10 settembre 2019 133 giorni / 2.169 km

La Becca di Monciair è la cima che più mi ha colpito di tutto il gruppo del Gran Paradiso. Camminando sul sentiero a mezzacosta che si addentra nella testa della Valsavarenche era davvero singolare il contrasto tra questa vela di roccia e ghiaccio, appuntita ed elegante, e i meandri della Dora del Nivolet nel pianoro sottostante, così tortuosi da ricordare il Rio delle Amazzoni. Giunti al rifugio Città di Chivasso, a pochi metri dal confine con il Piemonte, ci siamo presi un’ultima coppa dell’amicizia valdostana, colma di caffè bollente, bucce d’arancia e grappa; alla fine eravamo più amici che mai.

La mensa era affollatissima, alle pareti c’è una vera e propria biblioteca. Mentre aspettavo una zuppa di farro mi sono perso nella storia del prete Joseph-Marie Henry che, a inizio Novecento, allo scopo di certificare la facilità dell’ascensione al Gran Paradiso (e attrarre così i turisti nella povera valle), ebbe una sensazionale pensata: scalare la cima insieme a un asino. Se ce l’avesse fatta anche un somaro… Arruolatone uno di nome Cagliostro, gli ramponò gli zoccoli e insieme, nello scalpore generale, compirono l’ardita impresa. Leggenda vuole che sulla vetta Cagliostro lanciò un formidabile jodel e depositò un profumato souvenir, a imperitura memoria. Rock’n’roll.

Dopo cena il gestore del rifugio, Sandro, ha preso parola e, nel silenzio degli avventori, si è scatenato in un’invettiva contro l’eterna fretta della società moderna. Si definisce anticonformista, eretico e ribelle, una sorta di Fra Dolcino delle Alpi. Le camerate erano piene, così ci hanno sistemati nel piccolo locale invernale, all’esterno. Faceva freddo e ci siamo messi tre coperte a testa sopra il sacco a pelo. Non avendo sonno dopo il caffè dell’amicizia, né sapendo cosa fare (non c’era luce nel bivacco), abbiamo tirato fuori dallo zaino il portatile e abbiamo guardato un film, il primo da chissà quanto: La pazza gioia. Siamo andati a dormire commossi. Alla mattina, quando siamo usciti dal bivacco, tutto era coperto di bianco. Durante la notte era caduta una spolverata di neve e i Laghi del Nivolet si erano trasformati in fiordi norvegesi.

5 ottobre 2019 158 giorni / 2.595 km

Non ero mai stato nelle Alpi Marittime: a duemila metri ritrovi i colori della macchia mediterranea. Anche l’odore dell’aria è diverso, a volte sembra sappia di timo. L’estate è finita, ma le giornate sono ancora belle e regalano grandi vedute. Da settimane il Monviso compare a ogni cima o valico, comincio a capire perché i Romani pensavano che fosse il più alto delle Alpi.

Stamattina siamo partiti dal rifugio Garelli prima che sorgesse il sole, un vento freddo spazzava l’aria e rendeva tutto nitidissimo. Passando per lo stretto Canale dei Torinesi abbiamo risalito la Nord del Marguareis, la vetta più alta delle Alpi Liguri. Mentre affrontavamo la rampa finale, ci è sfrecciato accanto un branco di camosci, tanti da non riuscire a contarli: in mezzo minuto hanno coperto la stessa distanza che noi abbiamo fatto in mezz’ora.

Dalla vetta, per la prima volta dalla partenza, abbiamo rivisto il mare, come i soldati di Senofonte. Ho provato una strana sensazione, come tornare a casa. In realtà non ci siamo accorti subito che fosse il mare, vedevamo solo una grande piana luccicante. Poi abbiamo intravisto dei puntini e ci siamo resi conto che fossero navi.

Laggiù, oltre l’immenso specchio d’acqua e le sottili nuvole di vapore marino, spuntavano le sagome di alcune montagne: erano quelle della Corsica, dove tutto questo è cominciato. Dove, per un curioso paradosso, la mia vita ha preso una direzione smarrendo la via per il Monte Cinto.

3/continua

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