Non ne potevo più di tutto quel rumore. I corridoi della tube brulicanti di umanità, i lavori perennemente in corso, i fischi delle ambulanze ogni cinque minuti. Ero finito a Londra un paio d’anni prima, in autostop, inseguendo il sogno di fare musica. Sembrava il posto giusto, ma il chiasso della città inghiottì il mio estro e rimasi intrappolato in una grande bolla: mi sentivo l’ennesimo tra milioni di esuli, senza riuscire a trovare quel che cercavo. Avevo 29 anni e già da tempo il mio grillo parlante aveva preso a fare discorsi circa un posto nel mondo dei grandi. Mi stavo incattivendo. Così, sul finire dell’estate 2016, feci i bagagli e lasciai l’Inghilterra con la sgradevole sensazione di aver perso tempo e l’ennesimo treno.
Dovevo trovare il modo di prendermi una pausa da quel genere di pensieri. Mi avevano parlato del GR20, un lungo trekking che percorre tutta la dorsale montuosa della Corsica. Proposi al mio amico Toni di farlo insieme; a fine settembre ci incontravamo al porto di Bastia, nel Nord dell’isola. Durante la seconda tappa Toni si azzoppò malamente, peraltro su uno dei rari tratti in piano. Non poteva più proseguire. Fu un brutto colpo per entrambi, ma decisi di continuare anche senza di lui. La prospettiva di affrontare quel viaggio da solo mi spaventava un poco e al contempo mi eccitava: in ogni caso non potevo accettare di perdere in partenza anche quella mano. Lasciai le mie cose al Refuge d’Ortu di u Piobbu, mi caricai il sacco di Toni in spalla e lo accompagnai lentamente a valle, fin dove arrivava una stradina, in prossimità d’un campeggio. Trascorremmo un bellissimo pomeriggio con i piedi a mollo nel torrente gelido e la mattina dopo tornai su.
Dopo qualche giorno stavo avvicinandomi lentamente alle pendici del Monte Cinto quando in pochi minuti calò una nebbia pesante. Malgrado i miei sforzi, finii presto col perdermi. Vagai a casaccio cercando un ometto di pietra e, mentre cercavo di decidere, per l’ennesima volta, se quello sotto i miei piedi fosse un sentiero, la traccia di un rivolo o di un qualche animale, ecco spuntare nel muro d’aria biancastra tre tipi alti e biondi. Erano dei ragazzi svedesi che percorrevano il GR20 in direzione opposta. Sparpagliandoci ritrovammo il sentiero e, per suggellare il brillante episodio di cooperazione internazionale, mangiammo assieme un boccone. Uno di loro, con una bandana gialla al collo dello stesso colore della barba, mi chiese: «tu che sei italiano conosci il Sentiero Italia?». «Sentiero Italia… no. Mai sentito».
Passarono i mesi. In una fredda sera d’inverno quel cassettino della memoria si aprì all’improvviso e decisi di cercare Sentiero Italia su Google. Trovai qualche informazione in un blog con un’estetica da anni ‘90, ma fu comunque abbastanza: un sentiero di 7.000 chilometri lungo tutte le montagne italiane, Alpi e Appennini, ormai dimenticato. Cominciai subito a fantasticare di una spedizione alla scoperta del cammino misterioso.
13 maggio 2019
13 giorni / 184 km
Fotografa, videomaker, responsabile logistico, filosofo cambusiere e guida: la spedizione Va’ Sentiero. Ci siamo messi in testa di percorrere tutto il Sentiero Italia per documentarlo e farlo rivivere. Due settimane fa siamo partiti dal Golfo di Trieste. Era il primo maggio, ci sembrava il giorno giusto per coronare il lavoro degli ultimi anni, tutte le pene e le notti insonni per arrivare a essere lì, a tagliare quel nastro. Nonostante le previsioni maligne, la mattina della partenza c’era un gran sole e il mare era tutto un riflesso. Prima di incamminarci abbiamo letto ad alta voce Itaca di Kavafis, a mo’ di augurio.
Dopo le depressioni del Carso e i vigneti del Collio, oggi per la prima volta abbiamo superato i mille metri di altitudine sul monte Kolovrat. La sua schiena è bucata da decine di trincee e dentro gli stretti camminamenti coperti tirava un’aria gelida. Le feritoie dominano l’Isonzo, un lungo serpente d’acqua turchese, e la cittadina slovena di Kobarid: un tempo si chiamava Caporetto. Siamo sul confine tra le Valli del Natisone e la Slovenia, uno dei fronti più caldi di tutto il Novecento. La Grande Guerra, la Seconda, la Guerra Fredda… non ce n’è stata una che lo abbia risparmiato.
Dopo una lunga discesa tra i frassini, il sentiero si è trasformato in una stradina lastricata di ciottoli e siamo entrati nel borgo di Topolò. Il nome viene dallo sloveno topolove, cioè pioppeta, anche se di pioppi non ce n’è neanche l’ombra. Tra le vecchie case coi ballatoi di legno si udiva solo il singhiozzo nervoso di un rio in lontananza, sembrava un paese fantasma. Eppure su alcuni muri splendevano delle curiose targhe di metallo: Ufficio Postale per Stati di coscienza, Ambasciata dei Cancellati, Ostello per i suoni trascurati, Accademia del Passo Ridotto.
Donatella, una signora dai capelli rossi e le mani piccole, ci ha indicato un ostello ricavato da un fienile. La sua intelligenza pratica e tagliente mi ha ricordato le donne dell’Europa dell’Est. Cercando un posto tra le stanze ho notato un libro di poesie aperto: Il confine insegna a stare fermi / e non gli importa della tua natura / ma anche a lei non importa di lui / come due innamorati che fanno finta / di non amarsi – tengono la posizione.
Prima di infilarci nei sacchi a pelo abbiamo votato per il bicchiere della staffa e, proprio in quel momento, è spuntato in ostello un signore dall’aspetto elegante e scapigliato, con il sorriso giovane; ci è venuto spontaneo proporgli una bevuta con noi. Abbiamo scoperto in fretta che, oltre al sorriso, anche l’animo di Moreno è instancabilmente giovane. Lui e Donatella sono gli artefici di un evento artistico che negli anni ha assunto rilevanza internazionale: la Stazione Topolò – Postaja Topolove. In quei giorni, ci ha raccontato Moreno mentre lo ascoltavamo seduti per terra come bambini, il borgo diventa un laboratorio creativo a cielo aperto. Artisti da ogni dove si esibiscono nei vicoli, nelle vecchie rimesse, al limitare dei boschi, senza una vera distinzione col pubblico. Non ci sono orari fissi nei programmi, solo indicazioni generiche: al tramonto, pomeriggio presto, col buio.
Ci è venuto spontaneo chiedere a Moreno come sia stato realizzare un progetto così stravagante in un luogo segnato per decenni dalla tensione e dal sospetto. Per un attimo il suo sguardo scanzonato ha tradito un lampo di fierezza, mentre inghiottiva l’ultimo sorso: «Fare arte da queste parti è stato un atto politico». È notte fonda, ormai.
Yuri Basilicò
1/continua
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