribande primaverili ed estive di scialpinisti e arrampicatori. Da qui parte anche la Royal, con il primo chilometro corso a perdifiato lungo la diga e la salita concitata che, dopo il passaggio davanti al Rifugio, porta al Colle dei Becchi, primo cancello orario della gara. Il gancio ce l’ho con Andrea Michelotti, un super local della zona, visto che abita proprio nella parte inferiore del vallone, a San Lorenzo. Andrea è uno dei volontari della Royal e, soprattutto, anche del Soccorso Alpino locale: la sera prima del nostro appuntamento era al lavoro proprio qui, per dare una mano a degli arrampicatori rimasti feriti sul Becco della Tribolazione, una delle pareti simbolo del Piantonetto assieme al Becco di Valsoera. Due imponenti guglie, santuari del granito piemontese, che presentano itinerari di stampo classico come la Malvassora o la Mellano-Perego fino alle grandi difficoltà, come Sturm und Drang, liberata solo l’anno scorso dalla torinese Federica Mingolla. Per arrampicare qui sono necessarie la voglia di ingaggiarsi e di camminare, visto che due o tre ore di avvicinamento sono la regola, ma l’ambiente (e la roccia!) ricompensano più che adeguatamente della fatica fatta. Iniziamo a salire lungo il sentiero, con il tetto giallo del Pontese sopra le nostre teste. Il giorno della gara questo tratto viene percorso in modalità ‘corri o muori’, perché è facile che si creino intasamenti. Si tira poi per un attimo il fiato proprio davanti al rifugio, dove il sentiero spiana giusto il tempo di dare modo di godersi il tifo a suon di pentole e campanacci dei gestori Mara e Nicola, due figure di assoluto riferimento quando si tratta di mettere le gambe sotto il tavolo. Tra un tornante e l’altro c’è il tempo di fare due chiacchiere. Andrea mi racconta che ha cominciato a correre proprio per la Roc, la versione ridotta della Royal: nessun altro dei pochi giovani del Piantonetto (gli Under30, qui, si contano sulle dita delle mani o poco più) aveva mai indossato il pettorale della corsa di casa, così il duro lavoro andava pur fatto da qualcuno. L’affetto che Andrea prova per questi luoghi trasuda sinceramente dalle sue parole: qui passava le sue estati da piccolo, ospite della casa dei nonni, e una volta adulto ha scelto di trasferirsi, soffocato dallo stress della pianura, in un periodo in cui molti suoi coetanei dell’alta valle fanno l’opposto. Parliamo di mamma Iren, la società proprietaria delle dighe di tutta la Valle, che offrendo posti di lavori a moltissimi valligiani ha di fatto frenato il turismo: con un lavoro sicuro nell’idroelettrico, ben pochi infatti hanno osato investire in altri settori. Parliamo anche della sua famiglia, di come la vita qui sia cambiata negli ultimi anni. Probabilmente la nonna aveva un allenamento pari a quello degli skyrunner: durante la guerra partiva a piedi dal Piantonetto carica del riso canavesano verso la francese Val d’Isère, passando dalla Galisia e dal rifugio Prariond, per poi fare ritorno con il sale, introvabile da queste parti. Ci fermiamo a fare qualche foto al Piano delle Muande, l’archetipo della Valle Orco. Un torrente, prati che nessuno calpesta mai, la nebbia che va e che viene e tantissima roccia. Se dovessero ambientare un film qui, probabilmente non sarebbe uno di quelli per bambini, tutt’altro. Al ritorno ci fermiamo al Pontese, per molti di noi una seconda casa. Incontro Stefano e Christian, con cui scopro di avere parecchi amici in comune. Uno è Guida, l’altro, invece, ha dato corda al piccolo sogno di sviluppare l’arrampicata a Positano, spinto dall’euforia di Adriano Trombetta, creando un piccolo angolo di paradiso con le sembianze di un agriturismo ribattezzato La Selva. Per Christian è la prima volta da queste parti, per lui ormai abituato al caldo calcare della Campagna il risveglio muscolare di qualche ora prima, al Caporal, è stato piuttosto brusco, ma non credo che gli sia dispiaciuto. Esce fuori a fumare e si guarda in giro, puntando gli occhi verso i Becchi. Toh, penso, un altro rapito dal fascino della Valle dell’Orco. Sono cose che succedono.

© Federico Ravassard

Con Ivan al Nivolet

Avessi dovuto scattare tutte le foto di questo reportage con un solo atleta a disposizione, probabilmente la scelta sarebbe caduta proprio su Ivan. Perennemente abbronzato, d’inverno con il segno della maschera da sci e d’estate con quello del completo da ciclista, Ivan Cesarin è una specie di macchina da guerra canavesana in versione multisport. Nella vita di tutti i giorni gestisce il suo negozio a Ciriè (manco a dirlo si chiama Grimpeur e vende attrezzatura da montagna), ma nel tempo libero arrampica, pedala e scia a livelli altissimi. Probabilmente se si dedicasse al biliardo riuscirebbe a eccellere pure lì. Ci incontriamo all’Hotel Gran Paradiso a Noasca, caffè di rito e poi su verso il lago. Lo seguirò durante l’ascesa in bici al Colle del Nivolet. A detta sua, assieme al Ventoux e all’Iseran, è sul podio delle più belle salite d’Europa. Purtroppo, mi spiega, finora è stato ignorato dal grande ciclismo perché la strada apre dopo il Giro d’Italia, mentre il Tour de France non apprezza il fatto che con il passaggio nella galleria si perderebbero venti minuti di diretta televisiva. Ci fermiamo a far foto in alcuni punti suggeriti da Ivan, che ormai queste curve le conosce a memoria. Mi confessa che l’anno scorso le avrà percorse almeno una dozzina di volte, ma vista la bellezza del paesaggio, non credo si sia mai annoiato. Oltre che dai ciclisti, Il Nivolet è meta di pellegrinaggio anche da parte degli astrofili: la protezione offerta dalle alte cime, unita alla lontananza dai centri abitati e alla quota elevata, ne fanno uno dei luoghi con meno inquinamento luminoso dell’intero arco alpino. Arrivati al cartello del passo, ci fermiamo a prendere una coca-cola al Rifugio Città di Chivasso mentre lo sguardo si perde verso il nastro di asfalto che scende giù sul versante valdostano, mai completato. Per arrivare a Pont Valsavarenche bisogna infatti scendere dalla bici e camminare qualche chilometro sui sentieri, per questo motivo a volte capita di incrociare ciclisti con le scarpe da trail legate al mezzo. C’è poi chi ama complicarsi ulteriormente la vita: Daniele Fornoni, amico di Ivan e ultra-trailer di razza, qualche volta si allena con un biathlon devastante: in bici al Nivolet, discesa su Pont, cambio d’assetto e poi su fino alla vetta del Gran Paradiso… per poi rifare tutto nel senso opposto!

© Federico Ravassard

Raffaella, la guardiaparco volante

«Ciao, ci possiamo sentire stasera? Scusa, ma sono in giro per il conteggio degli stambecchi!». Inizia così lo scambio di messaggi con Raffaella Miravalle, una delle figure più conosciute dello skyrunning canavese. Da diciannove anni questo scricciolo biondo è uno dei guardiani del Parco, e da sette il suo ufficio, se così si può chiamare, è la Casa di Caccia del Gran Piano di Noasca, a 2.222 metri. Nei giorni liberi si toglie di dosso la divisa verde e il binocolo e indossa canottiera e pantaloncini per andare a correre. E non corre piano, Raffa, tutt’altro: ha vinto cinque edizioni della Royal, più innumerevoli piazzamenti ad altre gare di prestigio, come il Kima. Fare la guardiaparco è sempre stato il sogno di Raffaella e, quasi per caso, è diventato anche lo stimolo grazie al quale ha cominciato a correre, proprio tra queste montagne: uno dei test d’ingresso era infatti una prova di marcia cronometrata, sullo stesso tracciato lungo il quale si disputa tutt’ora il KV di Ceresole. L’appuntamento, alla fine, me lo dà lungo la strada per il Nivolet, da dove poi percorreremo una parte della mulattiera reale qui perfettamente conservata (leggi: lastricata) fino al Casotto Bastalon, una passeggiata breve ma panoramica. Prima di lei, al parcheggio, arriva Jodie, la sua collega pelosa: un pastore tedesco di quattro anni, uno dei pochi ammessi all’interno del parco in virtù del perfetto addestramento. Effettivamente, a vederle andare in giro insieme, le due sembrano essere in contatto telepatico. Pioviggina e si è alzato il vento, ma la luce del sole si fa largo tra le nuvole creando un’atmosfera da Nord Europa. Parliamo del più e del meno, lasciandoci alle spalle i turisti che affollano il Nivolet nei weekend. Prima del ‘trasferimento’ al Gran Piano era questa l’area di cui si occupava Raffaella, decisamente più impegnativa dal punto di vista della sorveglianza: la strada asfaltata passa proprio nel cuore del Parco e la convivenza tra l’ambiente e i frequentatori occasionali, poco responsabili, è fatta di equilibri difficili da far rispettare. È anche da queste necessità che nasce l’idea di A piedi tra le nuvole: tutte le domeniche d’estate la strada viene chiusa all’altezza del Lago del Serrù e per raggiungere il Colle la scelta rimane tra scarpe o bicicletta. Per tutto il tempo che rimaniamo insieme Raffa non smette un attimo di sorridere e per inerzia viene da sorridere anche a me. Mi dà l’idea di una persona completamente innamorata del proprio mestiere, tanto semplice in apparenza quanto complicato nella pratica, spesso fatto di giorni passati nella solitudine e di lunghi spostamenti con zaini resi ancora più pesanti dalla sua corporatura minuta. Torniamo giù in paese e ci fermiamo a prendere un caffè. Sono in tanti a salutarla e a chiederle se è pronta per la gara: lei tituba un po’, sa che quest’anno, complice la concorrenza internazionale, sarà tutto più difficile, nonostante la perfetta conoscenza del percorso di gara, che passa proprio dall’adorato Gran Piano. Un’arma in più, però, è sicura di avercela: il tifo sfegatato degli amici che incontrerà lungo tutti i 55 chilometri.

Trail ed escursionismo

Il Parco Nazionale del Gran Paradiso offre panorami mozzafiato lungo tutti i suoi sentieri, così come una fauna talmente ricca che l’incontro con gli stambecchi è la regola, non l’eccezione. Il tracciato della Royal Ultra Skymarathon tocca pressoché tutti i punti più interessanti della Valle e offre numerosi spunti per singole escursioni giornaliere. Tra queste, alcune delle più belle e isolate sono il Colle dei Becchi dal Teleccio e il Casotto di Caccia del Gran Piano dalla frazione Balmarossa (Noasca), entrambe situate sotto la bastionata della parete sud-est del Gran Paradiso. I più avventurosi possono spingersi fino al Bivacco Ivrea, dove passare la notte, o magari fare un pensierino all’ascensione dell’unico 4.000 tutto italiano da un versante decisamente meno frequentato di quello valdostano. Dal Nivolet, invece, si può salire fino ai 3.338 metri su difficoltà a cavallo tra il trekking e l’alpinismo facile, oppure dirigersi verso il Colle della Terra e la vista sull’azzurrissimo Lago Lillet. Per chi volesse ricalcare le orme dei grandi skyrunner ma ha un’autonomia limitata c’è poi il tracciato della Roc Skyrace: il medesimo della Royal, salvo poi scendere su Ceresole all’altezza dell’Alpe Foges, per un totale di 31 km e 2.000 m D+.

Ciclismo

La salita ai 2.612 m del Colle del Nivolet è un’esperienza che tutti gli amanti delle ruote sottili dovrebbero fare, in Italia lo battono solo lo Stelvio, l’Agnello e il Gavia. Da Locana sono 40 chilometri e 2.000 metri D+, da Ceresole ‘solo’ 22 chilometri e 1.200 metri D+, con una pendenza media del 4,9% e punte del 15%. Ad inizio stagione può capitare di imbattersi in camosci e stambecchi. Se si decide di partire a valle della galleria, è consigliato munirsi di luci di segnalazione. In discesa, occhio ai rivoli d’acqua che si formano talvolta, numerosi motociclisti ne hanno già fatto le spese. È comunque sconsigliato partire prima di Locana, altrimenti al ritorno il vento contrario che sale dalla pianura darà il colpo alle gambe già tritate dalla salita, veramente interminabile. L’ascesa è consigliabile alla domenica, quando dal Lago del Serrù in su la strada è chiusa ai mezzi a motore a eccezione delle navette pubbliche. Un’altra salita da mettere in curriculum è quella infernale che da Rosone sale alla diga del Teleccio, con numeri da scalatori nati: 1.230 metri di dislivello in appena 12 chilometri, che si traducono in una pendenza media del 10%, con gli ultimi cinque chilometri di tornanti che non scendono mai sotto l’11%.

© Federico Ravassard

Arrampicare

L’arrampicata in Valle dell’Orco è quantomeno… particolare. Lo stile imposto dal granito, a base di fessure, incastri e placche può essere spiazzante per chi arriva dal mondo del calcare, così come il fatto di dover utilizzare protezioni mobili (friend e nut) visti i pochissimi itinerari attrezzati a spit. L’ideale, per i forestieri, è di acclimatarsi nelle due falesie spittate del Droide e della Pietra Filosofale, a poca distanza l’una dall’altra, e imparare i segreti dell’incastro cercando di scalare il mitico Masso Kosterlitz, sette metri a incastro di mano il cui grado (6b!) è molto, molto relativo. Ho visto amici finalisti in Coppa Italia tribolare parecchio per salirlo. Per chi fosse già pratico con lo stile trad, si può cominciare con le vie del Sergent, che offre di tutto, dalla placca, alle vie lunghe, a una miriade di monotiri di enorme bellezza. Poco più su, al fresco, si trova la falesia del Dado. E poi c’è il Caporal. Qui nacque il Nuovo Mattino e qui il mucchio selvaggio capitanato dai vari Motti, Grassi, Galante iniziò a importare in Italia l’idea di arrampicata nata su El Capitan, in Yosemite. Poco prima, a Noasca, le assolate pareti della Torre di Aimonin sono ideali per le mezze stagioni, così come quelle dello Scoglio di Mroz nel Piantonetto. Continuando verso l’alto, invece, si trovano i due simboli dell’arrampicata in quota nel Gran Paradiso: il Becco Meridionale delle Tribolazione e il Becco di Valsoera. Nel parallelo vallone di Noaschetta svetta invece l’impressionante parete del Monte Castello, con pochi e severi itinerari.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 113 di Skialper, info qui