Franco Collè padrone dell’Hoka One One Monterosa EST Himalayan Trail
Era l’uomo più atteso, il campione assoluto di questa seconda edizione dell’Hoka One One Monterosa EST Himalayan Trail (MEHT) e non ha deluso le aspettative. Il valdostano Franco Collè del Team Hoka Italia, unico doppio vincitore del Tor Des Geants, ha vinto la competizione al cospetto della parete Est del Monte Rosa presentandosi a Macugnaga, dopo aver corso e dato spettacolo nei 60km previsti del tracciato con 4500m D+, in 8h09’37”. Al femminile successo per la spagnola Estelita Santin Fernandez che ha concluso in 10h52’22”. Gara nella parte più alta e difficile annullata causa maltempo, come previsto dal pomeriggio si sono abbattuti temporali nella zona e l’organizzazione per motivi di sicurezza ha dovuto sospendere la gara nelle due distanze più lunghe da 38km e 60km radunando i partecipanti che non erano ancora transitati riportandoli in sicurezza all’arrivo.
Hoka One One Monterosa EST Himalayan Trail (MEHT) organizzato da Sport Pro-Motion, società organizzatrice anche di Nexia Audirevi Lago Maggiore Half Marathon e Sportway Lago Maggiore Marathon, ha scelto un posto unico in Europa per far vivere un'emozione unica. Gli atleti, tantissimi gli stranieri provenienti da oltre 20 nazioni, hanno potuto ammirare il salto di 2.500 metri, dal ghiacciaio del Belvedere fino alla Punta Dufour a 4634 mslm, con il passaggio sulla Diga di Mattmark/Saas Almagell e scollinamento al Passo del Monte Moro.
Alle spalle del fuoriclasse Franco Collé troviamo Stefano Ruzza ben distanziato in 8h50’51” e Carlo Bonnet, terzo, in 9h25’59”, mentre non ha concluso la gara Giulio Ornati, il vincitore del Meht 2018 e consulente tecnico per il percorso di questa seconda edizione 2019. Per la gara femminile secondo posto per Chiara Innocenti in 12h07’58” e terzo invece per la britannica Jenny Rice in 12h20’40”.
«Per me la montagna è tutto, ben vengano questi trail dove c’è montagna vera a 360 gradi – il pensiero del vincitore Franco Collé appena tagliato il traguardo -. Sentieri molto tecnici fin da subito e stamattina uno spettacolo, stupenda la parete Est e il Rosa davanti. Pomeriggio purtroppo si è annuvolato ed è arrivata la pioggia ma lo sapevamo. La prima parte è straordinaria, ma la seconda parte non va sminuita, mi avevano preavvertito dicendo che sarebbe andata via liscia, invece è affascinante anche la seconda parte. Tornerò senz’altro per farmela con il sole».
Come previsto oltre alla gara principale da 60km si sono corse anche altre quattro distanze che hanno consentito la presenza totale di circa 600 atleti. Nella 15K (1000m D+) successo per Fabio Falcioni in 1h27’59” e tra le donne per Priscilla Rigo in 1h53’27”, la 23K (1600m D+) con un percorso che passava sotto la parete EST del Monte Rosa è stata dominata dal favorito Mattia Bertoncini, bronzo ai Mondiali 2018 di Skyrunning U23 e astro nascente della nazionale under 23. Ha vinto in 2h30’17” mentre al femminile primo posto per Anna Cremonesi in 3h40’55”.
Ancora si è disputata la 38K (2900m D+) che presentava un percorso tecnico che consentiva di assaggiare l'imponenza dei “4.000 svizzeri”. In questa distanza primo posto per Riccardo Montani in 4h49’43”, tra le donne si è imposta Cecilia Pedroni con 6h13’41”. Si è disputata per la prima volta anche la staffetta 38K+22K (2900 m + 1600 m D+), in questo caso primo posto per il team composto da Singenberger Martino - Dorici Enea in 8h55’34”.
Monte Rosa Walser Trail a Andrea Macchi e Lisa Borzani
I temporali e la forte pioggia che, a tratti ha accompagnato il lungo viaggio dei trailer sulle montagne e i sentieri dei walser, non sono riusciti a rovinare la grande festa della MWT 2019. Andrea Macchi e Lisa Borzani sulla lunga, Mattia Colella e Elisabetta Negra sulla prova intermedia, Mattia De Guio e Stefania Canale sulla breve sono i vincitori della settima edizione. Quasi 800 concorrenti da 12 differenti nazioni a Gressoney Saint Jean hanno sfidato il meteo per correre su tracciati di rara bellezza. Domani mattina gran finale con la 5k non competitiva rivolta alle famiglie.
Pioggia nella notte, temporali intermittenti e ribasso repentino delle temperature hanno mietuto vittime importanti, ma non sono riusciti a sovvertire i valori in campo. Andrea Macchi e Lisa Borzani, super favoriti dei pronostici, sono riusciti a porre la loro griffe nell’albo d’oro della 114 km; la prova principe della Monte Rosa Walser Trail.
Pronti, via e il gruppetto dei migliori ha subito provato a fare ritmo nella prima salita al Rifugio Sottile e nella seconda importante ascesa al Colle della Salza. La notte, caratterizzata da forti temporali, ha contribuito a rimescolare non poco le carte in tavola. Andrea Macchi, per difendersi dal freddo, ha cambiato marcia e salutato il resto della ciurma. Alle sue spalle, se Gianluca Galeati e Michele Tavernaro hanno alzato bandiera bianca, l’esperto Patrick Bohard ha macinato sorpassi su sorpassi sino a guadagnare la seconda piazza. Al traguardo di Gressoney Saint Jean, sotto la pioggia, successo per un super Macchi che, dopo una lunga cavalcata solitaria, ha stoppato il cronometro sul tempo di 18h13’12”. Seconda piazza per il francese Bohard in 19h23’16” e gradino più basso del podio per Nicola Poggi (20h26’33”).
Nella gara in rosa la due volte vincitrice del Tor de Géants Lisa Borzani ha battagliato nelle prime fasi di gara con la veneta Cristiana Follador, per poi salutare tutte e procedere in solitaria. La forte trailer padovana, ma aostana d’adozione, ha vinto in 21h53’54” davanti a Melissa Paganelli 22h48’01” e Cristiana Follador 23h16'25"
Mattia Colella e Elisabetta Negra più forti di tutti sulla prova intermedia che, per motivi di sicurezza data la forte pioggia del pomeriggio, è stata ridotta di circa 10km. Visto il protrarsi della perturbazione il comitato organizzatore ha infatti giustamente deciso di tagliare colle Ranzola riportando tutti i runner il prima possibile al quartiere generale di Gressoney Saint Jean. Classifica alla mano Mattia Colella ha vinto in 5h19’24”, mettendo dietro Danilo Lanternino (5h19’50”) e Giovanni Quaglia (5h28’50). Al femminile l’atleta di casa Elisabetta Negra, fermando il cronometro sul tempo di 6h22’40”, è invece riuscita a tenere dietro Katrin Bieler (6h34’52”) e Annalisa Faravelli (716’03”).
Il meteo non ha spaventato i runner della 20k che in quasi 300 si sono sfidati sul bel percorso che li ha portati in scorci incantati delle Valli dei Walser dove il tempo sembra essersi fermato. I più forti di giornata sono stati Mattia Federico De Guio (1h32’44”) e Stefania Canale (1h59’21”). Sul podio con De Guio sono saliti anche Ante Zikovic (1h37’37”) e Alex Perolini (1h37’42”) Al femminile a conquistare la seconda piazza è stata Marcella Pont (2h01’47”), mentre terza è giunta Helena Gleda (2h09’55”).
Great Himalaya Trail, 24 giorni che ti cambiano la vita
Dopo ventiquattro giorni, quattro ore e ventiquattro minuti oppure 1.504 chilometri o ancora 70.000 metri di dislivello positivo su e giù per i sentieri dell’Himalaya con i tuoi piedi impari due lezioni che ti aiuteranno a trovare la strada giusta per il resto della vita. «Dobbiamo apprezzare le cose semplici, ci affanniamo per avere sempre di più e non ci godiamo la nostra famiglia e quello che abbiamo: se sei felice potrai inseguire i tuoi sogni, però se vivi per inseguire i tuoi sogni ma sei infelice, non li realizzerai mai». La prima lezione sembra (ed è) un insegnamento buddista. «Sono stato in villaggi minuscoli, lontani da tutto e da tutti, con tanta povertà, eppure sono felici e ti aprono la porta alle undici di notte, nel buio immenso, ti preparano da mangiare e ti fanno dormire senza chiederti chi sei, mentre noi abbiamo perso il giusto punto di vista e per ritrovarlo non ci rimane altro che scappare dalla civiltà e dal bombardamento di informazioni e social media, camminare nella natura, correre per ritornare in noi stessi». I Beatles andarono in India per ritrovare la loro ispirazione. Il trail runner sudafricano Ryan Sandes, il primo uomo a vincere tutte e quattro le 4 Deserts race, l’uomo che ha vinto una gara ultra-trail in ognuno dei sette continenti, tra le quali anche la Leadville e la Western States, non è nuovo a imprese da record nella natura, eppure il lungo viaggio del Great Himalaya Trail, da un confine all’altro del Nepal, lo scorso marzo in compagnia dell’amico e compagno di tante avventure Ryno Griesel, lo ha fatto tornare a casa diverso. È un viaggio incredibile, dalle vette più alte del mondo alla giungla. Ma è anche un viaggio alla scoperta di se stessi. «È stata un’esperienza che mi ha cambiato la vita, in positivo. Penso che sia stata la tappa finale di un percorso, la cosa più grande che abbia mai fatto e sono molto soddisfatto, ma non la ripeterei».
Il Great Himalaya Trail non è un solo sentiero, ma la combinazione di vari itinerari sia nella parte montuosa del Nepal (GHT High Route) che in quella più popolata e ricoperta dalla giungla (GHT Cultural Route) e va da un confine all’altro del Paese, lungo la direttrice Ovest-Est. Per questo, sebbene Ryan e Ryno abbiano fatto segnare il FKT (fastest known time), non si può parlare di vero e proprio tempo record in quanto un crono di riferimento non esiste data la possibilità di alternative lungo il percorso e le varianti imposte dai tanti imprevisti. Quello seguito dai due sudafricani ripercorre fedelmente le orme del connazionale Andrew Porter dell’ottobre 2016 ma, per esempio, Lizzy Hawker, nel 2016, ha fatto segnare un tempo di riferimento lungo la parte in quota del GHT, tra le montagne. «Quello che volevamo non era un record a tutti i costi, ma un’avventura che unisse la bellezza delle vette più alte del mondo alla possibilità di conoscere la cultura e le città perché per me, che vengo da Città del Capo, trail running significa correre nella natura, ma non in montagna». Una lunga avventura… «Dopo la vittoria alla Western States 100 dello scorso anno cercavo proprio qualcosa del genere e l’Himalaya mi ha sempre attirato, però mi spaventava la lunghezza del percorso perché voglio anche continuare a partecipare alle gare ultra e devo avere il tempo di recuperare». Già, la lunghezza: muoversi a piedi per 24 giorni consecutivi, con una media di 16 ore di attività e poco tempo per dormire e ancora meno occasioni per farlo in un letto, è stato l’aspetto più duro del Great Himalaya Trail di Ryan. «Il ritmo era lento, più lento di quanto sono abituato, e anche questa è stata una sfida: ci sono stati giorni nei quali abbiamo camminato per 20 ore e altri per 12, notti passate nelle case dei nepalesi in villaggi isolati dal mondo e momenti nei quali ci fermavamo giusto una ventina di minuti ogni tanto per dormire sul sentiero o su qualche tavola di legno usata dai pastori, piuttosto che nei loro ripari di fortuna». Impossibile pensare di dormire all’addiaccio nella prima parte del percorso, in quota e in parte ancora innevata, più pratico farlo verso la fine, negli ultimi 300 chilometri, quando Ryan e Rino hanno camminato e corso nella giungla, con temperature che superavano i 30 gradi. Per trovare la motivazione in quei 25 lunghi giorni Ryan si è inventato degli obiettivi giornalieri, ragionando step by step, ma non è sempre stato facile.

L’altro aspetto che ha reso difficile il Great Himalaya Trail, soprattutto nella prima parte, è stato l’orientamento. Faceva freddo e il percorso era ancora in parte ricoperto dalla neve. «Ci siamo affidati al GPS, ma di tanto in tanto dovevamo fermarci dieci minuti per ritrovare la traccia; abbiamo calcolato che ogni giorni, in media, perdevamo fino a tre ore per orientarci e in una di queste pause Ryno si è procurato il congelamento di alcune dita della mano perché siamo saliti fino a 5.500 metri di quota con temperature di - 15 gradi e il vento che accentuava la sensazione di freddo».
Quella del cibo è stata la sfida nella sfida. Per scelta e per alleggerire gli zaini è stato deciso di fare tutto il Great Himalaya Trail procurandosi da mangiare lungo il percorso, come dei normali turisti: acquistandolo o facendosi ospitare dai locali. Solo in tre punti c’è stata la possibilità di cambiare gli zaini e i vestiti e nelle tasche trovava spazio qualche barretta, gel o lattina di Red Bull. «Alla fine il mio corpo mi diceva che non ne poteva più di quell’alimentazione e sono stato male un paio di giorni: i nostri pasti consistevano di frittata, riso e lenticchie quando avevamo la fortuna di essere ospiti, oppure di biscotti e cioccolato comprati alle bancarelle e non era proprio l’ideale durante una traversata di 1.500 chilometri».
La mattina del 19 marzo, a 40 chilometri da Patan, Griesel ha iniziato a soffrire di spasmi muscolari nella zona del torace ed è andato in iperventilazione. «Ho veramente temuto che da un momento all’altro cadesse a terra sul sentiero: aveva i battiti del cuore molto alti e la febbre» ricorda Ryan. Mai come in questo momento la fine dell’avventura è stata vicina. «Da una parte non avrei mai voluto che Ryno avesse dei problemi seri di salute, dall’altra so quanto ci teneva a portare a termine il Great Himalaya Trail e che il ritiro sarebbe stata la più brutta notizia per lui, è stato il momento più difficile per tutti». Ci sono mali fisici e mentali e i fantasmi hanno iniziato a popolare il cervello di Ryan. «Ho iniziato a pensare a mio figlio di 19 mesi e a come fosse cresciuto durante questi 24 lunghissimi giorni: quanto mi fossi perso!». Per non farsi mancare nulla, negli ultimi giorni Ryan si è anche imbattuto in una gang locale che, nella notte, li ha inseguiti tra le montagne, anche con le luci delle frontali spente, fino a quando i due non sono arrivati a una locale stazione della polizia. Questo ultimo contrattempo non ha impedito l’arrivo a Pashupatinagar, sul confine con l’India, alle prime luci dell’alba del 25 marzo.
Tre mesi dopo la grande avventura rimangono un centinaio di chilometri in più non preventivati, il messaggio di congratulazioni di Lizzy Hawker, tante energie, la velocità delle gambe ancora da recuperare. E la consapevolezza di avere vissuto 24 giorni che hanno cambiato le vite di Ryan e Ryno.

Il Great Himalaya Trail
Il Great Himalaya Trail (GHT) non è un vero e proprio sentiero ma una combinazione di itinerari. Quello seguito da Ryan Sandes e Ryno Griesel ha comportato la partenza da Hilsa, al confine con il Tibet, e l’arrivo a Pashupatingar, dove il Nepal confina con l’India, lungo la direttrice da Ovest a Est. Le stime prevedevano 1.400 chilometri e 70.000 metri di dislivello, ma alla fine la lunghezza totale è stata superiore di poco più di 100 chilometri. Questo percorso è quello seguito dal sudafricano Andrew Porter nell’ottobre 2006 e portato a termine in 28 giorni, 13 ore e 56 minuti. Ryan e Ryno si sono consultati a lungo con Andrew e sono passati da 12 precisi checkpoint che coincidevano con quelli di Porter. Cinque semplici regole hanno dato un senso all’impresa: autonomia nell’orientamento e nell’alimentazione, acquistando il cibo lungo il percorso o facendosi ospitare dai locali, nessun uso di sherpa e muli, pernottamenti all’aperto o nei lodge e nelle case per non appesantire lo zaino, utilizzo di una compagnia di trekking locale per cambiare gli zaini in tre occasioni e l’assistenza per i permessi. Il sito di riferimento per il Great Himalaya Trail, con tutte le informazioni utili per chi volesse percorrere anche solo una parte del GHT, è www.greathimalayatrail.com
I 12 checkpoint
- Hilsa
- Simikot - km 77
- Gamgadhi - km 150
- Jumla - km 193
- Juphal - km 280 o Dunai - km 290
- Chharka Bhot - km 380
- Kagbeni - km 444
- Thorang La Pass - km 463
- Larkya La Pass - km 561
- Jiri - km 928
- Tumlingtar - km 1.075
- Pashupatinagar - km 1.504
Gli altri record
- Sean Burch (UK): 2010 - 49 giorni, 6 ore, 8 minuti (2.000 km - da Est a Ovest, combinazione dell’High e del Cultural GHT).
- Lizzy Hawker (UK): 2016 - 42 giorni, 2017 - 35 giorni (circa 1.600 km - da Est a Ovest - prevalentemente sulla High GHT Route, evitando i tratti tecnici che richiedono passi di arrampicata).
I NUMERI
- 70 km la lunghezza minima delle tappe giornaliere
- 120 km la lunghezza massima percorsa al giorno
- 500 m il dislivello minimo giornaliero
- 000 m il dislivello massimo giornaliero
- 124 palle di riso mangiate
- 43 palle al curry
- 300 barrette di cioccolato
- 600 cookie
- 46 donuts
- 2 pizze
- 24 lattine di Red Bull
- 3 ore di sonno a notte in media
- 2 le volte che Ryan e Ryno hanno potuto lavarsi i denti
- 0 le docce fatte lungo il percorso
- 24 giorni, 4 ore, 24 minuti il tempo fatto registrare da Ryan Sandes e Ryno Griesel
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Yak sul Monte Rosa
Gennaio 2019, ore 7.30, termometro ben sotto allo zero. Anche questa volta ho peccato di troppa fiducia verso la capacità della riserva, così mi ritrovo ad avvicinare sconosciuti a Piedimulera per chiedere dove posso trovare un benzinaio aperto. I pochi con cui sono riuscito a comunicare abbassando il finestrino si sono dimostrati tutti molto disponibili e concordi nell’indicarmi la stessa direzione: «dopo il ponte, a destra, sempre dritto!». Nessun giro di parole inutile, gente di montagna. Al benzinaio, dove arrivo evitando gli ultimi singhiozzi del motore, il cassiere si stupisce un po’ nel vedermi vestito da sci vista la siccità di questo inizio inverno e l’assoluta mancanza di materia prima sul landascape circostante. Macugnaga?mi domanda diretto. Alla mia risposta affermativa, scuote il capo in senso di approvazione e in modo molto consapevole: la cosa mi rincuora. Un po’ di neve ci sarà se il benzinaio che sembra saperne non si è troppo stupito.
Rimonto sul mezzo. In realtà sono solo io a riferirmi al mio furgoncino con il termine mezzo. Dopotutto non è una macchina normale, ma una in cui riesci a dormirci dentro agile, che supera sterrati e fa a sportellate con i guard rail per risvegliarti quando magari decidi di assopirti un secondo alla guida. È un mezzo, innegabile! Da Piedimulera la strada inizia salire decisa, tortuosa. Ed è dopo un non ben precisato numero di svolte che appare Lei, la parete Est del Monte Rosa! Enorme, occupa tutto l’orizzonte e la visuale concessa dagli scoscesi pendii ai lati della strada. L’ultima volta che sono stato da queste parti, la strada l’ho percorsa in senso contrario, a bordo di un bus di linea dove occupavamo le ultime sedute ed avevamo un certo agio di posti liberi intorno, probabilmente garantito da quell’odore di libertà che le lunghe giornate in montagna ti appiccicano addosso. Su quella parete ci eravamo appena stati con gli sci, canalone Marinelli in boucle da Gressoney. Era la primavera di qualche anno fa. Vederla così, risalendo la valle, è stato diverso. Una sensazione grandi paesaggi che ti aspetteresti di trovare magari alla vista di vallate d’oltreoceano e invece ecco che appena sopra Piedimulera… sbam! La Est, nel sole!
Cercando un po’ in giro, credo di essermi ritrovato nella descrizione che il grande scrittore e regista italiano Mario Soldati aveva dato di questa parete: «Immane, alto fino a metà del cielo, ecco il massiccio del Rosa, con i suoi bianchissimi ghiacciai e le sue pareti di roccia nera. Non diverso è lo spettacolo dell’Himalaya. Lo guardiamo tra le lacrime. Che cosa c’è di più bello su questa terra? Il monte Rosa visto da Macugnaga è eroico».
Eroico è il termine perfetto per descriverla: tre chilometri di larghezza, duemilacinquecento metri di altezza. Ghiacciai, seracchi che ne movimentano la continuità, a sinistra il profilo sinuoso della cresta Signal, a destra, meno vistosa, la Santa Caterina. Pochi scorci alle nostre latitudini sono paragonabili a quello che il Monte Rosa offre sul suo versante Est. Il Bianco da Courmayeur forse. Però la Est del Rosa ha qualcosa di diverso. Una bastionata che sa di classico, più in disparte rispetto alla cima principale delle Alpi. Meno ostentata nella sua grandiosità, eppure imponente. Più old school: una muraglia mitica dove occorre avere un gran fiato, una gran gamba, essere veloci per muoversi su terreni per lo più classici per migliaia di metri. Ai piedi di cotanta bellezza, in cima alla Valle Anzasca, Macugnaga: seicento anime che hanno deciso di vivere a 1.300 metri sotto la Est. Seicento anime di origini Walser che si tramandano miti e leggende spesso connessi alla grande montagna. Tra gli aneddoti più curiosi ricordo quello dei cosiddetti Gotwiarghini, in lingua walser buoni lavoratori. Sono baldanzosi gnomi alti circa due spanne. Quello che li rende speciali (oltre a essere gnomi, ben inteso) sono i piedi curiosamente palmati: non calzano scarpe, sono grandi camminatori, rapidissimi sui terreni scoscesi e i boschi della valle. Chi li ha incontrati giura che sul capo portino un inconfondibile cappello azzurro appuntito cosparso di campanelline, una per ogni anno d’età, e sono pure vecchissimi. A volte nei boschi capita di sentire uno strano tintinnio.
Agili, veloci, operosi, ingegnosi, trafficoni e molto ricchi, hanno da sempre aiutato le popolazioni degli alti pascoli, insegnando mestieri e ricompensando chi stava ai loro scherzi. Mentre alla guida mi perdo nel ricordare queste leggende, quasi non mi accorgo che arrivo in questo posto magico e un po’ fuori dal tempo di Macugnaga, rallento e lo supero. Poca gente in giro. Proseguo fin dove la strada termina, a Pecetto. alla partenza del piccolo impianto del Belvedere.
Ho appuntamento con Fabio. Sono qui per conoscere un vero local di questi posti. Uno che un po’ di questa leggenda e del carattere della sua terra se li porta a spasso per le montagne e con gli sci! Il Marinelli a 18 anni nel 1985, il Canalone della Solitudine 21 anni dopo, nel 2006. Fabio Iacchini arriva a tutto gas sul piazzale semideserto mentre sto fotografando le cime intorno illuminate da un sole ora più pallido. Non troppo alto di statura, capelli rasta, sguardo vispo, movenze agili, una stretta di mano e la voce che avevo sentito al telefono prende volto. Decidiamo che, visto che dobbiamo chiacchierare, tanto vale farlo nei suoi posti, una piccola salita con le pelli oltre il Belvedere verso la morena del Piccolo Fillar. Mi sono appena infilato uno scarpone che Yak è già pronto, eppure avrei giurato che un secondo prima era ancora in borghese. Primo tratto in funivia dove il sole lascia il posto a uno spesso velo che uniforma la luce e i profili del terreno. Si alza una bella arietta: caffè al bar e poi iniziamo a risalire una neve inox 18/10.
Chiacchieriamo, al grip delle pelli preferisco dopo poco quello dei coltelli mentre Fabio schizza su pattinando come un gatto. Presto lo recupero, ma il fiato per fargli delle domande è venuto decisamente meno. È rapidissimo: nella mia mente offuscata questa parola stamattina era già transitata, ma non riesco a connettere ora. Eppure… Il terreno spiana di nuovo, l’ipossia si allontana e torniamo a ciarlare: se gli spezzo il fiato con le parole magari mi salvo.
Yak, iniziamo come si facevano le interviste una volta, parlami un di te, della tua storia, sei un superlocal?
«Assolutamente di Macugnaga dal 1967! Arrivo da una famiglia di Guide alpine, da generazioni. Lo erano mio padre e i miei due nonni, uno dei quali aveva partecipato pure ai Giochi Olimpici negli anni ’20. Anche le donne della mia famiglia sono sempre state molto legate alla montagna: mia mamma e mia zia erano maestre di sci, così come innumerevoli cugini. Ho un fratello che fa altro nella vita, però anche lui ha partecipato per anni a gare di sci alpino. Insomma, in famiglia la montagna è sempre stata di casa: per il mestiere di mio papà ho sempre visto in giro moschettoni, corde, chiodi, scalette. Ho iniziato a fare sport sugli sci, poi sono arrivate le scarpette e la roccia e devo dire che quasi mi piaceva più scalare. In quegli anni uno vedeva Berhault ed Edlinger e provava a fare le stesse cose qui in valle, in Val Sesia o, appena avevamo una macchina, giù a Finale. Che stangate!».
Mi hai spiazzato. Pensavo che mi parlassi di sci, invece eccoci sulla roccia…
«Infatti sono diventato prima Guida (nel 1987) che Maestro di sci! Qui a Macugnaga con alcuni amici tra cui Bardes, Morandi e Meynet avevamo formato un bel gruppetto, abbiamo anche iniziato a chiodare le prime falesie. Nel 1987 c’è stata una gara di arrampicata qui a Macugnaga: vennero personaggi da rivista come Gallo, Ballerini, Mariacher, la Iovane e Raboutou. A noi si è aperto un mondo!».
Allora è vero ciò che ho sentito dire, che in montagna ti piace fare tutto: alpinista a 360°?
«Sì, eccome! Non ho una preferenza: mi piace sciare, arrampicare, a volte anche in solitaria. Mi piace allenarmi, fare gare di sci, lo skyrunning (è stato quattordicesimo ai mondiali del 1998)e compiere concatenamenti in montagna. Ho iniziato cercando di imitare i grandi come Boivin e Profit: ero andato perfino a una sua serata ed era stato come vedere Cristiano Ronaldo per un adolescente di oggi! Quelli erano dei veri matti se si pensa a certi concatenamenti magari con decolli con il deltaplano dalle cime: altro che l’estremo di cui si parla adesso! Era pazzesco. E così ho iniziato a fare salite anche da solo: per quelle devi essere in bolla mentalmente. Come per lo sci estremo: devi farlo solo quando te lo senti, non sempre. Se non sei al cento per cento mentalmente, puoi fare un sacco di altre cose. Anche imparare a suonare uno strumento, perché no?».
Però non tenermi sulle spine, parlami di alcune di queste salite in velocità qui sopra Macugnaga, sono curioso!
«Partendo da Pecetto di corsa e leggero sono salito al Triangolo della Jazzi per la via delle Guide (600 m, VI max), ho proseguito per cresta fino in punta (2.400 m di dislivello dalla partenza) e sceso a Pecetto dopo aver recuperato gli scarponi, che avevo preventivamente lasciato in cima: 4 ore e 15 minuti. Oppure un’altra volta ho salito la via Buscaini al Piccolo Fillar con qualche tiro di 6a, proseguendo per la cresta di Santa Caterina, una delle vie classiche più belle del Rosa per isolamento e posizione. Giunto in cima alla Nordend, ho proseguito per cresta calcando la cima della Dufour, della Zumstein e poi fino alla Capanna Margherita. Da lì sono rientrato a Macugnaga con un volo in parapendio biposto con il mio amico Ale Bardes. Forse è stato il primo decollo dal Rosa. Il tutto in poco più di otto ore».
E poi c’è sempre stato lo sci…
«Come ti dicevo è sempre stato di famiglia anche lo sci. Prima c’era lo spigolino, le gare. Poi lo skialp. Ho fatto anche la raspa, tutto ti aiuta ad aumentare il tuo bagaglio. Se ci pensi, le prime volte che vedevi gli svedesiqui sul Rosa scendere pendii in polvere con curvoni ad ampio raggio con quegli sci larghi, spesso pensavi ma butti via la discesa! Poi invece, se provi, capisci quanto è bello mollare gli sci nell’ovatta. Cresci ed evolvi solo se ti guardi in giro! Come per l’arrampicata, anche nello sci. Gente come Saudan o De Benedetti hanno spinto la disciplina proprio perché qualcuno li vedeva e allora decideva di imitarli. Di provarci. Sono fondamentali queste persone che ti stimolano e ci tengo a dire che per me è stato così anche nella famiglia delle Guide alpine».
È vero, l’innovazione di una disciplina passa attraverso quei personaggi che sanno ispirare le nuove generazioni. Ultimamente ritengo che lo sci in montagna aperta stia facendo dei bei passi in avanti. Ad esempio quest’anno è stato l’anno dello sci a 8.000 metri (k2, Lhotse, Cho Oyu). So che hai fatto molte spedizioni: secondo te cosa ci riserverà il futuro. L’estremo passa dalla quota?
«Secondo me sì, almeno per una parte dell’elite. Si cercherà di spostare il terreno di gioco. Cavolo, un 8.000 con gli sci a chi non piacerebbe? Sullo Shisha Pangma siamo arrivati in vetta, ma abbiamo sciato da 7.300 metri. Sul Laila nel 1995 invece abbiamo fatto la prima salita di una via che culminava con il filo della pinna e quest’anno ho visto che è stata scesa per la prima volta. Altri invece cercheranno di portare in montagna aperta uno stile di sci a grande velocità come il FWT. Vedi Jérémie Heitz!».
A proposito di Himalaya, qui c’è il Monte Rosa…
«Per la gente di qui è fondamentale questa montagna, anzi spesso è quasi ingombrante, ci limita un po’. È una montagna di fatica, non è il Bianco, è meno tecnica ma ha dislivello, gran misto, la Santa Caterina, la Brioschi, vie dove al giorno d’oggi devi essere veloce, uscirne in sei o sette ore. Con la mentalità di adesso questo versante del Rosa sa offrire molto anche per lo sci».
Le discese estreme sul Rosa, tu hai iniziato presto: a 18 anni il Marinelli. Raccontami di quel giorno. Che cosa rappresenta il Marinelli per gli sciatori liberi?
«1985. Altri anni, altre stagioni. Non so spiegarmelo: se uno guarda i grafici delle precipitazioni globali di un anno, sembra che cada sempre la stessa acqua ma lo fa in modo diverso ora, e in maniera meno regolare. A giugno avevo appena chiuso la discesa integrale del Canalone Tuckett riprendendo quella di Claudio Schranz del 1980. Mi sentivo pronto e avevo potuto risalire il Canalone a luglio. Ero con mio fratello e il nostro amico Vittoni. Saudan aveva tracciato la via nel ’69. Era difronte a me e volevo farlo. Ci pensavo sempre. Così sono andato. Ho iniziato la discesa da quel colletto a destra del Colle del Papa guardando la parete. Il Marinelli è il massimo per lo sci: si scia davvero lì dentro».
Un sacco di possibilità, dal freeride allo sci estremo. Sei una Guida esperta, consigliaci un itinerario di freeride, una gita classica con le pelli, un itinerario più impegnativo su questo lato del Monte Rosa.
«Il Monte Moro i giorni post nevicata offre bei pendii, ma bisogna sapere cogliere l’attimo e le giuste condizioni vista la sua esposizione. Con le pelli non posso che consigliare la Grober o il Pizzo Bianco per la primavera: due itinerari di respiro, di vero scialpinismo. Ambiente e dislivello. Alzando l’asticella delle difficoltà, assolutamente il Marinelli. Consiglio però di approcciarlo preparati, magari iniziando a farsi la gamba con salita e discesa del Canalone Tyndall: 2.000 e più metri mettono in bolla».
Un po’ di storia dello sci nel Monterosa, quali sono state secondo te le tappe più importanti sul versante di Macugnaga?
In sintesi: Saudan e il Marinelli, la linea di Schranz, proprio sulla Est dello Jägerhorn, la via dei Francesi di De Benedetti e la mia discesa della Solitudine».
A proposito della Francesi: che mi dici di quelle voci che narrano di un leggendario concatenamento dello svizzero Dominique Neuenschwander, la Francesi e poi il lenzuolo sospeso della Brioschi?
«Guarda non so dirti. In quegli anni la tenevo d’occhio anche io ma non mi è mai sembrato che ci fossero le giuste condizioni. È pazzesco, ma se lo si dice, deve averlo fatto. E forse la Francesi l’ha anche ripetuta il fortissimo Battistino Bonali della Val Camonica. Comunque la via dei Francesi rimane ancora un muro psicologico».
Sempre parlando di storia dello sci, ci sono i mostri sacri come Stefano De Benedetti, ma la storia passa anche attraverso un sacco di sciatori che hanno spinto questa disciplina in avanti. Sei certamente uno di questi a nostro modo di vedere: raccontaci la discesa in cui hai sentito che hai fatto un passo in avanti.
«Certamente è come hai detto. L’evoluzione passa da lì. Sul Rosa ci sono gli Enzio, Michele e Giuseppe, poi Gobbi, Gabbio, Schranz e altri. Ognuno nel suo periodo e alla sua maniera. Per quanto mi riguarda credo che la discesa più significativa sia stata il Canalone della Solitudine. Si chiama così perché l’aveva salito da solo Ettore Zapparoli, l’alpinista poeta, poi scomparso, sempre sulla Est del Rosa. Li a fianco infatti c’è la Cresta del Poeta, altro itinerario ormai poco ripreso. Nel gennaio del 1993 avevo fatto la prima salita invernale e capito che come terreno si sarebbe prestato allo sci. In quell’anno avevo sciato due o tre volte il Marinelli e mi sentivo pronto. Mi sono fatto portare dall’elicottero a 3.900 metri di quota e poi ho proseguito a piedi fin quasi a 4.300, sotto al seracco, per capire come erano le condizioni del pendio. Alle 9 sono sceso su neve perfetta, fredda sulle parti più ripide. In basso ho messo un mancorrente in una strettoia con neve più marcia, ma a posteriori lo avrei potuto evitare. È stato il momento giustoper me: non avevo neanche paura».
Mi sembra di capire che ritieni che la velocità sia sempre più importante, qual è lo stile che preferisci? E il terreno?
«È vero. Però non ho un terreno preferito. Mi piace tutto in montagna. Salire, scendere, preferisco i versanti aperti (così come le falesie non dietro alle piante), i canali e anche le gobbe. Mi piace perfino sciare con gli stretti da tutina».
Il tuo pendio perfetto, anche se forse conosco già la risposta?
«Il Marinelli, specie dalla Silbersattel, fai tante di quelle curve!».
Una linea che vorresti ancora sciare sul Rosa?
«Preferirei non… Però mi piacerebbe ripetere il Gervasutti al Tacul: è perfetto».
Per lo sci che cerchi, quali sono i tuoi materiali preferiti.
«Ho sempre sciato con tutto. Inizialmente su terreno ripido preferivo attacchi più strutturati rispetto ai pin, ma era solo questione di mentalità. Per gli sci da qualche stagione uso dei Black Crows Orb Freebird, le ultime versioni le trovo nettamente migliorate e più equilibrate. Istintive e con un buon controllo anche su nevi dure. Lo uso come sci unico».
Un viaggio che vorresti fare?
«Sono innamorato dell’Himalaya e del Pakistan. Sono stato anche sull’Ama Dablam, abbiamo tentato una via nuova sull’inviolata Ovest del Makalu, poi sono stato sullo Shisha Pangma e sul Broad Peak. Mi piace la quota. Cavolo, un 8.000 sugli sci se mi piacerebbe!».
Negli occhi di Yak si accende una fiamma. Proprio in questo istante siamo tornati dalla nostra pellata e ci fermiamo davanti al Rifugio Ghiacciai del Rosa da Mirko e Stefania. Non mi sono slacciato il casco che Yak è sgattaiolato dentro per un toast piccante. Giuro di aver sentito uno strano tintinnio quando si è tolto il suo cappello azzurro…
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Mountopia, ecco i vincitori
Obiettivo: percorrere in due giorni i 110 chilometri e 6.500 metri di dislivello della Grossglockner Ultra-Trail (GGUT) affiancati da Klaus Gösweiner, vincitore della gara nel 2015 e nel 2017. Un obiettivo ma anche un premio riservato ai vincitori del concorso Mountopia Grossglockner Ultra-Trail che Dynafit ha proposto a tutti gli appassionati di corsa in montagna. Al termine di una selezione impegnativa che ha visto 20 finalisti, sono stati scelti l’americana Kendra Joseph, la norvegese Linda Hildenes, lo spagnolo Pedro Alonso Tejero e l’italiano Giorgio Bezzi. Dynafit, in collaborazione con i partner GORE® e PrimaLoft® fornirà ai vincitori l’equipaggiamento necessario, dalla testa ai piedi, per affrontare con successo questo progetto. Il concorso internazionale Mountopia GGUT, presentato lo scorso 14 maggio, ha visto la candidatura di ben 270 atleti di 25 nazioni diverse. Tutti gli aspiranti vincitori sono stati valutati da una giuria tecnica composta da atleti ed esperti di sport in montagna, e dopo una prima scrematura, sono stati individuati 20 finalisti, equamente divisi tra 10 uomini e 10 donne. Successivamente il gruppo ha preso parte a una tracking battle sul sito web di Dynafit nella quale ognuno poteva dimostrare le proprie qualità e di avere la stoffa per affrontare una due giorni di ultra trail particolarmente impegnativa.
UNA SELEZIONE IMPEGNATIVA
Una sfida virtuale ma entusiasmante, durata tre settimane, durante le quali i 20 finalisti hanno lottato con tutte le proprie forze per realizzare il grande sogno e che li ha visti percorrere un totale di 364.120 metri di dislivello e 7.731 chilometri (una media di 18,5 km e 867 m di dislivello quotidiano a testa). Ad avere la meglio sono stati, per gli uomini, l’italiano Giorgio Bezzi e lo spagnolo Pedro Alonso Tejero e, tra le donne, l’americana Kendra Joseph e la norvegese Linda Hildenes. I quattro hanno fatto breccia nelle scelte della giuria grazie al loro impegno e al loro entusiasmo. «Mountopia è ciò che mi spinge ad alzarmi la mattina presto e uscire, e quando le gambe non ne possono più, la mia Mountopia mi sprona: ‘Dai, ancora qualche metro di dislivello’ – spiega lo spagnolo Pedro Alonso Tejero – e quando la forza mentale mi sta per abbandonare, Mountopia mi mostra la strada e tiene viva la motivazione per continuare a correre. Mountopia è un sogno. Un sogno utopistico, che ora per me è diventato realtà».
NEL CUORE DELL’AUSTRIA
Il percorso, con partenza e arrivo a Kaprun, nella regione di Pinzgau, segue in gran parte il giro Glocknerrunde, il periplo del Grossglockner, la montagna più alta dell'Austria con i suoi 3.798 metri. Un itinerario, immerso nel Parco Nazionale degli Alti Tauri, tecnicamente impegnativo e che richiede una grande resistenza fisica e mentale.
Per maggiori informazioni: www.mountopia.com
Pila capitale europea della mountain bike dal 26 al 28 luglio
Pila, località che d’estate si trasforma in paradiso della mountain bike, torna ad essere teatro di grandi manifestazioni agonistiche di respiro internazionale: la sua anima downhill verrà celebrata nei prossimi giorni con la quarta tappa del circuito IXS European Downhill Cup, che torna a Pila dopo cinque anni, mentre ad agosto il nuovo circuito XCO sarà sede del Campionato Europeo Giovanile UEC, quest’anno in categoria 13/16 anni.
L'iXS European Downhill Cup, istituito nel 2008, è diventato il circuito più importante dopo la Coppa del Mondo. Pila avrà l'onore di ospitare la quarta di sei tappe sul collaudato percorso già tracciato della Coppa del Mondo nel 2005, a partire da quest’estate intitolata a Corrado Herin, recentemente scomparso. Questa gara di Coppa Europa è già stata ospitata da Pila per cinque edizioni consecutive, dal 2010 al 2014, rendendo il bike park Pila Bikeland talmente apprezzato a livello europeo da essere tutt’ora meta per tanti agonisti e appassionati di downhill provenienti da diverse nazioni europee. Alla quarta tappa dell’iXS European Downhill Cup 2019 sono attesi circa 400 atleti provenienti da 25 nazioni diverse, che porteranno con sé i propri team di tecnici meccanici e accompagnatori, per un totale di presenze che supererà le 1.500 persone durante i giorni della manifestazione.
PROGRAMMA DELL’EVENTO
Venerdì 26 luglio
dalle 08.30 Apertura Ufficio Gare
09h00 – 18h00 Accredito Atleti (pausa pranzo 1-2 pm)
10h00-12h00 Ricognizione percorso a piedi
12h00-18h00 Allenamento atleti
Sabato 27 luglio
dalle 08.30 Apertura Ufficio Gare
09h00-12h00 Allenamento obbligatorio
12h00-13h00 Allenamento non stop
13h00-14h00 Allenamento Top 80 uomini-Top 10 Donne, Top 5 Masters and Top 5 U19 solo maschi
14h00-14h30 Pista chiusa
Dalle 14.30 Qualificazioni
Domenica 28 luglio
dalle 08.30 Apertura Ufficio Gare
08h00-10h00 Allenamento ufficiale
10h00-11h00 Allenamento non stop
11h00-12h00 Allenamento Top 80 uomini-Top 10 Donne, Top 5 Masters and Top 5 U19 solo maschi
12h00-12h30 Pista chiusa
Dalle 12.30 Finali Masters/U17/U19/Elite Uomini/Elite Donne
A seguire Super Finale Top 30 Elite Man
20 min. Dopo la gara cerimonia di premiazione
Incidente sul GVII, per Cassardo 450 metri di volo
A qualche ora di distanza da quelle terribili ore passate sul GVII aspettando l’elicottero dei soccorsi emergono i dettagli dell’incidente accaduto a Francesco Cassardo, che stava scendendo la montagna insieme a Cala Cimenti. A raccontarle lo stesso Cala in un post su Facebook: «Sono arrivato in cima al GVII, ero felicissimo, non riuscivo a crederci! Ho chiamato Erika per farle sapere che ce l'avevo fatta! Francesco non è arrivato in cima, gli mancavano 150 metri, non è riuscito a superare un crepaccio e poi era preoccupato per la discesa. Voleva conservare lucidità e forza. Quando ho incontrato Francesco durante la discesa con gli sci la parte più ripida non l'avevo ancora fatta. Quando sono arrivato in fondo gli ho scritto con l'Inreach che la discesa non era semplice e di fare la prima parte dalla cima che era leggermente meno ripida per provare, e che se non si sentiva a suo agio già lì, di togliere gli sci per la seconda parte. La montagna è molto ripida specialmente nella parte inferiore e la neve era molto dura, condizioni perfette per un buono sciatore ma che non permettono errori, lui ha fatto un errore proprio all'inizio della parte super ripida e ha iniziato a precipitare testa-piedi testa-piedi per 450 metri, saltando in velocità la terminale e fermandosi solo alla base della montagna Nella caduta ha perso tutto, zaino e vestiti, rimanendo solo con la maglietta intima strappata». Il momento più difficile? «Sicuramente la sera quando ho capito che l'elicottero non sarebbe arrivato e quindi ho dovuto lasciare solo Francesco per circa due ore, che stavo riscaldando col mio corpo, abbracciandolo, per andare a prendere i sacchi a pelo e il fornelletto in tenda. Ho seriamente temuto di trovarlo morto al mio ritorno, e invece respirava ancora. Per la seconda volta quel giorno mi ha stupito. Ha dimostrato una grande forza». Intanto la prima tac «non evidenzia nessun trauma alla colonna cervicale, nessun trauma all'addome e nessun versamento, nessun trauma e versamento al cervello. Ha una frattura ad un polso e forse al gomito. Forse anche qualche dito. Ci sono congelamenti alle dita delle mani e al naso».
Enrico Brizzi, partire adesso
Scusa Sarax, imprevisto con le ragazze, 15 minuti e ci sono.
Il messaggio aleggia azzurrino sullo schermo del mio smartphone da quattro soldi. Avevamo appuntamento mezz’ora fa, ma il telefono suona a vuoto. Sorrido sornione e digito:
Don’t worry, man. Io, nel frattempo, butto sotto la doccia il mio bimbo. A frappé!
È così che va per noi papà separati: quando sei coi piccoli, loro vengono prima di tutto. Non c’è santo che tenga. E se io ho vita abbastanza facile col mio Alberto che, durante l’intervista telefonica (presto trasformatasi in un fiume in piena), ascolta divertito, legge Topolino e gioca col Lego, Enrico, lo scrittore che c’è dall’altro capo del telefono, ha un ménage un po’ più movimentato nella sua casa di Rimini: insieme a lui, in questa ventosa giornata di fine giugno, ci sono le sue quattro figlie e la nipotina.
Enrico Brizzi, da che lo conosco e mi nutro delle sue pagine (e son quasi cinque lustri) è una meravigliosa scoperta. Come narratore, certo. Ma, soprattutto, come strepitoso essere umano. Autore da un milione di copie a poco meno di vent’anni - il suo Jack frusciante è uscito dal gruppo è stato il romanzo culto di almeno tre generazioni (una era la mia) - tradotto in più di venti lingue, oggetto di studio di cattedratici e laureandi, Enrico fa parte della storia della letteratura italiana. Brizzi non si è crogiolato sul successo degli esordi, ha saputo costantemente reinventarsi surfando tra i generi: dal noir precocissimo di Bastogne alla trilogia ucronica di Lorenzo Pellegrini, ambientata in un dopoguerra immaginario in cui l’Italia fascista ha rotto l’alleanza con Hitler ed è uscita vittoriosa (con tanto di impero coloniale intatto) dalla Seconda Guerra Mondiale; dai geniali saggi sportivi che raccontano le sue passioni, calcio e ciclismo su tutte (il recente Nulla al mondo di più bello, sulle stagioni calcistiche a cavallo dell’armistizio, è appena uscito per i tipi di Laterza; col glorioso Di furore e lealtà, biografia del campione Vincenzo Nibali, ha vinto il Premio bancarella Sport 2015) all’ultimo strepitoso romanzo sulla Bologna dei primi Novanta divisa tra curva, droghe, ribellione, punk e l’immancabile struggente amore adolescenziale. Tu che sei di me la miglior partechiude il cerchio aperto da Jack Frusciantequasi un quarto di secolo fa (nel libro compaiono sia Alex che Martino, protagonista e antieroe del fortunato proemio brizziano) in un poderoso crescendo di chitarre distorte e colpi sotto la cintura. In mezzo a questo florilegio di pagine da antologia, c’è un punto di svolta. Una fase sorprendente della produzione letteraria dell’artista che entusiasma e continua a spiazzare: dal 2004 Enrico Brizzi scrive di viaggi a piedi. Insieme ai suoi buoni cugini, i pellegrini con cui ha fondato il gruppo degli Psicoatleti (perché è il polpaccio che spinge, ma è la testa che ti porta a fine tappa, c’è poco da fare…), ha compiuto alcuni straordinari cammini: dal Tirreno all’Adriatico, da Canterbury a Roma lungo il percorso della Via Francigena e poi da Roma fino a Gerusalemme. E ancora: ha percorso l’Italia da Nord a Sud durante i festeggiamenti per il centocinquantesimo anniversario del tricolore, ha camminato da Torino a Finisterre, calpestato ogni singolo miglio del Vallo di Adriano e, di recente, calcato palmo a palmo i terreni carichi di storia delle Residenze Reali Sabaude col patrocinio dell’omonimo consorzio.
Da ognuno di questi viaggi è nato (o sta per nascere) un libro, un racconto, una entusiasmante giustapposizione di parole, pagine, passi, immagini, musica ed emozioni. E pensare che tutto è nato quando l’autore era stanco di scrivere. Enrico me lo racconta appeso alla cornetta mentre il vento di Rimini sferza il ricevitore. Io e Alberto ascoltiamo rapiti. L’anno di svolta, s’è detto, è il 2004, ma in realtà il richiamo della strada e dei sentieri viene da molto più lontano. Il primo grande viaggio risale a quando Enrico aveva vent’anni: da Bologna a Cervia, cinque giorni in autonomia tra le colline: nel cuore quella voglia matta di libertà germinata da bambino, ai piedi d’una montagna povera e generosa. E maturata con pazienza nei campi scout. Enrico parte con un amico, Giovanni, destinato anch’egli a guadagnarsi il pane battendo sui tasti (Giovanni Cattabriga, a.k.a. Wu Ming 2, membro fondatore del collettivo di scrittori Wu Ming). È un viaggio fatto di stupore e ingenuità: «Ci portammo dietro un’ascia. Si sa mai, magari si fan brutti incontri, pensavamo…». Gli scappa da ghignare. «Oh, hai in mente quanto pesa un’ascia? Mai più nella vita! Però finché non prendi due misure non impari nulla. È là che abbiam cominciato a capire cosa significa andare a piedi». La conferma della meraviglia arriva al ritorno, in autobus, verso casa: le colline che sembravano infinite scorrono veloci via dal finestrino. I due giovani viandanti riconoscono i bivacchi dove hanno passato le notti avvolti in una coperta di stelle e intuiscono che il mondo, per essere conosciuto davvero, va misurato un passo alla volta.
La famiglia di Brizzi ha radici profonde, che fan sognare e profumano d’avventure salgariane. «La mia gente ha campato di farina di castagne praticamente per mille anni. I miei zii, bisnonni e trisavoli, fin dal primo momento che è stato possibile imbarcarsi su una nave e solcare l’Oceano, per scansar la fame han preso a imbarcarsi. Partivano: si faceva la naja e poi via, da Genova verso il Nuovo Mondo, a cercar fortuna. Le loro mani forti e ingombre di calli hanno costruito le ferrovie del Missouri. Son tornati cinquantenni con le tasche piene e han preso mogli giovani, nate molti anni dopo la loro partenza». Enrico a camminare è avvezzo fin dalla culla. «La montagna dove son cresciuto, dove mamma ci portava a fare le prime escursioni, è la stessa che Francesco Guccini ha scelto come casa. Ho imparato a masticare dislivello perché mamma ci diceva:se volete la merenda, bambini, bisogna arrivare al rifugio!e noi dietro, senza paura. S’impara così ad andare». E sta tirando su le sue ragazze con lo stesso spirito con cui è diventato grande: «La prima notte in tenda, in quota, le più grandi l’han fatta che avevano neanche sei anni e ancora ne parlano come di una delle più belle esperienze della loro vita. Le ho portate sul Corno alle Scale, la montagna classica di noi bolognesi».
A far sul serio coi viaggi a piedi, però, Brizzi inizia in quel mitico 2004, con la Tirreno-Adriatico. Quella traversata ormai mitica, da cui scaturisce il romanzo Nessuno lo saprà, coincide con un turning point della vita dello scrittore. È l’autentico momento di svolta. A dieci anni esatti dall’inizio della sua avventura editoriale, per la prima volta, Enrico si ritrova a provare una sensazione mai sperimentata prima: «Stavo scrivendo una storia per Mondadori e non provavo nessuna emozione. Mi pareva di scrivere semplicemente perché dovevo ottemperare a un contratto. Era scioccante: è come accorgersi, di punto in bianco, che la donna con cui stai da una vita non prova più niente per te». La scrittura, che prima era piacere puro e autentico, è di colpo diventata fatica. È allora che Enrico decide di prendere una pausa dalla tastiera. Di staccare andando a fare qualcosa che ama da sempre: perdersi per le montagne con uno zaino in spalla. Dopo la Bologna-Cervia ci sono stati altri viaggi, sia con Giovanni che con altri ex compagni scout del Bologna 16. Ma è tempo di alzare l’asticella. E allora perché non realizzare quel sogno tante volte immaginato in classe, durante i giorni più noiosi, fissando la cartina d’Italia? Attraversare lo Stivale nel senso stretto, proprio come gli eroici ciclisti della Tirreno-Adriatica tante volte acclamati per le strade dell’infanzia. Ma a piedi.
Il viaggio dura quasi tre settimane e ad accompagnare Enrico ci sono suo fratello e altri amici, che fanno piccoli pezzi di strada con lui, alternandosi lungo il cammino. L’unica tappa prefissata è l’approdo a Perugia da un sodale bolognese trasferitosi colà. Ed Enrico ci sbarca quando è tempo, senza avvisare, seguendo la poesia dei passi. L’amico riparte con lui dopo una cena luculliana e insieme raggiungono l’Adriatico. Quel viaggio è seminale. Per la scrittura, per il ritrovamento della pace interiore e della nuova direzione da prendere. Quel viaggio non sarà l’ultimo. Soltanto il primo di moltissimi. L’asticella prende a volare, tanta è la fretta che ha d’essere alzata ancora, e ancora. Nel 2006 Brizzi parte da Canterbury alla volta di Roma, proprio come un pellegrino medievale, e il racconto di quell’avventura inestimabile diventa un reportage a puntate per L’Espresso. Due anni più tardi il sogno di proseguire il cammino, proprio come facevano i fratelli pellegrini del passato, diventa realtà, e i buoni cugini partono da Roma per raggiungere Gerusalemme. È uno di quei voli pindarici che, solo a pensarli, fanno battere il cuore e tremare i polsi. E di solito, quando racconti l’itinerario c’è sempre qualcuno che dice: «Sì, ma c’è l’acqua in mezzo». Enrico risponde sorridendo: «C’era anche nel 1200… e noi l’abbiamo attraversata come si faceva allora».
Da Roma a Brindisi a piedi: niente Via Appia che è troppo trafficata, ma dritti sui monti d’Abruzzo, poi Molise, Isernia, Benevento e giù fino al mare, in mezzo alla natura beatamente desolata. A Taranto c’è un amico che lavora per la Marina Militare, e per passione ha riarmato un relitto alla vecchia maniera: niente radio, niente tender, niente giubbotti di salvataggio. A questo punto dovrebbe comparire la scritta lampeggiante in sovrimpressione do not try this at home, ma per i buoni cugini quel legno è quello giusto. Peccato che il nocchiero, a pochi giorni dalla partenza, sia richiamato dalla Madre Patria ai propri doveri militari, e di colpo la nave si ritrova senza capitano. A quel punto sì che la storia prende un’autentica piega salgariana: Brizzi e i compadres girano ogni bettola del porto finché non s’imbattono in Nicola, un marinaio d’esperienza, con l’accento di Lino Banfi e il volto di Ernest Hemingway (C’hai presente la foto di Hem sui Meridiani Mondadori? Uguale!), folle a tal punto da imbarcarsi nell’avventura. È lui che li traghetta di là del mare stretto. È grazie a lui se i pellegrini approdano festanti a Gerusalemme dopo più di due mesi dalla partenza. Quel viaggio è una consacrazione. Enrico e soci decidono di organizzarsi e fondano la Società di Psicoatletica (che a oggi conta all’incirca ottanta membri) e immaginano e percorrono itinerari sempre più ambiziosi:
Nel 2010, anno del centocinquantenario dell’Unità Nazionale, viaggiano dalla Vetta d’Italia fino a Capo Passero, marciando letteralmente lo Stivale da Nord a Sud. Nel 2012 viene varato il nuovo circuito per camminatori denominato Gran Giro Psicoatletico d’Italia: i buoni cugini ne percorrono la prima tranche calpestando i sentieri del Giro delle Tre Venezie: da Venezia a Riva del Garda via Trieste e Trento. Nel 2014 ripartono da Limone sul Garda alla volta di Torino attraverso Lombardia, Canton Ticino, Piemonte e Valle d’Aosta. Nel 2016 è la volta del cammino tanto rimandato, quello di Santiago. Enrico decide di percorrerlo ancora una volta sulle orme dei pellegrini medievali e parte da Torino per approdare, dopo milioni di passi, a Finisterre. Da questa magnifica classica scaturisce un reportage in sedici puntate per il sito della Gazzetta e, soprattutto, il libro Il sogno del drago, entusiasmante volume inaugurale della collana di Ponte alle Grazie in collaborazione col CAI, magnificamente vergato in seconda persona. Il resto, come si suol dire, è storia.
Enrico e i buoni cugini non si sono fermati, e continuano a camminare con il ritmo costante di due viaggi all’anno. Uno in primavera e uno alla fine dell’estate. C’è chi, camminando, cambia vita: Maurizio Manfredi - per tutti, Manfro - decide viaggiando con Brizzi e soci che l’esistenza è troppo breve per negarsi la felicità. E molla un lavoro sicuro per realizzare il proprio sogno: diventare tatuatore. Oggi Manfro vive d’arte e inchiostro ed è, ça va sans dire, il tatuatore ufficiale degli Psicoatleti. Un bel po’ di quell’inchiostro decora il corpo snello e muscolare di Enrico: «Han fatto il conto le ragazze qualche giorno fa qui al mare. Ne ho quindici, pare. E, a parte i nomi delle mie figlie e un vecchio tributo d’onore alla mia squadra del cuore, son tutti ricordi dei nostri grandi viaggi».
Prima di congedarmi annoto le ultime imprese per sacrosanto dovere di cronaca: il Grand Tour del Vallo di Adriano, la risalita del Reno che sta per cominciare in Olanda, e lo splendido tracciato patrocinato dal Consorzio delle Residenze Reali Sabaude: un giro di 300 chilometri circa, delimitato a nord dal Castello di Aglié e a Sud da quello di Govone. Enrico e i buoni cugini lo hanno percorso in nove giorni, terminando la marcia nel cuore di Asti. La telefonata volge al termine: è durata un paio d’ore ma a me e Alberto sembra d’aver viaggiato per un milione di miglia. La stretta al cuore che proviamo sa d’invidia e di promesse d’avventura.
«Papà, quando sarò più grande andiamo anche noi, vero?» dice il mio bimbo.
«Dove, amore? Dove andiamo?» domando io.
«Dappertutto» risponde lui.
E davvero non c’è chiosa più bella. È questo l’effetto che fan le parole e il ricordo delle impronte lasciate da Enrico Brizzi sui sentieri di mezzo mondo: fan voglia di partire. Di non aspettare le ferie e neppure la primavera. Partire domani, anzi no. Partire e basta. Partire adesso.
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Royal Ultra Sky Marathon a Cristian Minoggio e Ragna Debats
Hanno corso a fil di cielo del Gran Paradiso i circa 430 skyrunner della Royal Ultra Sky Marathon - 7 colli, 55 km di lunghezza e 4141 metri di dislivello positivo - e della Roc Skyrace - 31 km con 2000 metri di dislivello. Una giornata da incorniciare, uno spot per la natura selvaggia del Parco Nazionale Gran Paradiso, che ben ha compreso la valenza dei grandi eventi sportivi outdoor, per comunicare e promuovere il territorio e la natura della Valle Orco e del PNGP. Dopo il Giro d’Italia, arrivato per la prima volta nella sua storia, a maggio al lago Serrù, è toccato alla Royal, tappa del circuito mondiale Migu Run Skyrunner World Series, come nel 2017. Dall’idea dell’organizzatore Stefano Roletti nel 2008, data della prima edizione, si è sviluppata quella che non è solo una corsa in montagna, una skyrace come è più giusto chiamarla secondo la sua codificazione sportiva, ma un viaggio in uno spettacolare ambiente naturali.
«Eravamo in 36 nella prima edizione del 2008 e chi l’avrebbe mai detto che nel 2019 tutto il mondo dello skyrunning sarebbe venuto a trovarci qui a Ceresole Reale – commenta Stefano Roletti, organizzatore anima e cuore con Paola Catuzzo della Royal – La promozione di questo territorio della Valle Orco e del Parco Nazionale Gran Paradiso, dove la natura è ancora più forte dell’uomo, si fa anche con lo sport, con una gara come questa, dove si corre tra pietraie, neve, creste affilate, laghi e prati in fiore, dove tutti coloro che arrivano al traguardo sono vincitori come i primi classificati, grandi campioni dello skyrunning internazionale. Ora ho 2 anni per riprendermi da questa edizione e appuntamento a tutti per il 2021».
Partenza e prima salita verso il colle dei Becchi, innevato nella seconda parte, difficile soprattutto in discesa, tant’è che l’organizzazione ha fatto calzare i micro-ramponi ai concorrenti. Parte a bomba lo spagnolo Pere Aurell, uno dei favoriti della vigilia, che così conquista il trofeo messo in palio dalla famiglia Vittone per il primo concorrente che passava all’Alpe Foges, punto in cui i due percorsi si separavano. Per la Roc Skyrace iniziava la lunga discesa verso il traguardo di Ceresole, per la Royal Skyrace si era solo all’inizio e si risaliva verso i 3002 metri del Colle della Porta, il punto più alto del percorso. Al colle del Nivolet transitava in testa Cristian Minoggio tallonato dal francese Gautier Airiau, con il favorito giapponese Ruy Ueda in terza posizione. Praticamente poco cambiava per le posizioni del podio, visto che la risalita al Colle delle Rocce Bianche, la discesa al lago Serrù, la successiva risalita al rifugio Jervis e al colle del Nel, prima della passerella finale sul lungo lago e l’arrivo al PalaMila, lascia posizioni e distacchi quasi immutati.
Vittoria maschile in 6h50’04” per Cristian Minoggio, cannobbino portacolori del team Serim del presidente Giorgio Pesenti, che nell’ultimo mese ha infilato una serie di successi da brividi, dalla Chaberton Skyrace, alla francese Pierra Menta Etè, alla Bettelmatt Skyrace della Val Formazza. Un personaggio, disponibile e simpatico con tutti, con un atteggiamento quasi scanzonato, una formidabile macchina da corsa quando indossa un pettorale e i sentieri salgono e soprattutto scendono. Onore comunque a chi lo ha seguito sul podio: il francese Gautier Airiau 2° in 6h51’01 e il giapponese Ruy Ueda 3° in 6h56’49”. Completano la top ten nell’ordine il tedesco Hannes Namberger, il britannico Andy Symonds, Daniel Jung, il tedesco Andre Purchke, lo slovacco Peter Frano, lo spagnolo Pere Aurell e il ceco Tomas Macecek.
E’ in testa al circuito Skyrunner World Series, era la favorita e ha vinto, la fortissima olandese Ragna Debats del Team Merrel, tra l’altro con il nuovo record del percorso di 7h52’40”, seguita sul podio dalla sorpresa francese Myriam Guillot Boisset seconda in 8h14’53” e dalla basca Oihana Azkorbebeitia terza in 8h45’35”. Anche qui top ten di valore internazionale nell’ordine con Antoniya Grigorova, Silvia Puigarnau, Roser Espanol Bada, Takako Takamura, Angela Castello e le azzurre Cecilia Pedroni e Monica Dalmasso.
Nella Roc Skyrace maschile successo di Luca Arrigoni del team Serim in 3h20’39”, 2° Marco Aimo Boot in 3h34’37”, che era stato il vincitore della prima edizione della Royal, 3° Mattia Colella in 3h35’57”, 4° Alfonso Bracco e 5° lo spagnolo Roberto Sancho Martinez.
Al femminile si impone come nel 2017 Cecilia Basso dell’Orecchiella Garfagnana, che tra l’altro è la campionessa mondiale giovanile di skyrunning in carica, in 4h04’56”, seconda Lorena Casse in 4h30’25”, terza Agnese Sobrero in 5h06’18”, quarta Susan Ostano e quinta la francese Sabrina Bryant.
Bagolino Alpin Run, spettacolo per la decima edizione
Tutto ok per la decima edizione della Bagolino Alpin Run. 352 gli iscritti alla gara competitiva (di 18 km) e 60 alla non competitiva (di 9 km) al via dal parco Pineta nella gara organizzata dall’Avis di Bagolino e dalla SSD Bagolino
Ed è stato spettacolo puro sul percorso di 18,5 km, modificato rispetto alle passate edizioni a causa della tempesta Vaia di fine ottobre che ha provocato la caduta di parecchi alberi nel territorio bagosso. Sfida ancora più impegnativa dunque per tutti i partecipanti che hanno affrontato tre salite e tre discese per un dislivello positivo di 1.100 metri.
La gara è stata vinta dal campione ruandese Jean Baptiste Simukeka, in 1 ora 29 minuti e 15 secondi, precedendo nell’ordine Dennis Bosire Kiyaka e il campione del mondo lunghe distanze Alessandro Rambaldini. A seguire Roberto Cassol, Italo Cassol, Andrea Bottarelli, Davide Danesi, Marco Maini, Davide Bottarelli e Cristian Badini. Gara maschile combattutissima che si è decisa sull’ultima salita dove Simukeka ha mantenuto la posizione, mentre Kiyaka recuperava dalla quarta posizione alla seconda. Rambaldini cedeva all’ultimo chilometro di salita, ma manteneva la terza posizione. Da segnalare la bella prestazione dei gemelli Cassol e l’arrivo al traguardo del veterano Andrea Pini, classe 1939.
Al femminile la vittoria è andata a Ana Nanu che ha tagliato il traguardo in 1 ora 57 minuti e 27 secondi. Alle sue spalle Nives Carobbio,Lara Bonora, Roberta Illini e Giovanna Cavalli. La gara non è mai stata in discussione, con la Nanu in testa fin dalle prime battute. La corsa, valeva anche come penultima prova del Grand Prix di Corsa in montagna Valle Sabbia ed Alto Garda, circuito di gare che comprende anche la Gamba Buna Trail, la Pompegnino Mountain Running, la Vai Canyon Race, La Ivars Tre Campanili Half Marathon, e la Maratona delle Frazioni.
Incidente sul Gasherbrum VII: seconda notte in quota per Francesco Cassardo, questa mattina è stato evacuato in elicottero
AGGIORNAMENTO 22 LUGLIO ORE 8.20: un elicottero partito alle 5.30 di questa mattina, ora locale, da Islamabad ha raggiunto ed evacuato verso l'ospedale Francesco Cassardo che, contrariamente a quanto inizialmente deciso, era stato trasportato con la slitta al C1 nella notte.
«Sembra di vivere dentro un incubo e non trovare la strada per uscire». Scriveva così ieri Marco Confortola dal Pakistan a riassumere in modo molto diretto e sconfortante lo stato dell’arte delle operazioni di soccorso a Francesco Cassardo, caduta durante la discesa dal Gasherbrum VII, dove si trovava insieme a Cala Cimenti. L’incidente è avvenuto sabato e Cassardo, precipitato per 500 metri e gravemente ferito, ha trascorso una prima notte in quota, assistito da Cala Cimenti, rientrato al C1 per recuperare tutto il necessario per passare la notte a quota 6.300 metri. Più in basso Marco Confortola è stato tutto il giorno in attesa di un elicottero mai arrivato per problemi burocratici e assicurativi, così una squadra di soccorso di cui fanno parte anche Denis Urubko e Don Bowie si è messa in marcia e ha raggiunto i due italiani. Cassardo. «I ragazzi hanno immobilizzato Francesco, costruito una sorta di slitta e delicatamente lo hanno trasportato fino al posto in cui Cala aveva lasciato la tenda prima di scalare il GVII. Trasportare Francesco al buio è pericoloso, hanno deciso così di passare la notte lì e attendere quel tanto desiderato elicottero che possa trasportare Francesco nell'ospedale più vicino» scrive la moglie di Cala, Erika Siffredi, sulla pagina Facebook Cala Cimenti Cmenexperience. Si spera che domani l’elicottero possa partire, ma l’amarezza per un giorno sprecato, con le condizioni giuste per volare a quella quota, traspare in tutta la sua drammaticità dallo sfogo di Marco Confortola: «Dopo aver passato tutta la notte sveglio in contatto con il mio staff, Agostino da Polenza, la parte politica italiana in Pakistan mi sono trovato di fronte a muri invalicabili - burocrazia - problemi assicurativi - organizzazione dei voli - altri problemi di soccorsi al k2 al Broad Peak e tutt’ora ancora di trovare la soluzione per far andare in volo questo benedetto elicottero. Nel frattempo Denis, Don, Jarek e Januscius sono saliti verso il campo... in questi casi velocemente ognuno dà il massimo per le sue competenze-conoscenze per portare a casa il risultato ma oggi sono tremendamente deluso della macchina del soccorso qui Pakistan. Adesso nuovamente con Agostino Da Polenza stiamo cercando una nuova soluzione affinché domani mattina l’elicottero vada in volo e mi porti ad imbarcare il nostro amico per portarlo al più presto in ospedale. In 20 anni di elisoccorso non mi sono mai sentito così, avere un intervento da fare urgente, meteo ok, vento ok, visibilità perfetta aspettare in piazzola un elicottero che oggi non è mai arrivato e il mio pensiero è e rimane solo uno ‘dobbiamo salvarlo’».
DoloMyths Run Skyrace da record
Sarà ricordata negli annali la ventiduesima DoloMyths Run Skyrace della Val di Fassa, perché sono stati infranti parecchi i record, tranne quello assoluto maschile. Nell’albo d’oro della sfida inserita nelle Golden Trail World Series piombano con veemenza il ventunenne trentino di Vermiglio Davide Magnini, che diventa così il più giovane vincitore della storia di questa competizione, e la svizzera Judith Wyder, capace di infrangere il primato femminile e di realizzare una prestazione eccezionale in discesa. Quattro primati su sei sono dunque stati sbriciolati: tutti quelli femminili (miglior tempo in salita, in discesa e assoluto) e la prestazione più veloce fino al Piz Boè da parte del vincitore.
Due protagonisti nuovi, dunque, per l’evento che ha chiuso il festival di corsa in quota di Canazei e delle valli ladine, con Magnini subito all’attacco e interprete di una gara in solitaria e la Wyder autrice di una strepitosa rimonta in discesa, che l’ha portata sul gradino più alto del podio, entrambi alfieri del team Salomon. Sul podio assieme a Magnini, che ha concluso i 22 km del tracciato con 3.500 metri di dislivello stabilendo il tempo di 2h00'28”, di soli 17 secondi superiore a quello che fece registrare Kilian Jornet Burgada nel 2013, anche il valdostano del Team La Sportiva Nadir Maguet e il sorprendente marocchino Elhousine Elazzaoui del team Tornado, giunti appaiati dopo 2’54”.
La svizzera di Berna Judith Wyder ha invece terminato la propria fatica con il tempo strepitoso di 2h18’51”, di ben 7 minuti e 6 secondi inferiore rispetto a quello che fece registrare la statunitense Megan Kimmel nel 2015. Sono scese sotto il precedente primato anche la seconda classificata, la neozelandese Ruth Charlotte Croft (a 3’04” dalla vincitrice) e la svizzera Maude Mathys (a 3’16”), che si è comunque ritagliata un posto nella storia visto che in cima al Piz Boè è transitata per prima con il tempo di 1h25’41”, di ben 3 minuti e 49 secondi migliore rispetto a quello stabilito del 2015 della spagnola Laura Orguè, stavolta assente.
Un’edizione da incorniciare, dunque, per la DoloMyths Run, che da due stagioni si presenta con un nuovo format, e che ha visto in gara mille iscritti in rappresentanza di 45 nazioni, un dato quest’ultimo da far invidia a tanti Campionati Mondiali di specialità.
Per Davide Magnini questa vittoria rappresenta la consacrazione definitiva nel panorama delle skyrace e delle corse in quota. Già vittorioso in più occasioni in questo 2019, ultima in ordine di tempo venerdì nel Vertical Crepa Neigra sempre a Canazei, è il nuovo fenomeno di questo sport. Ha stracciato tutti gli avversari, compresi i leader del circuito, adottando l’unica tattica che aveva a disposizione. Attaccare da subito in salita per riuscire a gestire il vantaggio in discesa, considerato il fatto che la sua caviglia non era al meglio. E così è stato. Già dopo il Lupo Bianco vantava una decina di secondi di scarto sui rivali. A Passo Pordoi il trentino è transitato con 1’14” di margine su un terzetto composto dal norvegese Stian Overgaard Aarvik, dal valdostano Nadir Maguet e dal marocchino Elhousine Elazzaoui, più staccati gli altri 5 avversari. Magnini non ha però smesso di aumentare le frequenze e a Forcella Pordoi è giunto dopo 1h14’55”, con 2’8” di gap su Aarvik e Elazzaoui, 2’14” su Maguet e 2’35” sul peruviano Josè Manuel Quispe Mallma. Si sale ancora verso il punto più alto della gara, i 3.152 metri del Piz Boè, dove il talento trentino giunge dopo 1h14’55”, una prestazione che è risultata di 1 minuto e 5 secondi inferiore a quella di Kilian (record di salita). A 2 minuti e 23 arriva il peruviano Ouispe Mallma, quindi Aarvik a 2’33”, Elazzaoui a 2’35”, Maguet a 2’39”.
Nell’interminabile e tecnica discesa che dal Piz Boè porta al traguardo di Canazei attraverso la Val Lasties e Pian Schiavaneis, Magnini gestisce alla grande il vantaggio sul terreno che non ama, perdendo nel primo tratto, ma allungando nel finale. Vince con autorevolezza, sfiorando addirittura un altro record dopo quello sul Piz Boè. Sul traguardo precede di 2’25” Nadir Maguet e Elhousine Elazzaoui, di 2’36” lo spagnolo Jan Margarit Sole, di 2’47” il polacco Bart Przedwojewski, di 3’48” il norvegese Stian Angermund Vik, di 4’32” l’inglese Finlay Wild e di 4’35” il peruviano Quispe Mallma che nel primo tratto in discesa aveva imboccato un sentiero sbagliato.
Tattica azzeccata anche per la vincitrice della gara femminile Judith Wyder, con un passato importante nella corsa orientamento, che ha sfruttato al meglio la propria abilità in discesa. La Wyder fino al Biz Boè ha lasciato sfogare la connazionale di Ollon Maude Mathys, giunta con un tempo da record sul punto più alto della gara, per poi lasciar correre le gambe come una cavalletta in Val Lasties e fino al traguardo di Canazei, dove ha concluso con un altro primato (2h18’51”). Seconda a 3’04” è arrivata la neozelandese Ruth Charlotte Croft, sempre terza nella prima fase in salita e poi capace di superare la Mathys in difficoltà nella seconda parte della gara, giunta a 3’16” dalla vincitrice. Quarta a 12’11 la francese Elise Poncet, quindi la prima delle italiane, la bormina Elisa Desco che ha accusato un ritardo di 13’09”. Seguono l’altra francese Anais Sabriè e la veneziana Silvia Rampazzo a 17’52”.












