Ha senso creare un evento per stabilire un fastest known time che potrebbe venire facilmente superato da un atleta professionista lungo un percorso che tutto sommato è già conosciuto? Sì, ha senso, specialmente se nella propria vita e sfera sociale si attribuisce alla corsa un ruolo che va al di là dell’allacciarsi le scarpe e uscire a fare attività fisica, che è poi quello che pensa la maggior parte delle persone normali. Per iniziare a capire il perché nove semi-sconosciuti si siano trovati una sera a Passo Rolle per attraversare di corsa (o il più possibile di corsa, ecco) il Lagorai bisogna fare un passo indietro e partire dall’ideatore, Francesco Paco Gentilucci: uno che la corsa la prende parecchio sul serio e contemporaneamente ne rifiuta la mercificazione, una reazione comprensibile per qualunque cosa uno ami. Paco è quello che se ne va a correre cento miglia semi-sconosciute in California e non scatta neanche una foto, per intenderci: però è probabile che conosca per nome tutti i volontari incontrati lungo il percorso, o perlomeno quelli incontrati in uno stato di apparente lucidità mentale. Oltre che quella personale, la corsa per Paco ha anche una dimensione sociale: non importa solo quanti chilometri fai, conta anche con chi li fai e perché li fai.
Ecco che allora stabilire un fastest known time sulla Translagorai ha pienamente senso: primo, si dà una dignità propria a un percorso – e a un modo di percorrerlo, con un minimo di regole – che non c’era. Un po’ come stilare la relazione di una via alpinistica: non che prima non esistesse, ma da ora sarà più facile conoscerla e provare a percorrerla. E, contemporaneamente, si crea un archivio storico di tentativi con i quali confrontarsi o, semplicemente, per informarsi su tempi e logistica. Esattamente come i portali che raccolgono resoconti di ascensioni in montagna. Secondo, la scelta del luogo: la Translagorai non è un sentiero buttato lì in mezzo ad altri, messo in programma perché faceva comodo per la logistica o per le foto panoramiche. No, l’FKT in Lagorai serve anche per far parlare di un luogo controtendenza per gli standard trentini, dove impianti sciistici, strade e grosse infrastrutture turistiche non la fanno ancora da padrone. Potremmo parlare per ore dell’imponenza maestosa delle Dolomiti, ma sarebbe ipocrita descriverle come selvagge o incontaminate: il Lagorai, a fatica e forse ancora per poco, lo è. Il terzo motivo, forse intrinseco nella concezione stessa di corsa secondo Paco, era quello di voler prima di tutto creare qualcosa per condividere una passione con gli altri, non per forza persone già conosciute, e contemporaneamente cercare di trasmettere una visione di sport e di relazione con la natura che andasse al di là dei chilometri corsi tra Passo Rolle e Panarotta. Insomma, quello che si è fatto è stato lasciare una traccia: ora bisogna sperare che qualcuno la segua.
Federico Ravassard
Ossessione
Esistono le gare, o almeno, esistevano fino a qualche tempo fa e, a livello teorico, dovrebbero esistere ancora in futuro. Gare di cui spesso sento la mancanza, ma che – non l’ho mai nascosto – mi annoiavano già da tempo. Il problema è che l’atteggiamento bulimico dei corridori, sfruttato dalle leggi di mercato, ha portato alla nascita di tante, tantissime, troppe, gare mediocri, senza personalità né ragion d’essere, se non economica. Tolta la scusa di vedere un posto nuovo, il più delle volte la routine corro-faccio la doccia-torno a casa mi ha stancato. Insomma, l’annullamento del calendario agonistico mi è dispiaciuto fino a un certo punto e non mi ha destabilizzato più di tanto. Al netto di tutto soffrivo il fatto che in giro ci fossero tantissimi sbirri (in divisa e non) che potevano multarmi o fermarmi, sanzionando quello che ho sempre considerato come un diritto inalienabile per una persona nel 2020: correre da solo su un sentiero partendo da casa. Per il resto, tolta una 100 miglia nell’Oregon che sognavo da una vita, ho accolto la gran parte degli annullamenti del calendario con un’alzata di spalle. In Italia siamo ossessionati dalla competizione.
Per qualche ragione scegliamo le gare sulla base della classifica e degli atleti élite che le corrono e abbiamo bisogno di categorie, premi, medaglie, servizi e foto/video. In poche parole: abbiamo bisogno di acquistare sempre un prodotto e di sentirci appagati, fino all’acquisto del prodotto successivo. Perché questa premessa? Per il fatto che l’attitudine che vedo in giro verso i fastest known time sta prendendo la piega di cui sopra, che li priva del significato profondo che secondo me hanno.
Si chiamano FKT perché non sono gare
Un FKT non è l’esaltazione di un’impresa singolare. Per quello esistono gli avventurieri che tanto vengono utilizzati nei talk motivazionali delle aziende. Saltare da un aeroplano in paracadute e correre in un deserto non è un FKT e credo sia chiaro a tutti. L’idea di FKT è inoltre lontana da quella di atleti che come soldatini vanno a correre un segmento nel tempo più veloce che possono. Gli FKT esistevano molto prima che esistessero i segmenti di Strava, per capirci. Gli everesting sono un prodotto (molto interessante) nato da Strava in tempo di quarantena, ma tuttavia lontano dalla concezione classica dagli FKT nati nell’ultrarunning, ovvero l’obiettivo del dislivello a prescindere dal percorso, che invece negli FKT è una parte fondamentale.
Un FKT deve come prima cosa poter essere ripetibile, da tutti. Deve poter essere logico e, per quanto mi riguarda, non è volto all’obiettivo di ricevere pollici alzati dagli amici virtuali, visto che esistono già i record e i progetti personali. Trovo assurdo vedere striscioni e gonfiabili montati alla fine di un FKT perché, ancora una volta, sono record di un singolo atleta volti alla performance e non alla ripetibilità e condivisione. Gli FKT si basano infine sulla lealtà e onestà dei corridori. Potresti farne un pezzo in bici e nessuno lo saprebbe mai. Potresti fare registrare un record mondiale essendo un atleta dopato e in questi casi dovresti, secondo me, vergognartene.
Arrangiati
Translagorai Classic FKT Run nasce in modo piuttosto semplice. Ordino 50 adesivi pagandoli a mie spese e decido che sono il premio per chi arriverà in fondo alla traversata in meno di 24 ore. Servono a rendere l’idea che se sei a caccia di un riscontro materiale importante è meglio che aspetti che ricomincino le gare. Attenzione, la Translagorai esiste da sempre come percorso, io non ho inventato assolutamente nulla. Esisteva la traccia e, intuendo da ciò che in molti mi hanno scritto, in tanti hanno un cugino o un conoscente che aveva già stampato un tempo strabiliante.
Però mancava l’ufficialità, ma soprattutto qualcosa che rendesse questa traversata un vero FKT, un percorso condiviso, ripetibile e che facesse sognare anche i non local. Abbiamo quindi creato la traccia cercando di individuare il concatenamento più logico e lineare. Possiamo dire che è uno standard collaudato, non esclusivo, e ovviamente aperto alla creatività personale di ognuno.
Per me era la terza volta su questo percorso e non ero mai riuscito ad arrivare in fondo nell’arco di una giornata sola. Il nostro obiettivo è quello di creare un archivio degli intertempi, di consigli per chi vuole ripeterlo, oltre alla salvaguardia di questo posto che è perfetto così, nella sua imperfezione. In un FKT è giusto avere una visione diversa da quella che si ha su un percorso tracciato con le fettucce di una gara, senza pubblico e senza materiale obbligatorio: insomma, devi arrangiarti.
Sabato 11 luglio 2020 – ore 22
Per chi si è posto la domanda, non c’è stato un motivo reale dietro la scelta di partire con il buio. Da un punto di vista della performance non ha senso, ma anche il fatto che ci fosse ancora neve sul percorso non ne ha se l’obiettivo è la velocità pura. In tutta onestà ho ritenuto che sarebbe stato più divertente e che avrebbe allontanato la possibilità di correre due notti se qualcosa fosse andato storto. Per qualche ragione in 9 persone hanno deciso di essere lì quel giorno, e in 9 siamo partiti, dopo esserci mangiati una pizza insieme e avere fatto due chiacchiere al parcheggio del Passo Rolle. Abbiamo passato una nottata memorabile. C’è chi si è perso, chi ha deciso di ritornare indietro superata la metà e chi è arrivato in fondo. Luca Forti ed Enrico Scanavin sono riusciti ad arrivare a Panarotta dopo 16 ore e 56 minuti; un tempone, soprattutto conoscendo i retroscena e l’atteggiamento scanzonato con cui hanno affrontato la Translagorai.
Il vero motivo per cui Luca Forti è, secondo me, la persona più rappresentativa della giornata però non è tanto il tempo, quanto il fatto che il giorno prima avesse fatto preparare da sua madre un chilo di pasta (il pasta party per l’arrivo) che ha servito a tutti sul parcheggio della Panarotta, insieme a una bella cassa di birre, che ci siamo bevuti raccontandoci la giornata passata sulle gambe. Quanto ci ho messo io? Posso rispondere meno di 19 ore, ma la vera risposta è: chissenefrega. È stata una giornata bellissima e spero che qualcun altro voglia provare questa esperienza, chiunque era presente quel giorno è pronto a mettersi a disposizione per aiutarlo. Questo è ciò che per me è un FKT. Poi chi sarà il più veloce si vedrà, ma conta fino a un certo punto.
Francesco Paco Gentilucci
Lagorai
Così perfetto nella sua imperfezione
Potremmo continuare a parlare del 2020 come dell’anno senza gare, oppure vederlo come l’anno del ritorno all’autonomia e della riscoperta del senso della corsa in montagna. Tolti i ristori, tolti i festeggiamenti all’arrivo, tolte le classifiche, quello che resta è anche ciò da cui tutto è partito: una ricerca di libertà e, soprattutto, un ambiente che ti permette di trovarla. E non c’è luogo più adatto della catena del Lagorai per mettersi alla prova in questo senso. Poche sere fa mi trovavo a Passo Rolle, limite orientale del gruppo che ospita la più vasta Zona di Interesse Speciale del Trentino, una delle meno antropizzate dell’intero arco alpino. Ho visto nove persone partire correndo e scomparire in pochi minuti nell’oscurità del sottobosco, decise a dimostrare a nessuno se non se stesse che avrebbero potuto percorrere l’intera traversata facendo affidamento solo sulle proprie forze. Meno di 24 ore dopo, all’estremo opposto di quegli 80 chilometri di quote, picchi e lastèi (lastroni di roccia inclinata), ne ho viste arrivare appena cinque sulle proprie gambe, ma non ce n’era una che non fosse estasiata, per quanto stanca. Non erano lì per caso, non è lo stesso essere in Lagorai o su una qualunque altra alta via con gli stessi chilometri di sviluppo e dislivello e non è difficile capire perché.
Il Lagorai non è bello, almeno non nell’accezione di bello che si è soliti dare a un territorio alpino. Le cime non superano quasi mai i 2.700 metri, i boschi, oscuro intrico di abeti rossi per buona parte distrutti dalla devastante tempesta del 2018, ti costringono a farti strada attraverso una perenne cortina di umidità. I sentieri, che i ragazzi del fastest known time non smettevano di definire poco corribili, si potrebbero dire addirittura poco camminabili: gran parte del percorso in quota che attraversa l’intera catena si snoda lungo una rete infinita di mulattiere e tracce non segnate di origine militare che spesso scompaiono, perdendosi tra i rododendri.
Vecchie linee di trincea ormai coperte da mucchi di rocce instabili obbligano a tenere un passo sempre cauto, si procede intimiditi e quasi oppressi a ridosso di strapiombi e oscure scogliere porfiriche mentre cumuli di nubi si alzano di continuo dagli oltre cento laghi incastonati tra i tanti ghiaioni e le praterie acquitrinose.
Niente che assomigli ai paesaggi idilliaci con i quali si è soliti promuovere una vacanza in montagna, eppure dopo due Translagorai per due anni di fila resto innamorata di ogni centimetro che separa passo Rolle dalla Cima Panarotta. Per me non è mai stata una corsa contro il tempo, mi sono sempre mossa con il ritmo del camminatore appesantito dalla tenda e dalle scorte di cibo, scarponcini rigidi e zaino in spalla, eppure sempre in totale autonomia, provando a non lasciare tracce del mio passaggio. Non ero un’appassionata di alte vie, ciò che mi aveva spinta a partire era la possibilità di trascorrere quattro giorni in cammino senza incontrare anima viva. E di vivere il rischio di essere una delle ultime a poterlo fare.
Da pochi mesi era infatti stato approvato il progetto di riqualificazione e valorizzazione dell’area. Provincia di Trento, SAT, magnifica Comunità di Fiemme e comuni limitrofi avevano firmato un accordo per Dare nuova vita e valorizzare il percorso Translagorai e […] rimediare al problema dell’inadeguatezza dei punti-tappa lungo il percorso. Diversamente dalla maggior parte dei cammini di lunga percorrenza dotati di strutture ricettive al termine di ogni tappa, la traversata del Lagorai richiede di saper gestire autonomamente una media di tre o quattro soste. Lungo il percorso si incrocia un solo rifugio con pernotto, per il resto o si scende a valle oppure ci si affida alla tenda e ai tanti bivacchi non gestiti: una peculiarità che le amministrazioni locali e i progettisti definiscono inadeguatezza. Ecco perché è stata prevista la ristrutturazione edilizia di un rifugio già esistente e di altre sei malghe-bivacco per creare nuovi punti ristoro gestiti: i primi lavori sono iniziati e in breve tempo si potrebbero incontrare agriturismi e ristoranti lì dove al momento non ci sono che qualche pastore e molte praterie. Nessuno di questi, tra l’altro, sorgerà lungo l’unico tratto di percorso davvero sprovvisto di punti di appoggio, ma tutti strategicamente vicini a vie d’accesso percorribili in auto dal fondo valle così da garantire livelli di affluenza tali da giustificare l’investimento e, allo stesso tempo, condannare irrimediabilmente l’integrità dell’intera zona.
Un progetto di riqualificazione del genere non servirà a dare nuova vita alla traversata, anzi. Così come gli atleti della Translagorai Classic FKT Run sono sempre di più coloro che si dirigono verso quest’angolo del Trentino attirati dalla possibilità di vivere un’esperienza di outdoor forse più scomodo e più difficile da gestire, eppure proprio per questo più appagante e più reale, soprattutto oggi che gli ambienti alpini, saturi di infrastrutture, finiscono per assomigliarsi quasi tutti. Per quanto l’aura di wilderness che accompagna questi luoghi possa diventare motivo di attrattiva per un pubblico più vasto di visitatori, la stessa ostilità di queste terre sarebbe un filtro sufficiente a regolarne l’afflusso, stabilendo un equilibrio sostenibile tra turismo, ambiente ed economia locale.
Se invece il progetto verrà portato a termine, quella del Lagorai potrebbe rappresentare una delle più grandi occasioni perdute per sperimentare modelli alternativi di valorizzazione del territorio montano. Diversi comitati, collettivi e associazioni si stanno battendo perché questo non accada: già dagli anni ’80 il WWF proponeva alla provincia di istituire un parco provinciale. A livello locale i gruppi Giù le mani dal Lagorai e Vicini al Lagorai si sono da subito impegnati sul fronte legale e amministrativo e attraverso eventi di sensibilizzazione della popolazione, mentre i ragazzi di The Outdoor Manifesto continuano a sostenere e organizzare azioni dimostrative come Translagorai Classic FKT Run per mantenere alta l’attenzione sul tema e promuovere una cultura degli sport outdoor che non sia fatta di soli record e prestazioni. La speranza è che sempre più runner, scialpinisti, trekker e professionisti del settore diventino parti attive in vicende come questa, restituendo così qualcosa a quello stesso ambiente senza il quale non potrebbero vivere le proprie passioni.
Elisa Bessega
Si chiama Translagorai perché è il percorso della Translagorai, circa 80K e 5.000 metri di dislivello positivo, da Passo Rolle a Panarotta.
Si chiama Classic perché devi farla a piedi, in autonomia e perché è favorevole alla fruizione del Lagorai senza strutture per turisti e senza riqualificazioni inutili destinate a rovinare lo spirito selvaggio di questa catena.
Si chiama FKT perché devi arrangiarti e farla sulle tue gambe.
Si chiama Run perché se vuoi arrivare a farla in meno di 24 ore devi correre.
FB Translagorai Classic FKT Run
QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 131