Quattro giorni di lunghi e complicati avvicinamenti, prime ripetizioni e nuove vie nel cuore più selvaggio e vertiginoso delle Dolomiti bellunesi
Foto Santi Pedròs, Diego Toigo e Ruggero Arena
La cima più alta è il Monte San Lucano, con i suoi 2.409 metri, ma è semplicemente il culmine geografico di un gruppo montuoso conosciuto solo da scalatori e alpinisti alternativi. Le Pale di San Lucano, nascoste a Nord-Est dalle più alte Pale di San Martino, per molti sono dei semplici nomi sulla mappa, però ospitano nelle loro viscere un labirinto di pareti e guglie che ne fanno un terreno per pochi.
Emilio Comici, Attilio Tissi, Giovanni Andrich, Eugenio Bien, Renato Casarotto, Piero Radin, Alessandro Gogna, Franco Miotto, Lorenzo Massarotto, Ilio ed Ettore De Biasio, Ivo Ferrari, Fausto Conedera, Stefano Santomaso, Gianni Del Din, Renato Panciera. Ci sono alcuni dei grandi dell’alpinismo insieme a cognomi poco conosciuti al di fuori di queste montagne tra i protagonisti della storia alpinistica dello Yosemite delle Dolomiti, come lo ha definito Alessandro Gogna nell’omonimo libro.
Le Pale di San Lucano superano i 1.600 metri di altezza dal fondovalle, le pareti hanno uno sviluppo tra i 400 e 1.000 metri. Gli avvicinamenti possono durare dalle tre alle quattro ore e spesso si risolvono in umili ritirate dopo essersi persi su pendii ripidi e scoscesi, cosparsi di erba scivolosa. Molte vie non vanno oltre il V+ o VI UIAA, ma la natura selvaggia dei luoghi, le difficoltà di orientamento e i pochi chiodi nella roccia alzano l’asticella. Una delle vie più famose è la Casarotto-Radin, un gigantesco diedro di oltre 300 metri incastonato nello Spiz di Lagunaz (2.331 m) con una discesa lunga e complessa. Altre vie più moderne come la Collaborazione o la Via dei Ritorni, più difficili e senza nemmeno uno spit lungo il percorso, sono la prova che esistono ancora angoli nascosti, lati B dove disegnare belle vie di qualità alpinistica.
È stato il mio amico Diego Toigo, presidente del Gruppo Rocciatori del CAI Feltre, a lanciare l’idea di un concatenamento delle quattro Pale, una traversata cercando di raggiungere le vette solo con prime ripetizioni. Il progetto sembrava un po’ folle, soprattutto per la complicata logistica di accesso e di discesa e per la mancanza di punti di appoggio come rifugi o bivacchi. La prima scelta è stata quella della stagione: abbiamo subito concordato che il periodo migliore per questo viaggio alpinistico sarebbe stato in primavera inoltrata grazie alle giornate con tante ore di luce e perché in autunno la mancanza di acqua avrebbe reso complicato idratarsi. Impensabile andarci in estate: fa troppo caldo e il mio lavoro di Guida non mi avrebbe lasciato tempo. Avevamo diverse opzioni, sempre con l’obiettivo di concatenare solo prime ripetizioni, l’unica decisione presa da subito è stata quella di partire dalla Quarta Pala e finire sulla Prima. Prima della traversata abbiamo portato una tenda con viveri sotto la vetta del Monte San Lucano, proprio accanto al Passo del Ciodo, unico passaggio utilizzato in passato dai pastori e dai cacciatori di camosci e nostro campo base.
Il D-day è arrivato domenica 13 giugno, quando abbiamo intravisto una finestra meteo favorevole in una primavera molto variabile. Alle sei del mattino abbiamo parcheggiato il furgone al Col di Pra, a 843 metri di quota, per affrontare uno degli avvicinamenti più abominevoli che ricordi, che ci è costato quattro ore, incontri ravvicinati con zecche e vipere e un volo a pendolo su un tiro di terzo grado. Alle 9.30 intuiamo di essere all’attacco della via Mario Tomè – Bariza che sale per 800 metri tra lo Spigolo Gogna e la Casarotto. Alle nostre spalle una vista incredibile sullo Spiz di Lagunaz e il diedro Casarotto ci accompagna per tutto il giorno. Siamo rimasti sorpresi dalla qualità della roccia man mano che si liberava dai ciuffi d’erba, aumentando in verticalità e difficoltà. Dopo un paio di tiri di VI, annusiamo la vegetazione in vetta. Sono quasi le sei del pomeriggio e accarezziamo il primo dei nostri sogni, la Quarta Pala di San Lucano. Una passeggiata lungo l’aerea cresta, calpestando un po’ di neve soffice a causa delle alte temperature, ci porta al caratteristico Arco del Bersanèl, al Monte San Lucano e al Passo del Ciodo. È stata una giornata con più di 1.700 metri di dislivello cumulato e 13 ore e mezza di attività. Siamo felici e ci godiamo un tramonto unico, ma non ho nemmeno il tempo di dare la buonanotte a Diego che mi ritrovo a sognare l’ignoto.
Lunedì è stata la volta della via del Pilastro Bianco. La discesa per arrivare all’attacco avviene attraverso il Boral di San Lucano. I borai sono i canali rocciosi ed erbosi che separano le Pale di questo particolare gruppo montuoso. Nel 2017 ero già stato qui quando abbiamo aperto Llops de Mar con Luca Valatta, ma era autunno e il canale già senza neve. Questa volta dobbiamo scendere per circa 500 metri con le doppie su neve dura rotta da crepe sospette che in fondo si trasformava in cascate d’acqua. Alla fine, a due lunghezze dall’inizio della via e dopo tre ore di avventura, siamo riusciti a entrare in parete con un lungo traverso. Il percorso sale senza particolari difficoltà per belle fessure e placche sulla sinistra del Pilastro e ci porta sulla vetta tra Terza Pala e Spiz di Lagunaz, dove inizia una sessione di salite e discese che comprende un totale di oltre 300 metri, tiri fino a IV+ e sei doppie. Per fortuna che pensavamo che la seconda sarebbe stata una giornata rilassante: sono state più di 12 ore molto intense che ci hanno condotti alla tenda sfiniti e lì abbiamo trovato ad accoglierci il nostro amico e fotografo ufficiale della traversata, Ruggero Arena. Dopo avere valutato bene la logistica del terzo giorno, abbiamo deciso di spostarci per la notte al bivacco Margherita Bedin, in vetta alla Prima Pala, per risposarci meglio. Il posto è da sogno…
Martedì siamo scesi lungo il sentiero 765, cancellato da un incendio e dalla tempesta Vaia del 2018 e ormai quasi impraticabile, dirigendoci verso il Boral de la Besausega per raggiungere la base della via Flora, obiettivo iniziale della giornata. Però, una volta arrivati all’attacco, nei primi tre tiri ci alziamo troppo e ci rendiamo conto che la via è 40 metri sotto di noi e a destra e invece, sopra le nostre teste, una roccia di ottima qualità cattura l’attenzione. Così, con naturalezza, iniziamo a salire dove vogliamo. Prima troviamo delle stupende placche giallo-nere a buchi, poi i tiri si susseguono in maniera logica con delle lunghezze davvero belle e dopo sette tiri raggiungiamo la grande cengia terminale di Flora, pensando di percorrerla e di finire così su un terreno familiare, ma il diedro di uscita è diventato una cascata d’acqua. Mancano una cinquantina di metri, sulla sinistra vedo un sistema di fessure che ci regalano due tiri eccezionali e non facili fino alla vetta della Seconda Pala su una nuova via che chiamiamo Sangre y Corazòn.
Abbraccio Diego, sentiamo che il viaggio è quasi terminato, manca solo l’ultima via, sulla Prima Pala, ma siamo molto stanchi e il meteo promette temporali pomeridiani per il giorno successivo, quindi dobbiamo giocare bene le nostre carte. Nell’ora e mezza di rientro al Bivacco Bedin abbiamo analizzato bene la situazione, poi un’altra notte intrisa di natura, roccia, emozioni e amicizia. Vita pura. Mercoledì avevamo in mente due vie alla Cima Est di Ambrusogn (vetta principale della Prima Pala), la più dura Raffaella e la Massarotto – De Biasio come soluzione veloce in caso di maltempo. Alla fine siamo riusciti a ripetere i primi tre tiri della via del Diedro e poi ci siamo spostati sulla Raffaella, che ci ha regalato una salita tecnica e di impegno. La placca compatta che porta alla splendida fessura più in alto ci ha dato del filo da torcere e anche i tiri successivi sono davvero belli. Alla fine siamo arrivati alla cengia che con un lungo traverso tra i mughi ci ha portato fuori dalla parete, appena sotto la Cima d’Ambrusogn.
Mentre ci sleghiamo, ci rendiamo finalmente conto di avere dato forma al nostro sogno. Siamo già fuori dalla parete, sulla via per il bivacco, per recuperare tutto e tornare alla civiltà. Ancora non ci crediamo di essere riusciti a concatenare le quattro pale in quattro giorni consecutivi. Ora però stiamo cominciando a rilassarci, sono state giornate molto intense, soprattutto per l’esposizione del terreno, ma siamo soddisfatti delle nostre scelte. E quasi non ci accorgiamo che, mentre arriviamo al furgone, inizia a piovere. Grazie Diego, perché sogni progetti incredibili nel cuore dell’Europa, dove sembra che se non ti confronti con l’orologio non ci sia più niente da inventare. E da sognare.
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