SONDALO, OTTOBRE 2018 — IL TELEFONO SQUILLA

È il mio amico Yanez. Dopo i soliti convenevoli di chi non si sente da qualche tempo, mi dice: «Avrei un’idea un po’ strana, vorrei fare un viaggio diverso dal solito e mi ispira l’Oriente, magari la Via della Seta». Abbraccio di slancio l’idea e conveniamo che la bici sarebbe il mezzo ideale. Pervaso da una sorta di delirio di onnipotenza rilancio dicendo che sarebbe un peccato non abbinare qualche montagna e il progetto inizia a prendere forma.

VALTELLINA, INIZIO APRILE 2019 — TUTTO PRONTO, ANZI NO

Mancano meno di due settimane alla partenza e mancano soprattutto molte delle cose essenziali. La nostra e-Bike e il carretto artigianale sono ancora in fase di ultimazione a Torino e a Trento, non ci sono i visti per la Cina, dobbiamo fare gli ultimi vaccini, pensare a come raccontare la nostra avventura. Ci sono ancora tanti dubbi e poche certezze. In casa una catasta di oggetti da portare, in disordine quanto i nostri pensieri. Nel mezzo c’è anche il lavoro, da portare a termine prima possibile in vista della lunga assenza. Il conto alla rovescia spaventa, ma suona liberatorio dallo stress di dover pensare a troppi aspetti, troppo complessi per poter essere risolti.

© Giacomo Meneghello

LIVIGNO, 18 APRILE — SI PARTE

La salita notturna con le pelli al Piz dal Canton con l’amico Max per vedere l’alba e la discesa in parapendio dal Carosello 3000 assomigliano, per me, a un film già visto. La differenza è che oggi, fatta colazione, non si torna a casa. Presa la bici rimasta a dormire al Montivas, inizio a realizzare che oggi è il grande giorno. Sale l’emozione, saluto gli amici a Livigno, riempio le borse con le ultime cose e comincio a pensare: lo sto facendo davvero.

FALCADE, 20 APRILE — MARMOLADA

È stata una giornata grandiosa. Sole, amici, una nuova vetta raggiunta con gli sci, la prima ufficiale del nostro viaggio con la bandiera dell’ADMO (Associazione Donatori di Midollo Osseo), di cui siamo testimonial. Il tutto dopo essermi incontrato ieri con Yanez a Mezzolombardo e aver raggiunto a Moena gli amici della Scufoneda per una serata di festa. Il progetto prende forma, siamo entrambi un po’ smarriti nel trovarci catapultati in questa nuova realtà senza aver mai provato né i mezzi né avere fatto esperienza di tutti gli altri aspetti organizzativi di un viaggio così complesso. Ma l’insieme rende tutto molto elettrizzante.

LOGATEC, 23 APRILE — ARRIVEDERCI ITALIA

Siamo in Slovenia, ora non giochiamo più in casa. La pioggia è battente, le strade insidiose, i freni non vanno e affrontiamo le discese come funamboli incoscienti. Maciniamo chilometri ogni giorno, dall’alba al tramonto, sono giornate interminabili. Le soste diurne sono funzionali solo a ricaricare le batterie, visto che i pannelli solari non riescono ad aiutarci con queste condizioni. E le sere le passo a lavorare al pc e a preparare i report per sponsor, giornalisti e account social fino a notte. Ci fa male un po’ dappertutto, schiena, piedi, sedere, ginocchia, ma la motivazione è alta e siamo abituati a sopportare. Puntiamo verso l’ex Jugoslavia, ma ben lontani dalle ridenti coste turistiche e pure dalle belle montagne, per le quali dovremo attendere le terre balcaniche.

BIVACCO DEL MUSSALA, 2 MAGGIO — PROFUMO DI VETTA

Stasera bivacchiamo nel locale invernale del rifugio ai piedi del Monte Mussala (2.925 metri), il più alto della Bulgaria, nel massiccio del Rila. Ci abbiamo messo un’ora per poter utilizzare questo rustico locale a causa del ghiaccio e della neve che lo hanno invaso e di certo non è il posto più accogliente dove abbia dormito. Tuttavia l’idea di non doverci preoccupare di cercare un albergo, fare il check-in, cercare una sistemazione per il carretto e svuotarlo per poi ricaricarlo il mattino seguente mi fa sentire rilassato. È bello avere solo uno zaino. Il meteo anche oggi non è dei migliori, ma la salita fino a qui è stata relativamente semplice. Un po’ di portage iniziale e poi pendii abbastanza dolci. Domani saliremo in vetta per l’alba. Manca qualche centinaio di metri alla cima, alcuni da fare con gli sci ai piedi, altri senza, visto che si tratta di una cresta attrezzata, ma siamo ottimisti che sarà una gran giornata.

UCHISAR, 12 MAGGIO — I CAMPANILI DELLE FATE

È tornato il sole, fa caldo. Dopo un mese di pioggia continua sembra di essere in vacanza. Anche il panorama e l’ambiente ci riempiono gli occhi dopo tanti chilometri a pedalare su stradoni persi nel nulla e accompagnati solo dal rumore dei camion e del muezzin che cinque volte al giorno diffonde le litanie musulmane dai minareti delle innumerevoli moschee. Yanez, che odiava la pioggia, sembra rinato e in Turchia iniziamo a sentirci un po’ a casa. I chilometri giornalieri non sono calati, ma i nostri dolori sì. Tra noi e la bici stiamo iniziando finalmente ad avere la meglio noi. Oltre le caratteristiche formazioni di tufo e i campanili delle fate, all’orizzonte, svetta imponente l’Erciyes che con i suoi 3.916 metri è la vetta più alta dell’Anatolia. L’idea che quella sarà la nostra prossima metà e che ci andremo in bici fa salire un’emozione difficile da poter descrivere.

KAYSERI, 14 MAGGIO — IL GIGANTE DELL’ANATOLIA

Tornare a mettere gli sci è stato fantastico. Abbiamo lasciato i carretti a Kayseri e, sci in spalla, siamo saliti di primo mattino in bici fino al passo, a circa 2.000 metri, dove, seguendo le ultime lingue di neve, abbiamo iniziato a risalire le piste del comprensorio sciistico. Dopo alcune centinaia di metri di dislivello, abbandonate le piste, per alcuni avvallamenti e su dolce pendenza ci siamo via via portati ai piedi del pendio finale, maestoso e illibato. Il sole, complice l’esposizione a Est, stava già scaldando la neve, le condizioni erano ottimali e abbiamo iniziato a risalire il canale di accesso ai pendii soprastanti con numerosi dietrofront. La pendenza cresce in progressione dai 30° fino ai 40° finali per arrivare alla cresta sommitale che conduce brevemente alla vetta sciistica. Salire questo imponente vulcano con lo sguardo che pian piano spaziava a perdita d’occhio su tutta l’Anatolia fino a lambire le coste del Mar Nero a Nord e del Mediterraneo a Sud è stata una sensazione che non potrò dimenticare, qualcosa di nuovo. Poi la discesa, su firn perfetto, con le nostre tracce a disegnare solitarie il ripido pendio sommitale. Arte del divertimento. Da lì in poi è stata una lenta perdita di quota, godendosi la giornata di sole e la brezza dell’aria sul viso.

© Giacomo Meneghello
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KHULO, 21 MAGGIO — FANGO

Sì, siamo a Khulo, piccolo e povero abitato rurale sperduto tra le montagne della Georgia. Il meteo è tornato tiranno e le strade, qui in gran parte sterrate, sono lingue di fango. Non ho mai amato il fango e doverlo affrontare con una bici a quattro ruote è una prova di pazienza prima ancora che di abilità o forza. L’unico conforto è il fatto di sapere che dopo tre settimane di Ramadan qui il vino c’è, ma rimane una magra consolazione. Purtroppo non abbiamo tempo per aspettare che il meteo e le strade migliorino, non possiamo fare soste e ci rendiamo conto che riuscire a stare al passo con la tabella di marcia è davvero impegnativo.

CAMPI DI SABIRKEND, 27 MAGGIO — L’UOMO DEL GELSO

Oggi è stata una giornata diversa. Siamo entrati in Azerbaigian senza sapere cosa ci aspettava. Lasciavamo uno stato post sovietico, la Georgia, e tornavamo in uno stato musulmano. Questo era tutto ciò che sapevamo. Si tratta di un Paese arido, rurale, con piccoli e rari villaggi così distanti tra loro che questa sera non siamo riusciti ad arrivare da nessuna parte per dormire. Ci siamo così fermati vicino alla strada, sotto ad alcuni alberi di gelso, nei campi. Con i nostri carretti non possiamo allontarci dalle strade e siamo costretti a cercare giacigli di fortuna per la notte, sperando che non vengano a cacciarci, come è già successo. Giusto il tempo di iniziare ad accamparci ed ecco che vediamo una macchina farsi largo tra i radi albusti. Scende un uomo con due bambini e inevitabilmente si dirige verso di noi. Iniziamo a far finta di voler togliere il disturbo chiedendo scusa, ma con autorevolezza, alzando le mani, ci ferma. Non parla la nostra lingua, non parla inglese, ma ci ha visto e ha capito tutto. Ci indica i campi, il frutteto e ci fa capire che è tutto suo. E tra la nostra incredulità ci fa segno di sedere, di rimanere. Si allontana un attimo per poi tornare con delle more di gelso tra le mani, per noi, in segno di ospitalità, con un sorriso che non potrò dimenticare. Non avrei mai immaginato di trovare una popolazione così calorosa e ospitale. Abbiamo visto gente che ci salutava dalle case, dai tetti, dai campi, dalle auto. Pronti a offrirci il thè, o meglio il cay, per poi circondarci, incuriosita e sorridente.

MAR CASPIO, 1 GIUGNO — LA NAVE FANTASMA

Tutti i forum online che avevamo letto su questo traghetto, che non è null’altro che una nave cargo, nonché l’unica via per attraversare il Mar Caspio, ne parlavano come di una sorta di nave fantasma. E ora abbiamo capito il perché. Quando ieri mattina ci siamo recati al porto ci hanno detto di ripassare dopo pranzo, per farci poi riferire che potevamo acquistare i biglietti e che forse la nave ci sarebbe stata la sera seguente o il giorno successivo. Sembrerebbe anche semplice a raccontarlo, se non fosse che quasi nessuno parla l’inglese ed estorcere ogni informazione equivaleva a una trattativa. Decidiamo di optare per una doppia, visto il costo esiguo, e attendiamo il mattino seguente per chiamare il porto e avere qualche certezza in più. Dopo vari tentativi, a mattino inoltrato pensiamo di aver capito di doverci presentare alle nove. Qui il condizionale è d’obbligo viste le profonde difficoltà a comunicare. Morale della favola, dopo ore passate seduti per terra, l’imbarco è avvenuto alle due di notte, per salpare quasi alle sei. In camera 32 gradi, umidità non calcolabile e nessuna finestra. La prima notte sono svenuto per qualche ora prima di fuggire, mentre Yanez vagava per la nave. La seconda notte l’ho passata direttamente all’aperto, sul ponte. Sui social postavo foto dalla barca, il tramonto, praticamente una crociera. La realtà invece parla di una giornata passata a tentare di lavorare al pc in una sala con più di 30 gradi, film anni ‘70 in lingua russa in tv, attorniato da camionisti uzbeki e kazaki. E pensare che avevo passato metà viaggio in attesa della prima giornata di riposo.

DESERTO UZBEKO, 9 GIUGNO — C’ERA UNA VOLTA L’ASFALTO

Se il deserto kazako inizialmente era parso inospitale, era comunque un luogo con il quale abbiamo imparato a convivere. Il deserto uzbeko no. In Kazakistan la temperatura superava i 40 gradi all’ombra, ma era un caldo secco. Qui la sera la temperatura rimane ben oltre i 30 gradi e l’umidità sale alle stelle, togliendoci l’unico momento di conforto. In più le zanzare, sì, pure loro, a rendere la notte insofferente. Di giorno, oltre al caldo afoso, le mosche che ci attorniamo e la perenne disidratazione che il bere acqua e bevande quando ci sono 40 gradi non attenua minimamente. Infine l’asfalto. Che non c’è più. Le perfette strade kazake sono un lontano ricordo. Viaggiamo a 15 chilometri all’ora se va bene, cercando vanamente di schivare le buche sebbene con quattro ruote risulti impossibile. Nuvole di polvere e auto che sorpassano senza alcuna regola. Qui non esiste il codice della strada, forse perché nemmeno esiste la strada.

KAZAKISTAN, 4 GIUGNO — INCONTRI RAVVICINATI CON IL DESERTO

Siamo nel deserto da tre giorni. Il primo abbiamo percorso circa 80 chilometri per arrivare alla città di Aktau e devo ammettere che è stato anche figo. Lingue di asfalto perfette a perdersi dritte fino all’orizzonte. Il silenzio, l’idea del nulla, qualche cammello. Poi il caldo che pian piano è salito ma, complice la compagnia di due ciclisti canadesi e un australiano incontrati in traghetto, è stato sopportabile. Il secondo giorno abbiamo familiarizzato con le aree d’ombra (un gazebo di cemento) ogni 40 chilometri, con il doversi organizzare per le scorte idriche e con la notte nella steppa. Oggi, il terzo, iniziamo a capire perché gli altri ciclisti abbiano preso il treno. Quando nel deserto tira vento, il vento tira contrario. Sempre. Visto che oggi abbiamo percorso poco più di 100 chilometri nel nulla, nessun punto di ristoro, nemmeno una parvenza di curva. Alienante.

© Giacomo Meneghello

OLMALIQ, 21 GIUGNO — IL RAGAZZO CHE CORREVA NEI CAMPI

A un certo punto ho visto un ragazzino che correva nei campi poco davanti a noi. Sembrava una gazzella. Mi sono subito chiesto perché corresse visto che in quei posti il tempo sembra essersi fermato e la fretta è un termine usato solo da noi rari occidentali. Poi, a un certo punto, ci siamo scambiati uno sguardo da lontano e ho capito. Ho capito che stava correndo per arrivare alla strada in tempo per salutarmi. Ho rallentato, mi sono fermato, gli ho dato la mano, come qui si suole fare. Ci siamo guardati negli occhi e poi… e poi non ci siamo detti nulla. Forse perché non avevamo nulla da dirci. O forse perché in fondo ci eravamo già detti tutto.

UZBEKISTAN, 18 GIUGNO — NON È POI COSÌ LONTANA SAMARCANDA

Mi ricordo da piccolo quando ascoltavo questa frase della celebre canzone di Vecchioni e sinceramente, oggi, mi verrebbe voglia di chiamarlo e farci due chiacchiere al riguardo. Tuttavia la soddisfazione di essere finalmente arrivati in questa storica e importante città della Via della Seta fa passare ogni cosa in secondo piano. Anche oggi, come ogni volta che siamo in città, mi sono svegliato alle cinque per uscire a fotografare l’ora blu e l’alba. Sebbene la stanchezza e il bisogno di riposare non manchi, la motivazione è stata più forte. Una città magica, intrisa di storia e ancora scevra dal turismo di massa. Una città vera e popolata da persone che ogni giorno scopriamo più ospitali e di cuore. E sono contento per Yanez che può festeggiare meritatamente il suo compleanno qui a Samarcanda! Ora ci crediamo, la via è ancora lunga, ma il grosso del deserto è passato e forse sta per cominciare la parte più bella del viaggio.

CAMPO BASE DEL PIK LENIN, 30 GIUGNO — YURTE

Queste strane tende sono gli unici elementi che spezzano l’ampiezza dei verdi prati del Kirghizistan. Sinuose lingue di asfalto risalgono ardite i passi montuosi fino a sfiorare i 4.000 metri, collegando i radi villaggi. Bambini, cavalli e pace fino a perdita d’occhio, d’udito e di pensiero. I giorni scorsi abbiamo coperto la parte conclusiva della Pamir Highway, una delle strade più alte e affascinanti del mondo, fino al villaggio di Sary Tash. Un paese indietro nel tempo, come molte delle zone incontrate in questo ultimo mese di viaggio. Qui si usa ancora l’abbaco, i bambini giocano scalzi lungo le strade e ti sorridono. E le persone lasciano che siano il tempo e la natura a scandire la loro giornata nonché la loro vita. All’orizzonte la bianca muraglia, la catena del Pamir, con le vette che superano i 6.000 metri e determinano il clima di questa regione. Tra esse il Pik Lenin che, con i suoi 7.134 metri, è la nostra prossima meta. Oggi siamo arrivati al campo base a circa 3.600 metri e non è stato facile. La strada sterrata, che poi è diventata un sentiero di montagna e infine la pioggia, che da un po’ avevamo dimenticato, ci hanno reso molto impegnativa la giornata. Ma siamo qui, tra tende e yurte, pronti finalmente a rimettere gli sci in attesa che domani arrivino i nostri due amici dall’Italia.

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CAMPO 1 DEL PIK LENIN, 12 LUGLIO — ARIA SOTTILE

Sono stati 12 giorni intensi, passati tra il campo base, il campo uno e quelli alti autogestiti. Un’esperienza sicuramente diversa dal solito e che appare ancora più strana se pensiamo al fatto che sia stata vissuta nel bel mezzo di un viaggio in bici. Dai 40 gradi del deserto ai -20 o più dell’ultimo campo. Dal livello del mare a oltre 6.000 metri in due settimane. Avevamo voglia di rompere la routine ciclistica, sebbene qui in Kirghizistan le ore pedalate scorressero leggere come non mai. I dieci chilometri a piedi per giungere ai 4.350 metri del campo uno lungo un sentiero di montagna, affiancati dai portatori a cavallo, incredibili equilibristi, ci hanno proiettato in una nuova dimensione. Al campo uno abbiamo passato molti giorni nella nostra tenda e nella yurta della piccola agenzia alla quale ci eravamo affiancati dove Nabi, le cuoche e gli altri ci hanno fatto sentire parte di un’unica famiglia. Abbiamo raggiunto il campo due per attrezzarlo in autonomia, siamo saliti un paio di volte sullo Yuhina Peak, una vetta di 5.100 metri sopra il campo uno, sia per il piacere di farlo che per acclimatamento. E abbiamo via via osservato e capito come funzionasse la vita in spedizione. Peccato che ci mancasse la cosa più importante, ossia il tempo. Il tempo di aspettare che le condizioni fossero quelle ottimali. Quest’anno la copertura nevosa è molto buona, complice il fatto di essere arrivati il giorno stesso dell’apertura del campo base. Tuttavia siamo praticamente gli unici con gli sci, vista la scarsa sciabilità della lunga cresta per la vetta e le difficoltà oggettive e logistiche di scendere dalla parete Nord. Ci abbiamo comunque provato dal campo tre a raggiungere la vetta, forzando la situazione, ma freddo e vento forte ci hanno portati a dover desistere nonostante la cima fosse lontana all’orizzonte ma a sole alcune centinaia di metri di dislivello. Decisione sofferta, ma credo saggia. Non si trattava di tener duro, ma di rischiare salute e congelamento ai piedi. Rimane rammarico, ma anche consapevolezza. Il Lenin viene venduto come uno dei 7.000 più facili, non presentando tratti alpinistici particolarmente difficili, ma l’esposizione al vento della lunga cresta sommitale, insieme alla sottovalutazione, ne fa una delle montagne con più morti ogni anno.

KASHGAR, 20 LUGLIO — SE QUESTO È IL FUTURO, NE HO PAURA

Eravamo preparati all’idea dei severi controlli cinesi e all’idea che qui la musica sarebbe cambiata, tanto che avevamo saggiamente deciso, dopo il Pik Lenin, di lasciare ai nostri amici italiani tutto il materiale alpinistico e non necessario, regalare il carretto e procedere solo con le borse. Tuttavia mai avremmo pensato di trovare una situazione così surreale. Punti di controllo, check-point a ogni entrata e uscita del Paese. Check-point a ogni ingresso stradale. Telecamere a ogni incrocio, pure sulle ciclabili, poliziotti antisommossa armati a presidiare paesi e città, sottopassi, piazze e ogni luogo di assembramento. Veniamo trattati come se fossimo dei ricercati, fermati e schedati a ogni spostamento con l’obbligo di dimostrare provenienza e destinazione tramite prenotazioni o altri documenti. Vorrebbero che avessimo una guida turistica per controllarci, forse anche nei pensieri. Per strada siamo perennemente fermi per ore per questi motivi. Purtroppo la regione dello Xinjiang, soprattutto nell’ultimo decennio, è stata teatro di forti repressioni a causa della richiesta di maggiore autonomia. Anche la comunicazione è molto difficile, nessuno parla inglese e, a differenza delle altre popolazioni, qui comunicare a gesti o per intuizione pare impossibile. Siamo ormai diventati maestri di Google Translate, ma è difficile lo stesso perché basta una parola non compresa e il dialogo salta. Nei poveri Paesi orientali ho avuto spesso la sensazione di viaggiare nel passato, ma se questo è il futuro, ne ho paura. La tecnologia ha preso il posto della capacità di comprensione, riflessione, comunicazione. Automatizzazione di pensieri e comportamenti. Per il resto qui è pieno di motorini elettrici e di mercati trattandosi di una delle città storiche della Via della Seta. Anche la cucina, se si evitano certi piatti inquietanti, non è per nulla male. I giorni scorsi abbiamo percorso un tratto della Karakorum Highway, la strada asfaltata più alta al mondo, tra possenti montagne di terra rossa, valli immense e ghiacciai. Quante terre inesplorate, ho pensato. Un peccato che questi ambienti vengano preclusi, non salvaguardati, da questo regime.

© Giacomo Meneghello

OSH, 25 LUGLIO — UN VIAGGIO NON È UNA GARA

Quando siamo partiti non sapevamo bene da dove saremmo rientrati, ma pensavo da qualche città cinese, se tutto fosse andato bene. Invece siamo di nuovo qui a Osh, in Kirghizistan, in attesa del volo di rientro. Ci abbiamo provato a proseguire il viaggio nel cuore della Cina, ma non ci è stato permesso o meglio, non alle condizioni che per noi erano fondamentali, quelle che hanno ispirato, mosso e caratterizzato l’intero viaggio. In primis la libertà. Non è stata una scelta facile, ma un viaggio non è una gara, con una meta da raggiungere a ogni costo, è un’avventura che dev’essere vissuta secondo il fluire degli eventi e seguendo i propri ideali di viaggio. Proseguire verso oriente in quel clima che non ci stimolava, oltre a crearci numerose difficoltà, non aveva senso. Abbiamo quindi deciso di rientrare verso il Kirghizistan da un altro passo montuoso per compiere un interessante giro ad anello, ma anche questo ci è stato impedito dalle assurde restrizioni e regole cinesi, costringendoci quindi al rientro in Kirghizistan dalla via di andata. Varcato il confine una sensazione di libertà ha ripreso a pervaderci, abbiamo di nuovo pedalato accarezzati dal vento, gustandoci l’ultimo tramonto, l’ultimo soffio di avventura. Della quale spero ricorderemo per sempre ogni momento, ogni difficoltà, ogni sorriso, ogni cultura non solo vista, ma vissuta.

NUMERI

100 giorni di viaggio totali

9.700 chilometri percorsi in bici

90.000 metri di dislivello positivo 12 Stati attraversati 17,4 chilometri la velocità media in bici 557 le ore pedalate

2.000.000 le pedalate stimate 21 le forature di gomme totali 24 le gomme cambiate tra carretti e biciclette 3 il numero dei raggi rotti

2.735 il massimo dislivello fatto in un giorno tra bici e sci 218 i chilometri della tappa più lunga centinaia le persone e i sorrisi incrociati infinite le emozioni vissute

TOGLIETEMI TUTTO MA NON IL MIO CARRETTO

Il nostro carretto durante il viaggio era un po’ come la borsa di Mary Poppins. E non ne abbiamo mai saputo il peso effettivo, stimato forse in 80 chili totali. Un ritrovato di tecnologia artigianale tanto funzionale e robusto quanto problematico per l’ingombro e la struttura pensata per renderlo facilmente chiudibile, ma proprio per questo difficile da svuotare. Abbiamo scelto il telaio in acciaio e non alluminio per la paura che si potesse rompere e di non poterlo quindi saldare. Mentre la scelta del policarbonato è stata dettata dalla necessità di leggerezza e di resistenza agli urti. Al suo interno c’era di tutto. Il materiale da scialpinismo, con i nostri sci Ski Trab Magico.2 le cui punte fuoriuscivano, scarponi Scarpa Alien RS, artva, pala e sonda, ramponi, piccozza, casco, zaini, imbrago e corda da ghiacciaio della Camp. Poi avevamo il necessario per campeggiare, quindi la tenda e il sacco a pelo Camp, più il sacco bivacco monoposto della Outdoor Research, fornellini, pentole. La Karpos ci ha fornito i vestiti per ogni situazione, dal deserto all’alta quota, dalla bici allo scialpinismo; i guanti, diversi modelli per ogni temperatura, erano di OR, il casco e le scarpe da bici e da tempo libero Scott. Computer, materiale fotografico, ricambi e attrezzi di ogni tipo per la bici, oltre al pannello fotovoltaico sul tetto e la centralina energetica annessa all’interno, pochi effetti personali, una borsa con alcuni medicinali, viveri e riserve idriche, soprattutto per il deserto, completavano il fardello.

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