Grignone Vertical Extreme, sabato si fa fatica
Grignone Vertical Extreme, il Team Pasturo sta lavorando per una quarta edizione ricca di novità. In vista della ZacUp, in programma a metà settembre e valevole come tappa di Migu Run Skyrunner World Series, Alberto Zaccagni e il suo staff scalderanno i motori con la scalata alla vetta simbolo delle montagne valsassinesi. Il format è quello testato e promosso sul campo nelle edizioni precedenti con start in linea dal centro di Pasturo e arrivo alla porta del Rifugio Brioschi, in vetta alla Grigna Settentrionale. Una sparata da 7.5 km e 1800 metri di dislivello positivo. La 'tutt d’un fià', come amano definirla i 'local' è la rivisitazione in chiave moderna di una competizione storica, una sfida in verticale che entusiasma un’intera comunità. Riprendendo in parte il Trofeo Antonietta, organizzato per anni dal gestore del Rifugio Pialeral Dario Pensa, questo spettacolare vertical andrà in scena sabato 25 maggio con start alle 9.30 per evitare agli atleti temperature troppo elevate durante la prima fase di ascesa. Nel post race tutti all’ex Rifugio Tedeschi al Pialeral per una gran festa finale.
Per il multiday hiking c'è Garmont Toubkal
Il Monte Toubkal è la cima più alta del Marocco con i suoi 4.167 metri. Nel dialetto berbero, Toubkal significa ‘vetta da cui si vede tutto’, e non è un caso che proprio questo sia il nome che Garmont ha attribuito al suo ultimo scarpone dedicato agli escursionisti più esigenti, capaci di affrontare avventure ambiziose anche su più giorni.
Toubkal GTX sfrutta al meglio il potenziale delle tecnologie del DNA Garmont per garantire all’escursionista una calzata confortevole anche dopo una lunga giornata di trekking intenso. La forma anatomica Garmont ErGo-Last ha profili più morbidi e arrotondati, per seguire in modo più naturale l’anatomia del piede: il risultato è una calzatura che avvolge meglio l’arto, soprattutto nella zona del tallone.
La tecnologia Garmont Double Damper ottimizza invece l’assorbimento degli urti, grazie a un sistema a due parti. L’intersuola attutisce infatti l’impatto con il terreno, mentre l’ammortizzatore interno limita l’impatto con il tallone. L’azione combinata delle due componenti garantisce un migliore assorbimento degli urti e la riduzione dell’affaticamento durante la camminata. Questo sistema, inoltre, riduce il movimento del piede all’interno della calzatura, garantendo stabilità e sicurezza. Sempre in questa direzione va anche la tecnologia Heel Lock, che blocca il tallone prevenendo la formazione di vesciche.
Un altro punto di forza di Toubkal GTX è la tomaia, realizzata in pelle nabuk da 1.8 mm e inserti in Lenzi Putek. Proprio quest’ultimo è il segreto di Toubkal: un materiale Made In Italy capace di una straordinaria resistenza all’abrasione, grazie al quale Toubkal non teme alcun genere di impatto o sfregamento, anche negli utilizzi di lunga durata.Il fascione in gomma dura, ispirato direttamente al mondo dell’alpinismo, circonda lo scarpone e ne aumenta solidità, resistenza agli urti e durabilità. Toubkal GTX è dotato di una membrana Gore-Tex® Performance Comfort, che lo rende ideale per ogni tipo di attività all’aperto con temperature moderate e condizioni meteorologiche mutevoli, assicurando impermeabilità e traspirabilità ottimale.
Infine, la suola Vibram® Apex, con tasselli rinforzati, mostra una forma più ampia nella zona dell’avampiede e del tallone, per assicurare stabilità e aderenza anche sulla roccia. I tasselli a tre angoli nella parte centrale del piede migliorano la frenata e la trazione direzionale.Toubkal GTX è disponibile anche in versione da donna nella variante di colore grey/blue.
GARMONT TOUBKAL GTX
Tomaia: pelle nabuck da 1.8 mm + Lenzi Putek
Fodera: GORE-TEX® Performance Comfort
Plantare: Alveolen®
Peso: 650 gr (1/2 paio taglia 8 UK) uomo / 580 gr (1/2 paio taglia 5 UK) donna
Campo taglie: 6-13UK uomo, compreso le 1/2 taglie / 3-8.5UK donna, compreso le 1/2 taglie
Fit: Performance
Colore: Dark Brown/Blue, Grey/Blue (WMS)
Prezzo: 249,90 euro
Camaleonte Markus Eder
Dopo la vittoria al Freeride World Tour è indubbiamente lo sciatore del momento. Skialper ha intervistato Markus Eder sul numero 110 (puoi ordinarlo qui), ecco cosa ci aveva detto.
«Non c’è un granché dietro a quello che facciamo e con queste parole inglesi proviamo un po’ a venderlo». Ha risposto così, come un consumato frequentatore di talk show, a una raffica di «slidare un half-pipe, jibbare, tricks, kickers, twin tip» sparatagli addosso da Gigi Marzullo su invito di Fabio Fazio alla trasmissione Che Fuori Tempo Che fa, su Rai Tre, a dicembre. E pensare che Markus Eder, il futuro del freeride e del freestyle, l’unico italiano nel gotha dei park e delle run nella powder, a dire il vero uno dei pochissimi in assoluto al top in entrambe le discipline (e nei powder movie), davanti a una telecamera e ai giornalisti non si trova tanto a suo agio. «Non ero molto tranquillo, avevo paura di fare qualche errore di italiano» ha confessato a freddo. È sempre lui, il ragazzino terribile che faceva gare di sci alpino e che voleva essere capo di se stesso, senza ricevere ordini da un allenatore, che ha scelto il freestyle a 14 anni perché gli piaceva saltare e aveva iniziato a non vincere più tra i pali. E lo stesso che, quando il manager Franz Perini gli ha proposto i primi contratti con gli sponsor, ha voluto parlare in inglese per capire meglio «cose per me molto importanti». Markus Eder, nato a Brunico, ma residente in Valle Aurina, classe 1990, è uno sciatore completo. Nel 2010 si presenta al Nine Knights, con i più forti freestyler del mondo, e vince Big Air & Best Jibber. L’anno dopo Franz Perini lo iscrive al Red Bull Line Catcher, con il gotha del freeride. Non ci crede, non capisce come possa andare a confrontarsi con i big del freeride, lui che arriva dai park e dalla neve dura. Alla fine arriva secondo. «Se ci penso, dico che rimane ancora la mia gara più grande di sempre». Intanto nel 2013 vince la tappa italiana del Freeride World Tour, a Courmayeur. Markus Eder ha fatto il viaggio di Candide Thovex, dal freestyle al freeride, ma anche quello di Kilian Jornet, dalla natura addomesticata delle gare al grande outdoor, quello per esempio dei film nei quali è protagonista sci ai piedi, come Ruin & Rose di MPS Films. Ha sdoganato parole come big mountain e backflip da Fazio come Kilian ha portato il trail e le imprese di Summits of my Life al grande pubblico. Markus è lo skier globale italiano, adulato da Red Bull, con l’inglese come lingua ufficiale sui suoi canali social e quasi il doppio dei follower di Jérémie Heitz su Instagram. Ed è sempre più interessato allo skialp…
Markus, cominciamo con il capire chi sei: un freestyler o un freerider?
«Un freeskier, il termine giusto per definire chi come me fa tutto: freestyle, freeride, scialpinismo».
Giusto, scialpinismo. Qualche tempo fa dicevi che l’andare piano non faceva per te e che dovere camminare tanto per raggiungere le discese non ti piaceva…
«Quando ero piccolo la fatica non mi piaceva, ora inizio ad apprezzarla sempre di più. Quest’anno ho fatto 5-6 gite con i miei genitori e naturalmente sono più lento di loro, perché ho sci larghi e scarponi da freeride, ma l’apprezzo sempre di più».
Il park e la neve fresca sono due cose diverse, se dovessi scegliere?
«Credo che, con le giuste condizioni, oggi non avrei dubbio: neve fresca».
Hai scelto di competere ad alto livello nel freestyle e nel freeride, non è sicuramente facile, perché?
«È vero, oggi c’è sempre più specializzazione: chi punta alle Olimpiadi lavora solo nei park, altri sulla neve fresca, io faccio tutto perché sono così, mi piace saltare nei park e farmi una bella run in neve fresca, magari anche una gita scialpinistica. E poi, a differenza di chi fa solo powder, sono molto flessibile e posso sempre allenarmi».
Che cosa ha portato il freestyle nel freeride? Si può dire che il livello fuoripista è salito grazie ai trick fatti nei park come è avvenuto nell’arrampicata sportiva con le palestre?
«Sì, mi sembra un paragone giusto, se provi centinaia di volte i salti nei park, quando magari fuori non ci sono le condizioni, metti le basi per salire di livello nel freeride, impari i trick che ti servono nella neve fresca e poi atterrare sul duro aiuta ad avere la giusta sensibilità per atterrare anche sul soffice della neve fresca».
Sembra difficile da dire, perché il livello è altissimo, ma qual è la prossima frontiera del freeride?
«Jérémie Heitz ha sicuramente ridefinito gli standard della velocità e del big mountain, però si pensa sempre che non ci sia più nulla di nuovo da inventare e invece ogni anno si vede qualcosa di importante. Sicuramente il mio stile è diverso da quello di Heitz, io vado più piano e vedo la montagna come un parco giochi».
Non credi che avere sciato tra i pali ti abbia dato la tecnica di base per salire di livello?
«È probabile, ma quando sei al top ogni gradino in più è sempre difficile, come perdere qualche centesimo tra i pali. Come nello sci alpino o nello scialpinismo, all’inizio della stagione ti senti in forma, ma non sai come andrai realmente, o come andranno gli altri».
Nel film, Ruin & Rose, hai sciato anche sulle dune del deserto, vero?
«Sì, in Namibia, ma non è stato affatto facile come pensavo. Abbiamo anche contattato un tedesco che vive là e detiene il record di velocità con gli sci sulla sabbia per avere dei consigli però, quando abbiamo trovato un salto che sulla neve sarebbe stato perfetto, mi sono impiantato proprio sul dente e per riuscire a saltare abbiamo dovuto provare e riprovare».
Sciare in un film e fare una gara è decisamente diverso…
«Sì, io poi sono competitivo e mi piace vincere, ma nei film trovi quel senso di libertà, puoi sciare tutta una montagna e non solo una linea, hai l’elicottero a tua disposizione…».
I film stanno diventando un terzo lavoro…
«Sì, quest’anno infatti farò una sola gara, la Red Bull Cold Rush, dove ci sono salti in neve fresca, freeride e alpinismo. Però mi piacerebbe provare a fare il circuito Freeride World Tour seriamente, non solo un paio di tappe come in passato, è il mio obiettivo per la prossima stagione».
Facebook o Instagram?
«Instagram, mi piace essere up to date e so subito cosa succede dall’altra parte del mondo, per esempio se ha nevicato in Canada».
Il freeride è un’attività con una componente di rischio che non può essere sottovalutata, come ti rapporti con il rischio di valanga?
«Non mi piace rischiare a caso, se faccio un trick o un salto particolare e so che posso cadere, voglio essere sicuro che non ci siano sassi. Quando filmiamo in Alaska cerchiamo di non fermarci nei piani ma di avere sempre vie di fuga per non essere inghiottiti dalle valanghe. Rischio sì, ma con un piano b, senza usare la testa non ha senso. Queste situazioni ti insegnano ad apprezzare la vita e capire cosa ti piace di più».
Come cambia il concetto di sicurezza quando sei da solo e quando giri un film?
«Molto, quando vado con un amico ci muoviamo rischiando il meno possibile, anche perché dobbiamo considerare che se succede qualcosa non è facile venire a recuperarci velocemente, con un team come quello di MPS Films cambia perché ci sono 10-12 persone, Guide alpine, elicottero».
Sei mai rimasto coinvolto in una valanga o hai vissuto un incidente da vicino?
«Fortunatamente no e spero che non mi succeda. Qualche volta, specialmente in Alaska, dove sai che non c’è nessuno sotto, quando le condizioni sono rischiose proviamo a fare partire le cornici, provocando delle piccole valanghe».
Il tuo programma prevede anche un allenamento nelle tecniche di autosoccorso?
«Ne faccio un paio all’anno, di solito uno al Freeride World Tour e quando giriamo i film, ma non sono sicuro che mi verrebbe tanto facile agire in una situazione di pericolo: tra la teoria e la realtà c’è tanto spazio ed emozione e adrenalina giocano brutti scherzi. Per questo dico sempre ai miei amici che si sentono sicuri quando hanno artva, pala e sonda di allenarsi a usarli, tanto. La gente, quando vede i miei film, pensa che sia matto, ma spesso quando si va a fare skialp da noi ci si muove più in pericolo».
Usi sistematicamente un airbag da valanga?
«Sempre quando giro i film, faccio backountry vicino agli impianti o nel Freeride World Tour, per lo scialpinismo ancora no perché è troppo pesante. Per fortuna non ho mai dovuto aprirlo».
Che messaggio lanceresti a chi come te passa dal park alla neve fresca?
«Oltre a quello di portare sempre con sé l’artva e tutta l’attrezzatura tradizionale da autosoccorso in valanga, di tornare indietro se non ci si sente al cento per cento sicuri, non è mai una decisione sbagliata».
Ultra è la risposta di RaidLight per le lunghe distanze
Dei quattro nuovi modelli lanciati da Raidlight nella collezione Primavera Estate 2019, la Responsiv Ultra è l’ideale per gli amanti delle lunghe e lunghissime distanze: una scarpa importante, che non dimentica la leggerezza e che non lesina sui dettagli tecnologici.
La parola d’ordine per chi deve stare ore sulle gambe, correre e camminare, è comodità. Dolori alla pianta del piede, alle dita e senso di costrizione, soprattutto quando il piede inizia a gonfiarsi, sono i disturbi più frequenti tra chi corre gare superiori ai 50 chilometri. Questa scarpa presenta tutte le caratteristiche per venire incontro alle esigenze degli ultratrailers. Partendo dalla forma con avampiede ampio e arrotondato, che permette al piede di lavorare comodamente e senza costrizioni, anche in caso di gonfiore.
Come gli altri modelli Raidlight, anche questa scarpa è stata sviluppata dal gruppo Rossignol nei laboratori di Montebelluna, il distretto calzaturiero italiano riferimento mondiale della calzatura tecnica. Grazie alla pratica tecnologia NFC inoltre basterà avvicinare lo smartphone alla scarpa per ottenere sul proprio telefono tutte le informazioni su questo e su tutti i modelli RaidLight, all’insegna dell’hashtag che caratterizza il marchio francese: #notimeforcompromise.
CARATTERISTICHE E TECNOLOGIE
La Responsiv Ultra garantisce un supporto maggiore grazie al sistema ML-Lock Band, più stabilità grazie alla tecnologia External Heel Cradle e un’ammortizzazione e protezione superiore, pur senza compromettere la sensibilità. La tecnologia M-LOCK evita la costrizione del piede e aiuta l'equilibrio con la naturale dilatazione che si verifica dopo molte ore di corsa grazie a una fascia di compressione elastica (band) posizionata sopra la parte superiore, che dà sostegno senza limitare il flusso sanguigno. Da un'idea sviluppata dal centro ricerche del Gruppo Rossignol, nasce la tecnologia Sensor3: un sottopiede di densità variabile dotato di tre zone destinate ad assorbire gli urti derivanti dall'impatto della corsa. Questo assicura un maggior ritorno di energia e si traduce in una migliore ammortizzazione e quindi in un maggior comfort durante la corsa, anche su lunghe distanze. L’intersuola è realizzata in EVA iniettato per un’ammortizzazione duratura e dinamica. Il drop è di 6 mm, il peso 270 gr e il prezzo 139,95 euro. www.raidlight.com
Il Sentiero delle Orobie di Mario Poletti
«Non scrivere se pensi di conoscere già il senso della storia prima di raccontare - in quel caso diventa insegnante. Non metterti in testa che salverai il mondo, non tentare di cambiare il mondo. È meglio se, mentre racconti la storia di cui ti stai occupando, cambia te. Vai alla scoperta di te stesso e del mondo, tutte e due le cose insieme, mentre racconti»
10 Rules of Documentary Filmmaking, Victor Kossakowsky
Ci sono storie che quando cominci a occupartene, mentre ti stai documentando e informando dalla viva voce dei protagonisti per poterle raccontare, capisci che sono molto di più di quello che immaginavi. Hai la sensazione di conoscerla bene la vicenda, i protagonisti e i luoghi, e quindi sei quasi certo di sapere tutto quanto è necessario per scriverne e per raccontare. Poi succede che, mentre stai intervistando i protagonisti, mentre cerchi di mettere la storia in prospettiva e di ricostruire i fatti sentendo gli stessi episodi raccontati tante e tante volte da persone diverse, ti accorgi che quello che sai tu di quella storia, quello che hai sentito dire o che hai letto, non è che un pezzettino minuscolo. È la classica punta dell’iceberg. Tutto il resto, tutto quello di cui varrebbe la pena raccontare, rimane seminascosto sotto il pelo dell’acqua. La storia di Mario Poletti e del suo record di percorrenza del Sentiero delle Orobie, è una di quelle storie. Una di quelle che ti fanno venire voglia di occupartene ancora e di lavorarci sopra, perché hanno qualcosa da dirci che non è ancora venuto fuori.
‘IL’ MARIO (come si dice a Bergamo)
Il Mario Poletti di cui racconteremo adesso, per cominciare, non è il Mario che tutti conosciamo, il product manager e l’anima di Scott Running Italia: preciso, caparbio, entusiasta, quel Mario per un attimo lo mettiamo da parte. Il Mario di cui ci vogliamo occupare ora è un ragazzino di Clusone, in Valle Seriana. Siamo negli anni ’80. È un fondista promettente, magrissimo, tra i sei e i diciotto anni lo sci di fondo è il suo mondo e il suo sogno sportivo. Nelle categorie giovanili è quasi sempre tra i migliori, è determinato e motivato, entusiasta. Forte. Poi arriva il salto alla categoria Juniores. Il passaggio è difficile. Per allenarsi sulla neve Mario deve fare avanti e indietro da Clusone fino a Schilpario dopo la scuola, è impegnativo, i suoi coetanei nei gruppi sportivi invece possono finalmente allenarsi a tempo pieno, come veri professionisti. Mario è costretto a fare i conti con la realtà: ha finito la scuola e ha cominciato a lavorare, conciliare lavoro e sci di fondo ad alto livello è difficile. Diventare un vincente è impossibile. È in questo momento che la corsa a piedi in montagna, da fase di preparazione estiva per lo sci di fondo si trasforma in qualcosa sempre più grande nella sua vita. «Io sono sempre stato un competitivo, sin da piccolo. Gare, gare, gare, per me gareggiare era tutto. Mi sono sempre allenato regolarmente anche nella corsa in montagna, non avevo l’esperienza e la brillantezza che ti regala la pista, ma in quell’epoca, in allenamento, ho fatto alcuni record personali che poi non sono più riuscito a battere, nemmeno nel momento di massima forma nel 2005. Tipo Rovetta-Blom in 25’03, avevo quindici anni». Mario è una persona molto concreta, quando dice 25’03” o quando ti dice il tempo sulla maratona non sta dicendo soltanto un numero, non butta lì delle cifre a caso: sta fondando un mondo. Sta stabilendo un ordine di grandezza preciso e comprensibile, fornisce un dato fondamentale per mettere in prospettiva le sue qualità di un corridore e in definitiva anche di un uomo. Mario bada ai numeri, prima di tutto. Il dato cronometrico che ci riporta è piazzato dentro alla frase al posto degli aggettivi, è chiaro che per lui i tempi e i record sono i pilastri portanti del suo universo di corridore, il resto è conversazione. Forse è per questo che la corsa su strada occupa una parentesi importante nella sua carriera di corridore, tra il ’95 e il ’99 corre diciassette maratone fino ad arrivare a un personal best di 2h19’. Poi lo skyrunning torna a fare capolino nei suoi pensieri.
CORRERE FINO A CHE IL SENTIERO FINISCE
Non si può dire che Mario ‘torna’ alla corsa in montagna. Forse, più correttamente, si può dire che, dopo essersi accertato delle sue possibilità su strada ed essersi confrontato con i migliori e soprattutto con se stesso e con il cronometro, senza compromessi, intravede la possibilità di esportare le sue qualità di velocità e di potenza anche in montagna. Non è un cambiamento quello di Mario in effetti, piuttosto un ritorno. «Da piccolo con il CAI mi portavano in campeggio in montagna per una settimana e sui sentieri c’erano tutti quelle targhette segnavia bianche e rosse con dei tempi indicati, io mi chiedevo dove fossero quei posti che mi sembravano lontanissimi, irraggiungibili e se veramente i tempi necessari per raggiungerli fossero quelli indicati sui cartelli. Chissà se io, magari, potevo correre più veloce? Leggevo sulle targhette quattro ore o sette ore e immaginavo che quei luoghi fossero chissà dove, lontani e appartenessero a un mondo diverso, all’altro capo delle Orobie. All’inizio non immaginavo di poter andare fin là di corsa. Fino al momento in cui mi sono reso conto che erano luoghi fin dove avrei potuto correre e che i tempi indicati su quelle targhette non erano che un invito ad andare più veloce. Al record delle Orobie, in fondo, ci ho sempre pensato. Sin da piccolo».
SCOMMESSA AL BAR
Sono gli anni dei record di salita, delle skyrace e della seconda generazione di atleti che si affacciano alla corsa in montagna di lunga distanza. Le gare di trail running sono ancora lontane dal diventare il fenomeno di massa che sono oggi ma lo skyrunning sta evolvendo in qualcosa di diverso, di più vicino al praticante comune e alla combinazione di alpinismo e velocità. L’universo road running si sta avvicinando all’universo montagna, le maratone e le lunghe distanze non fanno più la stessa paura ai corridori comuni. I quarantadue chilometri non sono un tabù, anche nell’immaginario collettivo. Il 1995, per dare una collocazione temporale al momento storico, è l’anno del capolavoro di Fabio Meraldi al Monte Bianco, con lo stratosferico tempo di 6h45’ per superare i 49,6 km e 3.600 m D+ della via Ratti dal Rifugio Gonella fino alla cima e ritorno in paese a Courmayeur. Mario Poletti nello skyrunning nei primi anni del 2000 vince tutto quello che c’è da vincere. Primo al Giir di Mont nel ’99; primo al Trofeo Kima, ancora al Giir di Mont, alla Monza-Resegone e al Sentiero di Ferro nel 2000; campione italiano di Skyrunning al Sentiero 4 luglio nel 2003, fino alla magica stagione 2004 dove, oltre al resto, fa sua la leggendaria Zegama-Aitzkorri Marathon con il record del percorso di 4h06’00”. Mario è al culmine della sua carriera sportiva e sta per diventare papà, qualcosa nella sua vita è sul punto di cambiare. «Avevo pensato che era il momento giusto per tentare il record, poi forse non ci sarei più riuscito e così avevo proposto ai miei amici della bergamasca, ognuno sul tratto di sentiero che rappresentava il proprio terreno di allenamento, di accompagnarmi». Il piano è semplice ma efficace: correre tutto il Sentiero delle Orobie e abbattere il record di Pasini che risale al 1982. Si mette a provare le varie sezioni del sentiero e raccoglie tutte le informazioni necessarie. Lavora al suo progetto (oltre a lavorare anche normalmente, come tutti, almeno otto ore al giorno) provando pezzo per pezzo il sentiero, si rende subito conto che scendere sotto le 9h25’ del precedente record non è cosa facile. Forse il progetto sarebbe rimasto in stand-by per un po’, la nascita del figlio era imminente. Succede un giorno che Mario incontra in un bar di Clusone Giovanni Bettineschi, patron di Promoeventi, l’organizzatore locale della tappa del Giro d’Italia in Valle Seriana. «Giovanni mi chiese che progetti o che gare avevo in ballo e io dissi che, oltre a diventare papà, mi stavo preparando per tentare di stabilire il record del Sentiero delle Orobie. Lui si entusiasmò subito e mi disse che mi avrebbe messo a disposizione un elicottero per filmare il mio tentativo e la sua struttura organizzativa per raccontarlo. Fui preso un po’ in contropiede, rimasi sorpreso ed entusiasta». Il progetto in grande stile nacque così, su due piedi, al bar. Carlo Brena, giornalista e collaboratore di Promoeventi, fu coinvolto e gli fu affidato il compito di raccontare il tentativo attraverso il suo ufficio stampa, fu prodotto anche un video che oggi si può vedere integralmente in rete. «Il mio tentativo di record passò da esperimento personale a evento, con tutti i vantaggi e gli svantaggi del caso. Sentivo di non potere più tirarmi indietro o fallire, a quel punto. La comunicazione attorno all’evento era una responsabilità supplementare».
IL SENTIERO DELLE OROBIE
Il Sentiero delle Orobie nasce da una intuizione del CAI e in particolare del suo presidente Carlo Ghezzi già negli anni ’50 e si concretizza poi grazie soprattutto al lavoro di Gianbattista Cortinovis alla metà degli anni ’70. È un percorso escursionistico che unisce tra loro, in un circuito di 84 chilometri con un dislivello di oltre 5.000 m D+, Valcanale con il Passo della Presolana. Il percorso collega tra loro sette rifugi del CAI di Bergamo e idealmente, in un abbraccio semicircolare, tutte le Orobie. I bergamaschi conoscono bene le loro montagne, il sentiero e in parte anche la storia del record, che è avvolta però in un alone di leggenda. Mario si trova alle prese con gli ultimi preparativi della sua sfida proprio nei giorni in cui vene al mondo il suo primogenito. Deve ancora provare alcuni tratti di percorso e tra le varie difficoltà che deve affrontare e il lavoro, c’è anche quella di reperire informazioni certe rispetto ai tempi di passaggio, non sempre parziali cronometrici e realtà corrispondono. «Avevo i tempi dei passaggi di Renato Pasini ma a volte mi sembravano molto tirati e altre abbastanza lenti. Certo era che per mettere insieme tutti i pezzi del puzzle e correre in meno di 9h30’ bisognava andare davvero forte e non lasciare niente al caso, non sbagliare nulla. Inoltre pochi giorni prima del mio tentativo, dopo che su L’Eco di Bergamo era stato annunciato grazie al lavoro di Promoeventi il mio tentativo di record, ricevo una telefonata da parte di un altro runner bergmasco, Battista Marchesi, che mi fa notare che il record del Sentiero delle Orobie non è di Pasini ma suo, con 9h06’. Resto di stucco».
IL TENTATIVO
«L’idea di avere un cronometrista federale a ufficializzare la prova - a parlare è Carlo Brena, addetto stampa dell’evento - era stata mia. Serviva avere un riferimento ufficiale e così ci organizzammo con la federazione nazionale per averne uno». Il racconto del tentativo da parte di Carlo offre un’idea della tensione e delle grandi aspettative che c’erano attorno all’evento. È il 7 agosto del 2005, il classico mese di ferie degli italiani è appena incominciato e quindi sparsa sul percorso, nei rifugi e in partenza, nei punti più panoramici dei sentieri, c’è un sacco di gente in attesa del passaggio di Mario. Escursionisti, uomini, donne, bambini, rifugisti, persone che sono partite il giorno prima o nella notte per testimoniare il passaggio e l’impresa. Per battere le mani per qualche minuto e per poter dire: io c’ero. «Alla partenza a Valcanale erano quasi le sei del mattino - continua Carlo Brena - si era radunata una piccola folla e io e Giovanni Bettineschi volevamo realizzare un’intervista filmata prima della partenza, quando il cronometrista ufficiale annunciò a noi e a Mario che alle 6:00 in punto avrebbe fatto scattare il cronometro, come gli avevano detto di fare dalla Federazione. Tentammo inutilmente di spiegargli che era un tentativo di record e non una gara e che quindi in fondo si poteva partire quando volevamo noi, ma il giudice fu irremovibile. A noi ‘girarono’ abbastanza e a Mario toccò partire in fretta e furia, niente interviste, niente video, poche foto. Non ci restò che seguirlo per tutto il giorno con l’elicottero facendoci trasportare da un rifugio all’altro. Mario ci aveva dato una tabella di marcia con i passaggi che rispettava al minuto».
CORRERE, INSIEME
Uno dei fattori più straordinari della cavalcata di Mario Poletti sul sentiero delle Orobie, forse uno dei più sottovalutati, fu il concetto di correre ‘insieme’. Insieme a quelli che erano i suoi compagni di allenamento e in definitiva anche i suoi avversari nel corso di tante gare per tutta la carriera in giro sulle Alpi e per il mondo, tanto per cominciare. Insieme agli escursionisti e ai camminatori più lenti sul percorso che lo aspettavano, lo seguivano con lo sguardo e lo applaudivano. Insieme a tutti quelli che fino a pochi giorni prima non sapevano nemmeno dell’esistenza del Sentiero delle Orobie ma che sapevano del tentativo di record perché l’avevano letto sul giornale. Tutti, nessuno escluso, correvano idealmente con Mario. Curioso no? Gli avversari che diventano supporter, Il CAI e i suoi rifugisti che diventano partner di un atleta alle prese con il superamento dei propri limiti contro il tempo. Questo sentirsi uniti da parte di tutti gli appassionati della montagna ci offre un’idea di quanto il record di Mario sia diventato in realtà un urlo di gioia collettiva di tutti gli appassionati di running e di montagna bergamaschi. «L’organizzazione delle staffette era stata abbastanza semplice - dice Mario -: avevo chiesto ai miei amici con qualche telefonata di assistermi lungo il percorso. Il compito era quello di aiutarmi con le traiettorie soprattutto in discesa, passarmi da bere e qualcosa da mangiare ogni tanto, dato che io correvo da un rifugio all’altro in scarpe da running, calzoncini e maglietta, leggero e senza zaino. E poi soprattutto nell’ultimo tratto, quello della Ferrata della Porta alla Presolana che è tecnicamente il più impegnativo, dovevano tenermi d’occhio e ripigliarmi per le orecchie in caso di errore o di svarione, dato che procedevo slegato. Per fortuna tutto andò bene». Quello che forse ha segnato il passaggio tra l’epoca delle skyrace e dei trail è stato proprio questo concetto: l’idea di passare dall’indipendenza all’autonomia. Correre indipendenti sulle montagne implica il concetto di usufruire della assistenza in gara offerta dagli organizzatori, si è indipendenti tra un punto di controllo o di ristoro e un altro e tra corridori ma questo è più simile a quello che avviene alle gare su strada che non in montagna. Nel trail running invece spetta al concorrente fare fronte alla complessità del percorso e alle variazioni meteo e gestirsi, in autosufficienza. Serve essere solidali con gli altri. Nel tentativo di Mario si può dire che abbia corso in una specie di condizione speciale e bellissima intermedia tra le due possibilità, dove ad amplificare le sue qualità sportive e la sua tenacia si sono alternati gli amici e gli appassionati in attesa sul percorso. In questo senso il suo record è molto vicino al concetto atletico e sportivo della skyrace, ma anche alla solidarietà tra concorrenti tipica del trail e in ultima analisi anche dell’alpinismo. In questo senso Mario e il suo record, insieme agli organizzatori e al CAI, hanno precorso ampiamente i tempi, indicando una direzione da seguire.
TRIONFO AL PASSO DELLA PRESOLANA
Superata la crisi dopo il Rifugio Curò, tra il Valico della Manina e il Rifugio Albani e dopo il Sentiero della Porta, dopo 8h23’ di corsa ininterrotta Mario Poletti è in Cima al Visolo. Da quel punto è tutta discesa e in una picchiata velocissima, scortato tra gli altri da un giovanissimo Marco Zanchi, arriva al Passo della Presolana in 8h52’31’’, abbattendo nettamente il muro delle nove ore che si era idealmente e segretamente prefissato. Al Passo, dove è stato preparato un arrivo degno del Giro d’Italia, ad aspettarlo ci sono centinaia di persone che lo acclamano e lo applaudono, tra questi anche Renato Pasini, l’ex-detentore del record. I due si stringono la mano e si abbracciano, avviene il virtuale passaggio di consegne. Il cronometrista ufficiale certifica il tempo e una pietra angolare del trail running e dello skyrunning Italiano viene fissata. Il record è lì da battere, a tutt’oggi, per chi ci vuole provare. Non è facile. ma in fondo i record sono fatti apposta per essere battuti, prima o poi succederà.
DAL RECORD ALL’OROBIE ULTRA TRAIL
Dopo il record di Mario Poletti il Sentiero delle Orobie ha conosciuto alcuni anni di gloria, sul percorso sono stati organizzati nel 2007 i Campionati Mondiali di Skyrunning, ai quali ha preso parte anche un certo Kilian Jornet. Su un percorso a staffetta suddiviso in tre tronconi è stato possibile verificare l’assoluto valore della sua performance solitaria, paragonabile a quella degli atleti partecipanti in staffetta. Poi dopo, nonostante gli sforzi organizzativi e promozionali, anche per via della virata del gradimento dei runner e degli organizzatori verso le gare trail, la skyrace sul Sentiero delle Orobie e andata a sparire. Il Sentiero delle Orobie è ora tornato a essere terreno propizio per l’escursionismo e per la corsa in autonomia e l’Orobie Ultra Trail è diventata la gara di riferimento della bergamasca e non solo, si tratta in effetti di una vera e propria kermesse internazionale. «Abbiamo deciso di scegliere un percorso diverso da quello del Sentiero delle Orobie, coprendone solo alcuni tratti - a parlare è Paolo Cattaneo, responsabile tecnico della gara, organizzata da Spiagames Outdoor Agency - per dare un’interpretazione diversa del territorio. Il percorso è tecnico e impegnativo, si toccano Clusone e Carona, due località in cima alla Valle Seriana e Brembana ed entrambi i tracciati arrivano a Bergamo Alta. È una gara che coinvolge tutta la provincia e che porta idealmente le Orobie nel cuore della città. C’è una forte connessione del territorio con la gara, che si è radicata con forza. Abbiamo molti partecipanti che non hanno mai corso nemmeno una maratona, non sono runner o trail-runner ma appassionati delle Orobie che hanno voglia di mettersi alla prova e che vogliono condividere con un gruppo di amici il piacere della corsa e di tutta la preparazione necessaria».
Forse il più bel frutto dell’impresa sportiva di Mario Poletti è proprio questo: l’essere riuscito con il suo entusiasmo e la sua passione per la montagna oltre che per la corsa a fare amare le Orobie e i suoi sentieri ai bergamaschi. Nella scia del suo record ci sono centinaia di corridori amatoriali, alcuni grandi del trail running internazionale come Oliviero Bosatelli e Marco Zanchi e tanti gruppi di appassionati volontari che, coordinati da Spiagames Outdoor Agency, ogni anno si mettono con entusiasmo al lavoro per fare da supporto ai concorrenti della Orobie Ultra Trail. Radicare una gara vuole dire in definitiva farla crescere a partire da un seme. Quel seme lì, sulle Orobie, si chiama senza dubbio Mario Poletti. Qualcuno forse negli anni a venire - non senza fatica - potrà portargli via il record del Sentiero delle Orobie, ma nessuno mai potrà portargli via il merito di essere genitore di un movimento così grande. E per questo noi, a Mario, non diremo mai abbastanza volte grazie.
I PASSAGGI
Partenza, Valcanale, ore 6:00 del 7 agosto 2005
Rifugio Laghi Gemelli, ore 6:59
Rifugio F.lli Calvi, ore 8:01 [
Rifugio Brunone, ore 9:28
Rifugio Coca, ore 10:32
Passo Manina, ore 12.18
Pizzo di Petto, ore 12:59
Rifugio Albani, 13:36
Cima Visolo, 14:23
Passo Presolana 14:52
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Arriva Suunto 5
Dal 4 giugno arriva il nuovo GPS da polso Suunto 5, già preordinabile sul sito suunto.com e in vendita al prezzo di 329 euro.
Ecco il comunicato di presentazione del nuovo prodotto rilasciato dall’azienda finlandese.
Decenni di cooperazione con atleti e appassionati outdoor hanno portato Suunto a vivere in una sorta di “trance agonistica”, dove ogni altra cosa svanisce e le persone danno
il massimo e, per fare ciò, ricercano il meglio per quanto riguarda l’hi-tech. Ebbene, semplice, intuitivo e progettato a tale scopo, Suunto 5 è stato realizzato pensando proprio a questo.
Sottile, compatto e confortevole al polso, Suunto 5 è pronto a fornire una mano per raggiungere il proprio ritmo di allenamento ottimale, grazie all’esclusiva funzione multisport. Offre agli appassionati sportivi ciò di cui hanno bisogno per concentrarsisul loro prossimo obiettivo: passo, bracciata o giro di pista che sia, senza preoccuparsi di nient'altro.
Fino in fondo, ogni volta
Grazie alle modalità ‘gestione intelligente’ di Suunto 5 e a una durata della batteria fino a 40 ore, atleti e appassionati outdoor possono spingere a fondo, negli allenamenti o nelle escursioni, senza doversi preoccupare di rimanere a corto d’energia. Questo orologio intelligente apprende i modelli di allenamento di chi lo ha al polso e invia dei promemoria per essere messo in carica prima della sessione successiva.
Questo resistente compagno di allenamento è stato costruito e testato nelle rigide condizioni ambientali del Nord Europa, portando avanti la lunga tradizione Suunto nel campo dei prodotti per l'avventura, che risale al 1936. È capace di affrontare qualsiasi condizione la natura gli riservi.
Il compagno di allenamento intelligente
Suunto 5 monitora il livello di forma di chi lo indossa e adatta il livello di allenamento in modo personalizzato a seconda dei progressi e degli obiettivi. Esattamente come un allenatore, comunica all’atleta di recuperarequando lo sforzo è eccessivo. In caso di scarso impegno invece lo sprona a incrementare l’attività. Suunto 5 è più di un semplice orologio: è un affidabile compagno d’allenamento.
In aggiunta, monitorail livello distress e il sonno, in modo che l’utente abbia la certezza di avere recuperato pienamente e di essere pronto per la prossima attività sportiva. Fornisce anche un aiuto nel mantenere, migliorare o potenziare il livello di forma fisica dell'utente e le sue prestazioni. Grazie alle oltre 80 modalità sport personalizzabili, l’utente è in grado di ottenere statistiche pertinenti indipendentemente dallo sport praticato.
Ispirazione dalla community
Invece di allenarsi da soli, Suunto 5 mette in contatto persone attive e amanti dell’avventura con un mondo di nuovi itinerari, da scoprire attraverso le ‘mappe di calore’ presenti nella Suunto app. Le mappe di calore mostrano dove e lungo quali percorsi le persone si allenano, fornendo stimoli per nuove sfide e nuove scoperte. Una volta effettuata la sincronizzazione, gli utenti possono esplorare nuovi itinerari e percorsi sul proprio orologio.
Alcune delle app sportive più famose al mondo, come Strava, TrainingPeaks e Relive, sono integrate all’interno della Suunto app, offrendo all’utente la possibilità di sfruttare al meglio le sessioni di allenamento. E la condivisione online dei traguardi raggiunti attraverso differenti piattaforme social media non è mai stata così facile.
Progettato con stile
Suunto 5 è stato progettato per la performance, ma anche con un occhio allo stile. La ghiera in resistente acciaio inox e le quattro varianti All Black, White, Burgundy Copper and Graphite Copper, lo rendono un oggetto sofisticato e originale insieme.
Come funziona l'anti-doping nello ski-alp?
Lotta al doping nello ski-alp, come funziona? L’ISMF, come altre federazioni internazionali come quella del biathlon, o organizzatori, per esempio Losanna 2020, ha firmato una partnership con l’ITA, l’International Testing Agency, organizzazione che fa base a Losanna ed è ovviamente riconosciuta dal CIO e dalla WADA. Un accordo raggiunto prima del via della nuova stagione (l’ITA è nata infatti solo ad inizio 2018), prima, dal 2011, si affidava a SportAccord: è una no-profit, ma i soldi servono per fare i controlli. L’ISMF ha messo sul piatto un budget che è circa il 20% del bilancio: con quelle risorse l’ITA si organizza per una serie di controlli che devono attenersi allo standard, anche come numero di controlli, fissato dall’articolo 5 del codice anti-doping della Wada, che è stato aggiornato nel 2018. «Certo con più risorse si potrebbe fare molto di più - ci ha detto Roberto Cavallo, ISMF general manager che segue con il ‘discorso’ anti-doping con Regula Meier, ISMF anti-doping coordinator - ma siamo già soddisfatti di essere tra le federazioni internazionali più ‘piccole’ a realizzare un programma antidoping adeguato a quanto richiesto dalla WADA». I numeri di quanti controlli, di chi sia stato controllato, ancora non si sanno: l’ITA fissa il minimo richiesto dalla WADA e poi si muove di conseguenza in modo autonomo; alla fine presenta alla federazione internazionale un report di quello che è stato realizzato. Report che nel caso della ISMF sarà presentato a fine settembre ad Antalya, in Turchia, nel corso dell’assemblea generale, la stessa che in quei giorni eleggerà il nuovo presidente del dopo-Mariotta.
DUE LIVELLI - L’ITA, come tutte le altre organizzazioni anti-doping, lavora su due livelli. Quello classico del controllo a fine manifestazione: vengono scelti alcuni atleti a campione (di solito i vincitori o i piazzati nelle prime posizioni) e controllati. L’altro sistema è quello del cosiddetto ‘passaporto biologico’: in questo caso gli atleti vengono controllati anche lontano dalle gare, a casa o comunque nel luogo in cui si trovano che devono segnalare all’ITA. I campioni di sangue e urine vengono poi analizzati da laboratori approvati dalla WADA. Funziona così per tutti gli atleti, anche per gli ski-alper.
Ripido, dalle nuove linee sul Brenta ai progetti extra-europei
Questa primavera che sembra più un inverno pieno, lascia qualche traccia sulle pareti ripide delle Alpi e le prime spedizioni stanno partendo anche per Himalaya e Canada. Che cosa è successo recentemente nel mondo del ripido e che cosa bolle in pentola? In Valle d’Aosta diverse discese di rito ma senza alcuna particolare novità, la più significativa sembra essere la prima ripetizione della parete Nord della Becca di Nona, proprio a picco su Aosta: itinerario aperto da Davide Capozzi e Pica Herry nel 2013 e ripetuto da Sandro Letey, Edo Camardella, Pierre Lucianaz e Yari Pellissier. Passando al Piemonte da segnalare che In Valle Orco Giorgio Bavastrello con la tavola ai piedi è sceso da una nuova linea sulla bastionata Sud-Est della Punta Galisia. Stagione senza dubbio migliore verso le Dolomiti in particolare in zona Brenta e Adamello-Presanella dove i fratelli Luca e Roberto Dallavalle stanno realizzando una prima dietro l'altra. Tra quelle più significative Cima Scarpacò parete Nord-Ovest, Cima di Bon parete Nord-Est, Cima del Vallon parete Nord-Ovest, Cima Tosa parete Est e Crozzon di Val d'Agola parete Nord-Est.Sempre in Adamello Claudio Lanzafame, Alessandro Beber e Marco Maganzini hanno sciato il Canale della Punta dell'Orco. Oltre confine, Tom Gaisbacher ha sciato alcune belle linee in Austria nella zona di Lienz (Hoher Tenn parete Est e la parete Sud-Est del Grosses Wiesbachhorn) e una classica alpinistica, la parete Nord del Gran Pilastro o Hochfeiler in Val di Vizze, Alto Adige. In Svizzera infine Seb de Sainte Marie ha continuato a inanellare alcune belle discese, come alcuni couloir al Gross Schiben, la Nord dell Vorab Glarner e del Piz Dolf e la Nord-Ovest del Piz Sordona. Mathéo Jacquemoud ha annunciato sul suo account Instagram di avere sciato una linea dalla Capanna Solvay, sul versante Est del Cervino, insieme a Vivian Bruchez, primo passo di un progetto tra Zermatt e Chamonix sul filo delle frontiere. Tutto questo mentre Enrico Mosetti, Tom Grant, Ben Briggs e Jesper Petersson sono in Alaska, sembra diretti al Mount Hunter. Poi a giugno il Nanga Parbat potrebbe vedere sia il tentativo di Cala Cimenti che del team francese che l’anno scorso ha sciato il Laila Peak: Chambaret, Duperier e Langenstein.
Dall'Italia alla Cina in bici e con l'obiettivo di salire una vetta in ogni paese
Da Livigno e da Fai della Paganella alla Cina. In bici e con l’obiettivo, lungo la strada, di sciare qualche bella cima. Questa in sintesi l’avventura Soul Silk, al via lo scorso aprile. I protagonisti sono il fotografo Giacomo Meneghello e Yanez Borella, innevatore e maestro di snowboard. Il progetto prevede circa 10.000 chilometri in sella in una cento giorni che li vedrà attraversare circa 12 stati e due continenti. Viaggeranno con un prototipo di e-bike dotata di carretto con pannello fotovoltaico che li aiuterà a ricaricare le batterie. Trasporteranno tutto il materiale necessario all’impresa, che hanno però voluto rendere ancora più speciale: non solo arriveranno in Cina pedalando, cercheranno anche di salire una vetta per ogni paese che attraverseranno, come la Punta Penia (3.343 m) in Marmolada fino al Pic Lenin (7.134 m) nella regione del Pamir. Questo viaggio, oltre che una grande sfida fisica, ha anche una valenza sociale e umana. Giacomo e Yanez pedalano per supportare l’Admo, associazione per la donazione del midollo osseo, portando una sua bandiera in cima ad ogni montagna che conquisteranno. Scott e Outdoor Research, brand parte del gruppo Scott Sports, partecipano con i loro prodotti a questo progetto con vari accessori tecnici che aiuteranno i due a raggiungere il loro obiettivo. In questo momento Giacomo e Yanez sono arrivati in Cappadocia, nel cuore della Turchia, dopo 3.300 chilometri e 30.000 metri di dislivello, ma la strada è ancora lunga.
www.facebook.com/SoulSilk2018/
Val del Riso Trail, la prima a Fabio Pasini e Maria Eugenia Rossi
Debutto coi fiocchi per la Val del Riso Trail. 200 i partecipanti alla gara nella terra delle miniere, con partenza e arrivo a Gorno. I primi a imprimere il sigillo sulla gara griffata Fly-Up e Pro Gorno sono l’azzurro del fondo Fabio Pasini e la skyrunner, specialista della discesa, Maria Eugenia Rossi.
Solo una leggera modifica nel tratto che conduce alla frazione Riso onde evitare il fango, per il resto il percorso della nuovissima Val del Riso Trail non ha subito alcuna modifica nonostante la pioggia che ha accompagnato la gara.
Ad accendere la miccia ci ha pensato Fabio Pasini, imprimendo un forcing deciso sin dall’inizio. Al suo inseguimento si è portato il giovane Mattia Tanara del Team Scott, con alle calcagna Luca Rota del team Serim. Più staccati Fabio Bonfanti, Matteo Longhi e Denny Epis. Lungo la discesa del monte Grem, nella seconda fase di gara, Fabio Pasini ha mantenuto la prima posizione nonostante Mattia Tanara non si sia certo risparmiato. Dietro di loro, invece, c’è stato uno scambio di posizioni. Fabio Bonfanti è passato dal quarto al terzo posto, rimontando Luca Rota.
Sul traguardo di Gorno è piombato dunque per primo Fabio Pasini (alla sua prima gara in maglia Recastello Radici Group). 2h07’30” il tempo che gli è valso la vittoria. Mattia Tanara è transitato sotto l’arco Scott in 2h09’22”, accusando un ritardo di 1’52”. A distanza di 8’29″ dal vincitore ha concluso Fabio Bonfanti (Runners Bergamo – 2h15’59”). Nei migliori dieci di giornata Luca Rota, Denny Epis, Matteo Longhi, Daniel Antonio Rondi, Marco Marchesi, Andrea Noris e Giambattista Micheli.
In campo femminile Maria Eugenia Rossi, dopo aver corso i primissimi chilometri appaiata a Lara Birolini, ha condotto l’intera gara all’attacco. Con il suo bel sorriso stampato in volto malgrado la fatica, Maria Eugenia Rossi ha solcato la linea d’arrivo in solitudine, stoppando le lancette su 2h38’21”. La portacolori dell’Erock Team ha avuto la meglio sulla compagna di squadra Lara Birolini (2h52’10”) e su Carolina Tiraboschi (Asd Maga – 3h00’49”). Nella top five anche Sara Bergamelli e Caterina Tomasoni.
Garda Trentino Trail a Enzo Romeri e Simona Gambaro
Il trentino Enzo Romeri (CMP Campagnolo Bassano) e la genovese Simona Gambaro (Sisport) sono i vincitori della quarta edizione del Garda Trentino Trail, la prova di 60 chilometri con 3500 metri di dislivello disegnata tra l’Alto Garda Trentino e la Valle di Ledro, con partenza da Arco ed arrivo a Riva del Garda dopo aver toccato i tre laghi di Tenno, Ledro e Garda. Un successo a lungo inseguito, quello di Romeri che sin dalla prima edizione del 2016 è stato costantemente tra i protagonisti, di fatto sempre a ridosso della vittoria ma senza mai conquistarla, discorso valido anche per la versione invernale, il GardaTrentino XMas Trail in calendario a dicembre.
Il quarto assalto è stato dunque quello buono per il quarantaseienne trentino, autore di un assoluto monologo concluso in poco meno di sei ore (5h59’01). Il suo margine è stato superiore alla mezz’ora nei confronti degli altri due protagonisti del podio di giornata, il lombardo Christian Pizzati (TRM Team, 6h32’23) e l’ex hockeista gardenese Christian Insam (Team La Sportiva, 6h45’33), già secondo dodici mesi fa. I numeri sembrerebbero delineare una vittoria agevole per Romeri, ma in realtà non è stata una passeggiata: la pioggia ed il freddo hanno messo a dura prova la resistenza del trentino ma la sua determinazione di voler finalmente conquistare il successo nel Garda Trentino Trail è stata più forte di tutto, anche della neve presente nella parte sommitale del tracciato, oltre i 1600 metri dal Rifugio Nino Pernici a Bocca Saval. Ai piedi del podio è finito il pusterese Werner Bergmann (LaufClub Pustertal) che ha preceduto il tedesco Christian Zimmer ed il trevigiano Daniele Fant (Sinteco Running Team).
La prima donna a concludere il tracciato di 60 chilometri è stata invece Simona Gambaro, autrice del 29° tempo assoluto con 7h55’56 per precedere l’altoatesina Maria Regina Spiess (Sarntal Raiffeisen, 8h01’46), vincitrice dodici mesi fa della distanza media del Garda Trentino Trail. Ed a tal proposito, di poco superiore alle quattro ore invece il tempo impiegato dai due trentini Christian Modena e Francesco Trenti - entrambi portacolori del Team LaSportiva - per firmare la Tenno Trail Marathon, la prova intermedia del trittico griffato Garda Trentino Trail con i suoi 42km di sviluppo e 2400 metri di dislivello con partenza da Tenno. Dopo un iniziale allungo di Trenti, Modena ha chiuso il gap e da quel momento i due hanno proseguito di pari passo fino a tagliare a braccetto il traguardo di Riva del Garda in 4h19’34. Terzo posto quindi per Daniel Degasperi. La veneta Francesca Pretto (Team La Sportiva) è invece risultata imprendibile per tutte nella gara femminile, conclusa con il tempo di 5h03”23.
LEDRO TRAIL EXPERIENCE - Firma inglese per la Ledro Trail Experience, la prova più breve del trittico con i suoi 30km e 1200 metri e partenza da Bezzecca: il primo a concludere la propria fatica è stato il britannico Robbie Britton, inglese da poco di casa a Biella che con 2h31’26 si è lasciato alle spalle Manuel Speranza (Atletica Cortina, 2h32’11) ed il ledrense Michele Bartoli (Ss Tremalzo, 2h32’46). A imporsi al femminile è stata la bellunese Martina Valmassoi (Team Salomon), prima al traguardo dopo 2h53’36 di gara.
Gli arrivi delle tre prove si sono quindi succeduti fino all’imbrunire, con i quasi mille partecipanti estasiati per aver potuto godere di una giornata tanto avvincente e ben confezionata pur in condizioni meteo che si preannunciavano critiche. Ma tutto è filato liscio, grazie alla clemenza del meteo ma anche per la sempre maggior perizia ed esperienza di un comitato organizzatore di anno in anno più rodato e già al lavoro per pensare ed allestire la prossima Garda Trentino XMas Trail del 14 dicembre.
Che spettacolo al Trofeo Nasego
Solito, grande spettacolo al Nasego. Puntuale alle ore 9.30 lo start da Casto, poi via a perdifiato tra le vallate e le alture del savallese, un lunghissimo serpentone colorato che solcava i luoghi simbolo della gara: le ferrate, i Piani di Alone, i Pannelli, il Rifugio Nasego, Famea… 21 km circa e 1330 di dislivello, velocità, tecnica e muscolarità. Gara uomini: pronti via e poco studio, non c’è davvero tempo per la tattica. Lo scozzese Andrew Douglas, già quinto nel vertical di sabato, si getta all’attacco senza alcun indugio. Provano ad andargli in scia il francese Julien Rancon e l’attesissimo kenyano Robert Surum. La prima parte di gara, filante e veloce, è tutta per l’uomo delle highlands che riesce a raggranellare oltre 1’ all’aggiornamento di metà gara. I migliori Italiani in questa fase sono Alberto Vender, Gabriele Bacchion ed Hannes Perkmann. Come sempre accade il momento decisivo si consuma sui sentieri che salgono al GPM del Rifugio Nasego, reso ancora più duro dalla forte pioggia. Gran finale con la crudele ed impegnativa discesa sul traguardo di Famea, Andrew Douglas regge il ritorno di Cachard, Surum e Rancon, per lui grande vittoria in 1h35’37” che gli vale il nuovo record e l’ingresso nella leggenda della Nasego. Podio stellare con il francese Sylvain Cachard, autore di rimonta incredibile, ed il kenyano Robert Surum. Uno strepitoso Julien Rancon al quarto posto anticipa di poco il primo atleta azzurro, Martin Dematteis, che si laurea così campione d’Italia Lunghe Distanze per un podio tricolore che vede Gabriele Bacchion al secondo posto e Alberto Vender al terzo.
Nella gara donne previsioni completamente rispettate, la keniana campione del mondo Lucy Wambui Murigi si getta alle spalle la debacle del 2018 quando fu protagonista di giornata anonima. Questa volta non c’è scampo per le avversarie, messe implacabilmente in fila dalla fenomenale gazzella africana che comanda dal primo all’ultimo km in un assolo che le vale anche il record del tracciato, sfilato alla bresciana Sara Bottarelli che qui fu regina nel 2016. Da oggi il crono da battere sarà 1h52’23”. La Murigi domina ma dietro è grande battaglia per un posto nella ambitissima top ten. Sorpresona di giornata al secondo posto con l’irlandese Sarah McCormack, ormai stabilmente tra le top del ranking internazionale, e sorpresissima in terza piazza Erica Ghelfi, incredula e felicissima per quella che rimane un’autentica impresa. Per lei c’è anche il titolo Italiano lunghe distanze 2019 davanti a Lorenza Beccaria ed alla sorella Francesca Ghelfi, per un podio tricolore interamente di marca piemontese.