Conoscevo la Norvegia come famosissima meta per ski trip di fine stagione; piuttosto diciamo che ne avevo sentito parlare, dormire in barca, spostarsi tra i fiordi, per poi risalire dolci pendii con giornate dalla luce interminabile. Sapevo che c’erano le isole Svalbard, le Lofoten e poco più. Non sapevo nulla. Motivo principale della mia ignoranza, il fatto che ne avevo sempre sentito parlare come di un viaggio per comitive di ski tourer con un budget sostanzioso da investire in gite in barca e sciate sul piano… Come mi sbagliavo. Si dice che non tutti gli incontri accadano per caso e in effetti da una situazione fortuita è partita l’avventura. Io e Carolina verso gennaio abbiamo incontrato Alice e Marco a Cortina mentre erano impegnati in un photo-shooting e mentre pranzavamo insieme salta fuori di questo viaggio che vorrebbero fare nelle Lyngen Alps, per dare un’occhiata al posto e per eventualmente portarvi a sciare i clienti. Fino a qui tutto nella norma, con l’idea di affittare casa e muoversi da una montagna all’altra in auto, senza grosse spese, in autonomia totale, decidendo giorno per giorno quale gita affrontare. I presupposti erano molto interessanti, abbastanza da iniziare a farci un serio pensiero, anche se senza ulteriori dettagli sembrava qualcosa destinato a rimanere per aria. Finito il pranzo ci salutiamo con il solito ci sentiamo e fammi sapere. Onestamente l’idea mi stuzzicava, ma sia io che Carolina avevamo altro per la testa e quindi ci avremmo pensato con calma. Quel poi non ha tardato ad arrivare e una sera di marzo Alice mi chiama e mi bombarda di whatsapp: prezzi e biglietti aerei da prenotare, itinerari e un periodo, aprile, perfetto per andarci. Giusto il tempo di prendere i documenti nel cassetto per prenotare i voli e via, inutile pensarci troppo, al massimo si vedrà un posto nuovo, tanto se si sta li a pensarci troppo non si parte mai.

© Alice Russolo

HEJA NORGE

Rispetto ad altre mete, se escludiamo il ritardo dell’aereo, il viaggio è stata una passeggiata di salute: due voli da un paio d’ore e un paio di ore di auto da Tromsø fino alla nostra casa, un simil-villaggio vichingo, con abitazioni autonome disposte in cerchio, attorno alla casa madre, nei pressi della piccola cittadina di Lyngseidet. Pur arrivando alle due di notte, il buio non era totale e l’ambiente appariva selvaggio e desolato, molto affascinante. Visto le poche ore di sonno, l’indomani avremmo optato per una gita classica in punta al fiordo, un panettone sovraffollato di ski tourer, pure avvolto nella nebbia, niente di speciale tutto sommato: un po’ quasi a confermare quello che pensavo di quei posti. Ma di lì a poco, sulla strada verso casa, ora sgombra dalle nubi, avremmo visto il gioiello della corona, una discesa estetica e apparentemente inaccessibile, un canale enorme che poggiava i piedi sulle rive dei fiordi, fino a erigersi, nascondendosi a tratti tra le pieghe della roccia, in cima a una grossa formazione rocciosa. Nel libro di itinerari di Marco avremmo presto scoperto il suo nome, piuttosto azzeccato ed estremamente calzante: The Godmother of all Coulouirs. Dopo avere fatto un’altra gita preparatoria e avere raccolto (cosi pensavamo) tutte le informazioni necessarie, l’indomani avremmo attaccato la nostra meta. Secondo i nostri calcoli e il libro, l’avvicinamento sarebbe stato una più o meno agevole camminata in riva al fiordo, di quasi 6 chilometri, con un tempo stimato intorno all’ora e mezza, per poi attaccare il conoide; ovviamente la valutazione non si sarebbe potuta rivelare più errata. Forse il buona fortuna di un gruppo di norvegesi ospiti di un local, prima di intraprendere la costa, avrebbe dovuto farci drizzare le antenne; cosi come l’invito a tornare il giorno successivo e farci traghettare in barca fino alla base, ma ormai eravamo li… L’ora e mezza di fatto è volata via solo per rivelare un articolato cammino tra rocce e detriti di volume sempre maggiore, a volte coperti da uno strato di neve che sfondava. Dopo molti zig-zag e saliscendi, uno strato di neve più continuo ci ha permesso di calzare gli sci, ma non per questo di essere più rapidi, perché la via era un labirinto di piccole alture e alberi e di nuovo rocce; arrivare alla base del conoide ha richiesto già molto tempo ed energie, e al momento di calzare i ramponi più di tre ore erano già passate. Onestamente vista l’ora e i progressi fatti eravamo tutti un po’ perplessi, io e Carolina in particolar modo, cosi arrivati alla fine del conoide, verso le 13,40, con appena 500 metri di dislivello alle spalle, abbiamo deciso di abbandonare, dividendoci in due coppie. La decisione non era facile da prendere, ma eravamo meno veloci di loro, e il pensiero del ritorno dopo altri 1000 metri a quell’ora tarda, suggeriva che fosse meglio mollare. Non sempre si vince e riconoscere i propri limiti a volte è più importante, anche se senza dubbio più doloroso a posteriori. Dopo sette ore e mezza totali saremmo arrivati all’auto.

Alberto Casaro

© Alice Russolo

IL CHIODO FISSO

Prima ancora di sapere se quella linea ci fosse sul libro, se fosse conosciuta e soprattutto, fattibile, dal momento in cui Albi l’ha adocchiata, è stato amore a prima vista. Il nome poi, una volta scoperto, parlava da sé. Non si poteva non pianificarci una gita.  Il canale si trova dall’altra parte del fiordo, ma in quella parte non ci sono strade. Tutti noi pensavamo, o forse speravamo, si trovare un sentiero sulla costa sul quale affrontare i chilometri di portage. E invece no. È stata una ravanata. Dopo quasi tre ore e mezza siamo appena all’attacco del conoide. La neve è marmo, mettiamo i ramponi. È già mezzogiorno passato. Nonostante la decisione di Alberto e Carolina di tornare indietro, Marco e io decidiamo di andare avanti. La neve cambia drasticamente. La previsione di Marco di trovarla bella nel canale si rivela azzeccata. Proseguiamo dentro al Godmother. 0  – 1.318 m, di cui 900 di canale con tratti che raggiungono i 50°. L’ambiente è pazzesco. Ti ingloba. Non c’è vento. Non c’è sole. Silenzio. Solo il rumore di qualche spin drift che scende ogni tanto e copre immediatamente le nostre tracce. Proseguiamo con un buon ritmo e cominciamo a intravedere la fine. Le pareti si stringono e diventano completamente bianche, la neve attaccata alle rocce lo rende ancora più mistico. Sono le 16,09 e siamo in cima. Le ore dentro al Godmother sono volate. Il panorama alle nostre spalle è stupendo, ma guardare verso il basso, scorrere con lo sguardo le nostre ultime tracce, osservare tutto il canale e scorgere in fondo il mare è impagabile.  Marco inaugura la prima curva e da qui partono le foto. Tanto sono belle le condizioni per sciarlo da cima a fondo, tanto sarebbe un peccato non spendere qualche minuto per fermarsi, scattare e riguardare, una volta a casa, da che linea è stato attratto Albi.  Arrivare in fondo significa arrivare in spiaggia. Ci guardiamo indietro e la soddisfazione è davvero tanta. Recuperiamo le nostre scarpe, sci nello zaino e ci avviamo per il lungo rientro. La luce del tramonto ci fa compagnia e tinge il fiordo con le sfumature dell’arancio. I chilometri di portage che ci aspettano perdono importanza, l’emozione cancella la fatica e la bellezza del luogo è una piacevole distrazione. Solo una volta arrivati al nostro Artic Lodge, davanti a delle meritate birre e a un apprezzato piatto di pasta dal sapore di casa, scopriamo definitivamente che la maggior parte delle persone che affrontano il Godmother lo fanno partendo con la barchetta che si trova dall’altra parte del fiordo. Sapevatelo. A noi comunque, fatto così, soddisfa. Come mimino sei ore e dodici chilometro in più!

Alice Russolo

La Norvegia ci ha sicuramente insegnato che le giornate sono più lunghe, in tutti i sensi, e ci ha regalato delle bellissime gite in un ambiente selvaggio, dove spesso eravamo soli; ci ha insegnato che c’è da sbattersi sul serio, ma anche che la ricompensa può essere enorme. La partita rimarrà aperta, almeno per me, diciamo che sarà una bella motivazione per tornare e finalmente calcare le lamine tra le sinuose forme della madre di tutti i canali.

Alberto Casaro

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 124

© Alice Russolo