Il movimento ultra in Italia tra luci e ombre
La Transvulcania ha visto la partecipazione di alcuni atleti italiani di alto livello nazionale. Lo scorso anno eravamo stati protagonisti nella top 10 maschile con uno splendido 9° posto di Giuliano Cavallo che aveva corso in 8h03’37’’. Quest’anno purtroppo non siamo riusciti ad entrare nei primi 20. Merito di chi ci ha provato, di chi ha osato metterci la faccia andando a correre in una gara di livello assoluto e di chi ci ha comunque fatto emozionare per quella giusta dose di spirito campanilistico che nello sport non fa mai male. Del resto la Transvulcania era una prova di Coppa del Mondo, le Skyrunner® World Series. I nostri atleti nazionali sono stati Christian Insamm, 22° in 8h27’02’’, Nicola Bassi, 34° in 9h01’04’’, Stefano Ruzza, 43° in 9h12’52’’, Marco Zanchi, 45° in 9h17’47’’ e Giuseppe Marazzi, 56° in 9h46’07’’.
UN APPROCCIO CULTURALE – Nelle ultra distanze in unica tappa, l’ultimo risultato di rilievo in ambito internazionale è stato il 10° posto di Fulvio Dapit ai Templiers di 71 km lo scorso ottobre. Al netto delle ormai consuete e scontate illazioni di doping su Kilian Jornet che compaiono in piena libertà su alcuni siti e forum italiani, proviamo a fare alcune considerazioni in merito all’ora e mezza che separa il vincitore della Transvulcania dal primo atleta italiano in classifica. Una tesi accreditata porta a pensare che il livello italiano attuale nelle ultra distanze derivi da un approccio di tipo storico e culturale che ha caratterizzato la disciplina fin dalle sue origini in Italia. Del resto, non potrebbe essere diversamente. Infatti, l’associazione di una mera prestazione atletica alla genetica non troverebbe conferma nel fatto che nelle distanze più brevi, e in particolare nelle SkyRace e nella Corsa in Montagna, gli atleti italiani si sono da sempre ritagliati spazi di assoluto rilievo. Stesso dicasi per lo sci alpinismo che sotto alcuni aspetti può essere accostato alla corsa outdoor in montagna. Non troverebbe conferma anche per il fatto che non più tardi di 6 anni fa eravamo sul tetto del mondo nelle ultra con le due vittorie di Marco Olmo all’UTMB, In Italia, come in Francia e poi in Spagna, il trail è nato e cresciuto sotto l’ideale dello esprit trail. Agonismo quel giusto che basta per non disturbare, premi in denaro banditi, sponsor e team visti con sospetto. Negli altri paesi tale spirito è rimasto intatto amalgamandosi però perfettamente con quello agonistico. Sempre di più fino al punto di stimolare i giovani che incominciano a vedere anche le ultra dopo le Sky come qualcosa di cool. Noi siamo rimasti al palo, come smarriti e confusi sulla giusta strada da intraprendere.
L’ALIBI DEL PROFESSIONISMO – Si ma quelli sono professionisti, sempre con una qual certa connotazione negativa e raramente come ammirazione per chi eventualmente è riuscito a vivere di sport. Qualcuno definisce i top come semi professionisti, in base ai presunti guadagni limitati. Anche in questo caso, fuori dai tempi, come se l’ipotetico tenore di vita legittimasse una professione. L’alibi del professionismo si collega ad un altro alibi molto in voga, ovvero quello del “fanno solo quello”. Dall’America è partito un movimento di giovani che hanno fatto delle ultra la loro ragione di vita e questo sembra destinato a crescere nel tempo perché correre in natura per loro è cool. Ragazzi che vivono di premi e dei pochi ingaggi, che però girano il mondo con trasferte alle volte pagate dagli sponsor e per molti di loro questa diventa un’esperienza formativa alternativa all’università. Verrebbe da aggiungere che è una grande esperienza formativa.
I GIOVANI SENZA ALIBI – Ci siamo quasi, presto ci saranno anche in Italia i giovani delle ultra distanze. Non sono ancora arrivati perché non essendo una disciplina riconosciuta da una Federazione, i corpi militari se ne tengono bene alla larga. Assodato questo, arriveranno i primi diciottenni che per festeggiare la maturità gireranno in qualche paradiso naturale con tanto di tenda e assaporando il piacere di correre in libertà. A dire il vero ne basterebbe uno solo per dare inizio al nuovo corso, così come è avvenuto in molti altri paesi. Terminata l’epoca dell’illusione del posto fisso garantito a vita, ci sarà più spazio per la fantasia e anche l’ultra diventerà cool. Non può essere diversamente. Tutto questo, nel rispetto e nell’ammirazione dei moltissimi italiani che hanno dato vita a un vero e proprio movimento spirituale e culturale, macinando chilometri, vincendo gare e dando tutto se stessi per questa bellissima passione.