WESC 1991

«Iniziò entrando nel canale con curve saltate decise e pulite, con la neve che si sollevava accanto a lui. Gestiva gli sci con una precisione estrema, in coordinazione perfetta con il movimento delle braccia e dei bastoncini. Dove la maggior parte degli sciatori faceva una curva soltanto, derapando, Coombs ne faceva tre. Non attendeva, non aveva dubbi o esitazioni. Era come un torero nell’arena che invece di un animale teneva a bada un’intera montagna. Si spostò poi a sinistra, uscendo dal canale principale e superando la parte più esposta, costellata di rocce. Una caduta qui sarebbe stata fatale. Se cadi, muori. Il tempo rallentò nella sua mente. Ogni roccia gli si avvicinava al rallentatore, permettendogli di girargli attorno con precisione, senza mai fermarsi».

Questo brano è tratto dal libro Sulle tracce di Coomba di Robert Cocuzzo. Siamo al WESC, il primo Mondiale di sci estremo, in Alaska, nel 1991. Uno sconosciuto di nome Doug Coombs arriva a sfidare tutti i più forti sciatori di ripido dell'epoca. E sbaraglia la concorrenza su pendii dove ci sono stati anche ruzzoloni epici come quello di Garrett Bartelt con 17 capovolte.

https://youtu.be/2o8_61pHLzQ

Su Skialper 129 di aprile-maggio pubblichiamo un ampio articolo sulle performance di Coomba al primo WESC, con le fotografie dell'epoca del fotografo Wade McKoy. Se vuoi riceverlo direttamente a casa tua puoi sempre abbonarti.

Se vuoi conoscere l'incredibile storia di Doug Coombs, puoi comprare il libro pubblicato dalla nostra casa editrice.


Quattro posti nel Rookie Team Hoka One One

Rookie Team, l’avventura continua. Il progetto giovani di Hoka One One è pronto a ripartire con il passaggio di testimone da Marco De Gasperi a Franco Collé.
La selezione è riservata ai ragazzi tra i 18 e 22 anni. Per partecipare bisogna compilare il format online fino al 15 maggio.

Entro la fine di maggio saranno sciolte le riserve e resi noti i nomi dei 4 fortunati (ragazzi o ragazze) che entreranno a far parte del team 2020 affiancando i ragazzi già presenti nella passata stagione. Partecipazione a eventi mitici, team building, raduni, materiale tecnico di altissimo livello e non solo tra i plus. Un vero progetto per correre e crescere insieme. «I giovani sono il futuro - ha detto Franco Collé, ma spesso si approcciano al mondo dell’outdoor running in solitaria, da autodidatti. Ho quindi cercato di mettermi al loro posto e capire di cosa avessero bisogno perché questa esperienza possa essere proficua da ogni punto di vista. Oltre alla fornitura di materiale tecnico, faremo conoscere loro alcuni campioni del Team Hoka One One, con i quali potranno allenarsi e confrontarsi. Se il perdurare della pandemia non ci permetterà di portarli a delle gare clou, punteremo a dei meeting nei quali fare accrescere lo spirito di Team. Insomma, mi piacerebbe farli migliorare come atleti e come persone».


Bob Crowley nuovo presidente ITRA

Cambio al vertice dell’ITRA (International Trail Running Association) che ha annunciato lo scorso 14 aprile l'elezione dello statunitense Bob Crowley come presidente e la nomina di José Carlos Santos come direttore operativo. Bob, residente in California, è stato eletto all'unanimità presidente di ITRA dallo Steering Commettee dell'organizzazione. Sostituisce Michel Poletti, che ha rassegnato le dimissioni da presidente dopo aver co-fondato e guidato l'organizzazione per sei anni e mezzo. Bob è stato eletto nel comitato direttivo di ITRA nel 2019 e successivamente eletto nel comitato esecutivo. Ha iniziato a correre nel 1990. Nei due decenni successivi è stato finisher di oltre 100 gare di ultra distanza, tra cui Western States 100 Mile Endurance Run, Hardrock 100 negli Stati Uniti e Tor des Géants.

Bob è stato uno dei primi membri del Trail Animals Running Club (TARC) nel New England, USA, nel 1996 e da allora fa parte del comitato direttivo. Il numero dei membri iscritti è attualmente di circa 6.000 atleti e il Club organizza 12 eventi di trail running che coinvolgono migliaia di corridori ogni anno. Ha iniziato la sua carriera come imprenditore nel settore della televisione via cavo e successivamente nelle software house.

Il portoghese José Carlos Santos è stato nominato direttore operativo di ITRA e ne guiderà il team, oltre che seguire il lavoro quotidiano. José è uno dei membri fondatore di ITRA, oltre che membro del comitato esecutivo e del comitato direttivo sin dalla sua istituzione, nel 2013. José ha iniziato a correre nel 1995, partecipando presto a gare di ultra distanza come l'Ultra Trail du Mont Blanc. Santos è anche uno dei fondatori dell'Associazione portoghese di trail running (ATRP), nata nel 2012. Ha inoltre guidato la nazionale portoghese di trail ai primi Campionati del mondo di trail ed è stato nominato allenatore della nazionale dalla ATRP e dalla Federazione portoghese di atletica leggera, posizione che occupa ancora. José ha conseguito la laurea specialistica in Training Planning in High Performance and Sports Training Medicine presso la facoltà di scienze motorie.

José Carlos Santos

Anche Salomon produce mascherine

Salomon ha convertito il Prototype Center di Annecy per la produzioni di mascherine, per fare fronte alla grande richiesta del mercato francese. A seguire il comunicato ufficiale dell'azienda.

Si siedono un po' in silenzio, sempre ad almeno 2 metri di distanza, in una grande sala all'interno dell’Annecy Design Center (ADC) Salomon. Si tratta di uno staff di 10 persone, tutti specialisti nella produzione tessile con decenni di esperienza. Sono parte del team Soft Goods Prototype Center e normalmente questi progettisti, dal talento unico, realizzano prototipi per le linee future di prodotto: scarpe, giacche, scarponi da sci, zaini e altro ancora. Oggi questo Team specializzato sta realizzando mascherine protettive che, nelle prossime settimane, verranno utilizzate per la protezione dalla diffusione di COVID-19. Il loro obiettivo è consegnarne da aprile a giugno un quantitativo pari a 90.000. Di fronte alla carenza generalizzata di mascherine protettive nel Paese, il governo francese ha lanciato un appello alla propria industria tessile. Con gli strumenti industriali a disposizione, un'azienda francese chiamata Chamatex ha proposto una soluzione: mascherine tessili multistrato lavabili e riutilizzabili. Le mascherine sono certificate dalla DGA (Direction Général de l'Armement) e saranno destinate principalmente alle Amministrazioni e agli operatori industriali di tutti i settori. Poiché le richieste per le mascherine sono aumentate esponenzialmente negli ultimi giorni, Salomon ha ricevuto una chiamata da Gilles Reguillon, CEO di Chamatex, in virtù del rapporto tra le due aziende proprio per la capacità di Salomon di produrre prototipi di ogni tipo. Dopo cinque giorni dalla richiesta iniziale, i componenti del team Salomon erano alle loro postazioni, sempre presso l'ADC, pronti per realizzare le mascherine. «Chamatex è una società francese partner industriale di Salomon da oltre cinque anni» afferma Guillaume Meyzenq, Vice Presidente del settore Footwear di Salomon. «Abbiamo utilizzato la loro tecnologia MATRYX su alcuni dei nostri modelli di calzature premium. Condividono la nostra stessa passione per l'innovazione e hanno talenti unici per realizzare tessuti nuovi e rivoluzionari». Nonostante fosse desideroso di mettersi all’opera per contribuire ad aiutare la lotta alla diffusione del Covid-19, il Team Prototype Center di Salomon è stato costretto a rimanere a casa (come tutti in Francia nelle ultime settimane) per rispettare le restrizioni di sicurezza stabilite dal governo. La scorsa settimana, tuttavia, Salomon ha ricevuto la richiesta da Chamatex. «Durante una giornata normale, al mattino possiamo realizzare una scarpa prototipo che aiuta Kilian Jornet ad arrivare in cima all'Everest e nel pomeriggio un reggiseno sportivo per la nostra linea running» afferma Jean-Noel Thevenoud, che gestisce il laboratorio del Prototype Center, e aggiunge: «Questo è quindi un progetto diverso per noi, ma il Team ha voluto mettersi da subito in campo ed essere d’aiuto sin dall'inizio della crisi. Quando abbiamo ricevuto la chiamata la scorsa settimana, tutti eravamo pronti per iniziare. Ritorneremo presto a produrre attrezzature per outdoor, ma in questo momento siamo molto felici di poter usare le nostre abilità per aiutare in questa emergenza sanitaria».

 


In arrivo Skialper 129 di aprile-maggio

È una frase di Martin Luther King a contraddistinguere la copertina del numero 129 di Skialper di aprile-maggio, una frase che ben si adatta ai tempi che stiamo vivendo: «Può darsi che non siate responsabili per la situazione in cui vi trovate, ma lo diventerete se non farete nulla per cambiarla». Un numero che avrebbe dovuto essere interamente dedicato all’agonismo e allo spirito agonistico, e lo è in gran parte, ma che l’emergenza ha costretto a cambiare leggermente, inserendo anche articoli di viaggio. Per non smettere di sognare. 176 pagine tutte da leggere e da guardare, in distribuzione a partire dal 21 aprile.

COSA RESTERÀ DI QUEI FORMIDABILI ANNI ’90 - Nel giro di poco più di un decennio, con la nascita dello skyrunning, si è imposto il concetto di fast & light che è alla base del nostro andare in montagna e di sport meno estremi come il trail. Ripercorriamo gli anni d’oro di quell’intuizione, con le prime gare sul Monte Bianco e quelle in Himalaya, gli studi scientifici e le foto dell’epoca.

AVEVAMO TUTTO E NON LO SAPEVAMO - Poco conosciuta, la Valle Gesso è stato il luogo dove, inconsapevolmente, abbiamo vissuto l'entrata dell'Italia nel lockdown del Covid-19. E dove ci piacerebbe tornare per la prima sciata. Un reportage esclusivo e autoprodotto, firmato da Federico Ravassard, da uno dei luoghi più selvaggi d’Italia, ideale per lo scialpinismo esplorativo.

SOUL SILK - 9.700 chilometri, 90.000 metri di dislivello positivo, 12 Stati attraversati. Per pedalare dall’Italia alla Cina, raggiungere (spesso sciandole) le montagne più belle e vivere quel soffio di avventura che tanto ci è mancato negli ultimi mesi. Il diario di un viaggio indimenticabile, con testi e foto di Giacomo Meneghello.

AFGHAN SKI CHALLENGE - Quando si porta il fucile con la disinvoltura di una borsa e le priorità della vita sono molto diverse da quelle a cui siamo abituati, anche una gara di scialpinismo diventa l’occasione per divertirsi senza troppe pretese. Ieri come oggi. Un reportage dall’Afghanistan firmato da Ruedi Fluck.

MONSIEUR MEZZALAMA - Adriano Favre è il signorsì della gara di scialpinismo più famosa del mondo. Ma è anche rifugista, soccorritore, himalaysta, Guida alpina, gestore di rifugio, sviluppatore di prodotti per Ferrino. A tu per tu con un personaggio davvero poliedrico.

SKIALPER AMARCORD - Enrico Marta, fondatore di Skialper, ha seguito la parabola dello skialp race dagli esordi e ricorda alcuni degli episodi più curiosi, dai primi exploit di Kilian e Roux, alle funamboliche prestazioni di Giacomelli. Con le foto dell’archivio della nostra rivista.

L’ANNO ZERO - 1989: Fabio Meraldi e Adriano Greco, insieme a Valeria Colturi, partono dall’abbigliamento per lo sci di fondo per creare la tutina che ha fatto la storia dello skialp agonistico.

L’INCREDIBILE STORIA DELL’ATTACCHINO CHE FA IMPAZZIRE IL MONDO - Una serie di coincidenze ha permesso di sviluppare un’idea rivoluzionaria che dalle gare si è velocemente imposta come lo standard dello scialpinismo. Ecco come è nato e si è sviluppato l’attacco a pin, con le testimonianze dei protagonisti e le foto dei primi prototipi.

QUELLI DELLA NOTTE - 240 atleti, 80 volontari, 30 chilometri di percorsi da preparare in meno di un’ora e da disallestire entro l’alba: dietro alla Monterosa Skialp c’è una macchina organizzativa complessa, che lavora tutto l’anno per un evento di qualche ora. Curiosità e le spettacolari foto di Stefano Jeantet dell’ultimo evento agonistico top che si è disputato.

WESC 1991 - Per anni in Alaska è stato organizzato il Mondiale di sci ripido. Alla prima edizione uno sconosciuto sciatore di Jackson Hole ha sbaragliato la concorrenza. Si chiamava Doug Coombs. Il racconto di Robert Cocuzzo, che ha scritto un bellissimo libro su Coombs, illustrato dalle foto di quell’edizione del WESC del fotografo Wade McKoy

GO WITH THE FLOW - Dopo il terzo Freeride World Tour Arianna Tricomi è sempre più la freeskier del momento, ma il suo successo è frutto di un background che va dallo sci alpino alla prima scena freestyle, quella di chi il kicker lo costruiva con le proprie mani. Perché la passione per lo sci viene prima di tutto. Alberto Casaro l’ha incontrata poco prima del lockdown

NADIR MAGUET, IL MAGO TRASFORMISTA - Prima fondista, poi biathleta, scialpinista. E ora dobbiamo chiamarlo skyrunner? Per capirlo siamo andati a trovarlo a casa sua.

DOLOMITI HALF MARATHON EXPERIENCE - La mezza maratona dell’Alpe di Siusi e del Sassolungo non sono solo due delle gare più belle tra i Monti Pallidi, ma percorsi unici da provare tutta l’estate. Ognuno al proprio ritmo, magari fermandosi per una pausa in una delle tante baite gourmet lungo il percorso.

MUST HAVE - Le chicche per chi ha lo spirito agonistico dentro, che sia con una tutina, un pettorale in una gara di trail o dei padelloni ai piedi in un contest di freeski. Pagine da sfogliare tenendo ben lontana la carta di credito…

E NON FIISCE QUI - Il consueto appuntamento con il portfolio fotografico, un approfondimento sulla Workstation di ATK Bindings e sulle anteprime Dynafit per il prossimo inverno in chiave skialp race, opinioni e tanto altro.


Contrabbandieri di emozioni

Ha ragione Giorgio Daidola, il vero scialpinista è un viaggiatore errante. Usa gli sci non solo come mezzo di trasporto, ma pure come strumento di conoscenza del mondo e di se stesso. Li utilizza per raggiungere luoghi inaccessibili attraversando deserti bianchi, come bene ci ha insegnato Michel Parmentier; per salire montagne che sono solo tappe di un percorso fuori e dentro di sé. Un percorso che, a volte, ha come obiettivo l’orizzonte, per vedere ciò che c’è dopo e ciò che c’è dentro. Non per niente sciare è un po’ come vivere: consente di lasciare una traccia che non è indelebile, ma che identifica in modo univoco chi l’ha disegnata, così vincolata come è alla sua sensibilità, alla sua capacità tecnica, all’attrezzatura utilizzata, persino allo stato d’animo e alle emozioni del momento. E le traversate - meglio di ogni altra attività scialpinistica - permettono di rendersi conto di tutto questo, seguendo le tracce di chi le ha percorse per primo ed entrando in sintonia con la sua sensibilità, pur vivendo ogni volta un’esperienza nuova; assecondando le proprie emozioni, entrando fra le pieghe delle montagne, penetrando in punta di piedi in un mondo che, seppure già percorso, come la neve, cambia a ogni ora, a ogni folata di vento.

Per vivere queste emozioni non è sempre necessario partire per più giorni da casa e andare in capo al mondo. A volte è possibile trovare ciò che si cerca anche dietro l’angolo. Io ho avuto la fortuna di condividere un breve viaggio alla portata di qualsiasi scialpinista allenato a pochi passi da casa, sulle nostre Alpi, in giornata, da Isolaccia di Valdidentro a Livigno, lungo le tracce dei contrabbandieri e dietro alle code di Giacomo Meneghello. Lui è un fotografo che vive a Sondalo e che, collaborando con la Ski Trab, ha avuto l’idea di creare un’alta via scialpinistica tra Bormio e Livigno, tracciando due percorsi. Uno, più logico e diretto, parte da Isolaccia e uno, più difficile e tortuoso, prende il via da Oga, quest’ultimo in verità già in parte sperimentato da alcuni scialpinisti locali che fanno capo sempre alla Ski Trab. Noi, a causa del rischio valanghe, abbiamo affrontato il tracciato meno pericoloso, ma anche più lineare. Ventuno chilometri per circa 1.900 metri di dislivello positivo. Un tracciato senza particolari difficoltà tecniche che, partendo dalla Valdidentro, concatena in modo logico diverse convalli esistenti tra Bormio e Livigno. Convalli in un recente passato utilizzate dai contrabbandieri per far transitare le merci dal porto franco di Livigno all’Italia. Lo abbiamo fatto il lunedì di Pasquetta in una giornata splendidamente serena dopo il maltempo della settimanaprecedente che aveva portato quasi un metro di neve fresca, ma anche numerosi accumuli da vento suipendii maggiormente esposti.

Partenza alle 6,30 da Sant’Antonio di Scianno, pochi chilometri sopra Isolaccia, nel comune di Valdidentro, a quota 1.650 metri. Lasciata l’auto in un piccolo spiazzo, abbiamo iniziato a risalire verso il Monte Resaccio dapprima facendo traccia in un rado bosco di abeti e poi su distese innevate in cui s’intuivano alpeggi semisepolti dalla neve in un universo fiabesco al risveglio. Giacomo Meneghello davanti, noi dietro. Una decina di scialpinisti in tutto per l’occasione: alcuni ragazzi di Cantù guidati da Marco Colombo di Ski Trab, il forte altoatesino Alex Kheim con la moglie parmigiana Anna e io. Si sono poi aggiunti in Val Vezzola alcuni appassionati livignaschi e di Semogo tra cui la nota atleta polacca di scialpinismo Anna Tybor. Ci aspettavano già in quota, essendo partiti più avanti, da Li Arnoga. Un ripido pendio, la larga cresta ed eccoci in vetta al Monte Resaccio. Siamo a quota 2.717 metri. Il panorama a 360 gradi toglie il fiato; Cima Piazzi ci ammalia controllando ogni nostro passo dall’alto della sua bellezza e severità. In fondo, a sinistra, riconosco il Pizzo Palù, dietro l’Ortles con la sua corona di cime del bacino dei Forni.

Anna Tybor, reduce da una brillante prestazione al Tour du Rutor, mi fa da Cicerone illustrandomi il nome di valli e convalli. Livignasca d’adozione, mi dice di non poter più fare a meno di queste montagne. Il tempo di spellare e giù, verso il bianco più bianco. Versante nord: farina intonsa, sciatona. Gli Ski Trab Maestro che l’azienda bormina mi ha dato da testare per l’occasione non mi fanno rimpiangere sci più larghi. Ricamiamo un lenzuolo intonso consapevoli di essere dei privilegiati. Consapevoli di poter ancora una volta sperimentare che è vero che gli sci sono sciancrati per meglio adattarsi alla forma rotonda del mondo; per meglio consentirci d’accarezzarlo con le nostre curve. Si attraversa un universo incantato senza alcuna traccia, se non quella di qualche camoscio. Dalla Val Vezzola transitiamo in Val Trela. Procediamo ora in leggera salita sotto un sole abbacinante. È metà mattina. Le montagne si scrollano di dosso ciò che non riescono più a trattenere. Sentiamo rombo di scariche. La tigre bianca oggi è sveglia, in agguato su molti pendii, nascosta sotto il nuovo strato di neve. Ma il nostro percorso è mansueto. Giacomo lo ha scelto apposta preferendolo a quello più rischioso che transita in Val Viola e che potrebbe essere affrontato al ritorno in un ipotetico viaggio ad anello di due giorni. Saliamo pendii non impegnativi al Monte Rocca (2.814 m), classica scialpinistica della zona. Lo rimontiamo da est, non - come di consueto - da nord-ovest.

Dalla vetta si apre sotto di noi la Valle di Tre Palle. Firn e neve trasformata per una sciata da ricordare, con Giacomo che si sdoppia nel ruolo di guida e fotografo. Malghe che emergono qua e là, stalle, cavalli. Un presepe che lascia segni indelebili nell’anima dell’escursionista-viaggiatore. Attraversiamo una strada asfaltata in località Trepalle (quota 1.918) e di nuovo rimettiamo le pelli. Ora si sale verso il Monte Crapene (2.430 m). Ancora pendii dolci, neve trasformata. Qualche escursionista con le ciaspole. L’ambiente si fa meno isolato, gli impianti e le piste del carosello sciistico compaiono dall'altra parte della valle. Dalla cima del Crapene appare Livigno, giù in fondo. Dall’alto sembra davvero esteso e con il suo vestito migliore, quello tutto bianco, sembra una perla tra una conchiglia di cime.

Inanellando curve sul firn, scendiamo così fino al capolinea del nostro viaggio, firmando altri magnifici pendii con le lamine. Le nostre tracce saranno già scomparse, cancellate dal sole o dal vento. Non sarà invece cancellata l’idea di Giacomo d’ideare questo percorso che consente di collegare al ritmo delle pelli questi due paesi, Bormio e Livigno, divisi dalla cresta delle Alpi, ma uniti in una splendida cavalcata. Percorrendola noi, contrabbandieri d’emozioni, siamo andati alla ricerca del senso del viaggio con gli sci, solcando valli e salendo montagne dolci come la panna montata. Come sempre alla ricerca della curva perfetta. Come sempre trovando alla fine noi stessi.

Questo articolo è stato pubblicato sul numero 118 di Skialper di giugno 2018. Se vuoi acquistare l'arretrato clicca qui, se vuoi abbonarti a Skialper qui.

©Giacomo Meneghello

Gruppo Alpinistico Gamma di Lecco: un libro per aiutare gli ospedali della provincia

La provincia di Lecco è molto vicina all'epicentro del contagio di Covid-19, nel cuore della Lombardia, e le sue strutture sanitarie sono state travolte dallo tsunami dell'emergenza. Basti pensare che in uno dei due ospedali locali, quello di Merate, che si trova a poche centinaia di metri da una delle case che in queste settimane si è trasformata in una delle tante redazioni di Skialper sparse per il Nord Italia, a marzo 2020 sono decedute 214 persone contro le 37 di marzo 2019. Ora il Gruppo Alpinistico Gamma di Lecco lancia un'iniziativa di supporto alla raccolta di fondi 'Aiutiamoci', ideata dalla Fondazione Comunitaria del Lecchese a sostegno dell'azienda socio sanitaria locale, iniziativa che ha già raccolto quasi 4 milioni di euro di donazioni. Il Gruppo ha deciso di mettere in vendita 30 copie del bel libro che racconta la storia di questo sodalizio alpinistico ai piedi del Resegone a un prezzo di base d'asta di 50 euro. Ogni copia avrà una dedica speciale. Per informazioni: info@gruppogammalecco.com


Pik Lenin, sogno di vento e ghiaccio

Arranco lentamente, ogni venti passi mi fermo e, appoggiato sui bastoni, con un paio di respiri più lunghi, cerco di rimettere il fiato a posto con i tempi. Poi riparto spingendo gli sci in un mare di bianco accecante. Il pendio non è ripido e la neve non è brutta, ma la quota trasforma ogni singolo movimento in una fatica immonda. Mi fermo più e più volte, e ogni volta lo sguardo si fissa sulle mie due lame nere che trascino con i piedi e che fendono, anche cromaticamente, il manto candido della montagna che mi ospita. Non sono uno scialpinista e gli sci accoppiati sotto il mio respiro affannato mi ricordano solo anni passati, dove gli stessi, di altre forme e uso, giacevano inermi in attesa di affrontare le discese libere per le quali ero portato. Discese libere intese come attività sportiva di scorrimento veloce, tra salti e curve affrontate a oltre 100 chilometri orari, su nevi tendenzialmente dure o ghiacciate, un altro sci insomma, lo sci di un ragazzino che sognava i cinque cerchi olimpici, lo sci di un giovane esuberante che amava l’ebbrezza della velocità e un altro tipo di montagna. Poi i tempi passano, i cinque cerchi sfumano e l’amore per la neve cambia, più e più volte.

SEI AMICI AL BAR Alla fine, pochi mesi fa, un incontro fortuito al bar, un’idea che sembrava buttata lì tanto per parlare, un progetto che silenziosamente prende piede, che diventa realtà e che ora mi fa contare una ventina di passi tra una sosta e l’altra. Il bar era uno qualunque, con un arredo qualunque, in un pomeriggio qualunque, l’incontro quello con Cala Cimenti, l’unico Snow Leopard italiano. Cala è un ragazzone torinese di 41 anni che con la conquista del Peak Communism (7.496 m), nell’estate del 2015, è stato insignito dell’onorificenza del leopardo, che viene riconosciuta dalla Federazione di Alpinismo Russa solo a chi ha scalato tutte le cinque montagne di 7.000 metri delle ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale. Cala mi propone di salire il Peak Lenin (7.134 m), nel sud del Kirghizistan, senza dubbio tecnicamente la più facile delle cinque vette sorelle, ma innegabilmente anche quella con più vento, parametro questo che ne abbassa drasticamente la percentuale di riuscita (raggiungono la cima solo il 20-25% dei pretendenti). Spingo e conto, mi fermo e respiro, ogni tanto mi guardo intorno e ammiro la maestosità della parete nord che, sulla mia sinistra, scende omogenea e apparentemente liscia verso una valle grigia. Sotto i colori slavati e secchi dell’alta quota estiva si allungano a perdita d’occhio fino a spegnersi nell’infinito. Sto risalendo la via principale, quella della cresta ovest, sono a metà strada tra il campo due, a quota 5.300, e il campo tre, che andremo a montare ai 6.100 metri. Sono sotto il peso stremante di uno zaino enorme, imposto dalla scelta dell’autosufficienza nei campi avanzati. Con me, chi davanti e chi dietro, oggi ragionevolmente slegati, i miei compagni d’avventura, tutti amici ‘da bar’ che, al momento di decidere la trasferta, si sono trovati nel posto giusto al momento giusto e hanno deciso di unirsi alla spedizione. Un gruppo di amici normali con la passione per la montagna e per lo sport endurance, un sestetto che si conosce e si frequenta specie nelle gare di trail running e che ha deciso di condividere un’emozione forte chiusa da tempo nei relativi cassetti dei sogni. Maurizio Basso, 27 anni, è un serramentista che lavora in proprio, pratica scialpinismo agonistico e corsa in montagna di buon livello. Joseph Sassano, 45 anni, un cuoco con un infinito amore per la montagna. Flavio Ferrero, 52 anni, un dirigente d’azienda che impegna ogni minuto libero della sua vita in attività fisiche legate ai monti. E poi lei, la cucciola del gruppo, Natalia Mastrota, 21 anni, figlia del televenditore Giorgio Mastrota e della bella attrice Natalia Estrada, che al cemento di Milano ha preferito la vita più sobria e montana di Chamonix dove lavora come cameriera/barista. Un sestetto, tutto affiliato al CAI di Bra, in cui l’unico a non aver mai spinto gli sci con le pelli sono io, ma in un paio di prove tecniche mi tolgo le formalità di risalita mentre per la discesa non vedo problemi. Il pendio s’inasprisce e quella che fino a ora era una linea di percorrenza retta, si trasforma nel classico zig zag da escursione scialpinistica. Virata su virata approdo al piattone adibito a campo tre dove una quarantina di tende, per lo più momentaneamente disabitate, colorano e ravvivano un ambiente quasi troppo bianco. Il sole è alto e caldo, il vento sembra avere concesso una pausa, le speranze sono buone, domani si tenta la vetta.

© Dino Bonelli

GIORNO X 25 luglio 2016, ore 3,30: fuori da una delle due tende arancioni Ferrino preparo le ultime cose, tra le quali gli sci appesi allo zaino, monto i ramponi sugli scarponi e parto seguendo un tracciato illuminato dall’esile fascio di luce che esce della mia frontale. Abbiamo deciso partenze scaglionate per provare a essere in cima tutti insieme, scelta difficile per chi come me non è avvezzo a certe situazioni che quindi deve affrontare da solo, ma decisione unanime che avrà nei fatti la sua ragione. Ben distanziate nella notte si intravvedono una trentina di luci ciondolanti, il freddo è di quelli importanti (percepito -35°) ma l’adrenalina riscalda gli animi, spingendo le gambe in un’andatura decisa. I soliti 20-30 passi, poi un piccolo recupero e poi ancora movimento. Verso le 5,30, anticipati da sfumature viola e arancioni, i primi raggi di sole colorano il cielo. Uno spettacolo mozzafiato che mi godo in compagnia di Natalia. The Knife, il coltello, una cresta particolarmente esposta alla furia dei venti, è la parte più tecnica dell’intero percorso, l’unica dove è richiesto l’uso della piccozza, almeno per sicurezza. Appena prima violente folate di aria gelida ci hanno fatto abbandonare lo zaino con gli sci, lasciandoci quindi spogli e leggeri, con meno vela da offrire alla violenza delle raffiche e più possibilità di continuare. Poi lunghi traversi e mammelloni nevosi che sembrano non finire mai e alla fine lui, che sotto forma di piccola testa bronzea rappresenta il vertice del monte che gli hanno dedicato: Lenin. Il sole oramai alto illumina il mondo e il mondo, visto da qui sopra, sembra essere ancora più infinito. Mi vengono in mente le parole con cui Richard Parks, in Oltre l’orizzonte, descrive una situazione simile e le faccio mie: «Quassù l’orizzonte è più lontano che in qualsiasi altro luogo, e trovarsi a contemplarlo significa contemplare quanta più terra possibile senza staccarsi dalla sua superficie. Per questo motivo penso che ti faccia sentire più vicino al pianeta e, in qualche modo, a qualsiasi cosa ci possa essere di superiore a noi esseri umani». Cala e Mauri, mostrando esperienza e forza fisica fuori dal comune, a differenza di noi, arrivano in cima con zaino e sci al seguito e, come da programma, ridiscendono sciando l’immenso versante nord. Un’enorme parete di 2.700 metri di dislivello tagliuzzata da un’infinità di crepacci e lucidata nelle sue parti più esposte. Natalia purtroppo, causa geloni ai piedi, non ce l’ha fatta a salire e appena prima del coltello ha dovuto rinunciare, come peraltro ha fatto anche almeno un terzo della trentina di alpinisti provenienti da tutto il mondo che ci ha provato in questa gelida notte di fine luglio. Io, Flavio e Joseph, fatte le consuete foto di rito, ritorniamo ripercorrendo l’infinita cresta ovest che, dopo alcune ore, ci riporta al campo 3.

IL SOGNO NEL CASSETTO Ho camminato e sciato piano, pianissimo, ho fatto soste su soste, ho allestito e smontato campi, ho mangiato e fatto i bisogni in situazioni per me assolutamente nuove e decisamente estreme; sono stato aiutato, più psicologicamente che fisicamente, specie dall’amico Joseph, con cui ho condiviso l’ultima parte dell’ascesa finale, ho avuto un principio di congelamento ai piedi e annebbiamento della vista, probabilmente, a causa dell’aria rarefatta e della disidratazione. Sono anche stato momentaneamente incosciente perdendomi sfumature che non troverò più, ma alla fine ce l‘ho fatta. Con tanto sacrificio, un po’ di sana sofferenza e un pizzico di fortuna, fondamentale come sempre, ce l’ho fatta. Ce l’ho fatta io, un non alpinista e ce l’hanno fatta i miei amici scialpinisti. Ce l’abbiamo fatta e abbiamo portato a casa il nostro sogno nel cassetto. E la sera dell’ultimo giorno, nelle verdi e respirabili quote del campo base (3.500 m), guardando il grosso massiccio granitico ricoperto di neve e arrossato dagli ultimi raggi di sole che precedono la notte, seduto nella mia tenda, stanco e sorridente, rubando nuovamente una citazione a me cara (di Tiziano Terzani) ho semplicemente pensato: «Buonanotte signor Lenin».

© Dino Bonelli

Andata e ritorno in 13 ore e mezza

Dopo la salita dalla Normale, Cala Cimenti ha salito e disceso in velocità e in solitaria la via Arkin sulla difficile parete nord del Peak Lenin, per oltre 2.700 metri di dislivello. Ecco il racconto dell’impresa.

Sono le cinque del pomeriggio del primo agosto, neanche a farlo apposta guardo l’orologio che segna le 17.00 spaccate. Attraverso fasci di polvere di neve sollevati dal vento osservo il profilo del busto di Lenin. Reciprocamente ci guardiamo sornioni. Sono in cima al Peak Lenin (7.134 m) per la seconda volta in una settimana e quattro anni dopo la prima salita, quando questa cima ha dato il via al mio Snow Leopard Ski Project che è poi durato tre anni. Mi tornano alla mente immagini, emozioni, amicizie che mi hanno arricchito in questo arco di tempo sovietico e inevitabilmente vado con la mente anche a sette giorni prima, quando cinque amici festeggiavano in questo stesso luogo con grandi pacche sulle spalle e mille foto. È stato bello mettere a disposizione la mia esperienza a queste quote e la conoscenza della montagna per aiutare un gruppo di amici ad arrivare in cima alla loro prima montagna di settemila metri. In più, con Maurizio, siamo scesi da questa immensa parete nord con gli sci calzati direttamente dalla cima. Questa volta però è diversa, sono inginocchiato a 7.134 metri di quota e sono felice, sereno, volevo congedarmi da questa montagna con qualcosa di speciale, mi sarebbe piaciuto salire la sua parete nord attraverso la via Arkin in velocità, senza l’ausilio di campi intermedi e senza bivacchi, in giornata e da solo. Ovviamente volevo salire la nord in giornata per poterla poi ridiscendere con gli sci. Volevo regalare tutto a questo luogo un po’ speciale per me e mi sarebbe piaciuto che questa impresa rappresentasse la degna conclusione del mio periodo da leopardo delle nevi. Mi sarebbe piaciuto e speravo che la montagna me lo concedesse. Così la notte tra il 31 luglio e il primo agosto, alle 4.40 del mattino, sono partito dal campo a 4.400 m alla volta della cima, 2.700 m più in alto. È stata una salita dura, resa ancora più difficoltosa dall’abbondante neve caduta nei giorni precedenti, ma alla fine, dopo 12 ore e 20 minuti, ho raggiunto la cima in un ambiente surreale.

La discesa è stata meravigliosa: nonostante la fatica, che inevitabilmente non ti permette di avere quella continuità nella sciata che hai a quote meno elevate, sono riuscito a godermi una neve a tratti farinosa, sorprendentemente molto meglio di quella che mi aspettavo. La degna conclusione di tutto. Un’ora e dieci minuti dopo ero di nuovo giù, ai piedi del ghiacciaio. 13 ore e mezza dopo la mia partenza. Non mi restava che attraversare per l’ultima volta la grossa morena che mi divideva dal campo da cui sono partito e tornare all’agglomerato di tende gialle con gli sci in spalla. A metà strada mi è venuta incontro la piccola Natalia ed è stato un piacere incontrare, prima di tutti, i suoi occhi sorridenti nonostante proprio quel giorno avesse fallito il secondo tentativo di arrivare in cima. Insieme siamo andati al campo base e dopo è stato tutto un susseguirsi di strette di mano, sorrisi, complimenti e vodka.

Cala Cimenti

QUESTO ARTICOLO È STATO PUBBLICATO SU SKIALPER 108


Prove di collaborazione tra La Grande Course e ISMF

Dopo un matrimonio difficile e interrotto prematuramente, La Grande Course e International Ski Mountaineering Federation tornano a collaborare, come ha anticipato anche a Skialper Adriano Favre, presidente LGC, in un’intervista pubblicata sul numero di aprile, in uscita a breve. Favre si è incontrato con il suo omologo ISMF, Thomas Kähr, ad Arvier, in Valle d’Aosta, alla presenza delle delegazioni dei comitati esecutivi delle due organizzazioni. Uno dei primi passi concreti in questa direzione sarà l'organizzazione di un Campionato del Mondo long-distance all'interno di una delle gare LGC già esistente. Un team di progetto congiunto si occuperà di intraprendere gli interventi necessari per la realizzazione di questo obiettivo nel più breve tempo possibile. LGC ha, inoltre, manifestato la propria intenzione a collaborare attivamente all'interno di ISMF, in una modalità che dovrà ancora essere definita. Il desiderio di LGC è, quindi, quello di contribuire attivamente al rafforzamento di ISMF quale piattaforma globale per lo scialpinismo.
Al fine di raggiungere questo obiettivo, ISMF dovrà avviare un progetto specifico di collaborazione e i vari settori di competenza all'interno di ISMF dovranno deliberare su questo progetto integrativo. Inoltre, i settori di collaborazione più importanti includeranno il potenziamento dei giovani talenti ma anche gli ambiti relativi all'anti-doping e all'attività dei giudici. Si pensa inoltre a un coordinamento nella comunicazione tra le due organizzazioni.


Le Mascherine di Elleerre

Elleerre, il marchio di Alzano Lombardo che produce materiale promozionale e sponsorizza alcuni importanti atleti del mondo outdoor, si trova nell’epicentro del contagio Covid-19 nella Bergamasca. Qualche settimana fa, insieme a Grande Grimpe, ha iniziato a produrre mascherine riutilizzabili in poliestere da donare al Comune di Nembro. Ora, alla luce delle numerose richieste ricevute, ha iniziato a riconvertire la produzione per rendere disponibile questo prodotto a coloro che ne avessero bisogno e devolverà al Comune di Nembro 0,50 euro per ogni articolo venduto. Le mascherine filtranti riutilizzabili sono in tessuto non tessuto (TNT) 100% poliestere, realizzate con doppio strato e lavabili in lavatrice a 40°. Non sono un dispositivo medico né un DPI. Info qui.


Dalle 14 di oggi online Evolution, il nuovo film di Anna Stöhr

Dopo aver lasciato le competizioni nel 2018, la climber austriaca Anna Stöhr era alla ricerca di nuove sfide. Sicuramente ne ha trovata una ad Aiglun, nelle Alpi Marittime francesi, dove la trentunenne ha affrontato e completato Ali Baba (8 tiri, 250 metri, grado 8a+). Il film Evolution, che sarà online e gratuito da oggi alle 14 sul sito di Salewa ( www.salewa.com/anna-stoehr-evolution) racconta il viaggio personale che ha portato una due volte campionessa mondiale di bouldering da un estremo all'altro dell'arrampicata, lasciando le competizioni in artificiale per abbracciare la libertà, la necessaria determinazione e i ritmi caratteristici delle grandi pareti di arrampicata alpina. Di Anna Stöhr abbiamo scritto anche sul prossimo numero di Skialper, in distribuzione a partire dal 21 aprile.

Durante il film l'atleta Salewa ricorda un episodio di alcuni anni fa, durate un climbing trip in Sardegna. A quell'epoca stava cominciando a meditare sulla sua evoluzione come scalatrice e aveva affrontato le sfide caratteristiche delle vie lunghe: «Ero impressionata da quelle pareti e volevo scoprire se fossi in grado di scalarle. Avevo fiducia nelle mie abilità atletiche, ma avevo anche grande rispetto per l'altezza e l'esposizione di queste gigantesche pareti di roccia. Le mie abilità mentali, che ero così brava a usare durante le competizioni, sembravano inutili mentre dondolavo a 100 metri di altezza dal suolo... In quel momento mi diedi l'obiettivo di diventare una scalatrice più versatile».

Insieme al suo compagno, lo scalatore professionista Kilian Fischhuber, si è dedicata a questa sfida cercando nuovi progetti al di fuori delle palestre di arrampicata. Affrontare una via impegnativa come Ali Baba, e riuscire finalmente a completarla, rappresenta un punto di svolta nella vita di Anna. Stava affrontando un nuovo terreno sotto ogni aspetto, passando dai brevi e intensi problemi di bouldering alle lunghe vie verticali di arrampicata alpina. È riuscita a superare la sfida con se stessa, oltre che con la parete? Il film Evolution mostra come Anna Stöhr, una climber di livello mondiale, abbia lasciato la propria comfort zone per affrontare le sue paure in una diversa dimensione dell'arrampicata.

 


Transilvania, la polvere di Dracula

L’inverno 2015-2016 verrà ricordato come ‘l’inverno che non c’è’. Il tempo è passato a vedere i siti meteo inesorabilmente forieri di cattive notizie: anche questa settimana di neve non se ne parla e allora non resta che prendere le scarpette e andare a scalare. Così passano le vacanze di Natale, il Capodanno e anche oltre finché… Squilla il telefono e dall’altra parte il Cis mi dice: «Ho sentito un amico che lavora in Romania, lì c’è neve, potremmo andare a vedere». Fino a quel momento della Romania avevo solo un vago ricordo di un tema scritto a scuola, qualche film del conte Dracula, ma nulla che avesse a che fare con la neve o con lo sci. Dopo qualche ricerca su internet, mi trovo ad acquistare un biglietto con destinazione Bucarest ed eccoci davanti al check-in con in mano uno zaino e una sacca da sci. La ragazza addetta alle operazioni di imbarco guarda la sacca e con sorriso sornione ci domanda: «Sci? Non sapevo che in Romania si sciasse». Meno male che aveva tante doti, ma nessuna di queste legata alla neve o allo sci…

© Alessio Cerrina

NEBBIA E POWDER Siamo un gruppo ristretto: io, il Cis (Andrea Cismondi) e Albi (Alberto Torassa). Dopo qualche ora di volo, sognando e fantasticando, ci ritroviamo ad atterrare a Bucarest. Sulla pista c’è un mucchio di neve. Bene, quella sarà l’unica che vedremo nella giornata in quanto la passeremo tra la nebbia e la pioggia. Mentre l'umidità ci entra nelle ossa, ritiriamo la macchina a nolo, una Ford Fiesta che scopriamo essere più capiente del previsto o noi più piccoli di quanto immaginavamo. Sta di fatto che riusciamo a infilarci tutto dentro. Durante il viaggio abbiamo cambiato programma svariate volte - il meteo non è stato decisamente dalla nostra parte - e in serata ci siamo ritrovati sulle montagne del Fagaras, in un albergo alla partenza della cabinovia che porta a Balea Lake. Qui conosciamo un addetto degli impianti di risalita che parla un cattivo italiano e ha lavorato per alcuni anni in Italia. Ci descrive la stagione come la peggiore degli ultimi 30 anni: «Poca neve». Perfetto, ecco il resoconto del primo giorno: tanti chilometri, tanta pioggia, niente neve. La tristezza e lo sconforto vengono placate solo dalla birretta serale. Però la mattina del secondo giorno ha un nuovo gusto, quello della polvere. La pioggia del giorno prima in quota ha lasciato una spanna di powder e dopo la colazione si decide il programma: andiamo su Balea Lake e rimaniamo in quota. Prendiamo la prima funivia, un impianto a fune vetusto che mi ricorda tantissimo la vecchia cabinovia per salire al Bianco. Il quadro reca la scritta Fitre Milano e mi sento quasi a casa.

© Alessio Cerrina

BALEA LAKE, FINALMENTE NEVE La vista fuori cambia. Il verde e marrone lasciano spazio al bianco candido e… sbam! Siamo in inverno! Scendiamo a Balea Lake, un lago ghiacciato contornato da colate di ghiaccio e da canali di neve, il paese dei balocchi per noi. Prendiamo una stanza in un albergo sul lago e poi via, si montano le pelli agli sci: è il momento di dare spazio alla fantasia. Tutto da scoprire e da fare, in giro solo noi. La giornata ci regala tre discese su una spanna di polvere su fondo duro, concludendola alla grande mangiando omelette e bevendo birra. Ora il tutto inizia ad avere senso. La mattina seguente ripartiamo alla scoperta del territorio e, indossati i ramponi, con gli sci in spalla risaliamo il canale dietro all’albergo, che ci porta sulla cresta. Qui gli spazi si aprono e lo sguardo corre sul bianco delle montagne e i colori scuri della pianura. Una serie di discese ci regalano quel sound sognato per mesi: la libertà di sciare e di essere liberi di lasciare la nostra firma su un manto perfetto.

© Alessio Cerrina

BENEDETTO SALVAMONT La vacanza continua: riscendiamo a valle, ricarichiamo la macchina e ripercorriamo al contrario la strada di qualche giorno prima con destinazione Busteni. Il terzo giorno ha inizio prendendo la cabinovia che ci porta sull’altipiano dei Monti Bucegi. Le previsioni meteo sono tornate brutte, un forte vento spazza l’altipiano e le nuvole viaggiano veloci. A peggiorare la situazione, Cabana Babele, il rifugio dove pensavamo di rimanere a dormire, ci delude: niente dormire, niente mangiare. In quota con brutto tempo, neve ventata, senza mangiare e senza bere… La giornata non poteva iniziare peggio e nello sconforto proviamo a raggiungere la capanna della Salvamont (quello che in Italia sarebbe il soccorso alpino) nella speranza di qualche buona notizia. Ed ecco come un inizio pessimo può trasformarsi in una gran giornata. È una stupenda baita di montagna e il tipo che vive dentro non solo ci offre un posto dove dormire ma ci darà da mangiare, indicazioni per le gite e per concludere in bellezza una sberla colossale di vino rosso. Rimaniamo due giorni sull’altopiano scorrazzando tra una vetta e un'altra, tutte con dislivelli molto contenuti, ma con gran neve e con il parco giochi a nostra disposizione. Qui ci facciamo anche una cultura sul soccorso alpino di zona e arriviamo a una sola conclusione: vietato farci male! L’ultima gita sull’altipiano, con destinazione Monte Omu e discesa nei canali fino a valle, viene stoppata a metà. Troppi accumuli da vento: vediamo di non andarcela a cercare! Cambiamo discesa e rientriamo a valle con la cabinovia per trasferirci in un albergo di Sinaia dove ci viene regalato l’ingresso in piscina, bagno turco e sauna: perché non approfittarne? Abbiamo sognato i pendii di Sinaia ma la nostra vacanza è terminata al Cota 2000, un bar sulle piste: tempo troppo brutto. Non ci resta che… fare tappa su Bucarest per dare uno sguardo alla capitale prima di caricare gli sci sul volo di rientro per l’Italia.

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© Alessio Cerrina